Parte 2
"E' tra il tempo e l'infinito, metatemporale e non ancora eterno, che sta la mistica e sta la poesia"
Adriana Zarri
Uno speciale percorso.. attraverso lo sguardo di donne e uomini cogliendo la grazia che ha illuminato la loro esistenza facendone ragione di vita, dono per gli altri e una proposta di vita per tutti noi!
Perché dovrei desiderare di vedere Dio meglio di quanto non lo veda oggi?
Vedo qualcosa di Dio in ogni ora delle ventiquattro, in ogni momento di esse,
nei volti di uomini e donne vedo Dio, e nel mio volto riflesso allo specchio,
trovo lettere inviate da Dio per le strade, ognuna firmata col nome d’Iddio,
e le lascio dove si trovano, perché so che, ovunque mi rechi,
altre puntuali verranno, per sempre e per sempre.
W.Whitman
Io Dio sono la pace dei tuoi Misteri,
ma sono anche colei che si lascia trafiggere come una peccatrice.
Sono colei che paga tutti gli ostacoli,
sono colei che muore d’amore.
E ho sentito nella dolcezza dell’adolescenza, crescere quella croce che mi trapassa come un’alba.
Io e Gesù crocifissi, siamo lo schianto di Dio.
Alda Merini
Lunghi anni cercando sopra rocce
trovo ristoro presso la tua Croce
Alda Merini
La forza della Pasqua
Santa Teresina del Bambin Gesù
Dio, mettendosi al livello dell’ uomo, si è avvicinato a ogni miseria umana per manifestare la verità dell’amore, la forza della sua Pasqua, e farla sbocciare nel cuore dell’uomo, in ogni uomo preso dalla verità nell’amore. Non sono che una bambina, impotente e debole, ciononostante proprio la mia debolezza che mi dà l’audacia di offrirmi vittima per il tuo amore, o Gesù un essere totalmente consegnato, vulnerabile, disponibile all’amore, all’apertura universale inerente all’amore sono troppo piccola per fare delle cose grandi e la mia follia quella di sperare che il tuo amore mi accetti come vittima che mi accetti come tale: un essere debole, senza difese, che non offre nessuna resistenza al tuo amore, debitore del tuo amore, interamente consegnato a lui
La lieta notizia è annunziata ai poveri, a chiunque si riconosce come tale. Vangelo dell’amore di Dio manifestato nel suo Figlio, nella Pasqua del suo Figlio, sollecita da parte dell’uomo una fiducia piena, alleggerita di ogni falsa apparenza, che l’impegna, con decisione, come egli nel dono di sè e che l’iscrive oltre se stesso in Dio, il Dio che viene da lui e il Dio che lo porta verso gli altri. In breve: la fiducia secondo Teresa invita l’uomo a non appoggiarsi presuntuosamente su di sè a ripiegarsi su di sé pieno di paura, ma ad aprirsi al mistero del sorgere della sua creazione e della sua redenzione: l’amore che a Dio; e a lasciarsi plasmare da lui, perché tutto quello che vive grazie ad un altro configurato a colui grazie al quale vive.Questo è il rimedio alle angosce esistenziali. Il senso della vita umana non può avere come fine assoluto le sole risorse dell’uomo. Costruire unicamente su queste ultime, con esse, significa condannare la propria vita a dei pericolosi fallimenti. Non posso appoggiarmi su nulla, su nessuna delle mie opere per trovare fiducia. Si prova una grande pace quando si è assolutamente poveri, quando non si conta che sul buon Dio.
Come nel vuoto, nel germe, nell’attesa di un incontro con il mistero dell’amore infinito, quel mistero di Dio e del suo disegno in cui risplende, in modo definitivo, insuperabile, la Pasqua di Cristo. A differenza delle prospettive umane chiuse in se stesse, questo mistero agisce là dove si afferma la libera rinuncia a ogni ricerca di potere personale. Lungi dall’essere un appiattimento dell’io, che svaluta la persona, noi ritroviamo qui il senso della debolezza umana proprio dell’apostolo Paolo (2Co 12,9), per mezzo della quale Dio agisce con potenza e porta a perfezione l’uomo, lo restituisce alla sua gioia originaria di figlio di Dio e di fratello universale.
Il Cristo redentore, il suo mistero pasquale.Il cammino della fiducia e della povertà.L’unico cammino che conduce alla fornace divina, dell’amore: l’abbandono del piccolo bambino che si addormenta senza paura nella braccia di suo Padre,le braccia del Padre la misericordia di Dio, offerta una volta per sempre ad ogni uomo nel Figlio consegnato sulla croce e per mezzo del quale gli è stato comunicato il suo Spirito.
L’ultima goccia di amore del buon Dio che riversa su di noi, il popolo non meritevole di atto di fiducia sacra.Qui, di nuovo, parte la sfida. Una Quaresima che ci appare lontana, per consuetudini legate alla velocità e alla frammentazione del vivere, diventa anche per noi, umanità allo sbando, una possibilità concreta di appartenere al sacro. Per poche ore, per un attimo, per quaranta giorni.
Respirare con esso, sentirsi consumato da esso, e gioire con lo Spirito che pure è legato a frammenti di vita, rafforza, talvolta allieta la nostra anima e la spinge verso i territori più ardui e difficili della Risurrezione.
Adriana Zarri
“Io che sono il Messia
Io che devo toccare la materia e obbedire al Padre.
Io che non ho soluzioni e che andrò incontro alla morte con il mio fardello di pena. Io che chiamo a gran voce la mia solitudine sapendo che nella solitudine perderò il Padre e la Madre e persino il nome di Dio.
Io che nella morte toccherò l’acme del desiderio e dello sfacelo e che non ho lavorato la terra come i contandini pur calcando il terreno della menzogna
Io che sono Padre e Figlio a chi racconterò il mistero di questa madre celeste
Che mi ha incarnato nelle viscere e ha portato a compimento il mio sogno.
Difficile mettere una barriera tra me e lui che è l’acqua della mia sete.
Eppure dovrò lasciare la sua certezza per andare incontro al dubbio di ogni uomo.
Sarò sul punto di salvarmi.
L’avrei protetta mia madre sapendo che era una donna che ha gustato l’estasi del suo Mistero"
Alda Merini
Perchè quel Crocifisso ci rappresenta tutti
Natalia Ginzburg
«Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo?
II crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso.
C'è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso.
Per altri, può essere niente, una parte del muro. Per altri, invece, può implicare una riflessione sulla storia, la cultura e l'identità italiana e sui valori condivisi della nostra società.
E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa di particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati; ma riflettiamo.
Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager?
II crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non esistono altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino.
Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il Figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l'immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l'idea di Dio ma conserva l'idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c'è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti?
Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli: tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei, neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini. E di esser venduti, traditi e martoriati e ammazzati per la propria fede o ideali, nella vita può succedere a tutti. A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola.
Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura.
A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l'idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici, portiamo o porteremo il peso di una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare.
Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.
Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente.
Ha detto "ama il prossimo tuo come te stesso". Erano parole già scritte nell'Antico Testamento, ma sono divenute il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le guerre.
Il contrario degli aerei che gettano le bombe sulla gente indifesa.
Il contrario degli stupri e dell'indifferenza che tanto spesso circonda le donne violentate nelle strade.
Il contrario di ogni male, il più grande inno alla pace. Questo è il grandioso significato universale della croce, ecco perché quel crocifisso merita di essere esposto e difeso, sempre ed ovunque, da tutti ».
E congiungo le mani
Etty Hillesum
A volte devo chinare il capo sotto il gran peso che ho sulla nuca, e allora sento il bisogno di congiungere le mani, quasi in un gesto automatico, e così potrei rimaner seduta per ore - so tutto, sono in grado di sopportare tutto, sempre meglio, e insieme sono certa che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato. Malgrado tutto. Il che non vuol dire che uno sia sempre nello stato d'animo più elevato e pieno di fede. Si può esser stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te c'è qualcosa che non ti abbandonerà mai più.
Ecco, ora si mette un coperchio sul chiasso di questa giornata, e questa sera, con tutta la pace e la concentrazione che sono in me, è mia. Una rosa tea gialla sta sulla mia scrivania, tra due vasetti di viole. L'ora dell'“amaro” è passata. S. chiedeva, del tutto esausto: Come resistono i Levie ogni sera, io non resisto più, mi sento a pezzi. E ora lascio dietro di me tutte le dicerie e tutte le realtà, ora si studia e si legge, per tutta una sera. E io, come sto? Nessuna delle preoccupazioni e delle minacce di questa giornata m'è rimasta attaccata, sto qui seduta alla mia scrivania così “vergine” e appena nata, così disposta a studiare, come se nel mondo non succedesse niente. Tutto m'è completamente caduto di dosso, nulla ha lasciato una traccia, mi sento così “ricettiva” come non mai. La prossima settimana probabilmente tutti gli olandesi saranno chiamati al controllo. Di minuto in minuto desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà, sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato, e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono, ora. Abbiamo ricevuto in noi tutte le possibilità per sviluppare i nostri talenti, dovremo ancora imparare a far buon uso di queste nostre possibilità. È come se in ogni momento altri pesi mi cadano di dosso, come se tutti i confini che oggi ci sono tra persone e popoli non esistano più; in certi momenti è proprio come se la vita mi fosse divenuta trasparente e così anche il cuore umano, e io vedo, vedo e capisco sempre di più, e dentro di me sono sempre, sempre più in pace, e c'è in me una fiducia in Dio che in un primo tempo quasi mi spaventava per la sua crescita veloce, ma che sempre più diventa parte di me. E ora al lavoro.
Se sopravviverò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi.
Forse è stato tutto un po' troppo, mio Dio. Sono costretta a ricordarmi che un essere umano ha anche un corpo. Avevo creduto che il mio spirito e il mio cuore potessero sopportare tutto da soli. Ma il mio corpo si fa sentire e dice: alt. Ora mi rendo conto di quanto Tu mi abbia dato da sostenere, mio Dio. Tante cose belle e tante cose difficili. E quelle difficili si sono trasformate in belle ogni volta che ero disposta a sopportarle. E certe volte è stato più difficile sopportare le cose belle e grandi che quelle dolorose, perché ne ero come sopraffatta. Pensare che un piccolo cuore umano possa provare così tanto, mio Dio, possa soffrire e amare a tal punto. Ti sono così riconoscente perché hai scelto proprio il mio cuore, di questi tempi, per fargli sopportare tutto quanto. Forse è un bene che mi sia ammalata, non ho ancora accettato questo fatto e mi sento un po' intontita e smarrita e abbandonata; ma sto anche cercando in tutti i modi di mettere insieme un po' di pazienza, sento bene che per una situazione così nuova ci vorrà una pazienza del tutto nuova. Riprenderò la vecchia, collaudata abitudine e di tanto in tanto discorrerò un pochino con me stessa su queste righine blu. Parlerò con Te, mio Dio. Posso? Poiché le persone scompaiono, non mi resta altro che il desiderio di parlare con Te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te. E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio. Ma ora avrò bisogno di molta pazienza e riflessione e sarà molto difficile. E dovrò far tutto da sola. La parte migliore e più nobile del mio amico, dell'uomo che Ti ha risvegliato in me, è già presso di Te. È solo più rimasto un vecchio consunto e infantile in quelle due camerette, là dove ho vissuto le gioie più grandi e più profonde della mia vita. Ho sostato accanto al suo letto e mi sono trovata davanti ai Tuoi massimi enigmi, mio Dio. Dammi ancora una vita intera per poter capire tutto quanto.
Mentre scrivo queste cose sento che è un bene che io debba rimaner qui. D'un tratto mi rendo conto di aver vissuto così intensamente, in due mesi ho consumato le riserve di una vita intera. Forse ho esagerato a forza di vivere interiormente? Non ho esagerato se ora ascolto il Tuo avvertimento.
Sono ammalata, non ci posso far niente. Più tardi raccoglierò tutte le lacrime e le paure, laggiù. In fondo lo faccio già in questo letto. Forse è per questo che ho la febbre e il capogiro? Non voglio essere il cronista di orrori. Ce ne saranno abbastanza. E neanche di fatti sensazionali. Ancora stamattina ho detto a Jopie: eppure arrivo sempre alla stessa conclusione: la vita è bella. E credo in Dio. E voglio stare proprio in mezzo ai cosiddetti “orrori” e dire ugualmente che la vita è bella. E ora eccomi coricata in un angolino con febbre e capogiro, e non posso far nulla. Poco fa mi sono svegliata con la gola secca, ho afferrato il mio bicchiere ed ero così riconoscente per quel sorso d'acqua fresca, ho pensato: se solo potessi andare in giro fra quelle migliaia di uomini ammassati laggiù e potessi offrire un sorso d'acqua ad alcuni di loro.
In noi si dovrà trovare tutto
si troverà pienezza
Madeleine Delbrel
Sperimenteremo che agire è illuminare, ma anche essere illuminati, sperimenteremo che, se pregare è lasciarsi fare da Dio, è però anche imparare a compiere l'opera di Dio.
Un cristiano simile renderà grazie, perché tutti i suoi gesti diventeranno l'espressione di un amore che non conosce né limiti né eccezioni, un amore del quale soltanto Cristo ha detto agli uomini che lo devono e ricercare e donare.
In noi si dovrà tutto
il bicchiere d'acqua, il cibo per chi ha fame,
tutto il vero cibo per tutti i veri affamati,
tutti i veri cibi e tutti i veri mezzi per distribuirli,
l'alloggio per i senza tetto,
il pellegrinaggio alle carceri ed agli ospedali,
la compassione per le lacrime, quelle che si devono versare insieme
e quelle di cui occorrerebbe eliminare le cause,
l'amicizia per ogni peccatore,
per coloro che sono malvisti,
la capacità di mettersi al livello di tutte le piccolezze,
di lasciarsi attrarre da tutto ciò che non conta,
e tutto avrà il suo orientamento, la sua pienezza, nella parola "fraterno".
Infatti i nostri beni, se diventano i beni degli altri, saranno il segno della nostra vita donata per gli altri, come assimilata di diritto alla loro, e che, in realtà, non deve più far parte dei nostri interessi.
Il cristiano che vivrà in questo modo nella città, sperimenterà con tutto il suo essere la forza dell'amore evangelico. La realtà di questo amore risplenderà in torno a lui come una evangelizzazione e in lui come una illuminazione!
Ritorniamo a lui
Edith Stein
“Ciò che possiamo fare è ben poco rispetto a ciò che Egli ha fatto per noi. Questo poco, tuttavia, lo dobbiamo fare. Prima di tutto si tratta di pregare con perseveranza per trovare la retta via e accogliere senza resistenze l’impulso della grazia quando essa si fa sentire.
«Ritornate a me». È l’unica legge del ritorno che dovremmo applicare sempre. La conversione del cuore a Dio è la dimensione fondamentale della quaresima. Convertirsi è letteralmente cambiare direzione girandosi. Ritornare alla Fonte del nostro essere.
