“Dio ama ognuno di noi come se ci fosse solo uno di noi.”
Sant'Agostino
Mi dà speranza un Signore che mi assicura: il tuo desiderio di amore è già amore. Il tuo desiderio di preghiera è già preghiera. Il tuo desiderio di incontrarmi è già incontro
Tu non mi cercheresti se io non ti avessi già trovato
Sant'Agostino
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La vita di Sant'Agostino, vescovo d'Ippona e dottore della Chiesa
Agostino nasce il 13 novembre del 354 a Tagaste, in Africa. Viene educato dalla madre Monica alla fede cattolica, ma non ne segue l’esempio. Adolescente vivace, arguto ed esuberante, intraprende lo studio della retorica e il suo rendimento è eccellente. Ama la vita e i suoi piaceri, coltiva amicizie, insegue amori voluttuosi, adora il teatro, ricerca divertimenti e svaghi. Dopo i primi studi a Tagaste e a Madaura, prosegue la sua formazione di retore, grazie anche al sostegno economico di un amico del padre, a Cartagine, dove si innamora di una ragazza. Poiché di rango inferiore al suo, può renderla soltanto sua concubina. Frutto di questa relazione è Adeodato. Agostino, padre a soli 19 anni, resta fedele a questa donna e si assume la responsabilità del ménage “familiare”. Ma la lettura dell’Ortensio di Cicerone cambia il suo modo di vedere le cose. La felicità, scrive il grande oratore, consiste nei beni che non periscono: la sapienza, la verità, la virtù. Agostino decide così di volgersi alla loro ricerca.
La ricerca della Verità
Comincia dalla Bibbia, ma, abituato com’è a testi altisonanti, la trova grossolana e illogica. Si accosta allora al manicheismo. Rientrato a Tagaste apre una scuola di grammatica e retorica, ma la vita che conduce non lo appaga e si trasferisce a Cartagine sperando in un futuro migliore. E invece continua a essere insoddisfatto. Si accosta al manicheismo, ma la sua sete di verità non ne è placata. Il giovane e promettente retore cerca così nuovi lidi e nel 382 si trasferisce a Roma con la compagna e il figlio, all’insaputa della madre che intanto lo aveva raggiunto a Cartagine. Nella capitale dell’impero romano Agostino mantiene comunque i contatti con i manichei, dai quali riceve sostegni e appoggi. La sua carriera va a gonfie vele, nel 384 ottiene la cattedra di Retorica a Milano, eppure l’inquietudine interiore lo tormenta ancora.
La conversione: “Prendi e leggi”
L’ambizione viene saziata ma non il cuore. Per affinare la sua “ars oratoria” ascolta i sermoni del vescovo Ambrogio. Vuole carpirne le capacità dialettiche, e invece le parole del presule lo toccano nel profondo. Intanto si trasferisce a Milano la madre Monica, che gli resta accanto soprattutto con le sue preghiere. Si accosta sempre di più alla Chiesa cattolica e ne diviene catecumeno: ora gli ci vuole una moglie cristiana più che una concubina. La donna che conviveva con lui da anni torna in Africa. Ancora travagliato, Agostino divora testi di filosofia e si immerge nella Sacra Scrittura. È tentato dall’esperienza dei pensatori greci, attratto dallo stile di vita degli asceti cristiani, ma non riesce a decidere. É un giorno dell’agosto 386, quando, disorientato e confuso, lasciatosi andare a un pianto dirotto e disperato, gli pare di sentire una voce: “Prendi e leggi!”. La considera un invito a dirigersi alle lettere di San Paolo riposte su un tavolo e ad aprirle a caso. “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne” (Rm 13, 13-14). La lettura di quei brevi versetti lo folgora. Decide di cambiare vita e di dedicare tutto sé stesso a Dio. Viene battezzato da Ambrogio nella notte fra il 24 e il 25 aprile del 387 e desiderando tornare in Africa parte alla volta di Roma per imbarcarsi ad Ostia. Qui muore la madre Monica.
La prima comunità agostiniana e il ministero episcopale
Rientrato a Tagaste Agostino fonda la sua prima comunità. Tra la fine del 390 e l’inizio del 391 si trova casualmente ad Ippona, nella basilica dove il vescovo Valerio sta parlando ai suoi fedeli della necessità di un presbitero per la diocesi. Agostino, noto ai più per il suo esemplare stile di vita, viene così sospinto dinanzi al presule che lo ordina sacerdote. Convinto di dover vivere votato a Dio, studiando e meditando le Scritture, comprende di essere chiamato ad altro. Diviene vescovo di Ippona, succedendo a Valerio, ed esercita il ministero episcopale per oltre 40 anni. Scrive svariate opere dove combatte le eresie dell’epoca e riesce a conciliare fede e ragione, innumerevoli i suoi sermoni e tantissime le lettere. Tra le sue opere più note Il libero arbitrio, La Trinità, La città di Dio. Revisiona, con spirito critico, tutti i suoi trattati e le sue omelie nelle Ritrattazioni. Una menzione a sé meritano Le confessioni, in cui Agostino, già vescovo, si racconta lasciando emergere in modo magistrale la sua interiorità, la storia del suo cuore. Muore il 28 agosto del 430.
Preghiera alla Santissima Trinità
Sant'Agostino
L'anima mia vi adora, il mio cuore vi benedice e la mia bocca vi loda, o santa ed indivisibile Trinità: Padre Eterno, Figliuolo unico ed amato dal Padre, Spirito consolatore che procedete dal loro vicendevole amore.
O Dio onnipotente, benché io non sia che l'ultimo dei vostri servi ed il membro più imperfetto della vostra Chiesa, io vi lodo e vi glorifico.
Io vi invoco, o Santa Trinità, affinché veniate in me a donarmi la vita, e a fare del mio povero cuore un tempio degno della vostra gloria e della vostra santità. O Padre Eterno, io vi prego per il vostro amato Figlio; o Gesù, io vi supplico per il Padre vostro; o Spirito Santo, io vi scongiuro in nome dell'Amore del Padre e del Figlio: accrescete in me la fede, la speranza e la carità.
Fate che la mia fede sia efficace, la mia speranza sicura e la mia carità feconda. Fate che mi renda degno della vita eterna con l'innocenza della mia vita e con la santità dei miei costumi, affinché un giorno possa unire la mia voce a quella degli spiriti beati, per cantare con essi, per tutta l'eternità: Gloria al Padre Eterno, che ci ha creati; Gloria al Figlio, che ci ha rigenerati con il sacrificio cruento della Croce; Gloria allo Spirito Santo, che ci santifica con l'effusione delle sue grazie. Onore e gloria e benedizione alla santa ed adorabile Trinità per tutti i secoli. Così sia
Lo Spirito Santo ineffabile comunione del Padre e del Figlio
Sant'Agostino
Se la Sacra Scrittura proclama: Dio è carità 253, e se, d’altra parte, la carità viene da Dio e la sua azione all’interno di noi fa sì che noi siamo in Dio e Dio in noi, e infine questa presenza testimonia che Dio ci ha dato del suo Spirito, ne consegue che lo stesso Spirito è il Dio carità. Inoltre, se fra i doni di Dio nessuno è più grande della carità e d’altra parte non c’è dono di Dio più grande dello Spirito Santo, che c’è di più conseguente che concludere che è lui stesso la Carità che è chiamata Dio ed è detta procedere da Dio? E, se la carità con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre ci rivela l’ineffabile comunione dell’uno con l’altro, che c’è di più conseguente che concludere che conviene in proprio il nome di Carità a Colui che è lo Spirito comune all’uno e all’altro? Infatti è più giusto credere e comprendere che non solo lo Spirito è carità nella Trinità, ma anche che non è senza fondamento che gli si attribuisce in proprio il nome di Carità, per i motivi che abbiamo spiegato. Allo stesso modo che non è il solo in quella Trinità ad essere Spirito, ad essere santo, perché anche il Padre è Spirito, anche il Figlio è spirito, anche il Padre è santo, anche il Figlio è santo, cosa di cui non dubita la nostra pietà 255; e tuttavia non è senza fondamento che la terza Persona riceva in proprio il nome di Spirito Santo. In quanto infatti è comune ad ambedue, lo si denomina per quello che ambedue sono ugualmente. Altrimenti se in quella Trinità solo lo Spirito Santo è carità, il Figlio non è soltanto Figlio del Padre, ma anche dello Spirito Santo. Infatti in numerosissimi passi si dice e si legge che il Figlio è il Figlio unigenito del Padre, ma tale affermazione si deve conciliare con l’affermazione dell’Apostolo che dice che Dio Padre ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del Figlio della sua carità 256. L’Apostolo non ha detto "del Figlio suo"; avrebbe potuto dire ciò in tutta verità, e di fatto l’ha detto in tutta verità in molti altri passi; ma ha detto: del Figlio della sua carità. Dunque, se solo lo Spirito Santo è la carità di Dio in quella Trinità, il Figlio è anche Figlio dello Spirito Santo. Ora se questa è un’affermazione completamente assurda, non resta che concludere che non solo lo Spirito Santo nella Trinità è carità, ma per i motivi che ho sufficientemente esposti, egli riceve in proprio il nome di Carità. Per quanto concerne l’espressione: del Figlio della sua carità, essa non significa altra cosa che "del suo Figlio diletto", in conclusione "del Figlio della sua sostanza". Perché la carità del Padre, che esiste nella sua natura ineffabilmente semplice, non è altro che la sua stessa natura e sostanza, come spesso ho detto e come non cesserò di ripetere. Di conseguenza il Figlio della sua carità non è altro che quello che è stato generato dalla sua sostanza.
L’immagine del Padre e del Figlio nella nostra memoria e intelligenza
21. 40. Ecco Dio Padre e Dio Figlio, il Dio generante che, in qualche modo, "ha detto" nel suo Verbo, che gli è coeterno, tutto ciò che possiede sostanzialmente, e lo stesso Dio Verbo del Padre, che, anch’egli, possiede sostanzialmente né più né meno ciò che è Colui che ha generato non con menzogna ma veracemente il Verbo. Mi sono sforzato di significare questa relazione come ho potuto, non come se vedessimo già queste realtà a faccia a faccia 267, ma per congettura attraverso questa rassomiglianza in enigma, per quanto debole essa sia, che si trova nell’intimo dello spirito nella relazione della memoria e della intelligenza: attribuendo alla memoria tutto ciò che sappiamo, sebbene da questa conoscenza non nasca alcun pensiero, all’intelligenza invece una informazione del pensiero secondo il modo che le è proprio. Infatti quando pensiamo una cosa di cui avremo scoperto la verità, diciamo che ne abbiamo una perfetta intelligenza, poi la lasciamo di nuovo nella memoria. Ma c’è una profondità più segreta della memoria, in cui l’atto del pensiero giunge a farci scoprire ciò che ne è l’elemento primitivo, e in cui è generato il verbo intimo, che non appartiene a nessuna lingua, come un sapere che proviene da un sapere, una visione che proviene da una visione, una intelligenza che si manifesta nel pensiero, intelligenza che proviene da un’intelligenza già presente nella memoria, ma ancora nascosta; ancorché se anche il pensiero stesso non avesse una sua specie di memoria, non ritornerebbe sulla conoscenza che aveva lasciato nella memoria, quando pensava ad altra cosa.
La nostra volontà immagine dello Spirito Santo
21. 41. Invece per quanto riguarda lo Spirito Santo non abbiamo scoperto in questo enigma 268 niente che gli rassomigli se non la volontà, o l’amore o la dilezione, che non è che la volontà in tutta la sua forza; perché la nostra volontà, che fa parte della natura del nostro essere, secondo che è sollecitata o incontra degli oggetti che l’attraggono o la respingono, prova delle affezioni differenti. Che è essa dunque? Diremo forse che la nostra volontà, quando è retta, ignora ciò che deve cercare, ciò che deve evitare? Ma se lo sa, occorre che possieda una certa conoscenza, conoscenza che non potrebbe esistere senza la memoria e la intelligenza. O forse bisogna dare ascolto a chi pretende che la carità ignora ciò che fa, essa che non agisce alla leggera? Dunque, come è immanente l’intelligenza, è immanente anche la dilezione a quella memoria che ne è il principio, in cui si trova presente e nascosto ciò che possiamo raggiungere con l’atto del pensiero; perché prendiamo coscienza che anche queste due potenze sono nella memoria, quando con l’atto del pensiero prendiamo coscienza che comprendiamo qualcosa ed amiamo qualcosa: esse vi esistevano già, anche quando non vi pensavamo. E come è immanente la memoria, così è immanente la dilezione a questa intelligenza che prende forma nell’atto del pensiero: questo verbo vero lo diciamo interiormente, senza ricorrere ad alcuna lingua, quando diciamo ciò che sappiamo; perché senza il ricordo lo sguardo del nostro pensiero non ritornerebbe su una conoscenza, e senza l’amore non si prenderebbe cura di ritornarvi. Così la dilezione, che unisce, in una specie di relazione di paternità e di filiazione, la visione presente nella memoria e la visione del pensiero che prende forma da essa, se non possiede la conoscenza di ciò che deve desiderare, conoscenza che non può esistere senza la memoria e l’intelligenza, non saprebbe ciò che è giusto amare.