Questo ritorno a Dio deve accadere «nel digiuno, nelle lacrime, nel lutto». Queste sono le manifestazioni esterne, visibili. Ma ai gesti esterni devono sempre corrispondere la sincerità dell’anima e la coerenza delle opere. «Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio».
A che cosa serve infatti lacerare le vesti se il cuore resta lontano da Dio, cioè dal bene e dalla giustizia? Ecco quello che veramente conta: tornare a Dio, con un’anima sinceramente pentita, per ottenere la sua misericordia. Un cuore nuovo e uno spirito nuovo: è quello che domandiamo attraverso il salmo penitenziale per eccellenza, il Miserere («Pietà di me»), il salmo 50. «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi».
"Signore, io ho provato che costruire è più bello che distruggere, dare più bel che ricevere, lavorare più appassionante che giocare, sacrificarsi più divertente che divertirsi. Signore Gesù fa che non me ne scordi più"
Don Lorenzo Milani
Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio
Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte
Chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama.
Voler bene al povero è proporsi di metterlo al posto che gli spetta
Don Lorenzo Milani
La lezione di don Lorenzo
Giovanni Meucci
In dialogo con il documentario Barbiana '65. La lezione di don Lorenzo Milani (Italia 2017), del regista Alessandro G.A. D'Alessandro, cinque verbi per raccontare un possibile incontro con don Milani: visitare, leggere, ascoltare, imitare, essere.
Salire a Barbiana
La prima volta che sono salito a Barbiana è stato, forse, più di venti anni fa, insieme ad alcuni membri della mia Comunità, l'amico don Bruno Forte, attuale arcivescovo di Chieti-Vasto e don Renzo Rossi. Ricordo l'accoglienza di Michele Gesualdi, il suo dialogo con don Bruno Forte, riguardo alla paura che don Lorenzo Milani potesse essere trasformato in un "santino" perdendo la propria umanità e quella severità di carattere con cui, in tante agiografie, difficilmente si presentano i santi. Mentre parlavano, osservavo le pareti della Scuola di Barbiana dove tutto era rimasto a quei giorni in cui don Milani, a causa dell'aggravarsi del tumore, aveva dovuto abbandonare i monti del Mugello per concludere la sua esistenza nella casa della madre, in via Masaccio a Firenze. Tutto molto semplice, povero, essenziale, ma pieno di vita, di profezia, di attualità. La piccola piscina, simbolo borghese di ricchezza trasformato in strumento per abbattere le paure dei suoi giovani alunni. Era una giornata di primavera o autunno, non ricordo, però si stava bene fuori e abbiamo potuto concludere la breve visita scendendo verso il piccolo cimitero dove Lorenzo Milani è sepolto. Tornando poi lungo la strada sterrata nel bosco verso la Pieve, in quanto la scorciatoia per risalire era alquanto difficoltosa, avevo incontrato un grosso cane fortunatamente seguito a poca distanza dalla sua padrona. Mi ero, comunque, leggermente spaventato perché ero solo. Ecco la sensazione più forte di quella prima visita: la solitudine, la sofferenza, la paura che la figura di don Milani potesse continuare a essere fraintesa nella sua unicità e irripetibilità anche dopo la morte. Non tanto dalla società civile, dal mondo intellettuale e della cultura, dalle scuole e da educatori e docenti, ma dalla Chiesa, dai cristiani stessi. Segno di una ferita ancora profondamente aperta, quella con una parte dell'ambiente ecclesiale fiorentino, per un sacerdote che aveva semplicemente deciso di attuare e vivere il Vangelo fino in fondo, fino alla passione nell'orto del Getsemani. Obbediente al suo Vescovo in cui vedeva adempiersi la volontà di Dio Padre.
Leggendo il libro di Michele Gesualdi Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, si percepisce proprio una grande sofferenza non tanto per le incomprensioni tra don Milani e i suoi due Vescovi, ma per lo scandalo causato nei giovani del tempo. Anche se questo può sembrare assurdo, Gesualdi esprime la consapevolezza che quell'esilio sia stato un evento di grazia che ha permesso alla vocazione di don Lorenzo di manifestarsi nella sua pienezza. Come testimonia il ricordo di questo sacerdote: «Mi sembra di sentirla ancora la sua voce: "bisogna innamorarsi di tutti quelli che fanno parte della nostra famiglia, di tutto ciò che facciamo e l'amore deve essere un amore carnale. Non esiste un uomo migliore di un altro, non esiste posto al mondo che io possa amare di più. È Dio che mi ha messo qui. Questa certezza è il simbolo di una predilezione sconfinata di cui sono stato oggetto. [...] Non ci sono rimpianti nella mia vita, né nostalgie. I miei superiori io li amo: nessuno può dimostrarmi di essere stato punito o di non aver ubbidito. Della verità non si deve aver paura; un sacerdote non ha nulla da perdere; ovunque vada, troverà sempre qualcuno da amare, non a parole che sarebbe un mostruoso misfatto e una ignobile falsità, ma con i fatti. Amare non significa dare qualcosa, significa dare noi stessi, significa essere e i poveri sono quelli che Dio oggi in particolare, ha gettato sul nostro cammino; essi sono il segno di contraddizione; di fronte a loro bisogna scegliere. Non ci sono vie di mezzo, né possibili compromessi. Non si può vivere senza innamorarsi. La soluzione che io ho trovato è una nelle infinite. Vedi questi bambini io li amo. Essi hanno riempito il mio cuore"» (cfr. M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, pp. 232-233).
Ritirato sul monte è diventato un faro che ha rischiarato la notte indicando la strada per un rinnovamento del modo di vivere il Vangelo e di essere cristiani nell'oggi. Se il seme gettato non muore, non dà frutto. E più veniva ufficialmente isolato, più salivano alla Scuola persone importanti per incontrarlo, giudici, politici, giornalisti, professori, uomini di spettacolo. Più cercavano di nasconderlo più il suo pensiero sí diffondeva tra le persone. La forza della sua azione stava nella scelta di amare i ragazzi di Barbiana, senza cercare visibilità per se stesso, riconoscimenti pubblici o spazi di carriera. Umiliato, offeso, calunniato, per le parole di verità contenute nelle sue lettere e nei suoi scritti, non rispondeva con oltraggi, ma spiegava e rispiegava il senso del suo pensiero. Ed era questo che certamente non piaceva a tanti delatori: la capacità di non cedere all'ira, di obbedire sempre alla Chiesa, di rimanere fedele alla verità nell'oggettività del suo rivelarsi. E quando si esponeva e decideva di scrivere le sue lettere, come Risposta ai Cappellani militari, era a scopo educativo, di esempio per i suoi ragazzi affinché imparassero a rimanere fedeli alla propria coscienza in ogni occasione della vita. A sviluppare il proprio senso critico conservando sempre la libertà interiore ed esteriore. In quei giorni, infatti, sul quotidiano «La Nazione» di Firenze era riportato un documento dei cappellani militari contro l'obiezione di coscienza «in cui si leggeva, fra l'altro questa frase: "Considerano un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà". Così lo racconta Lorenzo nella Lettera ai giudici: "Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un comunicato dei cappellani militari in congedo della regione Toscana. [...] Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi, le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. [...] Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote, e perfino al vescovo che sbaglia. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. E il contrario del motto fascista Me ne frego"» (cfr. Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, a cura di G. Ceccatelli, Edizioni Clichy, Firenze 2015, pp. 64-65).
Fiction, non realtà
I libri con i quali mi sono avvicinato alla sua figura sono stati Lettera a una professoressa prima ed Esperienze pastorali poi. Avevo appena iniziato la Facoltà di Filosofia. Lettera a una professoressa come prima reazione alla negativa esperienza scolastica liceale appena conclusa, Esperienze pastorali per capire cosa mi aveva allontanato dal catechismo e dalla parrocchia poco dopo essere passato a comunione. Non ne ho parlato per molto tempo con nessuno, forse tutto non avevo compreso, ma quelle letture hanno lavorato nella mia mente, ispirando il modo di rapportarmi con le altre persone e la realtà nel suo complesso. Spesso le sue frasi sono diventate degli slogan o si è pensato di riprodurre nelle scuole di oggi la Scuola di Barbiana. Nel 1997, su Raidue, è stata trasmessa la miniserie in due puntate Don Milani. Il Priore di Barbiana, di Andrea e Antonio Frazzi, con Sergio Castellitto e Ilaria Occhini. Film che, in modo semplice e coinvolgente, rendeva bene la figura di don Milani e la sua esperienza a Barbiana. A volte eccedendo un po' nel cliché del sacerdote controcorrente, al di là dagli schemi tradizionali e contestatario, ma senza mai discostarsi troppo dalla storicità dei fatti accaduti.
Nell'ottima interpretazione di un giovane Castelletto traspariva tutta l'ammirazione sua e dei due registi per una vita donata completamente a servizio dei suoi ragazzi. La novità di una pedagogia capace di valorizzare il singolo alunno rispettandone tempi e modi di apprendimento. Senza la fretta di giudicare, valutare, selezionare. Uno studio mai disgiunto dalla concretezza della vita, dal mondo del lavoro, da uno sguardo ampio, cosmopolita: l'apprendimento delle lingue e i viaggi di studio e lavoro all'estero, la lettura dei giornali, l'attualità, la conoscenza del presente e di cosa stava accadendo intorno a loro. il coraggio di stare sempre dalla parte della verità. Ed è una storia che incanta, che rende partecipe il pubblico mettendone in gioco i migliori sentimenti. I rapporti tra Milani e la sua famiglia sono delineati con grande sensibilità. Molto bella e toccante la scena della morte di don Milani con cui si conclude il film. A settembre, l'ho fatto vedere ai miei alunni in preparazione alla gita di inizio anno della nostra scuola a Barbiana, e ho avuto nuovamente conferma della bontà dell'opera dei fratelli Frazzi. Il problema è come fare esperienza di questa bellezza, come calarla nella vita dei giovani che oggi popolano le nostre scuole quando il mondo è completamente cambiato rispetto a quell'Italia di ormai cinquanta anni fa'. Quí la fiction non aiuta in quanto, per sua natura, tende a semplificare le cose, a renderle leggere, a eliminare il peso della storia, della realtà.
Un nume tutelare
«Nei racconti dei ragazzi riferiti dal loro compagno Edoardo Martinelli, [...] si può cogliere direttamente dalla voce degli allievi della scuola di don Milani l'impronta che quell'esperienza ha lasciato nella loro vita. L'impegno a riuscire, contraddicendo un destino già segnato; un po' di quella superbia, che secondo il priore andava coltivata negli umili; ma anche la memoria grata dello stupore per le scoperte, del senso di responsabilità dei più grandi per i progressi dei più piccoli, delle coraggiose e meravigliose avventure dei viaggi all'estero per imparare le lingue, inimmaginabili nelle loro famiglie, perfino della fatica e dei sacrifici necessari per frequentare la scuola, e magari anche dei rimproveri per un momento di pigrizia o di distrazione. Insomma una crescita personale evidente, riconosciuta e probabilmente mai sperata, come racconta Nevio, poi diventato autista di pullman e militante comunista: "della sua lezione mi sono rimasti oggi i ricordi più belli ed emozionanti. Mi è rimasta dentro una carica esplosiva che uso ogni qualvolta c'è bisogno, sperando di farlo nel modo più corretto e incisivo, mi è rimasta dentro la volontà di sentirmi una persona utile ai bisogni dei più deboli; la consapevolezza di non dover esser pecora e di andare anche controcorrente senza tradire quello che dice la mia coscienza, di dire sempre la verità, anche se questo può essere in contrasto con la mia fede politica, con le mie convinzioni sindacali e sociali e con gli interessi della Chiesa della quale mi sento di far parte". O come dice Edoardo, con le parole forse più belle: "L'orgoglio di comprendere il proprio stato, la propria condizione umana, l'ambiente in cui si cresce e in cui si vive, si lavora, si lotta. La consapevolezza di essere uno e inimitabile". Verità, fede, politica, convinzioni, orgoglio, consapevolezza, chi nella vita di ragazzi come questi, si era mai impegnato a fare simili doni?» (Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, pp. 58-60).
Ripeto le ultime parole scritte da Giovanna Ceccatelli, «verità, fede, politica, convinzioni, orgoglio, consapevolezza» perché sono quelle cose che cerco di trasmettere ai ragazzi da quando, tredici anni fa, mi sono ritrovato a insegnare a dei liceali. Riuscire a fare questo credo sia il sogno di ogni professore che voglia essere anche educatore. Umili, vite segnate, poveri, sono le altre parole da cogliere, che probabilmente vanno in netto contrasto con la realtà di oggi, dove i ragazzi sperimentano sempre una forma di abbandono, ma insieme ad abbondanza, disillusione, scetticismo, narcisismo. Allora diventa difficile realizzare le altre parole. Ed è forte il rischio di scivolare nel moralismo colpevolizzando i giovani come se la povertà fosse l'unica strada per accettare la necessità di avere dei maestri. Come se il dialogo potesse crearsi solo tra persone umili, che cercano qualcosa, che prima di ottenere prestazioni desiderano conoscere. Solamente realizzare una scuola senza voti, cattedre e registri, sarebbe un problema, ma bisogna trovare il modo di raggiungere gli stessi obiettivi educativi anche oggi. I giovani attendono sempre qualcuno che li liberi. E, tuttavia, non basta leggere in classe Lettera a una professoressa, perché quell'esperienza torni magicamente a vivere. Così, dopo i primi anni di insegnamento, ho smesso di ricorrere a strane bacchette magiche, ma ho semplicemente preso una foto di don Milani da ragazzo, l'ho incorniciata e appesa in aula come un nume tutelare che ti protegge le spalle, che con il suo esempio indica lo scopo ultimo di fare scuola, un percorso particolare da cui prendere ispirazione.