Profonda differenza tra la trinità dello spirito e la Trinità divina
22. 42. Quando queste tre potenze si trovano in una sola persona, come è il caso dell’uomo, qualcuno potrebbe dirci: "Queste tre potenze: memoria, intelligenza, amore appartengono a me, non a se stesse; non è per se stesse, ma è per me che compiono ciò che compiono, anzi sono io che agisco per mezzo di esse. Sono io infatti che ricordo con la memoria, che comprendo con l’intelligenza, che amo con l’amore; e quando volgo verso la mia memoria lo sguardo del pensiero e dico così nel mio cuore ciò che so e dalla mia scienza è generato un verbo vero, queste due cose sono mie, sia la conoscenza che il verbo. Infatti sono io che so e che dico nel mio cuore ciò che so. E quando con l’atto del pensiero scopro che nella mia memoria già comprendevo, già amavo qualcosa - intelligenza e amore che già erano nella memoria ancor prima che ne prendessi coscienza con il pensiero -, è la mia intelligenza e il mio amore che scopro nella mia memoria e sono io che comprendo e amo per mezzo di essi, non essi stessi. Così pure, quando il mio pensiero cerca un ricordo e vuole ritornare su ciò che aveva lasciato nella memoria, vederlo con l’intelligenza 269 e dirlo interiormente, è con la mia memoria che ricorda, è con la mia volontà che vuole, non con la sua memoria e con la sua volontà. Anche il mio amore, quando ricorda e comprende ciò che deve desiderare, ciò che deve evitare, ricorda con la mia, non con la sua memoria, e con la mia intelligenza, non con la sua, comprende tutto ciò che ama, comprendendolo". Tutto ciò si può esprimere in breve così: "Per mezzo di tutte queste tre potenze, sono io che ricordo, io che comprendo, io che amo, io che non sono né memoria, né intelligenza né amore, ma che li possiedo". Tutto ciò può dunque essere detto da una sola persona, che possiede queste tre potenze, ma che non è queste tre potenze. Invece in quella natura supremamente semplice, che è Dio, sebbene vi sia un solo Dio, vi sono tuttavia tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Analisi di questa differenza
23. 43. Una cosa è dunque la Trinità nella sua realtà stessa, altra cosa l’immagine della Trinità in una realtà diversa: è proprio a causa di questa immagine che ciò in cui si trovano queste tre potenze è anche chiamato immagine, come si chiama immagine sia la tela che ciò che è dipinto sulla tela, ma è a causa della pittura che la ricopre che è chiamata immagine anche la tela. Ma in quella suprema Trinità, incomparabilmente superiore a tutte le cose, è tanto accentuata l’inseparabilità che, mentre una trinità di persone umane non si può chiamare un solo uomo, essa è detta ed è un solo Dio, e quella Trinità non è in un solo Dio, ma è un solo Dio 270. Ed ancora per quanto riguarda quella Trinità le cose non stanno come nella sua immagine, l’uomo, che sebbene possegga quelle tre potenze è una sola persona; ma vi sono tre Persone: il Padre del Figlio, il Figlio del Padre, lo Spirito Santo del Padre e del Figlio. Sebbene infatti la memoria dell’uomo - e particolarmente quella che non possiedono le bestie, cioè quella che contiene delle realtà intelligibili che non provengono dai sensi del corpo - presenti a suo modo, in questa immagine della Trinità, una somiglianza, incomparabilmente indegna certo, ma tuttavia non del tutto dissimile, del Padre; e così pure, sebbene l’intelligenza dell’uomo che è informata dalla memoria per mezzo dell’attenzione del pensiero, quando si dice ciò che si sa e si produce quel verbo del cuore che non appartiene ad alcuna lingua, presenti, malgrado la sua accentuata differenza, una certa somiglianza del Figlio; e sebbene l’amore dell’uomo, che procede dalla conoscenza e unisce la memoria e l’intelligenza - essendo comune alla potenza che svolge in qualche modo la funzione di padre e a quella che svolge la funzione di figlio, motivo per cui se ne deduce che non è né padre né figlio -, presenti, in questa immagine, una certa somiglianza, benché molto imperfetta, dello Spirito Santo, tuttavia, mentre in questa immagine della Trinità queste tre potenze non sono un solo uomo, ma appartengono ad un solo uomo, in questa suprema Trinità, di cui l’uomo è immagine, queste tre realtà non appartengono ad un solo Dio, ma sono un solo Dio ed esse sono tre Persone, non una sola. Ecco una cosa di certo meravigliosamente ineffabile o ineffabilmente meravigliosa: sebbene in questa immagine della Trinità vi sia una sola persona, invece nella suprema Trinità vi siano tre Persone, è più inseparabile quella Trinità di tre Persone, che questa di una sola. Perché in quella natura della divinità, o per meglio dire della deità, ciò che è, è, e quella divinità è immutabilmente e sempre uguale tra le Persone; non vi fu un tempo in cui non esistette o esistette in modo diverso, né vi sarà un tempo in cui non esisterà o esisterà in modo diverso. Invece le tre potenze che sono nell’immagine imperfetta della Trinità, sebbene non siano separabili nello spazio, perché non sono dei corpi, lo sono tra loro ora in questa vita per grandezza. Infatti in esse non vi è alcuna massa corporea, nondimeno vediamo che in un uomo la memoria è più grande dell’intelligenza, in un altro vediamo il contrario; vediamo in un altro l’amore che sorpassa in grandezza queste due potenze, siano esse tra loro due uguali o non lo siano. E così accade che due di loro siano inferiori ad una sola, una sola alle altre due, o l’una all’altra, le più piccole alle più grandi. E quando, guarite dalla loro debolezza, saranno uguali tra loro, nemmeno allora questa realtà, che per mezzo della grazia è sottratta al mutamento, sarà uguale alla realtà immutabile per natura, perché mai la creatura può eguagliare il Creatore e il fatto stesso di venir guarita dalla sua debolezza sarà per essa un mutamento.
La conoscenza "attraverso uno specchio"
23. 44. Ma questa Trinità, che non è soltanto immateriale, ma anche supremamente inseparabile e veramente immutabile, quando verrà la visione a faccia a faccia che ci è promessa, la vedremo con molta maggiore chiarezza e certezza di quanto ora vediamo la sua immagine che noi siamo. Tuttavia coloro che vedono attraverso questo specchio e in questo enigma 271, come ci è concesso di vedere in questa vita, non sono coloro che percepiscono nel loro spirito queste tre potenze che abbiamo indicato nella nostra analisi, ma coloro che vedono il loro spirito come immagine, in modo da poter riferire ciò che vedono, in qualunque sia maniera, a colui di cui il loro spirito è immagine ed in modo da poter vedere, per congettura per mezzo dell’immagine che vedono contemplandola, Dio, perché non possono ancora vederlo a faccia a faccia. Infatti l’Apostolo non dice: "vediamo ora uno specchio", ma invece: "Vediamo attraverso uno specchio".
24. 44. Coloro dunque che vedono il loro spirito, come è possibile vederlo, ed in esso vedono questa trinità circa la quale ho discusso, come ho potuto, con molte analisi, ma che non credono e non comprendono 272 che essa è l’immagine di Dio, vedono lo specchio, ma tanto poco vedono colui che deve essere ora veduto nello specchio da non sapere nemmeno che lo specchio è uno specchio, ossia l’immagine di lui. Se lo sapessero, forse avvertirebbero che questo Dio di cui lo spirito è lo specchio deve essere cercato attraverso questo specchio, deve essere visto in maniera imperfetta e provvisoria attraverso questo specchio, con una fede sincera 273 che purifica i cuori affinché possano vedere a faccia a faccia Colui che ora vedono attraverso uno specchio 274. Se disprezzano questa fede che purifica i cuori, l’intelligenza che acquisiscono della natura dello spirito umano attraverso queste sottilissime discussioni che altro risultato può conseguire se non la dannazione per testimonianza della loro stessa intelligenza? Non si darebbero tanto da fare in questa ricerca per giungere appena a qualche certezza se non fossero avvolti in queste tenebre che sono un castigo e non fossero onerati dal gravame del corpo corruttibile che pesa sull’anima 275. E perché ci è stato inflitto questo male, se non per il peccato? Per questo, una volta che la loro attenzione è stata richiamata sull’ampiezza di un male così grande, dovrebbero seguire l’Agnello 276 che toglie il peccato del mondo 277.
25. 44. Infatti, per coloro che appartengono a questo Agnello, fossero pure più tardi di ingegno di quelli di cui ho parlato, quando alla fine di questa vita vengono liberati dal corpo, le potenze invidiose perdono il diritto di trattenerli. L’Agnello che da esse è stato ucciso, mentre non doveva pagare alcun debito dovuto al peccato, non le ha volute vincere con la forza della sua potenza prima di vincerle con la giustizia del suo sangue. Perciò, liberi dal potere del diavolo 278, sono ricevuti dagli Angeli santi, liberati da tutti i mali ad opera del Mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù 279; perché tutte le Scritture sono concordi, sia l’Antico che il Nuovo Testamento, l’Antico preannunciando Cristo, il Nuovo annunciandone la venuta, nel dire che non esiste sotto il cielo altro nome per mezzo del quale gli uomini debbono essere salvati 280. Purificati da ogni contagio di corruzione saranno collocati in luoghi tranquilli fino a quando non riprendano i loro corpi, ma corpi ormai incorruttibili, che siano un ornamento, non un peso. Perché è piaciuto al Creatore supremamente buono e sapiente che lo spirito dell’uomo, piamente sottomesso a Dio, possieda beatamente un corpo sottomesso e che la stessa beatitudine duri senza mai finire.
Nella visione vedremo senza più alcuna difficoltà, perché lo Spirito Santo non proceda come generato dal Padre e dal Figlio
25. 45. Là vedremo la verità senza alcuna fatica e ne fruiremo con piena chiarezza e certezza. Non cercheremo più nulla con lo spirito che si serve del raziocinio, ma con lo spirito che si apre alla contemplazione vedremo perché lo Spirito Santo non è il Figlio, benché proceda dal Padre. In quella luce non ci sarà più problema alcuno, ma quaggiù il mio tentativo mi è sembrato presentare tali difficoltà - e così senza alcun dubbio apparirà a coloro che mi leggeranno con intelligenza attenta - che, malgrado la promessa fatta nel secondo libro, di spiegare più avanti questo punto 281, ogni qualvolta nella creatura che siamo noi ho voluto scoprire qualche analogia con quel mistero, la pur piccola comprensione che potevo avere non ha trovato adeguata espressione nelle mie parole; sebbene abbia avuto la sensazione che anche questa mia comprensione sia stata più un tentativo che una riuscita. È vero che ho trovato in una sola persona umana un’immagine di quella suprema Trinità e, per meglio farla comprendere, ho voluto, in particolare nel libro IX, mostrare questi tre termini in una realtà soggetta al mutamento, mostrandoli separati anche da intervalli di tempo 282; ma queste tre potenze appartenenti alla stessa persona non hanno potuto, contrariamente alla nostra attesa umana, corrispondere alle tre Persone divine, come abbiamo dimostrato in questo libro XV.
26. 45. Inoltre in questa suprema Trinità che è Dio non ci sono intervalli di tempo che permettano di mostrare, o almeno di indagare, se prima sia nato il Figlio dal Padre e poi sia avvenuta da ambedue la processione dello Spirito Santo. La Sacra Scrittura ci dice infatti che egli è lo Spirito di ambedue 283. È di lui infatti che l’Apostolo dice: Poiché siete figli di Dio, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori 284. È pure di lui che il Figlio medesimo dice: Non siete voi che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro che parla in voi 285. E molti altri passi delle Sacre Scritture confermano che è del Padre e del Figlio lo Spirito indicato nella Trinità come persona dello Spirito Santo; è di lui che il Figlio medesimo dice ancora: Colui che io vi mando da presso il Padre 286; ed in un altro passo: Colui che il Padre manderà in nome mio 287. Che egli procede da ambedue ce lo insegnano i seguenti passi: il Figlio stesso dice: Egli procede dal Padre 288; e d’altra parte, dopo la sua risurrezione dai morti e la sua apparizione agli Apostoli, alitò su di essi e disse: Ricevete lo Spirito Santo 289, per mostrare che lo Spirito procede anche da lui. È ancora lo Spirito Santo la virtù che usciva da lui, come si legge nel Vangelo, e guariva tutti 290.