La voce del maestro
Slogan, sogno, esempio, realtà, essere, sono le cinque tappe del percorso del mio avvicinamento a don Lorenzo Milani. Così, lo scorso 22 novembre, sono andato a vedere Barbiana '65. La lezione di don Lorenzo Milani, il documentario di Alessandro G.A. D'Alessandro (Italia 2017) prodotto da Laura e Silvia Pettini per Felix Film in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà e Fondazione Don Milani. Al Nuovo Cinema di Figline Valdarno, dove ha avuto luogo la proiezione, era presente una delle produttrici, Laura Pettini, che, presentando il documentario, ha ripercorso brevemente la lunga storia della sua genesi partendo dall'occasione che cinquantadue anni fa aveva portato il padre di D'Alessandro a salire a Barbiana. Il regista Angelo D'Alessandro, autore di sceneggiati importanti per la Rai come Zanna Bianca e Ciuffettino, si era recato da don Milani per un'inchiesta sull'obiezione di coscienza. Si era, poi, proposto di fare una lezione di cinema a quei giovani come ne faceva tante ai suoi studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia. In particolare, mostrare ai ragazzi un film di Georg Wilhelm Pabst, La tragedia nella miniera, considerato uno dei principali film pacifisti del tempo. In effetti, appena a Barbiana arrivò la corrente elettrica, una delle prime cose che fece don Milani fu quella di procurarsi un proiettore da 16 millimetri con cui studiare con i ragazzi film d'autore, analizzandone linguaggio e montaggio, fotogramma per fotogramma. Ed effettivamente, come ha ricordato il figlio di D'Alessandro nel comunicato stampa a cura di Laura Pettini per la Felix Film, il film «venne visionato varie volte dal priore e dai ragazzi che alla fine dimostrarono come sí trattasse in realtà di un film mediocre. Mio padre raccontava di come avessero perfettamente ragione: era salito per fare lezione ai ragazzi ma la lezione l'avevano fatta a lui». Nacque, così, un dialogo profondo sui temi della fede, del Vangelo, dei diritti umani, della guerra e della pace, tra il regista e i giovani di don Milani, che lo porterà a tornare più volte a Barbiana. Fino a quando, comprendendo la sua sincera partecipazione all'esperienza della Scuola, sarà lo stesso don Milani a offrirgli la possibilità di riprendere e di girare un documentario sul metodo di Barbiana.
I filmati originali – circa 40 minuti in pellicola bianco e nero, mentre la colonna sonora era stata registrata a parte su nastro magnetico, come si usava in quegli anni – mostrano alcuni momenti fondamentali della Scuola di Barbiana: la scrittura collettiva, la lettura dei giornali, i ragazzi píù grandi che insegnano ai più piccoli, il lavoro manuale svolto dai ragazzi e la partecipazione alla Messa, in cui vediamo don Milani celebrare, ma solo "per finta", per la macchina da presa. Spezzoni di pellicola e riflessioni personali del regista rimasti per lunghi anni separati, fino a quando il figlio, dopo la morte del padre, dopo un lungo lavoro di riflessione e preparazione, non ha trovato l'ispirazione per unirli in una narrazione. Nel tentativo di farsi guidare dalla viva voce di don Milani, che al momento delle riprese stava scrivendo con i suoi ragazzi Lettera ai giudici, per difendersi dalle accuse di apologia di reato nel processo che lo attendeva a Roma, per cogliere il senso ultimo, lo scopo del suo fare scuola. Che, nell'interpretazione di D'Alessandro, è: far diventare i suoi allievi dei cittadini veri, uomini capaci di andare in fondo alle cose, ragionare con la propria testa ed essere "sovrani di se stessi". Attraverso uno studio approfondito, la Costituzione italiana e il Vangelo. Come nei loro interventi durante il documentario hanno cercato di chiarire i tre testimoni chiamati a rappresentare i tre pilastri della Scuola di Barbiana: metodo didattico, Adele Corradi, l'insegnante che ha vissuto l'esperienza di Barbiana con don Lorenzo; Costituzione italiana, Beniamino Deidda, ex Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Firenze e docente volontario fin dalla scuola a Calenzano; Vangelo, don Luigi Ciotti.
Non saprei dire quanto il documentario possa essere efficace per avvicinare, chi ancora non conosce don Milani, alla Scuola di Barbiana, ma è sicuramente un importante punto di partenza per continuare a studiare e ad approfondirne la figura. Sono rimasto colpito dalle immagini iniziali dove i ragazzi, prima in lambretta, poi a piedi, sotto la pioggia, per strade fangose, raggiungevano contenti la loro scuola. Come partecipavano alle lezioni di don Milani e sapevano interloquire con chi andava a trovarli. Mi ha colpito il suono della sua voce, il suo sguardo, il suo modo di essere, ed è stato come rincontrare un vecchio amico. Ed è bello che il documentario si sia concluso con le immagini di papa Francesco che prega sulla tomba di don Milani, perché quella visita del 20 giugno 2017 ha posto fine a un lungo esilio di sofferenza e solitudine, dando al sacerdote fiorentino il posto che merita nella Chiesa del nuovo millennio. Una Chiesa chiamata a ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c'è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. «Non c'è da parlare della eroica storia di don Lorenzo Milani, ma della eroica storia dei poveri, della nobiltà della classe operaia e contadina che mi ha accolto e aperto gli occhi. In questi anni vi ho educato a sentirvi classe, a non dimenticarvi dell'umanità bisognosa e a tenere a bada il vostro egoismo, perché non si tratta di produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente. Il buon cristiano, oggi, non si limita a fare l'elemosina, ma s'impegna a
lottare per rimuovere le cause che tengono i poveri in condizione di sottomissione e miseria» (L. Milani, in M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, cit., p. 208). «Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra [...] fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità» (dal discorso di papa Francesco, in occasione del pellegrinaggio a Barbiana, 20 giugno 2017).
(FEERIA 17/1 n. 51, pp.50-55)
Trasparente e duro come il diamante
«Trasparente e duro come il diamante, doveva subito ferirsi e ferire». Delle definizioni di don Lorenzo Milani è forse questa la più sintetica ed efficace, non per caso appartiene a don Raffaele Bensi, padre spirituale di Lorenzo Milani dalla conversione alla morte, unico custode del segreto della sua fede. Ma a cinquant’anni dalla morte, ora che anche un Papa ha detto una parola definitiva su di lui, ancora dobbiamo chiederci – rubando il titolo al suo amico Giorgio Pecorini -: Don Milani, chi era costui? Proviamo a rispondere, poco più che in pillole, tenendo conto degli ultimi sviluppi.
UNA FAMIGLIA COLTA, AGNOSTICA E FACOLTOSA
Lorenzo Milani nasce, secondo di tre fratelli, a Firenze nel 1923 da Albano Milani Compretti e Alice Weiss, triestina. La famiglia è colta, facoltosa e agnostica, ma i figli Milani vengono battezzati quando si profila il rischio delle leggi razziali, dato che la mamma è di origine ebraica. Il bisnonno è il filologo Domenico Milani Comparetti. Tra i compagni di giochi nell’infanzia di Lorenzo ci sono i rampolli delle famiglie della borghesia fiorentina e, negli anni della scuola secondaria, milanese, tra loro Oreste Del Buono.
Da ragazzo Lorenzo è uno studente intelligente e incostante, che si applica con passione alle cose che gli interessano e trascura le altre, sapendo però di poter vivere della rendita della cultura respirata in famiglia, e, se del caso, di poter contare sul soccorso degli intellettuali pregiati, cui viene affidato nei momenti di difficoltà. Per un periodo va a lezione da Giorgio Pasquali, uno dei padri della filologia moderna.
Nel 1930 la famiglia si trasferisce a Milano dove Lorenzo completa gli studi fino alla maturità classica. Dopo, rifiuta di iscriversi all’Università e manifesta il desiderio di frequentare l’Accademia delle belle arti, cosa che il padre qualifica, come una “bambinata”. Però non lo ostacola forse nella convinzione che sia una passione transitoria: Lorenzo studia a Brera e va a lezione dal maestro Staube: il talento artistico è quello che è, modesto, ma il maestro coglie nell’allievo una sorta di “veemenza” nell’apprendere, che s’applicherà più tardi ad altre più concrete scelte di vita.
MISTERO DELLA FEDE E INDIGESTIONE DI CRISTO
È il 1941, Lorenzo sta studiando pittura e progetta di affrescare una cappella nella tenuta di famiglia a Monterspertoli. La sta esplorando quando, a un certo punto, scrive una lettera all’amico Oreste Del Buono: «Ho letto la Messa. Sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?».
Potrebbe essere il primo segno di quello che sta cambiando dentro di lui. Anche se della genesi della sua fede si sa pochissimo, il poco che ha testimoniato don Raffaele Bensi, allora parroco di San Michelino a Firenze. Le lettere pubbliche del loro carteggio sono poche, alcune in Perché mi hai chiamato? (San Paolo). Per molto tempo si è ritenuto che fossero state tutte distrutte, ma gli storici non disperano ancora di poterle ritrovare.
Dell’innesco della fede del futuro don Milani non esistono racconti di eclatanti folgorazioni: c’è solo la testimonianza di un colloquio con don Bensi. Il padre spirituale ricorda il giovane Lorenzo, nel giugno 1943, che, per non interrompere un dialogo avviato, lo accompagna a celebrare il funerale di un giovane sacerdote e in quell’occasione promette: «Io prenderò il suo posto». Comincia lì quella che don Raffaele Bensi chiama «l’indigestione di Cristo», lo studio matto e disperatissimo in cui Lorenzo si immerge per recuperare le conoscenze mancanti.
GLI ANNI DEL SEMINARIO
L’ingresso in seminario, nel 1943, segue di poco la conversione: pur ligissimo alle regole, anche lì Lorenzo si rivela uno studente impegnativo che non dà pace a docenti e superiori: fa domande complicate e scomode, obbedisce sempre ma non rinuncia mai ad esercitare il senso critico e non si accontenta di risposte che non siano anche profonde.
Per la famiglia la scelta di Lorenzo è un mistero: non la comprendono ma la rispettano perché capiscono che questa volta non è una bambinata. È anzi, nella sua radicalità, una scelta adulta e matura che nel modo di esprimersi già manifesta, in nuce, la fedeltà scabra all’essenza del Vangelo, che sarà la cifra del sacerdote don Milani: d’una coerenza e di una franchezza destinate a rivelarsi scomode per molti.
Nelle lettere alla madre Lorenzo racconta con ironia ed entusiasmo la vita del seminario: una vita, negli anni di guerra, di freddo e cibo scarso. Lorenzo minimizza le sofferenze, sapendo bene di dover contenere le preoccupazioni della madre per la salute del figlio da sempre cagionevole e soggetto a bronchiti continue, per non dire delle altre preoccupazioni legate alla sua non compresa scelta di vita: è un’incomprensione che, però, si nutre di affetto e di rispetto reciproci, tanto che Lorenzo invita i genitori alle cerimonie che segnano le tappe della sua formazione religiosa. Ma rispetta le volte in cui decidono di non partecipare. Il 13 luglio 1947 Lorenzo Milani diventa don Milani e celebra la prima Messa a San Michelino.
SAN DONATO E LA SCUOLA POPOLARE
Dopo pochi mesi a Montespertoli, cappellano di don Bonanni, la prima “vera” destinazione del sacerdote don Milani è San Donato a Calenzano, un comune operaio in provincia di Firenze, a larghissima maggioranza comunista, dove viene mandato come cappellano dell’anziano don Pugi. È in quel contesto che nasce la scuola popolare: don Milani la fonda laica, perché nessuno se ne senta escluso a priori: capisce al volo che dal punto di vista pastorale costringere i giovani a scegliere tra il padre comunista e la scuola, sarebbe il modo di perderli senza neanche provare ad avvicinarli.
Sono gli anni delle grandi lacerazioni politiche attorno alle elezioni del 1948, della scomunica ai comunisti. Don Milani fa campagna elettorale per la Democrazia cristiana, anche se invita a tener conto nelle preferenze dei più attenti alla causa dei poveri. Ma, a contatto con la povertà e con lo sfruttamento, comincia a percepire nell’anima lo scarto tra le opportunità in cui è cresciuto e la miseria materiale e intellettuale in cui versa il popolo che gli è stato affidato e a maturare una profonda coscienza sociale. Fa scuola perché capisce che chi non ha la cultura minima per leggere un giornale o un contratto di lavoro non è in grado di difendersi dallo sfruttamento né di elaborare un pensiero critico. Si rende conto che senza la comprensione delle parole l’orizzonte della vita umana si riduce alla conquista di un piatto di minestra la sera e che anche l’ascolto della Parola rischia di diventare mera prosecuzione di riti, di cui non si comprende il significato.
Sono anche gli anni delle prime prese di posizioni pubbliche come la lettera aperta “Franco, perdonaci tutti, comunisti, industriali, preti”. Pubblicata su Adesso il quindicinale fondato da don Primo Mazzolari, con cui scambia alcune lettere: parole essenziali e molto dirette che mettono a nudo – senza perifrasi - le contraddizioni di una Chiesa non sempre schierata con i poveri nei gesti quanto vorrebbe esserlo predicando.
Cominciano a maturare le convinzioni che sfoceranno in Esperienze pastorali. Cominciano qui le incomprensioni con la gerarchia che vede nelle idee di quel cappellano più un pericolo che un invito accorato al ritorno all’essenza spoglia del Vangelo di Cristo, così efficacemente sintetizzata pare nel 1950, ma la data è controversa, nella lettera al giovane comunista Pipetta: «Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l'unico grido di vittoria degno d'un sacerdote di Cristo: “Beati i... fame e sete”».
L'ESILIO SUL MONTE DEI GIOVI
ll Concilio Vaticano II è lontano, la Curia fiorentina “soffre” il pensiero sociale avanzato da quello che gli storici della Chiesa chiameranno “il chiostro di folli di Dio”, formatosi attorno al cardinale Elia Dalla Costa con La Pira, Balducci, Rosadoni, Barsotti, Fabbretti, Turoldo, Bensi.
La voce del giovane cappellano Milani tuona con una franchezza sconosciuta ai toni felpati della curia del tempo e il suo dialogo “con i lontani”, come si diceva allora, viene percepito come troppo aperto.
Pesano i simboli: la scuola laica che non esclude e il funerale di un giovane operaio, durante il quale in chiesa sono apparse bandiere rosse. Dalle lettere si capirà che don Milani non le condivideva e non le avrebbe volute, ma che in quella circostanza non osò buttarle fuori perché in quel contesto avrebbe significato perdere tutte in blocco le pecorelle che stava faticosamente cercando di riportare all’ovile, distruggere con un gesto tutto il lavoro fatto per sminare il clima di reciproca diffidenza tra il suo popolo e la sua Chiesa. Ma sapeva anche che all’esterno avrebbero frainteso e ne soffriva.
Quando il 12 settembre del 1954 muore il parroco di San Donato don Pugi non accade quello che le pecorelle di San Donato si attendono e cioè che don Milani venga confermato parroco al suo posto. Gli assegnano, invece, un’altra parrocchia, ma non è una delle tante. È Sant’Andrea di Barbiana, una pieve isolatissima sul monte dei Giovi in Mugello.
Barbiana non è un paesello: è una chiesetta, una povera canonica, qualche cipresso e un piccolo cimitero, sul cocuzzolo di una montagna a cinquecento metri d’altitudine. Quaranta anime sparse per le case lontane. La parrocchia già destinata alla chiusura resta aperta per don Milani.
LA SCUOLA DI BARBIANA
Quando don Lorenzo Milani ci arriva, accompagnato dalla governante di San Donato Eda Pelagatti e dall’anziana madre di lei Giulia, il 6 dicembre del 1954, a Barbiana si sale a piedi, per una mulattiera. Quel giorno piove a dirotto: non c’è acqua corrente, né gas, né luce. Quando don Lorenzo ci arriva, Barbiana è la fine del mondo, ma scrive alla madre che non provino a distoglierlo da lì, a parlargli di un altro sradicamento dopo quello appena subito.