Il Signore Gesù diede lo Spirito Santo come Dio e lo ricevette come uomo
26. 46. Per quale motivo, dopo la sua risurrezione, Cristo ha dato una prima volta lo Spirito Santo sulla terra 291 e poi lo ha mandato dal cielo 292? Perché, ritengo, con questo dono viene diffusa nei nostri cuori la carità 293 con la quale amiamo Dio e il prossimo, secondo quei due precetti dai quali dipendono tutta la Legge ed i Profeti 294. Volendo significare ciò, il Signore Gesù ha dato due volte lo Spirito Santo, una volta sulla terra per significare l’amore del prossimo, una seconda volta dal cielo per significare l’amore di Dio. Forse si potrà dare un’altra spiegazione di questa duplice donazione dello Spirito Santo, ma ciò di cui non dobbiamo dubitare è che lo Spirito che è stato dato, quando Gesù alitò sugli Apostoli, è lo stesso di cui si tratta nelle parole che Gesù pronunciò subito dopo: Andate, battezzate le genti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo 295, testo che è la più espressa rivelazione della Trinità 296. È lui dunque che è stato dato anche dal cielo nel giorno della Pentecoste 297, cioè dieci giorni dopo l’ascensione del Signore. Come dunque non sarebbe Dio Colui che dà lo Spirito Santo? Anzi, che grande Dio è Colui che dà Dio? Nessuno dei suoi discepoli infatti ha dato lo Spirito Santo. Pregavano perché egli venisse in coloro ai quali imponevano le mani, ma non lo davano loro stessi. Questo costume lo osserva ancora oggi la Chiesa nei suoi ministri. Infine anche Simon Mago, offrendo denaro agli Apostoli, non dice: "Date anche a me questo potere" di dare lo Spirito Santo, ma invece: Datemi il potere che ogni uomo al quale imporrò le mani, riceva lo Spirito Santo 298. Perché nemmeno la Scrittura aveva detto prima: "Vedendo Simone che gli Apostoli davano lo Spirito Santo", ma aveva detto: Ora Simone vedendo che lo Spirito Santo veniva dato per mezzo dell’imposizione delle mani degli Apostoli 299. Ecco perché lo stesso Signore Gesù non solo dette lo Spirito Santo in quanto Dio, ma anche lo ricevette in quanto uomo; per questo la Scrittura lo dice pieno di grazia 300. Ed in maniera più chiara sta scritto di lui negli Atti degli Apostoli: Perché Dio lo unse con lo Spirito Santo 301. Non lo unse certo con un olio visibile, ma con il dono della grazia significata dall’unguento visibile, crisma con cui la Chiesa unge i battezzati. E senza dubbio Cristo non è stato unto con lo Spirito Santo quando lo Spirito discese su di lui, appena battezzato, sotto forma di colomba 302; infatti in quel giorno egli ha voluto prefigurare il suo Corpo, cioè la sua Chiesa, nella quale si riceve lo Spirito Santo in particolar modo battezzandosi 303. Ma bisogna comprendere che Cristo è stato unto con questa mistica e invisibile unzione, nello stesso momento in cui il Verbo di Dio si è fatto carne 304, cioè nel momento in cui la natura umana senza alcun merito precedente di opere buone, è stata unita al Dio Verbo nel seno della Vergine, in modo da divenire con lui una sola persona. Per questo confessiamo che Cristo è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria. È infatti assolutamente ridicolo il credere che Cristo avesse già trent’anni (a tale età infatti fu battezzato da Giovanni 305) quando ricevette lo Spirito Santo, ma venne a quel battesimo assolutamente senza alcun peccato e dunque non privo dello Spirito Santo. Se infatti dello stesso Giovanni, suo servo e precursore, è scritto che sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 306, perché sebbene generato da un padre, una volta formato nel seno, ricevette lo Spirito Santo, che cosa dobbiamo pensare e credere del Cristo uomo, la cui stessa carne non fu concepita in maniera carnale, ma spirituale 307? Inoltre, quando la Scrittura dice di lui che ricevette dal Padre la promessa dello Spirito Santo e che lo ha diffuso 308, viene messa in evidenza la sua duplice natura, cioè quella umana e quella divina; ricevette come uomo, diffuse come Dio. Noi possiamo certo ricevere questo dono secondo la nostra capacità, ma non possiamo diffonderlo sugli altri; ma perché questa effusione avvenga invochiamo su di loro Dio, che può fare questo dono.
Lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio, ma "primariamente" dal Padre
26. 47. Chiedersi se, quando il Figlio è nato, era già avvenuta la processione dello Spirito Santo dal Padre o se invece non era ancora avvenuta e, una volta nato il Figlio 309, lo Spirito Santo procedette dal Padre e dal Figlio, è cosa che può forse avere un senso, là dove non esiste affatto il tempo? Là dove il tempo entra in gioco abbiamo invece potuto chiederci se è la volontà per prima che procede dallo spirito umano per cercare ciò che, una volta trovato, si chiama prole; perché una volta nata e generata questa, la volontà riceve la sua perfezione, riposandosi nel suo fine, in modo che quello che era stato desiderio della volontà che cerca, divenga amore della volontà che fruisce, amore che ormai procede dall’uno e dall’altra, cioè dallo spirito che genera e dalla conoscenza generata, essendo questi due in una specie di relazione di paternità e di filiazione. Ma non si possono più porre assolutamente simili domande a proposito di una realtà dove nulla incomincia nel tempo, per compiersi nel tempo che viene dopo. Di conseguenza colui che può comprendere la generazione intemporale del Figlio dal Padre, intenda la processione intemporale dello Spirito Santo da ambedue. E chi può comprendere da queste parole del Figlio: Come il Padre ha in sé la vita, così ha dato al Figlio di avere la vita in sé 310 che il Padre ha dato la vita al Figlio non come a un essere che esistesse già senza avere la vita, ma che lo ha generato al di fuori del tempo in modo che la vita che il Padre ha dato al Figlio generandolo sia coeterna alla vita del Padre che glie l’ha data; questi comprenda, dico, che come il Padre ha in se stesso anche la proprietà di essere principio della processione dello Spirito Santo, ha dato ugualmente al Figlio di essere principio della processione del medesimo Spirito Santo, processione fuori del tempo nell’uno e nell’altro caso, e comprenda che è stato detto che lo Spirito Santo procede dal Padre 311 perché si intenda che l’essere anche il Figlio principio della processione dello Spirito Santo, proviene al Figlio dal Padre. Se infatti tutto ciò che il Figlio ha, lo riceve dal Padre, riceve anche dal Padre di essere anch’egli principio da cui procede lo Spirito Santo. Ma ci si guardi bene dal pensare che esista qui il tempo, in cui si distingua un prima e un poi, perché qui non esiste affatto il tempo. Come, allora, non sarebbe il colmo dell’assurdità il dire che lo Spirito Santo è il Figlio delle due altre Persone, dato che se è per generazione che il Padre comunica al Figlio la sua essenza senza inizio di tempo, senza alterazione di natura, è per processione che il Padre e il Figlio comunicano allo Spirito Santo la loro essenza senza alcun inizio di tempo, senza alcuna alterazione di natura? Se dunque non diciamo che lo Spirito Santo è generato, non osiamo tuttavia dire che è ingenerato, per timore che questa parola faccia supporre che ci sono due padri nella Trinità, o due persone che non hanno origine da un’altra. Solo il Padre infatti non ha origine da un’altra Persona, perciò solo lui è chiamato ingenerato, non nella Scrittura, ma nel linguaggio usuale di coloro che trattano di un così grande mistero e si sono espressi come hanno potuto 312. Il Figlio invece è nato dal Padre, e lo Spirito Santo procede, primariamente, dal Padre, e per il dono che il Padre ne fa al Figlio senza alcun intervallo di tempo, dal Padre e dal Figlio insieme 313. Si direbbe che lo Spirito Santo è Figlio del Padre e del Figlio, se - cosa che respinge spontaneamente il buonsenso - lo avessero ambedue generato. Non è dunque generato dal Padre e dal Figlio lo Spirito di tutti e due, ma procede dall’uno e dall’altro.
Estratto libro 15 " De Trinitate"
Gesù ci offrì il Suo Cuore
”Orbene, fratelli, quand’è che il Signore volle essere riconosciuto? All’atto di spezzare il pane. È una certezza che abbiamo: quando spezziamo il pane riconosciamo il Signore. Non si fece riconoscere in altro gesto diverso da quello, e ciò per noi, che non lo avremmo visto in forma umana ma avremmo mangiato la sua carne. Sì, veramente, se tu – chiunque tu sia – sei nel novero dei fedeli, se non porti inutilmente il nome di cristiano, se non entri senza un perché nella chiesa, se hai appreso ad ascoltare la parola di Dio con timore e speranza, la frazione del pane sarà la tua consolazione. L’assenza del Signore non è assenza. Abbi fede, e colui che non vedi è con te”.
Sant’Agostino
"Rientrate nel vostro cuore! Dove volete andare lontani da voi? Andando lontano vi perderete. Perché vi mettete su strade deserte? Rientrate dal vostro vagabondaggio che vi ha portato fuori strada; ritornate al Signore. Egli è pronto. Prima rientra nel tuo cuore, tu che sei diventato estraneo a te stesso, a forza di vagabondare fuori: non conosci te stesso, e cerchi colui che ti ha creato! Torna, torna al cuore! Rientra nel cuore: lì esamina quel che forse percepisci di Dio, perché lì si trova l’immagine di Dio; nell’interiorità dell’uomo abita Cristo"
Sant'Agostino
LA MADONNA NELL'ORDINE AGOSTINIANO
LA MADONNA NEGLI SCRITTI DI S. AGOSTINO
Maria è l'esemplare perfetto della redenzione operata da Cristo. Cristo ci ha redento liberandoci dalle tristi conseguenze del male: dal peccato, dal dominio delle passioni, dalla morte. Questa è la libertà cristiana, che il Signore realizza in noi secondo un piano misterioso della sua provvidenza: dal peccato nel battesimo, dal dominio delle passioni disordinate mediante la continua elargizione della grazia, dalla morte quando questa nemica sarà sconfitta definitivamente alla fine dei tempi.
Anche Maria è stata liberata da questi mali, ma in maniera più alta, più sublime. E' stata liberata dal peccato perché la grazia ha impedito che lo contraesse; è stata liberata dalle passioni disordinate perché è la vergine perpetua; e finalmente, in maniera più radicale, è stata liberata dalla morte.
Nel Cielo Maria è a fianco di suo Figlio in anima e corpo, esemplare della redenzione. Quello che la Chiesa aspetta, lei lo ha già avuto: la pienezza della grazia, la vittoria sulle passioni, la vittoria sulla morte, sulla corruzione del sepolcro.
Ora Maria è madre corporalmente del nostro Capo e spiritualmente di tutte le sue membra, perché ha cooperato con l'amore affinché nascessimo nella Chiesa. Come membro eminente, modello e madre della Chiesa, Maria è fonte della nostra speranza e della nostra gioia. Noi speriamo ciò che Maria è, e lo raggiungiamo con la mediazione del suo amore materno.
Maria è madre, cioè bontà, amore, misericordia. La madre ama per amore, ama per amare. Se vogliamo entrare nel circolo di questo amore materno, dobbiamo ripercorrerne le modalità amando come Maria ha amato ed ama. Un amore illuminato dalla fede, forte, fedele. Un amore fondato sull'umiltà, con cui ci riconosciamo creature insignificanti nelle mani di un Padre misericordioso che tutto dona e tutto perdona. Un amore sostenuto dalla gioia di essere figli di Dio: quella gioia che esplose in Maria quando, incontrando Elisabetta, intonò il canto del Magnificat. Un canto di gioia, un canto di umiltà, un canto di fiducia, un canto di trionfo. Il Vescovo d'Ippona non ha scritto un commento al Magnificat. Peccato! I sentimenti che Maria esprime nel suo cantico sono così familiari ad Agostino, che il commento sarebbe riuscito stupendo. Ma possiamo raccogliere alcune idee di S. Agostino -ad esempio il tema della lode, quello dell'esultanza in Dio salvatore, quello dell'umiltà-, e commentare con esse il cantico di Maria.
Se noi ci abitueremo a cantare insieme a Maria il Magnificat ogni giorno della nostra vita, credo che la gioia sarà il nostro retaggio quotidiano anche in mezzo a difficoltà e dolori, come lo fu per Maria nella sua vita terrena.
Le espressioni di preghiera che Agostino ci ha lasciato sono tutte rivolte verso l'Essere supremo. Nei confronti di Maria manifesta un'attonita contemplazione per il miracolo compiuto in Lei da Dio.
Agostino Trapè
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LA MADONNA DELL'UMILTA'
Una immagine diffusa nell'Ordine agostiniano
Gli Ordini Mendicanti sono i più strenui banditori di figurazioni della Vergine quanto mai commoventi e pregne di significato e di efficacia salvifica. Ma una rappresentazione mariale, in particolare, appare legata al contesto culturale dei Mendicanti tanto dottrinalmente quanto figurativamente. E' questa la Madonna dell'umiltà seduta a terra, immagine che costituisce una visualizzazione, un esempio figurativo quanto mai icastico della virtù della umiltà peculiare della regola mendicante. La dottrina mendicante considera, infatti, l'umiltà la prima e indispensabile virtù avente il potere di perfezionare ogni altra, la radice di tutte le virtù. Il modello per eccellenza di questa virtù, feconda di ogni bene e di ogni grazia, è connaturalmente Maria, la donna del Magnificat. Ecco rinvenuta l'immagine che meglio di ogni altra esprime lo spirito di umiltà, di obbedienza e di carità della famiglia mendicante, l'immagine nella quale tutti i suoi esponenti desiderano riconoscersi e che amano fare propria, l'icona avente il potere di placare gli interiori dissidi. Per quanto riguarda la genesi iconologica di queste immagini Bene Parronchi ha individuato che alla formazione della figura della Madonna in umiltà hanno contribuito gli scritti del dottore agostiniano Agostino Trionfo (Ancona 1243-Napoli 1328). Maria infatti lo ha dato alla luce "non adorna di corona regale, non su di un letto d'oro, ma indossando appena una tunica non per ornamento ma per coprire la nudità", quale si conveniva alla moglie di un povero falegname. Orbene, la Madonna in umiltà che allatta il Bambino al suo seno è rappresentazione oltremodo eloquente della direttiva perseguita dal Trionfo, ordinata a sottolineare la condizione di creaturalità della Madonna per meglio esaltare in lei la pienezza della grazia divina. Il trattato di Agostino Trionfo già nel 1326 toccava connaturalmente anche il tema della Immacolata Concezione, confermando, secondo la direttiva egidiana-tomista, la tesi maculista o della santificazione della Vergine nell'utero materno. Numerosi esponenti degli Eremitani si schierano così col nutrito gruppo francescano sostenitore e predicatore sistematico a largo raggio della dottrina immaculista propugnata dall'oxonense Duns Scoto.
Nelle Marche, sulla base delle nostre attuali conoscenze, sembrerebbe che i maggiori committenti dell'immagine siano stati gli Agostiniani. Ben tre delle immagini marchigiane della Vergine glorificata - di cui si conosce con certezza l'origine - provengono da chiese agostiniane: Ascoli Piceno, Corridonia e Montegiorgio. E' lecito supporre, quindi, che non solo l'Ordine agostiniano sia stato sul territorio il committente più alacre della raffigurazione immaculista, ma abbia anche svolto il ruolo di fervido predicatore della dottrina del cui significato l'immagine è portatrice. Sotto questo riguardo molto interessante ci appare la notizia che i fabrianesi Allegretto Nuzi e Francescuccio Ghissi - il più prolifico pittore di questa iconografia - siano contemporanei di due illustri predicatori agostiniani e uomini di cultura, anch'essi fabrianesi: i BB. Giovanni e Pietro della famiglia dei Becchetti. E particolarmente significativo ci appare il ragguaglio che, dei due, Giovanni ha studiato e ricevuto il magistero in teologia a Oxford, nell'ambiente, cioè, dove la dottrina dell'Immacolata Concezione proclamata dallo scotismo era tenuta grandemente in onore.
Questa informazione può essere assunta quale indizio che l'Ordine agostiniano locale era interessato alla formazione di predicatori i quali diffondessero nella regione la dottrina immaculista. Di conseguenza il contributo della famiglia agostiniana alla plasmazione della stessa si configura senza dubbio rimarchevole.
MADONNA DELLA CONSOLAZIONE
detta anche
DELLA CINTURA
Nota storica
Questo titolo nella sua duplice formulazione, che ne fissa anche la impostazione e la tradizione iconografica, dice riferimento alla materna tenerezza di Maria nei confronti di S. Agostino e di S. Monica e, attraverso loro, di tutto l'Ordine Agostiniano, oltre che all'abito proprio degli Agostiniani, raccolto ai fianchi da una cintura di cuoio.
L'origine è da collegare a una tradizione riconducibile al secolo quindicesimo, epoca in cui gli Agostiniani stavano fissando i termini della loro devozione a Maria. Un testo - formatosi verso il sec. XVI e che va letto con i criteri della valutazione simbolica e di una nota tradizione devozionale - va ricordato perché offre inequivocabili elementi di valutazione e di riferimento a fatti obiettivi della storia e della vita religiosa. Si narra che S. Monica nella sua afflizione per la perdita del marito Patrizio e per il disorientamento spirituale del figlio Agostino, si rivolge alla Madonna per trovare in lei conforto e consolazione e per avere una risposta che può sembrare curiosa ma che indica contemporaneamente l'intento ideale della narrazione. Monica infatti chiede a Maria in che modo si sarebbe vestita dopo la morte di S. Giuseppe. I connotati di lutto e di afflizione ma anche di nuova realtà esistenziale considerati nell'abito sono ben evidenti. La Madonna accondiscende benevolmente al desiderio di Monica apparendole vestita di abito nero, raccolto ai fianchi da una cinta di cuoio, invitandola a vestirsi in modo simile e assicurandole che quanti l'avessero imitata avrebbero avuto garanzia della sua protezione e consolazione (altro elemento che dice riferimento al devoto proselitismo). Ovviamente, una volta che Agostino fece proprio il proposito di consacrarsi al Signore si sarebbe adeguato con i suoi a questa stessa indicazione.
Abbiamo riscontro che fatti relativi all'abito nero e alla cintura di cuoio per gli Agostiniani sono registrati fin dal 1253 sotto Innocenzo IV e nel 1255 con Alessandro IV. E' chiaro che la lettura di detta tradizione - ben connotata da elementi religiosi, devozionali e di interesse di gruppo - va intesa tenendo presente la situazione storica: gli Agostiniani, organizzati nel 1256 con le caratteristiche di Ordine mendicante e di fraternità apostolica, tendono a nobilitare la propria tonaca fino a farla risalire a una apparizione e disposizione della stessa Vergine Maria, come d'altronde vantano, con altrettante tradizioni, gli altri grandi Ordini.
Alcune date ci sono di aiuto per rintracciare nella storia elementi che testimoniano, attraverso la realtà e il simbolo della "cintura" aspetti di vitalità dell'Ordine e il suo rapporto con Maria.
Già nel secolo XV tra gli Agostiniani del Nord Italia era venerato il titolo di Nostra Signora della Consolazione. Nel 1473 a Genova sorgeva una Congregazione di Osservanza con il titolo Santa Maria della Consolazione.
Nel secolo XV esisteva anche una Confraternita della Consolazione che si affermò fortemente nella nostra chiesa di S. Giacomo Maggiore a Bologna.
Nel 1439 Andrea Montecchio, vescovo di Osimo e Vicario Generale di Eugenio IV, il 14 agosto emanava il Decreto Solet pastoralis sedes, con il quale si approvava la fondazione della Confraternita dei Cinturati: il Priore Generale dell'Ordine, Gerardo da Rimini (+1443), ebbe confermata la facoltà di istituire confraternite della cintura tanto per gruppi maschili che femminili.
Nel 1575 si consoliderà ancor più il titolo di Nostra Signora della Consolazione quando la Confraternita esistente a Bologna si fuse con la Confraternita dei Cinturati di S. Agostino, pure a Bologna, dando origine all'Arciconfraternita dei Cinturati di S. Agostino e di S. Monica sotto l'invocazione di Nostra Signora della Consolazione.
Nel 1576 Papa Gregorio XIII dispose che l'Arciconfraternita bolognese potesse aggregare a sé ogni Confraternita che sorgesse in qualsiasi altro luogo e nel 1579 stabilì che fosse il Priore Generale dell'Ordine Agostiniano a emettere il documento di aggregazione, favorendo l'associazione di molti privilegi e abbondanza di indulgenze.
Lungo il secolo XVIII si assiste a una grande diffusione di Confraternite aggregate a quella di Bologna, sparse in Italia, Europa e anche fuori.
Nel 1922 la sede dell'Arciconfraternita viene trasferita nella chiesa di S. Agostino in Roma. In questo nostro secolo le diffuse Confraternite presso quasi tutte le nostre chiese hanno subìto un affievolimento dovuto a mancata animazione interna e a una carente capacità di inserirle all'interno della forte impostazione del nuovo impegno dei laici e dei movimenti ecclesiali. Recentemente sono emersi segni di ripresa per recuperare l'autentica tradizione di spiritualità agostiniana contenuta in questa associazione.
Scheda iconografica
Lo schema iconografico più affermato è quello che si sviluppa su elementi che evidenziano con immediatezza il simbolo della cintura intesa come parte che completa l'abito religioso. La Madonna siede al centro in trono con in braccio il bambino, ai lati sono in ginocchio e in devoto atteggiamento di accogliere il dono S. Agostino, normalmente alla destra, il quale riceve la cintura dalla Vergine, e S. Monica, alla sinistra, che la riceve dal Bambino Gesù.
Alcune varianti ricorrono sovente: gli angeli che sovrastano la Madonna e che tengono altre cinture da distribuire, intendendo la volontà di estendere questo segno ai seguaci e ai devoti del Santo; oppure nello sfondo è inserita la presenza di altri santi, per lo più agostiniani, come S. Nicola, S. Rita o altri.
L'impostazione iconografica è quella che si rifà al modello della Madonna di Pompei dove però l'elemento dono è il Rosario. Altre volte, meno frequente nei dipinti, ma più diffuso nelle sculture e nelle immaginette popolari (santini), si ha soltanto la Madonna in piedi, col Bambino o senza, che lascia pendere dalla mano la cintura di cuoio.
Tutte le chiese agostiniane in passato avevano un altare con un quadro o una statua in riferimento a questo titolo, e le varie Confraternite si onoravano di avere il loro stendardo processionale con l'immagine della Madonna della Consolazione o con un ornato stemma agostiniano completato in modo molto evidente dalla Cintura.
Nota liturgica
Quanto all'espressione liturgica del culto alla Madonna della Consolazione abbiamo come prima annotazione la data del 1575 che iniziò la consuetudine di celebrarne la festa nella prima domenica di Avvento; allora fu il Papa stesso con il suo seguito a presenziare alla processione in onore della Madonna. In seguito, anche per ovvi motivi di opportunità liturgica, la Sede Apostolica fissò la festa alla prima domenica dopo la solennità del S. P. Agostino e nel 1914 si dispose che la festa si celebrasse il sabato immediatamente successivo alla solennità del S. P. Agostino.
Già nel 1724 gli Agostiniani di Spagna ottennero per la loro nazione una maggiore solennità ottenendo la qualifica di "doppio di prima classe", cosa che nel 1805, per richiesta del Sacrista Pontificio Ven. Mons. Giuseppe Bartolomeo Menochio osa., fu estesa a tutto l'Ordine Agostiniano.
L'Ufficio e la Messa propria di questo titolo mariano furono riformati sotto il pontificato di S. Pio X.
La festa della Madonna della Consolazione comportava anche la solenne processione dei Religiosi Agostiniani e dei Cinturati, i quali riaffermavano la loro devozione con la processione che si ripeteva ogni quarta domenica del mese.
La stessa pietà quotidiana era segnata nel nostro Ordine da questa particolare devozione in quanto tutti, religiosi, professi e confratelli laici avevano il dovere di recitare la celebre "Coroncina della Madonna della Consolazione".
Nell'attuale Calendario e Messale Agostiniano la festa è fissata per il 4 settembre. Il nuovo Rituale OSA prevede il titolo e la particolare devozione della Coroncina nella nuova forma dove l'enunciato degli articoli del Credo è seguito da tre testi alternativi di commento presi dagli scritti del S. P. Agostino. Il titolo della Madonna della Consolazione, con Messa propria presa dal nostro Messale, è inserito (n. 41, p. 133) nel Messale Mariano emanato dalla CEI nel 1987.
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TESTI LITURGICI
CORONCINA DELLA SACRA CINTURA
E' la formula classica e tradizionalmente radicata nell'Ordine Agostiniano per onorare la Madonna della Consolazione. Ricca di particolari indulgenze concesse via via dai Sommi Pontefici, essa consiste nel recitare per 13 volte il Padre nostro e l'Ave Maria concludendo con la Salve Regina. I singoli Padre nostro e Ave Maria erano introdotti da un articolo del Credo seguito da un "Consideriamo..." e una breve supplica a Maria: "Vergine santissima aiutateci... !" (questa parte poteva essere omessa e si indicava così la formula ridotta prevista dal Rituale).
Interessante appare, nei suoi elementi richiamanti, la fede cristiana e la specifica devozione "agostiniana", l'introduzione che il Rituale del 1930 premetteva (a p. 50): "Reciteremo tredici Pater ed Ave in memoria e venerazione di nostro Signore Gesù Cristo e dei dodici Apostoli, i quali composero il Credo, ricordando in essi i misteri della Santa Fede. Imploriamo, adunque, per essere esauditi, l'aiuto della B. V. Maria, Madre di Consolazione, del Padre Sant'Agostino e della Madre Santa Monica".
Terminati gli articoli del Credo, si recitava la preghiera per la Chiesa e per la società, per i vivi e per i defunti; seguivano la Salve Regina, le Litanie lauretane, l'antifona Sub tuum praesidium, l'invocazione alla Madonna della Consolazione, a S. Agostino e S. Monica e si terminava con un duplice Oremus: il primo con riferimenti alla Madonna della Grazia, collegato solitamente all'antifona Ave Regina coelorum, Mater regis angelorum...; il secondo, proprio del titolo della Consolazione.
Questa pratica caratterizzò nel nostro secolo la pietà mariana dei religiosi agostiniani e dei laici appartenenti al Terz'Ordine.
Il nuovo Rituale dell'Ordine, emanato nel 1986, a p. 80 ne propone la nuova formula consistente nell'enunciazione dei 12 articoli del Credo, seguiti da un testo (da scegliersi su tre) di commento preso dagli scritti del S. P. Agostino; quindi si propone una pausa di silenzio e la recita dell'Ave Maria. La conclusione prevede la recita della Salve Regina e il tradizionale Oremus dal Proprio della Madonna della Consolazione.
MADONNA DEL SOCCORSO
Scheda storica
Titolo caratteristico soprattutto nel riferimento iconografico affermatosi per la committenza agostiniana. Questo titolo inizia col secolo XIV a partire da ambienti agostiniani della Sicilia e si diffonde prima nell'Italia centrale e insulare, poi anche in altre zone dell'Europa e del mondo, sempre tramite la devozione popolare promossa dall'Ordine Agostiniano. Molti nostri conventi e chiese ebbero questo titolo e anche quando furono abbandonati proseguì tra i fedeli la devozione alla Madonna invocata con questo appellativo. L'origine si basa su tre fatti verificatisi a Palermo, sempre in relazione ad ambienti agostiniani. Chi ce li riferisce è lo scrittore agostiniano B. Attardi in un testo del 1741.
1. La prodigiosa guarigione di p. Nicola Bruno da Messina, priore del Convento di S. Agostino in Palermo. Il religioso nel 1306 si ammalò gravemente ed essendosi rivolto fiducioso alla Vergine Maria, la cui immagine era affrescala nella cappella di S. Martino della propria chiesa, ottenne che la Madonna gli apparisse nelle sembianze di quella immagine; concessa la guarigione, gli raccomandò di diffonderne la devozione con il titolo di "Madonna del Soccorso".
2. Il soccorso di Maria a favore di una mamma e di un bambino, minacciato dal diavolo. Una donna che viveva a Palermo, piuttosto iraconda, aveva la triste abitudine, quando si impazientiva con il proprio bambino, di imprecare; e un giorno, più sdegnata del solito, giunse addirittura ad invocare il demonio perché si prendesse quel fastidioso figlio: subito si presentò l'invocato spirito maligno con l'intento di avventarsi sull'innocente creatura. A questa vista la collerica mamma tanto si impressionò che, pentita, si mise a invocare: "Soccorso, Vergine Maria!" E prodigiosamente la Madonna intervenne presentandosi minacciosa con un bastone allo scopo di fugare il demonio, mentre il bimbo, riavutosi da tanta paura, si rivolge alla Vergine quasi a farsi scudo del suo manto per sfuggire al maligno. All'apparizione della Vergine il demonio subito disparve. La donna, recatasi alla chiesa di S. Agostino per ringraziare la Madonna, riconobbe nell'immagine venerata nella cappella di S. Martino la sua celeste soccorritrice e riconoscente si diede a celebrare i prodigi dovuti alla materna bontà di Maria.