Il giorno dopo va in Comune a Vicchio e si compra una tomba al cimitero di Barbiana: don Milani ha 31 anni. Quello che trova è un popolo di pastori e contadini che pascola pecore e faticosamente strappa, al bosco che tutto mangia, una terra avara di frutti da dividere a metà col padrone in regime di mezzadria. Anche il parroco ha due poderi e don Milani decide subito che non chiederà ai due mezzadri che lo coltivano la metà del raccolto che gli spetterebbe.
E capisce subito che i figli di quel popolo sparso, se il pomeriggio vanno nei campi o a badar pecore, son destinati a uscire prematuramente dalla scuola di Stato senza saper né leggere né scrivere, defraudati, se non nella forma nella sostanza, del loro diritto all’istruzione e dei loro diritti successivi: scartati già da piccoli, come direbbe oggi papa Francesco, costretti a delegare in tutto, incapaci di aver voce in capitolo come persone, come cittadini, come cristiani.
La scuola di Barbiana in casa del priore o sotto il pergolato comincia con un doposcuola, che prestissimo diventa avviamento professionale e, quando sarà il momento, nel 1963, corso di recupero per la media unificata, per cui sarà preziosissimo negli ultimi anni l’aiuto di Adele Corradi, una professoressa che si farà trasferire in una scuola pubblica della zona, per dare una mano a don Milani con continuità.
La scuola di Barbiana è aderente alla vita e a tempo pienissimo: tutto è occasione di apprendimento, la fanno da padrone le parole in tante lingue, grimaldello per capire il mondo e il Vangelo. Don Milani accoglie i diseredati, quelli senza un’alternativa, rifiutati dalle scuole ufficiali, provenienti dalle case della zona o portati dagli amici, tra loro due fratelli orfani Michele e Francuccio Gesualdi, che gli crescono in casa come figli. L’esperimento educativo di Barbiana, che arriva a mandare i ragazzi da soli all’estero a studiare le lingue, Francuccio addirittura in Algeria, mantenendosi lavorando, attira l’interesse e la curiosità di molte persone che vanno lassù a vedere e vengono messe da don Milani a insegnare ciò che sanno ai suoi ragazzi invitati a far domande, a togliersi la timidezza contadina.
IL CASO "ESPERIENZE PASTORALI"
Sono gli anni in cui maturano gli scritti di don Milani, Esperienze pastorali esce nel 1958, ha l’imprimatur, ma fa rumore: non è un trattato di scienze pastorali, è la sintesi dell’esperienza vissuta da don Milani. Una riflessione sociologica, razionale e senza eufemismi – statistiche alla mano – sulle condizioni delle comunità a lui affidate, sul ruolo del parroco in contesti di povertà materiale e intellettuale.
In quelle pagine don Milani prende le distanze dalle forme di intrattenimento in uso negli oratori e nelle parrocchie, indicando lo studio e non lo svago come strada maestra dell’apostolato. Lo fa con un modo di esprimersi diretto, insolito tra i sacerdoti, che risulta urticante a molti e in primis alla Curia fiorentina dell’epoca. Il libro viene ritirato, pochi mesi dopo, dal Sant’Uffizio (per ragioni di opportunità, ma non con un decreto che ne metta in questione l’ortodossia).
Una recensione, firmata da padre Angelo Perego su La Civiltà cattolica, stronca pensantissimamente il libro e, per l’autorevolezza della fonte, segna in modo determinante la storia dell’incomprensione di don Lorenzo da parte della Chiesa, incluso il patriarca Angelo Roncalli futuro Giovanni XXIII. Un motivo di sofferenza senza tregua nella vita di don Milani, che esprime le sue idee con parole che riflettono insieme la sua toscanità e la radicalità del convertito, obbedendo però sempre a ogni minimo ordine dei superiori.
L'OBBEDIENZA NON E' PIU' UNA VIRTU'
Al di fuori della Chiesa, più che Esperienze pastorali, è – nel 1965 - la Lettera ai Cappellani militari a porre don Milani al centro del dibattito pubblico: è il testo noto come L’obbedienza non è più una virtù. Si tratta di una risposta a una presa di posizione pubblica di alcuni Cappellani militari che tacciano di “viltà” gli obiettori di coscienza.
Don Milani e i suoi ragazzi, che sulla porta della loro scuola hanno il motto “I care”, “mi importa”, “mi faccio carico”, e che stanno riflettendo insieme sul primato della coscienza, sulla necessità dell’assunzione della responsabilità del singolo nella società, rispondono con la lettera aperta che sortisce grande clamore: pongono - con rigore logico - il problema morale del cristiano davanti alle armi e alla guerra e, in particolare, all’ordine di sparare sui civili inermi.
L’obiezione di coscienza e il pacifismo non sono ancora un fatto acquisito per la Chiesa e nemmeno lo Stato ha ancora accettato come legale l’obiezione di coscienza al servizio militare: chi si sottrae alla leva obbligatoria finisce in carcere. A complicare a don Milani le cose con la Chiesa c’è il fatto che la lettera, spedita a tutti i giornali anche cattolici, viene pubblicata soltanto da Rinascita. Ma non tutti nel mondo cattolico hanno chiaro che non è stata una scelta del priore pubblicare su un giornale comunista. A complicargliele con lo Stato c’è la legge: Don Milani e Luca Pavolini, direttore di Rinascita, subiscono insieme un processo per istigazione a delinquere. Mentre il dibattito sull’obiezione di coscienza esplode e divide.
Don Milani al processo non partecipa, non nomina un avvocato ma si lascia difendere dall’avvocato d’ufficio Alfonso Gatti. E’ già molto malato, un linfoma di Hodgkin gli ha già decretato vita breve, si difende al processo con una memoria difensiva: nota come Lettera ai giudici. Il primo grado si conclude con l’assoluzione di entrambi.
LETTERA A UNA PROFESSORESSA
Un altro episodio, la bocciatura di due ragazzi di Barbiana all’esame d’ammissione alle scuole magistrali, innesca l’ultimo scritto: Lettera a una professoressa, una spietata, provocatoria, disamina sulla scuola pubblica dell’obbligo di quegli anni, incapace di colmare, secondo Costituzione, gli svantaggi iniziali di chi nasce in una casa povera di cultura e di denari.
Possibile, si chiede don Milani, che il Padreterno faccia nascere gli asini e gli svogliati solo nelle case dei poveri? La lettera è scritta con l’innovativo metodo della scrittura collettiva insieme ai ragazzi e va alle stampe, con una corsa contro il tempo, nell’aprile del 1967: don Milani è alle ultime settimane di vita, continua a soffrire anche per l’incomprensione della Chiesa, che il suo vescovo non smette di manifestargli.
Il testo di Lettera a una professoressa avrà vita propria dopo la morte del Priore: molto citato, poco letto, il più delle volte misconosciuto, diverrà ne mesi successivi icona della contestazione studentesca. Accanto agli entusiasmi non mancano strumentalizzazioni e fraintendimenti che, insieme ad altri successivi, spiegano l’accusa postuma a don Milani, ripetutamente tacciato, fino all’oggi, di essere stato – tramite la Lettera avulsa dal suo contesto - l’ispiratore dei guasti (veri o presunti) dell’istruzione contemporanea.
IL TESTAMENTO
Don Lorenzo Milani muore a 44 anni il 26 giugno del 1967 in via Masaccio a casa della madre dove ha trascorso gli ultimi mesi di vita, senza ricevere l’abbraccio del suo vescovo Ermenegildo Florit che non ha mai compreso l’urgenza evangelica sottesa ai suoi comportamenti. Il processo di appello condannerà Pavolini, mentre per don Milani la morte ha estinto il reato. Ai suoi ragazzi lascia un testamento che si conclude così: «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo». Nel 2014 Papa Francesco rimuove il provvedimento emesso nel 1958 dal Sant’uffizio su Esperienze pastorali. Il 20 giugno 2017 Francesco è il primo papa della storia a pregare a Barbiana sulla tomba di don Lorenzo Milani e nelle parole pronunciate quel giorno accoglie, definitivamente, come «un bravo prete da cui prendere esempio», il Priore di Barbiana nell’alveo della Chiesa. Ora possiamo dire che don Milani aveva ragione, quando diceva: «Fra cinquant’anni mi capiranno». E’ andata così, alla lettera.
"Abbiamo bisogno di persone che si mettano a servizio delle vocazioni, di persone cioè che siano a servizio dei fratelli, ponendosi accanto a ciascuno per un cammino graduale di discernimento. Persone che a tal fine diano indicazioni, alla luce della Parola di Dio, perché ciascuno capisca qual è la sua vocazione e qual è il servizio che deve rendere".
"Il maggior bene che ciascuno di noi può fare al fratello è aiutarlo a scoprire e poi a seguire la sua vocazione. Cioè a comprendere qual è il progetto che Dio ha su di lui e a realizzarlo".
Ognuno di noi sente dentro di sé una inclinazione, un carisma.
Un progetto che rende ogni uomo unico e irripetibile.
Questa chiamata, questa vocazione è il segno dello Spirito Santo in noi.
Solo ascoltare questa voce può dare senso alla nostra vita.
"Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d'amore.
Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l'invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio".
Padre Pino Puglisi
A testa alta
di Alessandro D'Avenia
«Perché lo avete ucciso?», chiede il magistrato. «Perché si portava i picciriddi (i bambini) cu iddu (con lui)», risponde il sicario che ha sparato il colpo alla nuca. Si tratta del Cacciatore, questo il suo soprannome a Brancaccio. Aveva sparato a padre Pino Puglisi, 3P, come lo chiamavamo noi a scuola, il 15 settembre 1993, 25 anni fa. Stavo per cominciare il quarto anno e lui, uno dei professori della mia scuola, il Liceo Vittorio Emanuele II di Palermo, non sarebbe più entrato in classe. Capo d’accusa: far giocare e studiare, con l’aiuto volontario dei ragazzi di cui era professore di religione, bambini che altrimenti erano preda della strada e di chi su quella strada comandava. Troppo poco?
3P sapeva infatti mescolare i quadrati della scacchiera di Palermo, facendo muovere chi conosceva solo la città di luce verso quella più tenebrosa, e viceversa. I ragazzi di un rinomato liceo classico aprivano gli occhi su strade nuove, perché l’inferno poteva essere girato l’angolo. A cosa serviva la cultura che ricevevamo se restavamo ciechi su ciò che avevamo accanto? Don Pino sapeva che per far rifiorire il quartiere in cui era nato e cresciuto, bisognava ripartire da bambini e ragazzi, anche se, per stare fermi e in silenzio, gli alibi non mancavano. La sua battaglia era tanto semplice quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissimi attraverso il gioco, lo studio, la catechesi, prospettando loro una vita diversa da quella del «picciotto mafioso». La mafia alleva il suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e assicurando il sufficiente benessere materiale, condizioni che riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da cui attinge. Don Pino ne inceppava dall’interno il meccanismo, ripetendo a bambini e ragazzi di andare «a testa alta», perché la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono connaturato al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e non dal Padrino di Cosa Nostra. Per questi motivi lottò per aprire un centro che chiamò «Padre Nostro», dove i ragazzi potevano stare anziché lasciarsi ghermire dalla strada, e si batté per avere la scuola media nel quartiere. Il giorno del suo omicidio era andato per l’ennesima volta nei sordi uffici del Comune a sollecitare i permessi per la scuola, inaugurata solo 7 anni dopo la sua morte.
Nonostante i molti impegni pastorali non smise mai di insegnare religione. Proprio quell’estate, forse temendo qualcosa, aveva chiesto una diminuzione d’orario, ma il preside che teneva a lui quanto i ragazzi, lo aveva convinto a non farlo. Ho conosciuto il suo volto, sempre sorridente anche se provato, da cui non traspariva la lotta impari che stava combattendo silenziosamente. La sua pace veniva dall’unione con Cristo, di cui offriva lo sguardo ad ogni persona, perché riteneva ogni vita unica e necessaria alla multiforme armonia del mondo, e infatti paragonava le singole vite alle tessere dei meravigliosi mosaici del duomo di Monreale. Per questo decisero di ucciderlo, perché scardinava il sistema mafioso da dentro, non con slogan o bei pensieri, ma lavorando accanto alle persone, calpestando le loro strade e dando loro nutrimento per il corpo e lo spirito, così che percepissero la possibilità di un’altra «strada». Per questo lo fecero fuori, erano gli anni di Riina, al quale i Graviano, capi mandamento del quartiere, erano affiliati. 3P era, a suo modo, dal basso, tanto pericoloso quanto Falcone e Borsellino, uccisi un anno prima. «Si portava i picciriddi cu iddu»: portava i bambini, non a lui, ma con lui verso una vita nuova, più piena, più bella, sicuramente meno facile, ma costruttiva, libera, vera. Padre Puglisi era «pericoloso» perché era un vero maestro, apriva la strada, ti prestava il coraggio che non avevi, come i veri padri. E proprio come i veri padri pagò di persona.
Avevo solo 16 anni. Ho provato a raccontare questa storia di tenebra e luce nel romanzo «Ciò che inferno non è», perché ha determinato il mio sguardo su me stesso e sul mondo. Ho sentito entrare dentro di me una vita molto più ampia e non volevo che quel fatto diventasse, con il tempo, l’ennesima, archeologica, commemorazione di una delle tante ferite della mia città, recuperata per l’occasione nelle soffitte della retorica. In molti sentimmo che quel sangue mite e coraggioso raggiungeva cuore e membra come una trasfusione. E così se il professore di lettere mi aveva fatto vedere «che cosa» sarei voluto diventare, un altro, 3P, mi fece vedere «come»: impegnarsi per ogni vita, anche quando c’è poco da sperare o attorno hai un sistema che ti scoraggia, ostacola, deride. Quel giorno ho capito che dovevo bandire dalla mia vita gli alibi: il pessimismo diventò per me una scusa per starsene comodi e la speranza la principale attività della testa, del cuore e delle mani. Grazie a 3P ho imparato che la vita può essere felice solo quando è impegnata per gli altri, il suo umanesimo era integrale, non solo mentale o verbale: affermare la vita altrui, costi quel che costi, perché raggiunga la vera altezza: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». Per questo portava i bambini a guardare il cielo stellato, per trasformare il loro desiderio di vita attraverso la morte, come mostrava la mafia, in desiderio di vita attraverso la vita, come mostrava lui.
A lui mi ispiro per il mio lavoro. L’uomo che sono diventato lo devo alla ferita di quel sedicenne inconsapevole, ingenuo, egoista, che aprì gli occhi su un modo di impegnarsi nella vita che non poteva essere fatto solo di sogni e parole, ma doveva farsi carne. 25 anni dopo voglio ricordare quell’uomo minuto, sembrava che il vento potesse farlo volar via, ma gigantesco nella fede in Dio e quindi nella fede nell’uomo. L’ho constatato incontrando i ragazzi che operano oggi al Centro Padre Nostro, di fronte alla chiesa di San Gaetano. Studenti delle superiori o universitari si impegnano per i bambini come faceva don Pino, come è chiamato a fare ogni maestro, «portarsi i picciriddi cu iddu», non a lui, ma con lui: perché educare è dare a un giovane uomo coraggio verso se stesso e il mondo, ma tale forza educativa si sprigiona solo se io stesso sono impegnato, come posso, a crescere con quell’uomo. Abbiamo bisogno di maestri, il messaggio arriva forte e chiaro da una delle tante lettere sul tema, ricevuta pochi giorni fa: «Mi son sempre sentita sbagliata in classe. Ho avuto paura di occupare un posto nel mio banco e nel mondo, mi sono convinta di non essere abbastanza: abbastanza intelligente, abbastanza creativa, abbastanza bella… Non ho trovato insegnanti innamorati del proprio mestiere e capaci quindi di scovare il tesoro che ogni persona nasconde, ma insoddisfatti della propria condizione e convinti dell’inferiorità delle nuove generazioni. Ho avuto insegnanti che non leggevano una poesia “perché tanto non capireste”. Così mi sono ritrovata, da sola, a cercare parole che mi avrebbero salvato. Ho divorato libri, anche il manuale di letteratura. Cercavo chi mi avrebbe abbracciato anche da epoche lontane, chi mi avrebbe dato la mano e accompagnato nei tempi più bui. Ho trovato chi mi facesse conoscere il mondo, gli altri e me stessa. Da sola. Sto studiando per diventare maestra e ho fatto la mia prima esperienza in quarta elementare. È stata una delle cose più belle che mi siano successe. Ho scoperto con i bambini mondi così profondi che non scorderò mai». Essere maestri è aprire strade e aiutare le persone a sentirsi «abbastanza», scoprendo che in realtà lo sono già: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». 3P da vero maestro non ha mai accampato alibi (in latino «alibi» vuol dire letteralmente essere «altrove») in un quartiere difficilissimo, né a scuola, ma ha creduto in quei giovani contro ogni speranza. Ha amato lì dov’era, con lui nessuno era «sbagliato».
La più bella definizione di maestro che io conosca si trova nell’incontro tra Dante e Brunetto Latini. Il poeta dice al defunto maestro che nella sua mente «è fitta, e or m’accora,/la cara e buona imagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/m’insegnavate come l’uom s’etterna». Ricorda con affetto la figura «paterna», maestro è chi dà la vita, uomo o donna che sia, e gli è grato perché «ad ora a ora», che mi piace pensare in termini di quotidiano orario scolastico, gli insegnava «come l’uom s’etterna», parole che indicano l’immortalità dell’anima, ma in senso più ampio, la ricerca radicale di ogni uomo: attingere a una vita che non si rovina, ma sempre si rinnova, all’altezza del desiderio umano. Brunetto si rammarica: «figliuolo mio… s’io non fossi sì per tempo morto… dato t’avrei a l’opera conforto». Egli avrebbe voluto continuare a prestare servizio, come si dice con lampante verità anche in burocratese scolastico, alla vita dell’allievo. Maestro è chi riconosce «l’opera» che l’altro deve fare e la serve, con la sua vita. Così è stato 3P, padre che ha dato la vita perché altri ne avessero una più degna, vera, felice. L’uomo che sono oggi lo devo a ciò che vidi a 16 anni, una lezione che non dimenticherò, ed è la lezione che ha reso la mia vita bellissima, perché solo i maestri ci liberano dalla paura della vita, ci prestano il coraggio di andare a testa alta lì dove siamo, spazzando via gli alibi, e ci fanno essere «abbastanza», anche se pensiamo di non esserlo mai. Grazie, 3P, il letto oggi lo rifai tu per me
Il segreto di un sorriso: Padre Pino Puglisi
Rideva, don Pino Puglisi, se lo chiamavano prete antimafia. Il parroco di Brancaccio, una delle borgate di Palermo a più alta densità mafiosa, non amava i proclami, si sforzava semplicemente di essere un sacerdote coerente con il Vangelo. Quella coerenza che non cede di fronte ai compromessisu cui spesso si basa la potenza prevaricatrice degli "uomini d’onore".
«Quel prete rompeva le scatole», dirà di lui uno dei componenti del commando di fuoco che lo uccise come un agnello, una sera di settembre, la sera del suo compleanno, di fronte alla porta di casa, mentre dalle finestre aperte entrava l’aria avvolgente dello scirocco.
La sua pastorale dentro la borgata, come ha scritto don Luigi Ciotti nella prefazione della biografia di Mario Lancisi del sacerdote che viene proclamato beato, era considerata "un’interferenza".
Per svolgere appieno la sua missione la Chiesa spesso "interferisce", si frappone tra vittime e carnefici, si inserisce nei disegni dei mafiosi, nei soprusi della politica complice, getta luce nei verminai nascosti nelle zone d’ombra. Don Puglisi, martire in odium fidei, è stato la dimostrazione vivente di quanta paura a Cosa nostra possa fare un’azione sacerdotale svolta fino in fondo: l’educazione, la catechesi dei ragazzi, l’apostolato in parrocchia, l’esempio e il richiamo all’autenticità dei valori del Vangelo.
Il parroco di Brancaccio, costretto a celebrare Messa in un garage perché la chiesa di San Gaetano era rimasta danneggiata dal terremoto, strappava centinaia di bambini alla strada, tradizionale vivaio mafioso.
Promuoveva comitati civici per rendere più vivibile una borgata che non aveva nemmeno un albero e una scuola media. Ricordava ai politici locali il senso autentico del loro mandato. Smontava e irrideva la cultura dell’indifferenza e dell’omertà (con Agostina Ajello aveva creato un "Padre nostro dei mafiosi" per tenere lontano bambini e ragazzi dalla mentalità criminale).
Portava a fare volontariato in un quartiere periferico i ragazzi della buona borghesia del liceo classico Vittorio Emanuele che, come avviene spesso nelle metropoli del Sud, in certe zone non ci avevano mai messo piede. Aveva fondato un centro, intitolato alla preghiera che tanto amava, per fare ripetizione ai bambini poveri, destinati a un futuro di disagio o di asservimentoalla potenza dei boss.
Non a caso il suo assassino, che era della sua stessa borgata, aveva la quinta elementare. E quando gli arrivavano minacce, intimidazioni, avvertimenti, invitava i mafiosi dal pulpito a redimersi.
Non è possibile comprendere fino in fondo la sua santità se non si comprende il suo modello autentico di sacerdozio. La sua luce di santità ora splende su una città difficile come Palermo, e ci ricordache anche nei momenti più cupi,come è stata l’epoca delle stragi, cui il martirio di Puglisi appartiene storicamente, la luce del Vangelo e l’esempio di un modo di vivere autentico non ci abbandonano mai.
«La morte di don Puglisi, così tragica e dolorosa, è la chiave di volta nell'atteggiamento della gente rispetto alla mafia. La verità squarcia il velo dell’ipocrisia: non esistono mafiosi buoni e mafiosi cattivi, ma un cancro da combattere civilmente ed ecclesialmente con la Parola, l’esempio, la testimonianza. Preti che umilmente, ma con fede certa si facciano compagni di viaggio degli uomini, col Vangelo in mano e nel cuore. Proprio come don Puglisi, che è annoverabile tra i profeti. La sua testimonianza, infatti, non dà quiete ed è coraggiosa, ferma, intransigente. Non accetta baratti né compromessi. Puglisi ha detto e fatto contro la mafia parole e azioni pesanti da imitare, proponendosi quale esempio di una vita più degna d’essere vissuta. La sua morte ci sprona a essere cristiani con la testa alta e la schiena dritta. Essa è un seme insuperabile di vitalità, la sfida del futuro della Chiesa siciliana e non solo: la morte di don Puglisi si pone come luminoso esempio di vita sacerdotale. Il suo sangue innocente è stato e dev’essere come una trasfusione nelle coscienze indifferenti, richiamando tutti a un nuovo approccio con il fenomeno mafioso e, quindi, a una decisa ricerca degli strumenti ecclesiali e pastorali più idonei a formare coscienze veramente cristiane (confraternite, comitati per le feste, consigli pastorali e affari economici) che operino evangelicamente: dopo Puglisi nulla può essere più come prima nella valutazione storica e sociologica del fenomeno mafioso dentro e fuori la Chiesa» (mons. Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione).
Qualche riferimento
- Vincenzo Bertolone, Padre Pino Puglisi beato. Profeta e martire, San Paolo 2013
- Augusto Cavadi, Francesco Palazzo, Rosaria Cascio, Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia, Edizioni Di Girolamo, 2013
- Mario Lancisi, Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia, Piemme, 2013
- Alla luce del sole, film diretto da Roberto Faenza, 2005
- Brancaccio, un film di Gianfranco Albano, 2001
Rendeva sacre le vite che incontrava: Don Pino Puglisi
Intervista a Alessandro D'Avenia
Domanda. Dopo Bianca come il latte (2010), e Cose che nessuno sa (2011), è uscita la sua ultima fatica: Ciò che inferno non è, romanzo per cui ci sono voluti tre anni. C’è stato qualche incontro, qualche vicenda, che ha acceso in lei l’urgenza per questo libro?
Risposta. Non avevo in programma di scriverlo, stavo già lavorando ad altri progetti, ma ad un certo punto la storia ha avuto il sopravvento, come uno di quegli incontri per strada che ti obbligano a cambiare i tuoi programmi. Leggevo la confessione dell’assassino di don Pino, divenuto collaboratore di giustizia. Puglisi gli ha sorriso nell’attimo in cui stava per sparargli. Uno dei killer più efferati della mafia dice che per quel sorriso “non ci ha dormito la notte”. Quella frase è esplosa dentro di me come dinamite. Volevo capire come si fa ad essere così liberi da sorridere alla morte e ai suoi scherani. Quel sorriso liberava persino l’assassino dal suo gesto, lo costringeva a rivedere tutta la sua vita.
D. Che significato poteva avere?
R. Quel sorriso diceva: tu sei molto di più di quello che stai facendo a me. Riecheggiava il “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Volevo scandagliare, da uomo e da narratore, il mistero di quel sorriso. Chi sa morire così sa anche vivere e insegna a vivere a chi resta. Volevo liberare l’agiografia e la cronaca dalla loro retorica o appiattimento e cogliere in che modo un capitolo della storia della salvezza si compiva in quel momento. Poi ci sono state la beatificazione per martirio di Puglisi e l’assegnazione del premio a lui intitolato. Altri incontri, altri volti, altre persone. È come se quell’uomo che avevo conosciuto nei corridoi della mia scuola mi desse la caccia. Il suo romanzo sulla mia carne lo aveva già scritto, ma era come se quella carne dovesse diventare di molti, attraverso la carta. Col senno di poi credo sia stato un tocco della grazia.
D. I due libri precedenti sono stati anche successi internazionali. Ma entrambi erano ambientati in città che potevano essere una qualsiasi metropoli europea. Qui invece sceglie Palermo. Perché questa decisione? Non teme che possa non essere compresa dai suoi lettori?
R. Al contrario. Lo comprenderanno ancora meglio. Più una storia è incarnata più può essere universale. È una città paradossale: di luce e lutto, di paradiso in una via e inferno girato l’angolo. È uno dei personaggi del romanzo e determina tutti gli altri come un fato incombente. Come nel cinema noir della metà del secolo scorso si tratta di un paesaggio reale e simbolico, nel cinema l’uso del campo lungo sugli ambienti determinava i sentimenti del personaggio, che ne diveniva una tessera, venivano messi a fuoco sia il personaggio sia l’ambiente come se fossero tutt’uno: luce e tenebra erano parte del personaggio.
D. Dunque il romanzo è anche è un atto d’amore verso Palermo.
R. Sì, ma di quell’amore che Borsellino definiva così: “Non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Metto a fuoco Palermo nei dettagli, perché è Palermo che ha messo a fuoco la mia anima e i miei personaggi. In questo romanzo le due città, quella di Dio e quella degli uomini, intuite da Agostino, si intersecano nella luce e nelle tenebre, e Palermo ha di certo i connotati, i profumi, i colori reali, ma allo stesso tempo è la città degli uomini di tutti i tempi, quella in cui nelle tenebre la grazia si fa strada. Chi leggerà con attenzione coglierà un sottotesto continuo nella storia, quello che lega il dramma della storia a Dio.
D. Padre Pino Puglisi (3P, come viene soprannominato nel libro) è stato beatificato da Papa Francesco ed è stato suo insegnante a scuola. Credo che Ciò che inferno non è sia il primo romanzo laico, a grandissima tiratura, che corre il rischio di avere tra i suoi protagonisti un santo. Come è riuscito a non cadere nell’agiografia di don Pino?
R. Era la sfida principale. Volevo io per primo capire se la cronaca era già agiografica, o se invece la cronaca fosse la manifestazione di un tratto di storia della salvezza, della storia sacra del chinarsi di Dio sull’uomo. Romano Guardini scrive così: «Nessuno prende la realtà sul serio come il santo perché in verità ogni fantasticheria, sulla sua strada irta di pericoli, inesorabilmente si vendicherebbe. Divenire santo significa per l’uomo reale staccarsi da sé, per entrare nel Dio reale». Raccontare la santità è raccontare il massimo realismo e l’uomo Puglisi entrerà nel cuore anche dei non credenti, perché il santo è la pienezza dell’uomo e di fronte ad un uomo tutto d’un pezzo non si può che rimanere affascinati, come è accaduto a me. Mi sono documentato meticolosamente, seguendo anche le tracce del processo di beatificazione, per cogliere questo realismo del santo. E ho trovato gli ingredienti di un’epica quotidiana che ci riguarda tutti. Come trasformare la prosa di ogni giorno nella poesia di una vita bella? La storia racconta questo, ciò che inferno non è in mezzo all’inferno.
D. Cosa nostra sarà sconfitta quando non ci vorranno più gli eroi per sconfiggerla ma sarà diffusa la normale “eroicità” di chi è onesto e lavora per il bene. Da quello che si è potuto desumere finora dal suo romanzo pare essere questo un insegnamento importante che è contenuto lì. Mi sbaglio?