3. Guarigione prodigiosa di una giovane inferma. L'avvenimento, sempre ambientato a Palermo, è di qualche anno più tardi, esattamente del 1315. Una giovane donna era da tempo gravemente inferma per una forma di irrimediabile paralisi, che la obbligava a rimanere fissa e dolorante nel suo letto. La sua preghiera venne accolta dalla Beata Vergine: apparsale in sonno, la destò per soccorrerla in un modo singolare, che ripropone l'ambiente agostiniano in cui si svolge il prodigioso intervento. La Vergine cinge l'inferma con la sua cintura d'argento, dicendole che non si sarebbe potuta sciogliere da quella cintura se non in quella chiesa ove avrebbe trovato un'immagine che somigliasse alle sembianze con cui le appariva al momento. Il volto cui alludeva la Vergine fu in seguito identificato con quello affrescato nella cappella di S. Martino della chiesa di S. Agostino in Palermo. Davanti a questa immagine la giovane inferma riuscì a sciogliersi la cinta guarendo istantaneamente.
Questi tre episodi - ambientati nello stesso luogo, riferiti alla stessa immagine e orientati allo stesso titolo - furono alla base di quella predicazione con la quale gli Agostiniani diffusero il titolo di Madonna del Soccorso, che però nella tradizione iconografica vede decisamente privilegialo il secondo episodio.
Questa serie di racconti con gli evidenti punti di confluenza permettono di tirare alcune conclusioni che danno il senso pieno di tutti gli elementi sia storici che tradizionali. Maria Vergine con il titolo di Madre del Soccorso è espressiva del senso devozionale degli Agostiniani di ambiente siciliano. Questo titolo ebbe molta fortuna essendo fatto proprio dall'Ordine Agostiniano.
Qualche considerazione a parte merita il secondo episodio, in quanto determina in modo preciso e sicuro la tradizione iconografica attraverso la quale emergono elementi educativi del popolo cristiano: mai permettersi, né per scherzo né per superficialità, di nominare e tanto meno invocare il demonio; il devoto popolo cristiano sa però che dal maligno ci si può liberare e che la Madre di Gesù è il rifugio più sicuro dalle sue insidie. Infine l'esempio di frati pellegrini e predicatori come il B. Giacomo da Napoli, che nel 1500 porta a Cartoceto (PS) questa devozione e vi intitola un convento, è prova di come gli Agostiniani furono gli zelanti diffusori di questo titolo che onora Maria nella sua bontà soccorritrice nei confronti dei mali che affliggono l'umanità.
Scheda iconografica
Anche se nella tradizione del culto mariano si trovano titoli iconografici che si rifanno in vari modi al tema del "Soccorso", va subito precisato che il senso agostiniano di questo titolo ha un'unica e costante espressione iconografica, ben connotata nei suoi elementi: la Vergine Maria, una mamma, un bimbo e il diavolo. La distribuzione dei vari personaggi si pone nella logica di una tesi con intenti teologici e pedagogici ben evidenti.
- La Madonna sempre domina la scena, o scendendo dall'alto avvolta in un glorioso nimbo che ne sottolinea l'evento di apparizione, o imponente in primo piano in modo che giganteggi di fronte agli altri personaggi. L'atteggiamento è quello di brandire un bastone a minaccia del demonio, mentre l'altra mano dà senso di sicurezza e di protezione al bimbo malcapitato.
- La mamma, responsabile della presenza del demonio, è pentita e cosciente del suo errore; normalmente inginocchiata ai piedi della Vergine, a volte in atteggiamento supplice, altre con i segni evidenti di chi disperatamente invoca aiuto.
- Il bimbo, disposto per lo più in basso alla scena, il più delle volte in piedi, in atto di cercare rifugio presso la Vergine che gli dà sicurezza proteggendolo dal diavolo; qualche volta è invece piccolo, deposto nella sua culla, quasi non si renda conto dell'avvenimento in cui è coinvolto.
- Il demonio, sproporzionatamente piccolo in confronto alla Madonna, brutto e ridicolo, a volte in fuga e umiliato, altre in atteggiamento di un ultimo disperato tentativo di contendere il bimbo alla Vergine.
La scena è composta su uno sfondo più o meno sviluppato e spazioso sia che si tratti di ambienti architettonici che paesaggistici. Raramente è dato vedere l'inserimento nella scena di qualche santo agostiniano; in questo caso il preferito è S. Nicola da Tolentino. Quando il quadro è commissionato per un interesse particolare, può contenere elementi più specifici, come nell'ultimo espressivo dipinto di Fulvio Del Vecchio (1994), dove è inserito in preghiera, come per sostenere la mamma nell'attesa dell'intervento celeste, il Beato Giacomo da Napoli che fu all'origine del Santuario di Cartoceto, e naturalmente il convento che ne ripropone ancora il titolo.
Scheda liturgica
Gli elementi che permettono rilievi liturgici di questo titolo e la venerazione che ne propagò l'Ordine Agostiniano mettono in evidenza come la devozione popolare abbia avuto più risalto di quanto non ne avessero i testi della preghiera ufficiale. Il 4 febbraio 1804, per intervento del Sacrista Pontificio Ven. Giuseppe B. Menochio, viene approvato e concesso ai Religiosi della Provincia Agostiniana di Sicilia l'Ufficio proprio con Messa in onore della B.V. Maria detta "del Soccorso", con la qualifica di "rito doppio maggiore". Per lo stesso intervento, con decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 24 marzo 1804, il Papa Pio VII estendeva a tutto l'Ordine Agostiniano l'Ufficio e la Messa propria della Madonna del Soccorso. In tutti i libri liturgici dell'Ordine la venerazione a questo titolo è fissata al 13 maggio.
Nell'ultima edizione del Messale e del Libro delle Ore la memoria di questa tradizione tanto radicata tra gli Agostiniani è incomprensibilmente scomparsa.
Negli ultimi decenni il titolo, la storia e l'iconografia della Madonna del Soccorso, ritornata in auge per una serie di studi e ricerche, ha risuscitato la sensibilità di molti agostiniani d'Italia. Sono in corso lodevoli tentativi di riproporne la festa liturgica. Nell'ultima edizione del Rituale Agostiniano la Madonna del Soccorso è indicata tra i quattro titolo agostiniani mariani.
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MADONNA DEL BUON CONSIGLIO
Dei titoli con i quali l'Ordine Agostiniano onora Maria quello del Buon Consiglio è quello che ha avuto più successo e maggior diffusione tra il popolo. L'origine di questo titolo è dato dal Santuario agostiniano di Genazzano (Roma) ove dal 1467 è molto venerato un pregevole affresco raffigurante la Madonna teneramente stretta al collo dal Figlio Gesù. Gli inizi si riferiscono a un fatto in qualche modo prodigioso: una devotissima immagine della Madonna che si impone all'attenzione di tutti. Abbiamo la testimonianza del P. Ambrogio da Cori, provinciale agostiniano di Roma e poi Priore Generale, il quale ci dice che il 25 aprile 1467 all'ora del Vespro "quaedam imago Beatae Virginis in pariete dictae ecclesiae miraculose apparuit". Da questo testo si formò una suggestiva tradizione che si sviluppa anche su elementi storici.
Gli Agostiniani erano a Genazzano fin dal 1278 in un eremo esterno all'abitato, fuori di Porta Romana; nel 1356 furono chiamati dai Principi Colonna entro il paese per condurre una parrocchia che aveva sede nella chiesetta detta di S. Maria del Buon Consiglio. Passato un secolo la chiesa era ormai fatiscente e si rendeva necessaria una radicale ricostruzione. Chi si fece carico di questa opera adoperandosi anche per reperire i necessari fondi presso il popolo fu la Beata Petruccia, terziaria agostiniana, la quale, giunta all'esaurimento dei fondi di cui disponeva, continuava ad avere e a infondere agli altri viva fiducia, sicura che la Beata Vergine e S. Agostino sarebbero intervenuti per portare a termine la costruzione. Le preghiere furono esaudite e l'attesa fu premiata. Ed ecco che la sera del 25 aprile 1467, festa di S. Marco, all'ora del Vespro avveniva qualcosa che colse tutti di sorpresa e che fu subito interpretato come fatto prodigioso. La tradizione poi, fiorita su un dato di fatto sicuro ma non meglio precisato, si esprime raccontando che il dipinto di Genazzano proviene da Scutari in Albania al tempo dell'invasione dei Turchi e che, portato dagli angeli fino al Santuario, vi giunse la sera del 25 aprile accompagnato da due devoti che, sempre guardando in alto verso l'immagine sacra, senza accorgersi dell'ampio spazio di mare e di terra percorso, giunsero nella cittadina laziale stabilendovisi e dando origine a due famiglie che vi trasmisero l'onore di questo singolare privilegio.
Anche questa tradizione va letta nel suo preciso contesto sociale e culturale, ma certamente giustifica il fatto che Genazzano si è andata affermando sempre più come uno dei maggiori centri del culto mariano: ne sono prova l'ininterrotta serie di pellegrini che vi giungono da ogni parte, le visite fatte dagli stessi Pontefici e l'esistenza di una Associazione e Pia Unione, che accoglie i tanti devoti della Madonna del Buon Consiglio.
Scheda iconografica
Dal punto di vista iconografico l'immagine base è quella di Genazzano, un pregevole affresco definito da alcuni esperti "opera di pura arte romana del sec. XIII" e da altri "opera tardo-gotica-bizantina con influssi della scuola veneta". Indubbiamente una raffigurazione con un profondo ed evidente senso religioso e sacro, espresso tanto nel vigore del volto del Bambino quanto nella dolcezza dei lineamenti della Madre.
L'immagine si sviluppa su un tema: l'intenso abbraccio del Figlio alla Madre, ove appare con chiarezza che la fonte di energia è nel Dio incarnato, dal quale la Madre attinge forza e luce. Sono questi gli elementi che anche nella impostazione iconografica rispettano le linee del più corretto rapporto tra cristologia e mariologia.
L'iconografia di questo titolo ha avuto lungo i secoli una diffusione enorme, tanto da poter essere ritenuta l'immagine più diffusa a livello popolare con due caratteristiche: la sostanziale fedeltà all'immagine fondamentale e una infinita varietà negli elementi secondari. Comunque sempre e ovunque una immagine della Madonna del Buon Consiglio è da tutti immediatamente riconoscibile per i tratti fondamentali e costanti.
Altra caratteristica è che normalmente le raffigurazioni pittoriche sono di piccole dimensioni, rispettando anche in questo l'immagine originale di Genazzano.
La devozione popolare ha dato diffusione a una estesa quantità di immaginette e santini. Questi in realtà nel loro insieme esprimono una maggiore libertà di fantasia e di interpretazione, producendo disegni spesso simpatici, espressivi e molto raffinati.
Scheda liturgica
Il culto della Madre del Buon Consiglio, favorito dai Sommi Pontefici, diffuso dagli Agostiniani e sempre sostenuto dai fedeli, trova la sua espressione più elevata nella Liturgia che via via si andò formando. Nel 1727 papa Benedetto XIII concedeva al clero di Genazzano Messa e Ufficio propri fissando la data della festa il 25 aprile. A conclusione del processo condotto per verificare il fatto storico dell'apparizione, nel 1779 la Sacra Congregazione dei Riti approvò per il Santuario e il Convento di Genazzano l'Ufficio e la Messa dell'Apparizione dell'immagine del Buon Consiglio con Letture e Preghiere e altri testi propri ribadendo per la festa la data del 25 aprile e la qualifica liturgica di "rito doppio di prima classe con ottava". Nel 1781 il Priore Generale P. Francesco Saverio Vasquez chiese e ottenne che l'Officio venisse esteso a tutto l'Ordine Agostiniano con rito doppio maggiore; in tale circostanza la data della festa fu spostata al giorno successivo, come rimarrà poi in seguito e cioè il 26 aprile. Nell'edizione del 1782 del Breviario dell'Ordine appare fissata tutta la liturgia propria della festa della Madonna del Buon Consiglio. Nel 1788, su richiesta del P. Generale Stefano Bellesini, l'Officio di N.S. del Buon Consiglio è fissato a "doppio di seconda classe" per tutto l'Ordine. Nel 1884 l'Ordine Agostiniano ottiene da Leone XIII l'approvazione di un nuovo Officio con Messa in onore della Vergine del Buon Consiglio; seguirà una riforma del tutto rinnovata nel 1914 e infine quella attuale che porta la data 1976.
Nel 1903 Papa Leone XIII, che più volte manifestò la sua tenera devozione alla Madonna di Genazzano, dispose che nelle Litanie Lauretane dopo l'invocazione Mater admirabilis si invocasse la Vergine con il titolo Mater Boni Consilii. Nel Messale proprio dell'Ordine edito nel 1976 sono formulati i nuovi testi liturgici che mettono in evidenza questo titolo nel suo riferimento cristologico e mariologico. Nell'attuale Rituale dell'Ordine del 1981 il titolo mariano del Buon Consiglio è ricordato tra quelli ufficiali dell'Ordine. Il Messale Mariano edito dalla CEI riporta la Messa in onore di Maria Vergine Madre del Buon Consiglio (n. 33, p. 108).
Celebriamo con gioia, o Maria, il giorno in cui hai partorito il Salvatore: tu, sposa, il creatore delle nozze; tu, vergine, il principe dei vergini. Felice perché, ancor prima di dare alla luce il Cristo, hai accolto il Maestro, hai ascoltato la parola di Dio, e l'hai messa in pratica. Hai accolto la verità nella mente più che la carne nel ventre. Beata per averlo concepito, ma ancor più beata per averlo accettato con la tua fede. Con la carità fervente della tua fede hai meritato che in te sbocciasse quel santo Germe, Egli il Creatore che ti ha eletto e ti ha eletto per essere tua creatura. In te si è formato Colui che ti ha creato; in te si è fatto carne il Verbo di Dio. Il Verbo si è congiunto alla carne, ed è il tuo grembo il talamo del grande connubio. Vergine ti ha trovato nel suo concepimento; vergine ti ha lasciato nella sua nascita. Ti ha concesso la fecondità, ma non ti ha privato dell'integrità. Sei vergine, sei santa. Molto è quanto hai meritato, perché molto hai ricevuto. Hai meritato di dare alla luce il Figlio dell'Altissimo, ma eri umilissima. Hai fatto la volontà del Padre, e l'hai fatta per intero. Per questo sei santa, per questo sei beata! Ascolto il saluto dell'angelo e riconosco che in te è la mia salvezza. Ave, piena di grazia!