R. No, è proprio così. Il mio non è un romanzo antimafia, non è un romanzo sulla mafia, non è un romanzo di cronaca. È una storia che entra nel mistero del sacrificio: che non è il fatto in sé di morire, ma quello che significa alla lettera (sacrum facere: rendere sacro). 3P rendeva sacre le vite che incontrava perché erano rese sacre da Dio e lui non era altro che al servizio di quelle vite. Riecheggiano le parole di qualcuno: non siete voi che mi togliete la vita, sono io che la dono. Sacrificarsi è donare il proprio tempo, amore, cure, anche quando è difficile riuscire. Lui riusciva perché lasciava che Dio facesse questo con lui. Era innamorato pazzo di Cristo e questo amore traboccava. Credo che chiunque gli si accostasse vedeva un uomo qualunque capace di amare divinamente, sentiva la tenerezza di Dio su di lui, come accadde persino all’assassino. L’eroismo è questo: giorno per giorno non privarsi mai della possibilità di amare ed essere amati. Per questo ho scelto la frase di Dostoevskij in esergo: “l’inferno è la sofferenza di non poter più amare”. Chi trova il segreto per amare sempre nel quotidiano, trova il segreto della vita: fallimenti, sconfitte, cadute non possono distruggere la speranza, perché quella speranza si colloca altrove. In un altrove intoccabile, come un mare in tempesta in superficie e calmo pochi metri sotto.
(Da: ilsussidiario.net)
Il romanzo
Romanzo struggente e profondo, che attraversa l’animo di un adolescente, animato da passione civile e tormentata sensibilità religiosa al tempo stesso. Il protagonista, Federico, fa parte di quella generazione degli anni ’90 che visse come una sorta di perdita dell’innocenza gli attentati a Falcone e Borsellino. “Prima noi non sapevamo cos’era la mafia. O meglio, ce ne tenevamo fuori, era una cosa che non ci riguardava. Con gli attentati di Capaci e via D’Amelio è cambiato tutto. E Puglisi è stato il protagonista di questo nuovo, rinnovato impegno”. D’Avenia non ha scritto un santino, e nemmeno un romanzo antimafia. “La retorica dell’antimafia", dice, "non mi interessa. Quello che mi interessa è capire e far capire come il parroco della borgata più dimenticata della città ha cambiato le cose”.
Lo scrittore, rivivendo la cronaca di quei giorni terribili, ne legge i segni evangelici, a cominciare da come don Puglisi si comportava nel liceo classico Vittorio Emanuele. “Me lo ricordo a scuola: durante l’intervallo passeggiava nei corridoi e rispondeva alle domande dei ragazzi. Non gli piaceva la sala professori: diceva che era piena di professori”. Quel suo modo di deambulare lungo i corridoi era un modo per evangelizzare anche durante l’intervallo. Puglisi invitava gli studenti della Palermo bene ad andare a Brancaccio, quartiere di cui spesso non conoscevano nemmeno l’esistenza. Dovevano giocare a pallone, fare catechismo, aiutare il “parrino” nel Centro Padre Nostro, da lui fondato e finanziato con i soldi dello stipendio di insegnante di religione. “Don Pino sa che l’inferno opera più efficacemente sulla carne tenera: i bambini. Bisogna difendere la loro anima prima che qualcuno gliela sfratti. Custodire ciò che hanno di più sacro”.
D’Avenia nel costruire il romanzo interiore e civile di questo giovane Holden siciliano segue Puglisi attraverso quei fatti, negli anni bui di Palermo, li scruta a fondo e riconosce i segni evangelici di un calvario, fino allo spasimo finale, quel 15 settembre 1993.
“Il libro”, conclude lo scrittore, “è stata anche l’occasione per riconciliarmi con la mia città, Palermo, di cui non avevo capito nulla". Una città, potremmo dire, anch'essa bianca come il latte e rossa come il sangue, dove convivono inferno e paradiso, rappresentata da un dipinto di Raffaello sottratto come se le avessero sottratto l'anima e da una chiesa sconsacrata a cielo aperto, la chiesa dello Spasimo.
Abbiamo bisogno di una fede sempre più grande, certo. La Chiesa vive un momento sempre più tragico di ieri e deve crescere in te la fede perché se non cresce in te la fede non ti basta più la fede che avevi ieri
Divo Barsotti
Sentirsi cristiani vuol dire sentirci fratelli con coloro che non hanno raggiunto la rivelazione di Cristo, vuol dire sentirci fratelli con coloro che hanno ascoltato la parola di Dio ma non hanno ancora intraveduto Gesù vuol dire sentirci fratelli con tutti, capaci di sentire e apprezzare tutto quello che è buono e santo e bello nella creazione, nella vita umana e nel mondo.
Divo Barsotti
Amando l'altro
La presenza di Dio nei santi è fonte di sicurezza anche per noi. Se non ci fossero i santi, noi potremmo certo credere, ma la nostra fede sarebbe come un appello a un Dio che rimane in silenzio, a un Dio che ci può promettere tutto, ma che non pare abbia mantenuto la sua parola. Di qui il senso di angoscia che potrebbe prenderci, se la nostra vita di amore ci legasse unicamente a Dio e non ci legasse anche a tutta un’umanità glorificata in Lui e per Lui.
(Divo Barsotti – Nella comunione dei santi - Milano 1970)
Divo Barsotti
E amando l’altro amerò anche il Signore. Quanti racconti nella letteratura monastica (ma anche nella letteratura tout court, come nello splendido racconto di Tolstoj dal titolo Dove c’è l’amore, c’è Dio) in cui facendo il bene in maniera semplice e quotidiana a un misero, dando da bere a una persona assetata, dando riparo a una persona smarrita, portando sulle spalle un anziano, si scopre di aver fatto questo a Cristo stesso. Non perché quella persona non fosse un vecchio o un assetato o uno che ha perso la strada, ma perché Dio è in quell’amore, in quella uscita da sé in totale gratuità. “L'amore per Dio, scrive Gustavo Gutierrez, non può far altro che esprimersi nell'amore per il prossimo”.
Negli esempi di aiuto e prossimità enumerati nel testo evangelico vi è un aspetto spesso trascurato nella riflessione: l’attitudine di lasciarsi aiutare, di lasciarsi avvicinare, toccare, curare, servire. La capacità e l’umiltà di lasciarsi amare fattivamente. Una capacità che rivela una dimensione di povertà più radicale della malattia o della fame o della nudità e che si chiama umiltà. L’umiltà che può nascere dalle umiliazioni operate dalla vita o procurate dagli uomini. E lasciarsi amare fattivamente significa lasciarsi toccare, affidare il proprio corpo malato o affamato o nudo alle cure di un altro. Del resto, la carità è attenzione e sollecitudine per il corpo dell’altro. E poiché il corpo è la realtà umana più spirituale, è attraverso il contatto con il corpo ferito, mancante, sofferente, bisognoso, che noi ricreiamo le condizioni di dignità dell’uomo ferito, offeso e ingiuriato dalla vita. Nello stesso tempo, noi affermiamo la nostra personale dignità umana prendendoci cura di lui. Ma anche chi si lascia avvicinare così intimamente da esporsi nel proprio bisogno all’attiva carità delle mani e del cuore di altri, osando la propria povertà, attua un’apertura essenziale all’altro e all’essere amato. E così avviene uno scambio di doni, un incontro tra due povertà, la reciprocità di un movimento di amore che, questo sì, è effettivamente un miracolo. Un miracolo che può accadere quotidianamente.
Divo Barsotti
La vita cristiana consiste nell’acquistare
lo Spirito Santo. Per noi si tratta dunque di vivere
nella ricerca, nell’implorazione e poi finalmente
nel possesso e abbandono allo Spirito di Dio.
Quello che importa, quello che è primordiale
per tutti, senza di cui tutte le preghiere non
valgono nulla, è la nostra dipendenza dall’azione
dello Spirito. Ma non
basta acquistarlo, bisogna che lo Spirito Santo viva
in noi e ci porti, ci muova. La nostra vita tanto più
è profonda ed è viva, quanto più lo Spirito di Dio ci
anima. Perciò
la vita cristiana impone prima di tutto questa
preghiera allo Spirito, poi l’obbedienza alla volontà
divina compiuta nello Spirito Santo, poi la docilità
allo Spirito Santo, poi finalmente l’abbandono
perfetto. Tutto il progresso dell’anima è in questo
procedere dell’anima in un lasciarsi possedere
dallo Spirito; se lo Spirito Santo veramente ci
possiede, come possedeva l’umanità di Gesù,
allora noi vivremo la vita stessa di Gesù.
Si tratta dunque di vivere questo abbandono
allo Spirito. E com’è possibile? Perché san Serafino
di Sarov diceva che la vita cristiana consiste prima
di tutto nell’acquisto dello Spirito Santo? Perché
è impossibile abbandonarci fintanto che noi non
siamo consapevoli che lo Spirito Santo vive in
noi. Lo Spirito Santo agisce molto spesso in noi
indipendentemente da noi.
La legge del cristiano è questo abbandono allo
Spirito. Certamente l’abbandono allo Spirito
non vuol dire andar contro i comandamenti, ma
nemmeno soltanto obbedire ai comandamenti,
perché vorrebbe dire obbedire alle tavole di pietra.
La legge di Dio rimane estranea a noi, al di fuori di
noi, mentre Dio si è fatto intimo a noi, e il vivere
la volontà divina consiste soltanto nel lasciarsi
possedere da questo Spirito che in noi vive.
Che tutta l’anima nostra bruci, che tutto l’essere
nostro non sia più che una fiamma, come diceva
un padre del deserto: «“Chi è il monaco? È una
torcia che brucia”. Alzò le mani e tutti videro che
egli era una torcia che bruciava». Anche voi siate una fiamma
Don Divo Barsotti e il Concilio Vaticano II
Il servo di Dio don Divo Barsotti (1914-2006) studiò attentamente il Concilio Vaticano II, i suoi documenti, e ne rimase turbato — pur non mettendone mai in discussione la legittimità –, come scrisse nei suoi diari.
Se c’è qualcuno che non può essere accusato di “turpe” tradizionalismo o di “becero” conservatorismo è il servo di Dio don Divo Barsotti (1914-2006), fondatore della Comunità dei figli di Dio. Anch’egli si fece travolgere dal “folle vento delle novità” fin dagli anni ’40-’50, quando cominciò ad avere vari incontri e rapporti epistolari con illustri personalità della nouvelle theologie (Henri de Lubac, Jean Danielou, Hans Urs von Balthasar, Louis Bouyer), nonché con esponenti del “cattolicesimo democratico” (Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti) e con quelli del “cattolicesimo del dissenso” (David Maria Turoldo e Ernesto Balducci), pur rimanendo indipendente da essi.
Don Divo fu infatti duramente “bastonato” dall’ex Sant’Uffizio quando fu bocciato un suo libro degli anni ’50. A differenza di molti dei nomi citati poc’anzi, egli non si mise mai contro la Chiesa, né pensò ad una ribellione “interna” e “nascosta” in attesa di tempi migliori, così – se pur con amarezza, perché riteneva che le sue ragioni e il suo pensiero non fossero stati sufficientemente esaminati – prese la penna in mano e riconobbe «[…] che alcune espressioni del libro possono indurre in errore… […] In ragione di questi errori o di quelle espressioni che possono indurre in errore, ho creduto mio dovere far ritirare dal commercio il libro»[1]. Chinando dolcemente il capo e accettando l’umiliazione, don Divo capì – dirà in seguito – «che amavo la Chiesa più di me stesso»[2]. Fu proprio per il suo sincero amore alla Chiesa che, secondo noi, il Signore lo mise al riparo da quel “folle vento delle novità” che prese il sopravvento nel mondo cattolico negli anni ’60.
Lettera e spirito del Concilio
Come fu riconosciuto dallo stesso papa Paolo VI, dopo il Vaticano II, non arrivò la “primavera” che egli e il suo predecessore, Giovanni XXIII, avevano sperato, ma un rigidissimo “inverno”[3]. Come fu possibile tutto ciò? Per molti è dovuto al fatto che ha trionfato, nel mondo cattolico, non il vero e proprio insegnamento del Vaticano II (cioè i documenti, la “lettera del Concilio”), ma il “folle vento delle novità” (ovvero il celeberrimo e nefasto “spirito del Concilio”)[4].
È davvero una “diagnosi” giusta? Lettera e spirito non sono forse le due facce della stessa medaglia?
Certamente, col Vaticano II, i novatores non ottennero tutto quello che volevano, ma il fatto che adesso occupino la Gerarchia dalla più alta cattedra significa che, da allora in poi, hanno trovato più porte aperte che chiuse.
Don Divo Barsotti
Don Divo Barsotti studiò attentamente il Vaticano II e i suoi documenti e ne rimase turbato – pur non mettendone mai in discussione la legittimità[5] –, come scrisse nei suoi diari. «Sono perplesso nei riguardi del Concilio medesimo: la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. […]»[6]. Riguardo i documenti del Concilio aggiungerà che «[…] non sono stati impediti gli equivoci, l’ambiguità e soprattutto non è stata impedita la presunzione, non l’ambizione e il risentimento, non la superficialità e la volontà di un rinnovamento che voleva essere uno scardinamento, uno sradicamento della tradizione dogmatica, una diminuzione della tradizione spirituale»[7]. Per don Divo, il Vaticano II, «forse perché ha voluto dir troppo, non ha detto molto»[8].
Questo significa che, per il sacerdote toscano, il Vaticano II è stato un errore? «No di certo», rispose. «La Chiesa aveva bisogno di confrontarsi con la cultura del mondo, e lo Spirito Santo ha impedito che nei documenti si insinuasse l’errore; ma anche se tutto è giusto, nel Vaticano II, non è detto che tutto sia stato opportuno»[9].
Infatti, il documento che più lo allibiva era la costituzione pastorale Gaudium et Spes in quanto «l’ambiguità si manifesta evidente, ed è estremamente grave, nel fatto che il rapporto Chiesa-Mondo non si risolve nel martirio. La Croce non è al centro della teologia del Concilio, non è la soluzione e il compimento della missione della Chiesa»[10]. Da questo non può che derivarne che il Vaticano II «[…] È ben povera cosa nei confronti dei concili che l’hanno preceduto. Il numero stesso dei documenti più che dire la sua grandezza, dice la presunzione dei vescovi, dice la povertà del suo insegnamento»[11].
La presunzione dei padri e dei periti conciliari
Don Divo non ha mancato di rimproverare duramente i padri e i periti conciliari. Li mise “a nudo” affermando che «la difesa ad oltranza del Concilio dice la cattiva coscienza di chi lo difende… Se è opera di Dio, non ha bisogno di essere difeso. […]»[12].
Ai padri conciliari e ai vescovi del post-concilio rinfacciava: «Non hanno voluto condannare l’errore e hanno preteso di “rinnovare” la Chiesa, quasi che il “loro” Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto»[13]. Per questo il sacerdote toscano dichiarò: «[…] Io non so che farmene di una Chiesa che nasca oggi. Se si rompe l’unità la Chiesa è già morta. La Chiesa è viva soltanto se, senza soluzione di continuità, io sono nella Chiesa uno con gli Apostoli per essere uno con Cristo»[14]. Perciò non esitò a richiamare severamente i successori degli Apostoli al loro compito più importante: confermare nella Fede. I vescovi «[…] mi dicano quello in cui devo credere e quello che devo rigettare»[15].
Il gesuita Teilhard de Chardin è stato, secondo don Divo, il “cattivo maestro” di molti periti conciliari.