Sant'Agostino
Maria prima discepola di Cristo
"Ecco, fratelli miei, ponete attenzione, ve ne scongiuro, a ciò che dice Cristo Signore stendendo la mano verso i suoi discepoli: Sono questi mia madre e i miei fratelli. E se uno farà la volontà del Padre mio che mi ha inviato, egli è mio fratello, mia sorella e mia madre (Mt 12,49-50). Non fece forse la volontà del Padre la vergine Maria, la quale per la fede credette, per la fede concepì, fu scelta perché da lei la salvezza nascesse per noi tra gli uomini, e fu creata da Cristo prima che Cristo fosse creato nel suo seno? Santa Maria fece la volontà del Padre e la fece interamente; e perciò vale di più per Maria essere stata discepola di Cristo anziché madre di Cristo; vale di più, è una prerogativa felice essere stata discepola anziché madre di Cristo. Maria era felice poiché, prima di darlo alla luce, portò nel ventre il Maestro. Vedi se non è come dico. Mentre il Signore passava seguito dalle folle e compiva miracoli propri di Dio, una donna esclamò: Beato il ventre che ti ha portato! (Lc 11,27). Il Signore però, perché non si cercasse la felicità nella carne, che cosa rispose? Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (Lc 11,28). È per questo dunque che anche Maria fu beata, poiché ascoltò la parola di Dio e la mise in pratica. Custodì la verità nella mente più che la carne nel ventre. La verità è Cristo, la carne è Cristo: Cristo verità nella mente di Maria, Cristo carne nel ventre di Maria; vale più ciò che è nella mente anziché ciò che si porta nel ventre. Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la vergine Maria. Perché? Maria è una parte della Chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il corpo. Se è un membro di tutto il corpo, senza dubbio più importante di un membro è il corpo. Il capo è il Signore, e capo e corpo formano il Cristo totale. Che dire? Abbiamo un capo divino, abbiamo Dio per capo."
Sant' Agostino, Sermone 72/A, 7
Preghiera
Ti invoco, o Dio verità, fondamento, principio e ordinatore della verità di tutti gli esseri che sono veri, dal quale allontanarsi è cadere, verso cui voltarsi è risorgere, nel quale rimanere è aver sicurezza; nella tua misericordi, vieni da me! -
Soliloq. 1,3
Il profumo di Te
Sant'Agostino
Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d'ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'amplesso dell'uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov'è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio ( 10, 6, 8).
La felicità
Come ti cerco, dunque Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te (10, 20, 29).
La vera felicità
Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che si confessa a te, lontano il pensiero che qualsiasi godimento possa rendermi felice. C'è un godimento che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore, e il loro godimento sei tu stesso. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te, e fuori di questa non ve n'è altra. Chi crede ve ne sia un'altra, persegue un altro godimento, non il vero. Tuttavia da una certa immagine di godimento la loro volontà non si distoglie (10, 22, 32).
Dio, di te mi ricordo...
Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla tua ricerca, Signore; e fuori di questa non ti ho trovato. Nulla di te ho trovato, dal giorno in cui ti conobbi, che non sia stato un ricordo; perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona; e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. E' questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà (10, 24, 35).
Tu abiti nella mia memoria
Ma dove dimori nella mia memoria, Signore, dove vi dimori? Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei edificato? Hai concesso alla mia memoria l'onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando. Cercandoti col ricordo, ho superato le zone della mia memoria che possiedono anche le bestie, poiché non ti trovavo là, fra immagini di cose corporee. Passai alle zone ove ho depositato i sentimenti del mio spirito, ma neppure li ti trovai. Entrai nella sede che il mio spirito stesso possiede nella mia memoria, perché lo spirito ricorda anche se medesimo, ma neppure là tu eri, poiché, come non sei immagine corporea né sentimento di spirito vivo, quale gioia, tristezza, desiderio, timore, ricordo, oblio e ogni altro, così non sei neppure lo spirito stesso, essendo il Signore e Dio dello spirito, e mutandosi tutte queste cose, mentre tu rimari immutabile al di sopra di tutte le cose. E ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti conobbi! Perché cercare in quale luogo vi abiti? come se colà vi fossero luoghi. Vi abiti certamente, poiché io ti ricordo dal giorno in cui ti conobbi, e ti trovo nella memoria ogni volta che mi ricordo di te (10, 25, 36).
Dove ti trovai?
Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v'è spazio dovunque: a allontaniamo, ci avviciniamo, e non v'è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma volere piuttosto ciò che da te ode (10, 26, 37).
Tardi ti amai...
Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace (10, 27, 38)
La vera vita
Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te. Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo pieno di te, sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere, contrastano le afflizioni, di cui dovrei gioire, e non so da quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. Ahimè, Signore, abbi pietà di me! Ahimè! Vedi che non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato: tu sei misericordioso, io sono misero. Non è, forse, la vita umana sulla terra una prova? Chi vorrebbe fastidi e difficoltà? Il tuo comando è di sopportarne il peso, non di amarli. Nessuno ama ciò che sopporta, anche se ama di sopportare; può godere di sopportare, tuttavia preferisce non avere nulla da sopportare.
Nelle avversità desidero il benessere, nel benessere temo le avversità. Esiste uno stato intermedio fra questi due, ove la vita umana non sia una prova? Esecrabili le prosperità del mondo, una e due volte esecrabili per il timore dell'avversità e la contaminazione della gioia. Esecrabili le avversità del mondo, una e due volte esecrabili per il desiderio della prosperità e l'asprezza dell'avversità medesima e il pericolo che spezzi la nostra sopportazione. La vita umana sulla terra non è dunque una prova ininterrotta? (10, 28, 39).
Da' ciò che comandi
Ogni mia speranza è posta nell'immensa grandezza della tua misericordia. Da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Ci comandi la continenza e qualcuno disse: "Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono". La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell'unità, che abbiamo lasciato disperdendoci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami. Comandi la continenza. Ebbene, da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi (10, 29, 40).
Fortificami, affinché io sia potente
Ricordati, Signore, che siamo polvere, e con la polvere hai creato l'uomo, e si era perduto e fu ritrovato. Neppure l'Apostolo trovò in sé il suo potere, essendo polvere anch'egli, ma il tuo soffio gli ispirò le parole che tanto amo, quando disse: Tutto posso in colui che mi fortifica. Fortificami, affinché io sia potente; da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Quest'uomo riconosce i doni ricevuti, e, se si gloria, si gloria nel Signore; da un altro udii chiedere questa grazia: "Toglimi la concupiscenza del ventre". Ne risulta, santo Dio mio, che è un dono tuo, se facciamo ciò che ordini di fare (10, 31, 45).
Liberami da ogni tentazione
Tu, Padre buono, mi insegnasti che "tutto è puro per i puri", ma fa "male un uomo a mangiare con scandalo degli altri"; che ogni tua creatura è buona, e non si deve "respingere nulla di ciò che si prende rendendo grazie"; che "non è l'alimento a raccomandarci a Dio"; che "nessuno ci deve giudicare dal cibo o dalla bevanda che prendiamo", e "chi mangia non deve disprezzare chi non mangia, come chi non mangia non deve giudicare chi mangia". Ora lo so, e ti siano rese grazie e lodi, Dio mio, mio maestro, per aver bussato alle mie orecchie e illuminato la mia intelligenza. Liberami da ogni tentazione. Io non temo l'impurità delle vivande, temo l'impurità del desiderio (10, 31, 46).
O luce!
O Luce, che vedeva Tobia quando, questi occhi chiusi, insegnava al figlio la via della vita e lo precedeva col piede della carità senza mai perdersi; che vedeva Isacco con i lumi della carne sommersi e velati dalla vecchiaia, quando meritò non già di benedire i figli riconoscendoli, ma di riconoscerli benedicendoli; che vedeva Giacobbe quando, privato anch'egli della vista dalla grande età, spinse i raggi del suo cuore illuminato sulle generazioni del popolo futuro prefigurate nei suoi figlioli, e impose sui nipoti avuti da Giuseppe le mani arcanamente incrociate, non come il loro padre cercava di correggerlo esternamente, ma come lui distingueva internamente. Questa è la Luce, è l'unica Luce, è un'unica cosa coloro che la vedono e l'amano.
Viceversa questa luce corporale di cui stavo parlando insaporisce la vita ai ciechi amanti del secolo con una dolcezza suadente, ma pericolosa. Quando invece hanno imparato a lodarti anche per essa, Dio creatore di tutto, l'attirano nel tuo inno anziché farsi catturare da lei nel loro sonno. Così vorrei essere. Resisto alle seduzioni degli occhi nel timore che i miei piedi, con cui procedo sulla tua via, rimangano impigliati, e sollevo verso di te i miei occhi invisibili, affinché tu strappi dal laccio i miei piedi, come fai continuamente, poiché vi si lasciano allacciare. Tu non cessi di strapparli di là, mentre io ad ogni passo son fermo nelle tagliole sparse dovunque, perché tu non dormirai né sonnecchierai, custode d'Israele (10, 34, 52).
Sii tu la nostra gloria
Ma noi, Signore, siamo, ecco, il tuo piccolo gregge. Tienici dunque, stendi le tue ali, e ci rifugeremo sotto di esse. Sii tu la nostra gloria. Ci si ami per te, e in noi sia temuta la tua parola (10, 36, 59).
Signore, rivelami il mio animo
Ma ecco che in te, Verità, vedo come le lodi che mi si tributano non debbano scuotermi per me stesso, ma per il bene del prossimo. Se io sia già da tanto, non lo so. Qui conosco me stesso meno di come conosco te. Ti scongiuro, Dio mio, di rivelarmi anche il mio animo, affinché possa confessare ai miei fratelli, da cui aspetto preghiere, le ferite che vi scoprirò. M'interrogherò di nuovo, con maggiore diligenza: se nelle lodi che mi vengono tributate è l'interesse del prossimo a scuotermi, perché mi scuote meno un biasimo ingiusto rivolto ad altri che a me? perché sono più sensibile al morso dell'offesa scagliata contro di me, che contro altri, e ugualmente a torto, davanti a me? Ignoro anche questo? Non rimane che una risposta: io m'inganno da solo e non rispetto la verità davanti a te nel mio cuore e con la mia lingua. Allontana da me una simile follia, Signore, affinché la mia bocca non sia per me l'olio del peccatore per ungere il mio capo (10, 37,
O verità, vieni!
O Verità, quando non mi accompagnasti nel cammino, insegnandomi le cose da evitare e quelle da cercare, mentre ti esponevo per quanto potevo le mie modeste vedute e ti chiedevo consiglio? Percorsi con i sensi fin dove potei il mondo fuori di me, esaminai la vita mia, del mio corpo, e gli stessi miei sensi. Di lì entrai nei recessi della mia memoria, vastità molteplici colme in modi mirabili d'innumerevoli dovizie, li considerai sbigottito, né avrei potuto distinguervi nulla senza il tuo aiuto; e trovai che nessuna di queste cose eri tu. E neppure questa scoperta fu mia. Perlustrai ogni cosa, tentai di distinguerle, di valutarle ognuna secondo il proprio valore, quelle che ricevevo trasmesse dai sensi e interrogavo, come quelle che percepivo essendo fuse con me stesso. Investigai e classificai gli organi stessi che me le trasmettevano: infine entrai nei vasti depositi della memoria e rivoltai a lungo alcuni oggetti, lasciai altri sepolti e altri portai ana luce. Ma nemmeno la mia persona, impegnata in questo lavorio, o meglio, la stessa mia forza con cui lavoravo non erano te. Tu sei la luce permanente, che consultavo sull'esistenza, la natura, il valore di tutte le cose. Udivo i tuoi insegnamenti e i tuoi comandamenti. Spesso faccio questo, è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi della stretta delle occupazioni. Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te, non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te. Soltanto 1~ si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di mio si stacca da te. Talvolta m'introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita. Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell'abitudine. Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice ( 10, 40, 65).
Tu sei la Verità
Perciò considerai le mie debolezze peccaminose sotto le tre forme della concupiscenza e invocai per la mia salvezza l'intervento della tua destra. Vidi, pur col cuore ferito, il tuo splendore e, abbagliato, dissi: "Chi può giungervi?". Fui proiettato lontano dalla vista dei tuoi occhi. Tu sei la verità che regna su tutto, io nella mia avidità non volevo perderti, ma volevo possedere insieme a te la menzogna, come nessuno vuole raccontare il falso al punto d'ignorare egli stesso quale sia il vero. Così ti persi, poiché tu non accetti di essere posseduto insieme alla menzogna (10, 41, 66).
Quanto amasti noi!
Quanto amasti noi, Padre buono, che non risparmiasti il tuo unico Figlio, consegnandolo agli empi per noi! Quanto amasti noi, per i quali egli, non giudicando una usurpazione la sua uguaglianza con te, si fece suddito fino a morire in croce, lui, l'unico a essere libero fra i morti, avendo il potere di deporre la sua vita e avendo il potere di riprenderla, vittorioso e vittima per noi al tuo cospetto, e vittorioso in quanto vittima; sacerdote e sacrificio per noi al tuo cospetto, e sacerdote in quanto sacrificio; che ci rese, da servi, tuoi figli nascendo da te e servendo a noi! A ragione è salda la mia speranza in lui che guarirai tutte le mie debolezze grazie a Chi siede alla tua destra e intercede per noi presso di te. Senza di lui dispererei. Le mie debolezze sono molte e grandi, sono molte, e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che il tuo Verbo fosse lontano dal contatto dell'uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e non avesse abitato fra noi (10, 43, 69).
Signore, che io viva per te!
Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu me lo impedisti, confortandomi con queste parole: "Cristo morì per tutti affinché i viventi non vivano più per se stessi, ma per Chi morì per loro". Ecco, Signore, lancio in te la mia pena, per vivere; contemplerò le meraviglie della tua legge. Tu sai la mia inesperienza e la mia infermità, ammaestrami e guariscimi. Il tuo unigenito, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza, mi riscattò col suo sangue. Gli orgogliosi non mi calunnino, se penso al mio riscatto, lo mangio, lo bevo e lo distribuisco; se, povero, desidero saziarmi di lui insieme a quanti se ne nutrono e saziano. Loderanno il Signore coloro che lo cercano (10, 43, 70).
Confesso le mie miserie e le tue misericordie
Ignori forse, Signore, per essere tua l'eternità, ciò che ti dico, o vedi per il tempo ciò che avviene nel tempo? Perché dunque ti faccio un racconto particolareggiato di tanti avvenimenti? Non certo perché tu li apprenda da me. Piuttosto eccito in me e in chi li leggerà l'amore verso la tua persona. Tutti dovremo dire: "E' grande il Signore e ben degno di lode". Già lo dissi e lo dirò di nuovo: per amore del tuo amore m'induco a tanto. Noi preghiamo, certo; però la Verità dice: "Il Padre vostro sa cosa vi occorre prima ancora che glielo domandiate". Confessandoti dunque le nostre miserie e le tue misericordie su di noi, noi manifestiamo i nostri sentimenti verso di te, affinché tu possa completare la nostra liberazione già da te iniziata: affinché noi cessiamo di essere infelici in noi e ci rallegriamo in te che ci chiamasti a essere poveri nello spirito, e miti e piangenti, e affamati e assetati di giustizia, e misericordiosi e mondi in cuore, e pacifici. Ecco dunque ch'io ti narrai molti fatti, come potei e volli. Il primo a volere che mi confessassi a te, Signore Dio mio, poiché sei buono, poiché la tua misericordia è eterna, fosti tu (11, 1, 1).
Dammi ciò che amo!
Signore Dio mio, presta ascolto alla mia preghiera: la tua misericordia esaudisca il mio desiderio, che non arde per me solo, ma vuole anche servire alla mia carità per i fratelli. Tu vedi nel mio cuore che è così. Lascia che ti offra in sacrificio il servizio del mio pensiero e della mia parola, e prestami la materia della mia offerta a te. Sono misero e povero, tu ricco per tutti coloro che ti invocano, tu senza affanni, che ti affanni per noi. Recidi tutt'intorno alle mie labbra, dentro e fuori, ogni temerità e ogni menzogna. Siano le tue Scritture le mie caste delizie; ch'io non m'inganni su di esse, né inganni gli altri con esse. Signore, guarda e abbi pietà. Signore Dio mio, luce dei ciechi e virtù dei deboli, e tosto luce dei veggenti e virtù dei forti; volgi la tua attenzione sulla mia anima e ascolta chi grida dall'abisso. Se non fossero presenti anche nell'abisso le tue orecchie, dove ci volgeremo? a che grideremo?
Tuo è il giorno e tua la notte, al tuo cenno trasvolano gli istanti. Concedimene un tratto per le mie meditazioni sui segreti della tua legge, non chiuderla a chi bussa. Non senza uno scopo, certo, facesti scrivere tante pagine di fitto mistero; né mancano, quelle foreste, dei loro cervi, che vi si rifugiano e ristorano, vi spaziano e pascolano, vi si adagiano e ruminano. O Signore, compi la tua opera in me, rivelandomele. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce una voluttà superiore a tutte le altre. Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. Ti confesserò quanto scoprirò nei tuoi libri. Oh, udire la voce della tua lode, abbeverarsi di te, contemplare le meraviglie della tua legge fin dall'inizio, quando creasti il cielo e la terra, e fino al regno eterno con te nella tua santa città (11, 2, 3).
Signore, apri i recessi delle tue parole
Signore, abbi pietà di me ed esaudisci il mio desiderio. Non credo sia desiderio di cose terrene, di oro e argento e pietre preziose, o di vesti fastose, o di onori e potere, o di piaceri carnali, o di beni necessari al corpo durante il nostro pellegrinaggio in questa vita. Tutte queste cose ci vengono date in aggiunta, se cerchiamo il tuo regno e la tua giustizia. Vedi, Dio mio, ove s'ispira il mio desiderio. Gli empi mi hanno descritto le loro voluttà, difformi però dalla tua legge, Signore, e a questa s'ispira il mio desiderio. Vedi, Padre, guarda e vedi e approva, e piaccia agli occhi della tua misericordia che io trovi favore presso di te, affinché si aprano i recessi delle tue parole, a cui busso. Ti scongiuro per il Signore nostro Gesù Cristo, figlio tuo, eroe della tua destra, figlio dell'uomo, che stabilisti per te mediatore fra te e noi, per mezzo del quale ci cercasti mentre non ti cercavamo, e ci cercasti affinché ti cercassimo; il tuo Verbo, con cui creasti l'universo, e in esso me pure; il tuo Unigenito, per mezzo del quale chiamasti all'adozione il popolo dei credenti, e fra esso me pure. Per lui ti scongiuro, che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te; in cui sono ascosi tutti i tesori della sapienza e della scienza. Questi tesori appunto cerco nei tuoi libri. Mosè ne scrisse, egli stesso lo afferma, lo afferma la Verità (11, 2, 4).
Dammi ciò che amo!
Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi. Lascia che vi penetri e s'illuminino al lume della tua misericordia, Signore. Chi interpellare su questi argomenti, a chi confessare la mia ignoranza più vantaggiosamente che a te, cui non è sgradito il mio studio ardente, impetuoso delle tue Scritture? Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Dammi, o Padre, che davvero sai dare ai tuoi figli doni buoni; dammi, poiché mi sono proposto di conoscere e mi attende un lavoro faticos, finché tu mi schiuda la porta. Per Cristo ti supplico, in nome di quel santo dei santi nessuno mi disturbi. Anch'io ho creduto, perciò anche parlo. Questa è la mia speranza, per questa vivo: di contemplare le delizie del Signore (11, 22, 28).
Nel piccolo il grande
O Dio, concedi agli uomini di scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà (11, 23, 29).
Dio mio, non mento!
Ecco, Dio mio, davanti a te che non mento: quale la mia parola, tale il mio cuore. Tu, Signore Dio mio, illuminando la mia lucerna illuminerai le mie tenebre (11, 25, 32).
Insisti, spirito mio
Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto, egli ci fece, e non noi. Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità (11, 27, 34).
Signore, padre mio eterno!
Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l'Uno. Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso, non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste. Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue delizie, che non vengono né passano. Ora i miei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l'ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te (11, 29, 39).
Signore, quale abisso il tuo segreto!
Signore Dio mio, quale abisso il tuo profondo segreto, e come me ne hanno gettato lontano le conseguenze dei miei peccati! Guarisci i miei occhi, e parteciperò alla gioia della tua luce. Certo, se esistesse uno spirito di scienza e prescienza così potente da conoscere tutto il passato e il futuro come io una canzone delle più conosciute, susciterebbe, questo spirito, meraviglia e quasi sacro terrore, poiché nulla gli sfuggirebbe sia delle età già concluse, sia di quelle che rimangono: come a me che canto non sfugge sia la parte della canzone già passata dopo l'esordio, sia quella che resta fino alla fine.
Lontana invece l'idea che, creatore dell'universo, creatore delle anime e dei corpi, tu così conosci tutto il futuro e il passato! Tu assai, assai più mirabilmente e assai più misteriosamente. A chi canta o ascolta una canzone conosciuta, l'attesa delle note future e il ricordo delle passate modifica il sentimento e tende il senso. Nulla di simile accade a te, immutabilmente eterno, ossia davvero eterno creatore delle menti. Come conoscesti in principio il cielo e la terra senza modificazione della tua conoscenza, così creasti in principio il cielo e la terra senza tensione della tua attività. Chi lo capisce ti confessi, e anche chi non lo capisce ti confessi. Oh, quanto sei elevato! Eppure quanti si abbassano in cuore sono la tua casa. Tu infatti sollevi gli abbattuti, e non cadono quanti hanno in te la loro elevatezza (11, 31, 41).
Nulla si può fare senza di Lui
Sant'Agostino
Non dice: senza di me potete far poco, ma dice: "non potete far nulla". Non poco o molto, ma nulla si può fare senza di lui.
Gesù ha detto che egli è la vite, i suoi discepoli i tralci e il Padre l'agricoltore: su questo ci siamo già intrattenuti, come abbiamo potuto. In questa lettura, continuando a parlare di sé come vite e dei suoi tralci, cioè dei discepoli, il Signore dice: Rimanete in me e io rimarrò in voi (Gv 15, 4). Essi però sono in lui non allo stesso modo in cui egli è in loro. L'una e l'altra presenza non giova a lui, ma a loro. Sì, perché i tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Così, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite.
[Chi non è in Cristo, non è cristiano.]
2. Il Signore prosegue: Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me (Gv 15, 4). Questo grande elogio della grazia, o miei fratelli, istruisce gli umili, chiude la bocca ai superbi. Replichino ora, se ne hanno il coraggio, coloro che ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf. Rm 10, 3). Replichino i presuntuosi e quanti ritengono di non aver bisogno di Dio per compiere le opere buone. Non si oppongono forse a questa verità, da uomini corrotti di mente come sono, riprovati circa la fede (cf. 2 Tim 3, 8), coloro che rispondendo a sproposito dicono: Lo dobbiamo a Dio se siamo uomini, ma lo dobbiamo a noi stessi se siamo giusti? Che dite, o illusi, voi che non siete gli assertori ma i demolitori del libero arbitrio, che, per una ridicola presunzione, dall'alto del vostro orgoglio lo precipitate nell'abisso più profondo? Voi andate dicendo che l'uomo può compiere la giustizia da se stesso: questa è la vetta del vostro orgoglio. Se non che la Verità vi smentisce, dicendo: Il tralcio non può portar frutto da se stesso, ma solo se resta nella vite. Vi arrampicate sui dirupi senza avere dove fissare il piede, e vi gonfiate con parole vuote. Queste sono ciance della vostra presunzione. Ma ascoltate ciò che vi attende e inorridite, se vi rimane un briciolo di senno. Chi si illude di poter da sé portare frutto, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo, non è cristiano. Ecco l'abisso in cui siete precipitati.
3. Ma con attenzione ancora maggiore considerate ciò che aggiunge e afferma la Verità: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l'agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio. Siccome però senza la grazia è impossibile la vita, in potere del libero arbitrio non rimane che la morte. Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Gv 15, 6). I tralci della vite infatti tanto sono preziosi se restano uniti alla vite, altrettanto sono spregevoli se vengono recisi. Come il Signore fa rilevare per bocca del profeta Ezechiele, i tralci recisi dalla vite non possono essere né utili all'agricoltore, né usati dal falegname in alcuna opera (cf. Ez 15, 5). Il tralcio deve scegliere tra una cosa e l'altra: o la vite o il fuoco: se non rimane unito alla vite sarà gettato nel fuoco. Quindi, se non vuol essere gettato nel fuoco, deve rimanere unito alla vite.
4. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Gv 15, 7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l'avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole. Di sicuro fa parte delle sue parole l'orazione che egli ci ha insegnato e nella quale diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6, 9). Non allontaniamoci, nelle nostre richieste, dalle parole e dai sentimenti di questa orazione, e qualunque cosa chiederemo egli ce la concederà. Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Sal 102, 18). Molti, infatti, li conservano nella memoria per disprezzarli, per deriderli e combatterli. Non si può dire che dimorano le parole di Cristo in costoro, che sono, sì, in contatto con esse, ma senza aderirvi. Esse, perciò, non recheranno loro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di loro. E poiché quelle parole sono in loro, ma essi non le custodiscono, le posseggono soltanto per esserne giudicati e condannati.
Sandro Botticelli Visione di Sant’Agostino del fanciullo, Predella - Pala di San Barnaba 1487 - tempera su tavola - 268x280 cm - Firenze, Uffizi.
Secondo la leggenda un giorno Sant’Agostino, mentre si trovava meditabondo lungo il mare, ebbe la visione di Gesù bambino. L’episodio è noto e, benché non si sia trovato riscontro storico nelle fonti agostiniane, ha avuto molta fortuna nell’iconografia sul Santo d’Ippona. La leggenda compare, sotto forma di exemplum, nel XIII secolo in uno scritto Cesare d'Heisterbach dove protagonista era una vedova. L’attribuzione dell’episodio a Sant’Agostino reca la data 1263 e si fonda su alcune basi: una lettera apocrifa a Cirillo dove Agostino ricorderebbe una rivelazione divina con queste parole: Augustine, Augustine, quid quaeris ? Putasne brevi immittere vasculo mare totum? Cioè: «Agostino, Agostino che cosa cerchi? Pensi forse di poter mettere nella tua nave tutto il mare?» E un altro testo apocrifo dove San Girolamo discute con Sant’Agostino sulla capacità umana di comprendere il mistero divino.
La fortuna dell’episodio attesta la sua profonda verità. Quando l’uomo si attarda a scandagliare misteri che non gli competono naufraga e annega nello stesso mare che vorrebbe solcare.