Con i periti conciliari e i teologi loro discepoli non fu meno tenero: «[…] Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò loro quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo. […] Tutto il resto è retorica. Soltanto la santità salva la Chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più»[16]. Difatti «la novità di una teologia – ha scritto don Divo – che rinnega la teologia del passato, non è più una novità cristiana»[17].
Don Divo in particolare mise in guardia dai teologi “discepoli” del gesuita Pierre Teilhard de Chardin († 1955), poiché questi è «il pensatore che sta dietro a molti degli errori che inquinano la teologia (e la mentalità) moderna. È stato il maestro di certi periti ed esperti conciliari»[18]. Proprio verso di essi sentiva un «senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, un’orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico»[19].
Inoltre non riusciva a capire «come si potesse essere così duri con Lefevbre (che sbagliava, ma pur sempre sul piano disciplinare) e lasciar correre chi, come Kung, Curran, Schillebeeckx, metteva in discussione il Dogma»[20].
I responsabili e la causa della crisi della Chiesa
Per don Divo Barsotti i veri responsabili della crisi della e nella Chiesa sono i teologi[21] (oggi molti dei quali siedono in molte cattedre episcopali). Egli individuava infatti la causa di questa terribile crisi nella superba «leggerezza di aver voluto provocare e tentare il Signore»[22].
Poiché «tutti gli insegnamenti del Concilio, tutta l’azione della Chiesa, tutto è sospeso nel vuoto – ha spiegato il sacerdote toscano – se la Chiesa non ha più il coraggio di rendere testimonianza della divinità del Cristo»[23].
BIBLIOGRAFIA
Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre (P. Serafino Tognetti, Ed. San Paolo, 2012).
Sentinelle nel post-Concilio. Dieci testimoni controcorrente (Francesco Agnoli e Lorenzo Bertocchi, Cantagalli, 2011).
NOTE
[1] Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre (P. Serafino Tognetti, Ed. San Paolo, 2012, pagg. 187-191).
[2] Ibidem.
[3] «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, d’incertezza» (Paolo VI, omelia della solennità dei Santi Pietro e Paolo del 29 giugno 1972).
[4] Posizione sostenuta da papa Benedetto XVI quando, durante il discorso alla Curia romana del 22 dicembre del 2005, parlò di due ermeneutiche conciliari: la prima è quella corretta (riforma nella continuità), la seconda è quella erronea (rottura e discontinuità).
[5] «Il Concilio era certamente legittimo, ma non aveva messo che solo delle virgole al discorso continuo della Tradizione. Ed ero incapace di capire perché si citasse quasi esclusivamente questo Concilio ultimo» (Don Divo Barsotti, Nel Figlio al Padre, pag. 257)
[6] Don Divo Barsotti, Battesimo di fuoco, pag. 58.
[7] Don Divo Barsotti, La Presenza donata, pag. 103.
[8] Don Divo Barsotti, Nel cuore di Dio. Diario 11 febbraio 1984 – 12 marzo 1985, pag. 284.
[9] Un filosofo, un mistico, un teologo suonano l’allarme alla Chiesa (Sandro Magister, 07-02-2005).
[10] Don Divo Barsotti, L’Attesa. Diario 1973-1975, pag. 213-214
[11] Don Divo Barsotti, Nel Figlio al Padre, pag. 257.
[12] Don Divo Barsotti, Battesimo di fuoco, op. cit., 272.
[13] Don Divo Barsotti, Fissi gli occhi nel sole, pag. 117.
[14] Don Divo Barsotti, Le responsabilità dei Preti. Prediche al Papa, 2010, pagg. 105-106
[15] Don Divo Barsotti, I cristiani vogliano essere cristiani, a cura di P. Canal, pag. 272.
[16] Don Divo Barsotti, Battesimo di fuoco, pag. 58.
[17] Don Divo Barsotti, Dopo il Concilio, 1970, pag. 90.
[18] Don Divo Barsotti, I cristiani vogliano essere cristiani, a cura di P. Canal, pag. 164.
[19] Don Divo Barsotti, Battesimo di Fuoco, pag. 58.
[20] Don Divo Barsotti, I cristiani vogliano essere cristiani, a cura di P. Canal, pag. 183-184.
[21] Citato in S. Albertazzi, Sull’orlo di un duplice abisso, Edizioni San Paolo, Milano 2009, pag. 37.
[22] Don Divo Barsotti, Battesimo di fuoco, pag. 27.
[23] Citato in S. Albertazzi, Sull’orlo di un duplice abisso, Edizioni San Paolo, Milano 2009, pag. 37.
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Don Divo Barsotti lo aveva compreso bene: “La Chiesa da decenni parla di pace e non la può assicurare, non parla più dell’inferno e l’umanità vi affonda senza gorgoglio. Non si parla del peccato, non si denuncia l’errore. A che cosa si riduce il magistero? Mai la Chiesa ha parlato tanto come in questi ultimi anni, mai la sua parola è stata così priva di efficacia. “Nel mio nome scacceranno i demoni …”. Com’è possibile scacciarli se non si crede più alla loro presenza? E i demoni hanno invaso la terra. La televisione, la droga, l’aborto, la menzogna e soprattutto la negazione di Dio: le tenebre sono discese sopra la terra. […]. Forse la crisi non sarà superata finché, in vera umiltà, i vescovi non vorranno riconoscere la presunzione che li ha ispirati e guidati in questi ultimi decenni e soprattutto nel Concilio e nel dopo-Concilio. Essi, certo, rimangono i “doctores fidei”, ma proprio questo è il loro peccato: non hanno voluto definire la verità, non hanno voluto condannare l’errore e hanno preteso di “rinnovare” la Chiesa quasi che il “loro”
Il miracolo di ogni giorno
Divo Barsotti
E amando l’altro amerò anche il Signore. Quanti racconti nella letteratura monastica (ma anche nella letteratura tout court, come nello splendido racconto di Tolstoj dal titolo Dove c’è l’amore, c’è Dio) in cui facendo il bene in maniera semplice e quotidiana a un misero, dando da bere a una persona assetata, dando riparo a una persona smarrita, portando sulle spalle un anziano, si scopre di aver fatto questo a Cristo stesso. Non perché quella persona non fosse un vecchio o un assetato o uno che ha perso la strada, ma perché Dio è in quell’amore, in quella uscita da sé in totale gratuità. “L'amore per Dio, scrive Gustavo Gutierrez, non può far altro che esprimersi nell'amore per il prossimo”.
Negli esempi di aiuto e prossimità enumerati nel testo evangelico vi è un aspetto spesso trascurato nella riflessione: l’attitudine di lasciarsi aiutare, di lasciarsi avvicinare, toccare, curare, servire. La capacità e l’umiltà di lasciarsi amare fattivamente. Una capacità che rivela una dimensione di povertà più radicale della malattia o della fame o della nudità e che si chiama umiltà. L’umiltà che può nascere dalle umiliazioni operate dalla vita o procurate dagli uomini. E lasciarsi amare fattivamente significa lasciarsi toccare, affidare il proprio corpo malato o affamato o nudo alle cure di un altro. Del resto, la carità è attenzione e sollecitudine per il corpo dell’altro. E poiché il corpo è la realtà umana più spirituale, è attraverso il contatto con il corpo ferito, mancante, sofferente, bisognoso, che noi ricreiamo le condizioni di dignità dell’uomo ferito, offeso e ingiuriato dalla vita. Nello stesso tempo, noi affermiamo la nostra personale dignità umana prendendoci cura di lui. Ma anche chi si lascia avvicinare così intimamente da esporsi nel proprio bisogno all’attiva carità delle mani e del cuore di altri, osando la propria povertà, attua un’apertura essenziale all’altro e all’essere amato. E così avviene uno scambio di doni, un incontro tra due povertà, la reciprocità di un movimento di amore che, questo sì, è effettivamente un miracolo. Un miracolo che può accadere quotidianamente.
Divo Barsotti
Esegeta di Leopardi e di Dostoevskij
Ferdinando Castelli
Riportiamo una accurata analisi del Padre Ferdinando Castelli S.I, sul pensiero di don Divo Barsotti, fondatore della Comunità dei Figli di Dio, recentemente scomparso, circa la spiritualità di Leopardi e Dostoevskij.” In Leopardi il dolore non nasce solo dalla fine delle illusioni. Il dolore ha una radice religiosa: l'uomo cerca disperatamente un suo partner che non può che essere fuori dal mondo mutevole.” «S'avessi io l'ale»
“La visione dell'uomo come epifania di Dio, in senso sia positivo sia negativo, viene descritta da Dostoevskij nei suoi personaggi: una galleria che offre una rappresentazione metafisica e religiosa del dramma umano che è la nostra vita. Tutti sono alla ricerca di verità, di vita, di felicità, di libertà; tutti danno l'idea di idee incarnate; tutti sono portatori di un messaggio. Dostoevskij li insegue, li scova nei segreti del loro animo, non di rado si immedesima in essi, rivivendo esperienze personali. Pochi scrittori «hanno saputo discendere negli abissi del cuore umano come Dostoevskij, e proprio per questo ben pochi hanno saputo dirci più di lui come l'uomo sia al centro di tutto, come sia senza fondo e senza confine la sua vita».
I due testi che seguono sono tratti dalla Civiltà Cattolica, 3 febbraio 2007, quaderno 3759, pp. 231-243. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questi testi sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Divo Barsotti è nato a Palaia (PI) nel 1914.
Pochi anni dopo l'ordinazione sacerdotale per interessamento di Giorgio La Pira si è trasferito a Firenze, dove ha iniziato la sua attività di predicatore e di scrittore. Oggi è unanimemente riconosciuto come mistico e come uno degli scrittori di spiritualità più importanti del secolo. La sua produzione letteraria è notevolissima: più di 150 libri, molti dei quali tradotti in lingue straniere, tra cui il russo e il giapponese, più centinaia di articoli presso quotidiani e riviste di spiritualità. Ha scritto commenti alla Sacra Scrittura, studi su vite di santi, opere di spiritualità, Diari e poesie. Tra i sui testi di più importanti: Il Mistero cristiano nell'anno liturgico; Il Signore è uno; Meditazioni sull'Esodo; La teologia spirituale di San Giovanni della Croce; La legge è l'amore; Cristianesimo russo; La religione di Giacomo Leopardi; La fuga immobile.
Ha fondato la "Comunità dei figli di Dio", famiglia religiosa di monaci formata da laici consacrati che vivono nel mondo e religiosi che vivono in case di vita comune; in tutto circa duemila persone. La Comunità è presente in Italia e nel mondo (Africa, Australia, Sri Lanka, Colombia) e si impegna a vivere la radicalità battesimale con i mezzi che sono propri della grande tradizione monastica.
Vicino per anni alla sensibilità del cristianesimo orientale, Divo Barsotti ha fatto conoscere in Italia le figure dei santi russi Sergio, Serafino, Silvano. Nel 1972 è stato chiamato a predicare gli Esercizi spirituali in Vaticano al Papa.
Ha insegnato teologia presso la Facoltà teologica di Firenze e ha vinto diversi premi letterari come scrittore religioso. Ha predicato in tutti i continenti e ultimamente è stato inserito tra le dieci personalità religiose più eminenti del '900, in Storia della spiritualità italiana, curato da P. Zovatto (Edizioni Città Nuova).
Don Divo è ritornato alla casa del Padre il 15 febbraio 2006
26/08/2007
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Dostoevskji mi ha svegliato dal sonno
Due testi di Barsotti ci introducono alla comprensione del suo Dostoevskij. Il primo è nella premessa al volume: «Io debbo molto a Dostoevskij e per onestà, oltre che per gratitudine, io dovevo scrivere. Non importa il giudizio che si vorrà dare oggettivamente del lavoro. Il lavoro comunque, se non rivelerà cose nuove, potrà sempre rivelare qualcosa di me e prima di tutto a me stesso [...]. L'opera di Dostoevskij è stata per me un messaggio e mi ha svegliato dal sonno». Sonno? Un altro testo chiarisce: «Io devo la mia "conversione" a Dostoevskij [...]. Ci fu un momento della mia vita in cui io sognavo di diventare un grande poeta, ed ero perciò sul punto di lasciare il seminario. Poi cominciai a leggere Dostoevskij, che mi aprì gli occhi».
Per Barsotti, Dostoevskij è certamente un grande scrittore, ma è anche un profeta nel senso che svela l'uomo a se stesso, ne scandaglia le pieghe nascoste, ne rivela la grandezza e la miseria, ne proclama la missione, ne narra la drammaticità delle scelte. Profeta soprattutto perché, appassionato com'è del Cristo, lo addita come amore che redime e verità che salva. «Forse è la sua passione per Cristo che mi svegliò dal sonno come non mi aveva svegliato né la visione della Provvidenza in Manzoni, né la teologia di Dante». Attraverso Cristo don Divo avverte la presenza di Dio che gli parla e fuga i fantasmi che abitavano la sua crisi.
«Per lui mi ha parlato Dio. L'ho riconosciuto nel tormento di Raskòlnikov dopo il delitto, nella pietà e nella forza di Sonja [...]; l'ho amato nell'umiltà e nella dolcezza di Sonia de L'adolescente, nella luminosa bellezza di Macario, l'ho sentito presente nell'umiltà di Tichon ma anche nell'orrore della morte di Kirillov e nel la condanna di Stavrògin, finalmente l'ho veduto nello staretz Zosima e in Aljòsa. Sempre Dio era presente. La sua presenza dava un senso agli avvenimenti, dava un nome a ogni uomo. Il silenzio non era vuoto, era il silenzio di Dio che riempiva di sé ogni luogo, ogni avvenimento, era la vita nella comunione con lui, era la morte nella volontà di rifiutarlo, di volerlo negare» (p. 6 s). Il volume si sviluppa sostanzialmente su questi convincimenti, esami nati nelle loro varie sfaccettature lungo l'arco delle quattro parti: L'uomo e lo scrittore, I personaggi dei cinque maggiori romanzi, Il messaggio di Dostoevskij, La teologia di Dostoevskij.
L'uomo come epifania di Dio
Il concetto di Dostoevskij sulla religione si fonda sulla sua visione dell'uomo: «L'uomo supera la natura e annuncia un'altra realtà» (p. 20). Quale altra realtà? La realtà di Dio come realizzazione delle aspirazioni umane che superano il puro ambito naturale e riempiono il vuoto di Dio, che comporta malessere ontologico e morte. Dio non è un accessorio della natura umana, ne è il respiro vitale, è la presenza senza la quale essa si smarrisce e si frantuma. « È Dio che non cessa di torturare chi ha compiuto il delitto, finché nel pentimento non trova la pace del perdono, è Dio che vive nella pietà di Sonia per Raskòlnikov, nel suo amore senza limiti per i fratelli, è Dio che vive nella pietà e semplicità del principe Myskin, nella pace di Macario, il pellegrino che ormai ha finito di camminare e attende sereno la morte» (p. 21).
Contro Dio c'è il maligno, che è «la realtà del male in una vita di menzogna, in una volontà di distruzione e di morte». Così la vi ta umana è una lotta tra Dio e il maligno, che si contendono il suo dominio. Per descriverla Dostoevskij scende negli abissi del cuo re dove abitano il peccato e la Grazia, e vede il peccato che cor rode l'uomo, e Dio impegnato a conservare nella sua creatura la propria immagine nella quale risplende soprattutto l'amore.
Da queste considerazioni lo scrittore deduce che l'inferno e il paradiso non sono realtà estranee all'uomo. Sono nel suo cuore: le accoglie nella sua vita come parte di sé, e con esse si avvia all'eternità. Deduce anche che «l'uomo non è senza Dio» (p. 22). E’ in rap porto con Dio «non soltanto nella misura in cui lo ama; egli è in un suo rapporto con Dio, sia che questo sia odio o sia amore. Anche nella trasgressione alla legge egli vive un suo rapporto con Dio. Non può chiudersi in sé, rifiutare un suo rapporto con lui; nel pec cato stesso l'uomo, che vorrebbe sganciarsi da Dio per affermarsi e acquistare una sua "libertà", non vive nell'opposizione al suo Creatore che la sua distruzione e la sua morte. Al contrario, vive già un suo rapporto d'amore con Dio nel suo rapporto con la creazione, e più ancora nel suo rapporto di amore con l'uomo, perché la crea zione è il primo segno di Dio, e l'uomo, immagine di Dio, è il segno più alto della sua presenza. Così nell'amore del prossimo l'uomo vive la sua più alta esperienza di Dio» (p. 152).
Personaggi come testimoni
La visione dell'uomo come epifania di Dio, in senso sia positivo sia negativo, viene descritta da Dostoevskij nei suoi personaggi: una galleria che offre una rappresentazione metafisica e religiosa del dramma umano che è la nostra vita. Tutti sono alla ricerca di verità, di vita, di felicità, di libertà; tutti danno l'idea di idee incarnate; tutti sono portatori di un messaggio. Dostoevskij li insegue, li scova nei segreti del loro animo, non di rado si immedesima in essi, rivivendo esperienze personali. Pochi scrittori «hanno saputo discendere negli abissi del cuore umano come Dostoevskij, e proprio per questo ben pochi hanno saputo dirci più di lui come l'uomo sia al centro di tutto, come sia senza fondo e senza confine la sua vita» (p. 23).
Nella galleria dei personaggi che testimoniano in negativo la presenza di Dio, Barsotti fa incontrare gli eroi del romanzo I de moni: Nikolaj Stavrògin, Pètr Verkovenskij, Aleksej Kirillov. Qui lo scrittore narra il tentativo di un gruppo di «indemoniati» di sganciare il popolo dalle miserie del vivere quotidiano e di liberarlo da ogni alienazione, sostituendo la fede in Dio con la religione del popolo, non importa se ciò debba realizzarsi con la for za e il massacro. Kirillov vuole la divinizzazione dell'uomo, nega Dio, ne desidera la morte, e per realizzare tutto ciò si suicida; Stavrògin dissipa ogni sua possibilità nel vizio e nella volontà di sfidare la legge e la pubblica opinione: incapace di amare, «non vive che il vuoto». Pètr « è l'incarnazione del maligno, tutto in lui è menzogna, il suo impegno è quello di contraffare la verità, la sua opera è la distruzione e la morte» (p. 72).
Dalla lettura de I demoni si esce come da un incubo perché, re spinto Dio, che è vita, fa irruzione la morte. «La ribellione verso Dio, l'ateismo, il peccato non sembrano dare alcun frutto. La morte è la conseguenza irreparabile del peccato. Verso questa morte, che è il suicidio di Stavrògin, converge tutto il romanzo, ne è il compimento e il cuore» (p. 61). Ne I fratelli Karamazov la morte si configura con la follia. Ivàn nega Dio per orgoglio e lo sostituisce con la propria ragione; conseguentemente diviene pre da di pensieri e desideri malsani, incontra Satana e precipita nel la follia. Morte, follia, disperazione, solitudine, vuoto ínteriore: sono l'eredità di quanti rifiutano Dio.
Tra i personaggi che testimoniano in positivo la presenza di Dio, Barsotti ne predilige due: Sonia in Delitto e castigo e lo staretz Zosima ne I fratelli Karamazov. Sonia è «la figura cristianamente più pura di tutta l'opera di Dostoevskij: è una prostituta, ma vive incontaminata in un mondo di peccato» (p. 129). Per salvare la fa miglia dalla miseria, vende il suo corpo, ma il peccato non tocca la sua anima. «La sua bellezza è tutta spirituale. La sua apparizione, la sua presenza non turba, non eccita i sensi. Può discendere e può vivere nell'ambiente di peccato e di depravazione e non contaminarsi; anzi è lei che purifica [...]. Il suo sembra l'atteggiamento stesso di Dio nei confronti dei peccatori» (p. 40 s). Sa che la sua condizione non le consente di vivere una vita sacramentale e non osa partecipare alla vita della Chiesa, ma legge il Vangelo, che la fortifica e le dà la forza di accettare la sua abiezione.
Nello staretz Zosima, Dostoevskij ha inteso offrire un'icona del cristianesimo: un'icona che fosse la negazione di quanto, sullo stesso argomento, aveva sostenuto Ivàn Karamazov. Nel cristiane simo, personificato nello staretz, c'è un'invasione di pace, di gioia, di forza, di amore. Nella luce della fede tutta la realtà si trasfigura.
La teologia di Dostoevskij
La figura dello staretz ci introduce nell'ambito di quanto Barsotti chiama, un po' enfaticamente, La teologia di Dostoevskij. In realtà, lo scrittore non è un teologo né ha inteso fare teologia. E, un analista dell'animo umano; indagandone la natura, le esigenze e le leggi, intuisce che l'uomo è immagine di Dio e che, se distrugge questa immagine, distrugge se stesso e diventa immagine del maligno. Al centro del mondo dostoevskiano dunque c'è «l'uomo, e nell'uomo si fa presente il mistero stesso di Dio. La vita dell'uomo è lo scontro del male e del bene; il problema del ma le e la concezione del bene dominano tutti i romanzi, e il bene e il male suppongono la libertà, postulano Dio» (p. 143). In Dio c'è la vita e la pace, senza Dio c'è la disgregazione e la rovina.
Il problema dell'esistenza e della natura di Dio ha tormentato lo scrittore. È approdato alla fede non per via di ragionamento, ma attraverso la conoscenza di Gesù, incarnazione dell'amore che salva. Una fede, la sua, conquistata metro per metro, giorno do po giorno, durante un'esistenza trascorsa all'insegna dell'insicurezza, della sofferenza e della macerazione interiore. Una volta incontrato, Cristo non ha mai cessato di presentarglisi come salvezza dell'uomo, sorgente e salvaguardia della libertà, ideale di ogni grandezza, fondamento della civiltà e della convivenza.
Barsotti difende l'ortodossia della fede cristiana dello scrittore contro quanti sostengono che la sua, più che religione cristiana, è religione del popolo e della terra. «E certo che la tentazione di una religione del popolo e della terra non è stata mai assente dal la sua vita», ma «quando scriveva I demoni [in cui si ipotizza questa concezione] aveva ben chiaro che Dio non si identificava con l'anima di un popolo, e che la fede in Dio trascendeva una fede nel destino della nazione» (p. 142).
E la tentazione del «Dio russo»? Questa tentazione «rimase [in lui] fino alla fine, ma non provocò il suo allontanamento da Cristo. Il Cristo ha rotto l'incantesimo di una natura chiusa, nella quale l'uomo è prigioniero. Quel Dio che si è incarnato nel Cri sto non è, come nel paganesimo, una personificazione o un elemento della natura, ma è un Dio che trascende la natura. Nel rapporto con lui, l'uomo è salvo precisamente perché rompe l'incantesimo di una natura che lo tiene prigioniero. Nel suo rapporto con Cristo ogni uomo è salvo, perché Dio lo ama, e non è inghiottito e digerito dal processo del tempo e della storia: l'uomo supera la natura e supera il tempo» (p. 144).
Il Dio della religione di Dostoevskij pertanto «non si confonde col divino della natura e non è il Dio della metafisica, ma non è neppure il Dio della storia: è il Dio che si è rivelato all'uomo nel la vita e nella morte del Cristo, è, in ultima istanza, il Dio che vive nel cuore dell'uomo» (p. 1.45). E vero che questo Dio «non è mai esplicitamente il Dio Trinità della rivelazione cristiana», ma «non si può chiedere a un romanziere un trattato di teologia». E anche vero che lo scrittore «esplicitamente non parla dell'incarnazione», tuttavia la centralità del suo Cristo e l'amore che gli porta «suppongono una sua trascendenza». A questo proposito vorremmo ricordare la splendida affermazione cristologica - Gesù Cristo è il Verbo fatto carne - che si trova nei Taccuini per «I demoni». Dopo aver respinto la concezione, in quel tempo ricorrente, di un Cristo soltanto uomo, filosofo benefico e maestro di vita, afferma: «Ma io e voi, Satov, sappiamo che sono tutte sciocchezze, che Cristo-uomo non è il Salvatore e fonte di vita e che la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e che la pace per gli uomini, la fonte della vita e la salvezza dalla disperazione per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la garanzia per l'intero universo si racchiudono nelle parole: Il Verbo si è fatto carne e la fede in queste parole» [8].
Conclusione
Come definire i due volumi di Barsotti? Non sono opera criti ca: nessuna nota, nessun riscontro con altri studiosi, nessun confronto interpretativo. Don Divo va avanti per conto suo, solitario e tranquillo, in ascolto soltanto di se stesso. Li definiremmo per tanto una conversazione con due eccellenti compagni di strada, Leopardi e Dostoevskij, fatta con intelligenza d'amore e suggerita da comuni esperienze di vita e da approfondimenti spirituali. Volumi ricchi d'interesse, vivi, solcati da squarci di luce, per vari aspetti simpatetici. Non privi di limiti: ripetizioni, talune forzature interpretative, qualche carenza d'informazione. -
Se volessimo sintetizzarli in poche battute, trascriveremmo un pensiero del loro autore: «Tutto è ombra; ogni creatura, ogni avvenimento è segno. L'unica realtà sei Tu - e solo l'amore ti scopre» [9].
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8 8 F. DOST0EVSKJI, I demoni. I taccuini per «I demoni», Firenze, Sansoni, 1958,1.012.
9 9 D. BARSOTTI, Nel cuore di Dio, Bologna, Edb, 1991, 68.
Don Divo Barsotti
Gianni Gennari
Divo Barsotti: prete, maestro, mistico, solitario, schivo e insieme trascinatore. Parlava poco, ha scritto moltissimo, vivendo in un eremo: amato da tanti, seguito dai semplici e stimato dai sapienti, libero con tutti, nella Chiesa, ma solo per Dio, unico centro della sua vita. Divo: forse mai un nome è stato così smentito dalla vita, 92 anni, trascorsa quasi nascosta: apparentemente pochi fatti, tanto silenzio, tanta preghiera, tantissimi scritti: più di 160 libri tradotti in moltissime lingue. Nasce a Palaia, in Toscana nel 1914 e vive tra Firenze e Settignano, nell'eremo di San Sergio dove ha fondato la Comunità dei Figli di Dio, e dove è morto il 15 febbraio 2006. Ha riflettuto, pregato, meditato, taciuto e scritto, don Divo, e i suoi libri sono stati una fonte cui si sono abbeverate innumerevoli schiere di alunni, discepoli, anche senza frequentarlo. Ha vissuto nella Chiesa cattolica, apertamente, ma si potrebbe dire non primariamente per essa nella sua dimensione visibile e terrena: tutto rivolto a Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, don Divo. La sua Messa era una esperienza forte per i presenti e durava ore. Maestro: la sua parola tranquilla, semplice, scarna, approfondiva i passi della Scrittura aprendo sentieri sempre nuovi. Teologo: capace di tradurre in parole umane e comprensibili a tutti gli oggetti della fede, senza indulgenze alle mode, attento soprattutto a non svendere mai la verità divina per correre dietro alle opinioni diffuse. Non gli interessava il successo, o la notorietà: pochissime interviste, per decenni nessuna. Quasi mai visto in Tv, salvo circostanze pubbliche e solenni, e con altri. Mistico, nel senso di uno che si fa così profondamente invadere dallo Spirito del Padre e del Figlio da diventare per chi lo accosta come un incontro con la realtà stessa divina… Lui in apparenza forse scorbutico, perché rifuggiva dal chiasso e dalla pubblicità, ma era un libro aperto per chi si accostava a lui per trovare qualcosa che veniva dall'alto. Ha meditato e scritto soprattutto sulla Bibbia, libro per libro, capitolo per capitolo, con riflessioni che erano e sono lampi di luce che spingono a leggere ancora, a pregare, ad ascoltare e a vivere. È stato in relazione continua con i più grandi teologi, ricambiato e stimato, e anche con uomini ai vertici della Chiesa istituzione, fino ai Papi, e il suo percorso di pensiero e dottrina è tra quelli che hanno davvero anticipato di decenni alcune grandi novità del Concilio Vaticano II, e insieme quello che ne ha indicato con chiarezza franca e tenace i possibili itinerari che invece di tradurre la fede di sempre la tradivano con esiti che potevano essere disastrosi… Profondo conoscitore della spiritualità orientale, ha vissuto l'ecumenismo degli spiriti anche quando quello degli scritti e degli incontri era difficile, lontano e guardato con sospetto. Ha approfondito a lungo lo studio della santità vissuta nei secoli da figure grandi che hanno impreziosito la vita delle comunità cristiane. Quando dominava ancora, e da decenni, la teologia dei manuali astratti fatti di logica e citazioni autorevoli, lui indicava con forza la necessità di tornare alle fonti, la Bibbia innanzitutto, i grandi Padri della Chiesa, i santi, i testi liturgici che guidavano da 2000 anni la vita concreta della Chiesa di Cristo. Anche per questo qualche sua opera, come Commento all'Esodo, nel 1960 ebbe difficoltà in Italia con la Santa Sede, fu pubblicato solo in Francia ed ebbe il lasciapassare del Sant'Offizio solo dopo il Concilio, Nel 1975 – come per una rivincita non certo voluta da lui – Paolo VI gli chiese di predicare gli esercizi al Papa, e alla Curia Romana. Per molti aspetti è stato anche un uomo solo: solo alla ricerca ed al cospetto di Dio, Uno e Trino, mistero e parola, silenzio e fuoco, pace e rinnovamento. La sua Comunità dei Figli di Dio, fatta di uomini e donne, sposati e celibi, che lavorano e vivono in silenzio, ne continua la missione. E lui? Da lassù continua come sempre: preghiera e silenzio, solitudine con Dio e amore ai fratelli, figli di Dio…e lassù sono veramente tutti.
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