Una delle opere più belle, che illustra il fatto, è contenuta nella predella della Pala di San Barnaba di Sandro Botticelli (agli Uffizi di Firenze). Sant’Agostino, vestendo i panni episcopali, i panni cioè di colui che, avendo raggiunto la pienezza del sacerdozio può, ex cattedra, educare alla fede, sta sul lungo mare. Quale mare, è impossibile dirlo. Alcuni ritengono possa essere Civitavecchia ma, in tal caso, i paramenti da vescovo indossati dal Santo costituirebbero un anacronismo, poiché quando Agostino si trova a Roma non è né prete, né vescovo. Per altri si tratta del mare di Ippona e ciò giustificherebbe la tenuta del Santo. Questa, del resto, pare la corrente di pensiero seguita da Botticelli.
L’episodio narra che, mentre Agostino scandagliava con la mente il Mistero della Trinità, vide un bimbo intento a giocare. Dapprima il santo vescovo non comprese l'origine divina di quel Bambino e lo stette ad osservare. Questi, correndo al mare, pescava dell'acqua con una conchiglia per poi, ritornando sulla spiaggia, riempire con essa una buca fatta nella sabbia.
Incuriosito dall'operazione ripetuta più e più volte, Agostino decide di interrogare il bambino: «Che fai?» Alla risposta del fanciullo rimane interdetto: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant'Agostino spiega pazientemente che ciò è impossibile. Il bambino fattosi serio replica: «È impossibile anche a te scandagliare con la piccolezza della tua mente l'immensità del Mistero divino». E detto questo sparì.
Botticelli veste di rosso l'uno e l'altro, indicando così la prossimità degli intenti: entrambi cercavano di circoscrivere un mistero insondabile. Il volto espressivo del Bambin Gesù di Botticelli, lascia intravedere lo sdegno e la sorpresa divina per un uomo fattosi sì ardito.
In fondo l'episodio, non a caso ai nostri giorni quasi dimenticato, si adatta anche alle velleità dell'uomo post-contemporaneo. Il desiderio di indagare, dominandoli, i grandi principi non negoziabili, come la vita, la morte, la dignità della persona e la distinzione orientata alla vita fra uomo e donna, avrà come naturale approdo il naufragio, la sconfitta, l'abbruttimento umano. Così Agostino insegna ancora, in questo pur dubbio episodio, una grande verità che, se osservata, può salvare l'uomo è la città.
La salvezza del mondo e della città era nascosta per Sant'Agostino, nella vita monastica, vero luogo dove la filosofia e financo la teologia diventano sapienza di vita. L’esperienza di Cassiciago, che lo portò alla conversione e al Battesimo, maturato anche grazie alle liturgie celebrate dal Vescovo Ambrogio nella città di Milano, plasmò il suo animo a comprendere che la vita monastica del grande Antonio (del quale aveva udito parlare rimanendone affascinato) non doveva essere prerogativa del deserto, ma poteva essere vissuta pienamente anche nella civitas. Le intuizioni avute a Cassiciago si concretizzarono meglio a Tagaste, luogo dove la celebre e discussa Regola Agostiniana prese forma. Ma sarà a Ippona che Agostino, divenuto sacerdote e poi vescovo, avrà modo di unire la vita monastica a quella apostolica dei chierici.
Una suggestiva pittura, attribuita a Niccolò di Pietro, raffigura il santo Padre Agostino con i discepoli ed esprime bene quello che fu la sua vita ad Ippona. Anche qui egli veste i panni del vescovo e tiene in mano la Parola circondato dai chierici. Il portale che incornicia il gruppo ricorda quella sorta di grande portale che apre la Regola Agostiniana: il motivo essenziale per cui vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un sol cuore protesi verso Dio.
La postura orante di ciascun membro dice la tensione verso Dio, mentre e i visi sereni rivolti al Padre Agostino dicono l’attitudine alla carità. La carità per Agostino era il grande modo di essere presenti. Solo la carità è capace di dilatarsi oltre i confini del Monastero. Solo la carità per il grande dottore della Chiesa, è salvezza della città. Per questo il portale dell’ambito monastico in cui si trovano gli agostiniani si apre generosamente allo sguardo di chi li osserva. L’ascolto di Dio, il pervenire alla sapienza era, per Agostino, a servizio ed edificazione della civitas. Lui che morì povero, ma ricco solo della sua biblioteca, dichiarò spesso di non aver mai scritto nulla per se, ma solo per gli amici e per la ricerca del vero e del Bene a servizio di molti. Non a caso nel Prologo della Città di Dio (scritta mentre era Vescovo) Agostino così si esprime: L’argomento di quest’opera […] l’ho intrapresa dietro tua richiesta per adempiere la promessa che ti ho fatto di difendere la città di Dio contro coloro che feriscono i loro dei e al suo fondatore
Il libro, in questo affresco, non a caso allora è al centro del gruppo. Tutto ruota attorno ad esso: un libro che non è certamente lettera morta, ma è segno della Presenza viva del Verbo.
Anche l'uomo post contemporaneo, dovrebbe imparare quello che Agostino sedici secoli or sono aveva già capito, l'uomo progredisce, la città si salva solo grazie a una Presenza, a una relazione che, fondata sul Tu eterno, apre agli infiniti tu dell’umanità.
In occasione della festa della conversione di Sant'Agostino,il 24 aprile i padri CRIC di Roma hanno organizzato un pellegrinaggio con gli Amici CRIC e l'Associazione Culturale Dom Adriano Grea presso la chiesa di Sant'Aura a Ostia antica dove é morta ed era sepolta Santa Monica, la mamma di Sant'Agostino
CONVERSIONE DI SANT’AGOSTINO – 24 APRILE
a cura di Padre Rinaldo Guarisco Padre Generale Cric e Presidente Associazione Culturale Dom Adriano Grea
PRIMA LETTURA: Romani 13,11-14a
Questo brano fa parte degli ultimi capitoli della lettera ai Romani. Dopo aver spiegato in modo approfondito il rapporto tra
la religione ebraica, con il suo attaccamento alla Legge e alle sue tradizioni, e la nuova vita in Cristo, Paolo passa alle conseguenze pratiche, indicando lo stile che il cristiano
deve assumere:
- il culto spirituale, la carità verso i fratelli ma anche verso i nemici, la sottomissione ai poteri civili.
-
I
cristiani di Roma quindi non hanno nessuna giustificazione, non possono più "dormire " o rimanere nello stile di vita precedente alla loro conversione.
11 Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno…
Qualche versetto prima (13,8-10) li ha esortati a osservare la legge della carità, ad avere amore gli uni verso gli altri… La legge della carità riassume in sé tutta la legge mosaica.
- Quindi i Romani vengono invitati ad amarsi gli uni gli altri, ad avere un atteggiamento di benevolenza.
12 La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Le immagini della notte e del giorno, della luce e delle tenebre sono riprese dalla liturgia battesimale. La luce è necessaria alla vita dell'uomo. La conversione a Cristo è da sempre rappresentata come un passaggio dal buio alla luce, dalle tenebre della morte e del peccato alla luce della vita.
13 Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e
gelosie.
In questo versetto Paolo scende nei particolari. La condotta del cristiano deve essere onesta, ricordare che il male fa male, che c'è una dignità che ci permette di vivere in gioia e pienezza. Cambiare l'atteggiamento che stride con lo stile cristiano.
Questi versetti sono quelli che hanno fatto convertire definitivamente sant'Agostino.
14 Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo
Gli interlocutori di Paolo si sono rivestiti delle vesti bianche nel giorno del battesimo, hanno così scelto di vivere secondo una vita nuova. In quella vita devono
continuare.
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CONVERSIONE DI AGOSTINO
Milano, tarda estate del 386.
Nel libro ottavo delle Confessioni Agostino racconta l’ultima lotta interiore in vista della conversione definitiva, ascoltando le
- testimonianze di alcuni personaggi che si sono convertiti
- leggendo la biografia dell’eremita egiziano Antonio e
- sollecitato già in precedenza dalle omelie del vescovo Ambrogio.
Rimorso e vergogna afferrano violentemente Agostino. Esce, seguito da Alipio, nel giardinetto annesso alla casa e lì, sconvolto dalla tempesta interiore, si apparta sotto un fico, disteso a terra, scoppia in un pianto dirotto.
Quand’ecco dalla casa vicina una voce sottile:
“Prendi e leggi”.
Agostino torna correndo presso Alipio, afferra il testo di San Paolo e vi legge quel versetto della lettera ai Romani ove si invita il cristiano ad abbandonare il disordine della carne per abbracciare Cristo. Una serenità ineffabile si diffonde nel suo cuore.
- Nella notte di Pasqua tra il 24-25 aprile del 387, dalle mani del vescovo Ambrogio, riceve il battesimo con Alipio e Adeodato (suo figlio).
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VANGELO: VEDOVA DI NAIM
IL SUO PIANTO E L’AFFETTO PER LA MORTE DEL FIGLIO
AGOSTINO PARLA DI SUA MIA MADRE
“La mia salvezza fu concessa alle lacrime sincere
che tutti i giorni mia madre versava” (Sant’Agostino)
* * *
Quando Agostino parla di sua madre sia nelle confessioni che in altri scritti, narra con sincerità non solo le virtù, ma anche quelli che sono o possono sembrare errori o difetti della madre.
Comunque per lui è stata una donna mistica.
Agostino fa una rievocazione commovente della figura di Monica. Egli sa di dover tutto a sua madre. Lo dice nella prima delle sue opere: “C’era con noi mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, tutto ciò che ho, tutto ciò che sto vivendo” (De beata).
Le doveva infatti:
- l’intelligenza che gli brillava nella mente,
- la passione per la verità che gli bruciava nel cuore,
- la nobiltà e la fortezza di carattere,
- l’educazione cristiana,
- il mantenimento agli studi;
- ma soprattutto le doveva la riconquista della fede.
Si sentiva doppiamente generato da lei: generato alla vita della terra e a quella del cielo.
Due perciò erano i fatti inseparabilmente presenti nella sua memoria:
- le lacrime della madre
- e la sua conversione.
Li ricorda ancora, ormai vecchio, in una delle ultime opere: “Ciò che narrai della mia conversione nei libri delle Confessioni, non ricordate che lo narrai in modo da dimostrare che la mia salvezza fu concessa alle lacrime sincere che tutti i giorni mia madre versava?”.
Meditiamo
- Sono un cristiano che "dorme", oppure mi sento sempre
coinvolto in un cammino di conversione?
- Vi sono nella mia vita delle zone di tenebra?
- E quindi, come posso fare per rivestirmi del Cristo risorto
e cambiare vita?
L’ESTASI DI OSTIA TIBERINA (durante il ritorno in Africa)
Lettore – Venne il momento di ripartire per l’Africa. Agostino e i suoi famigliari decisero infatti di tornare in patria per meglio servire Dio. In attesa dell’imbarco si fermarono ad Ostia, dove Monica morì. Come non ricordare qui la sua esistenza esemplare? Educata con vigile cura, guarita dal vizio del bere che, adolescente, aveva contratto, da sposa si adoprò con ammirevole pazienza a correggere il carattere intemperante del marito e guadagnarlo a Dio; fu modello e conforto alle amiche, serva di tutti e straordinariamente sollecita nel bene dei figli. A Ostia, pochi giorni prima della sua morte, Agostino stava con lei. Di questo soggiorno Agostino racconta nelle Confessioni l’episodio noto come estasi di Ostia.
Agostino – (Conf. Libro IX, 8.17) “…Presso Ostia Tiberina mia madre morì… Accogli la mia confessione e i miei ringraziamenti, Dio mio, per innumerevoli fatti, che pure taccio. Ma non tralascerò i pensieri che partorisce la mia anima al ricordo di quella tua serva, che mi partorì con la carne a questa vita temporale e col cuore alla vita eterna… All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire da questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, Accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d'uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta. Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d'amore verso l'Essere stesso, percorremmo su tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole e la luna e le stelle brillano sulla terra. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l'esaltazione, l'ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch'esse superammo per attingere la plaga dell'abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno…
Si diceva, dunque: "Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell'acqua e dell'aria, tacessero i cieli, e l'anima stessa si tacesse… e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: "Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece Chi permane eternamente"; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l'orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse… non sarebbe questo l'"entra nel gaudio del tuo Signore"? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati?".
Così dicevo, sebbene in modo e parole diverse. Fu comunque, Signore, tu sai, il giorno in cui avvenne questa conversazione… che mia madre disse:
Monica - "Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me. Cosa faccio ancora qui e perché sono qui, lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c'era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui?" (Conf. IX, 10.23-26).
LA MORTE DI MONICA
Lettore - Monica morì pochi giorni dopo questo colloquio con il figlio, che la pianse amaramente implorando dalla misericordia di Dio la sua salute eterna. Così per lei e per suo marito preghino i lettori. Agostino così ci racconta gli ultimi istanti della vita della madre. Era l’autunno del 387:
Agostino - “… Entro cinque giorni o non molto più, si mise a letto febbricitante e nel corso della malattia un giorno cadde in deliquio e perdette la conoscenza per qualche tempo. Noi accorremmo, ma in breve riprese i sensi, ci guardò, mio fratello e me, che le stavamo accanto in piedi, e ci domandò, quasi cercando qualcosa:
Monica - "Dov'ero?";
Agostino - Poi, vedendo il nostro afflitto stupore:
Monica - "Seppellirete qui, soggiunse, vostra madre".
Agostino - Io rimasi muto, frenando le lacrime; mio fratello invece pronunziò qualche parola, esprimendo l'augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma in patria, che sarebbe stata migliore fortuna. All'udirlo, col volto divenuto ansioso gli lanciò un'occhiata severa per quei suoi pensieri, poi, fissando lo sguardo su di me, esclamò:
Monica - "Vedi cosa dice",
Agostino - e subito dopo, rivolgendosi a entrambi:
Monica - "Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all'altare del Signore" (Conf. IX, 11.27).
Agostino – Espressa così come poteva a parole la sua volontà, tacque. Il male aggravandosi la fece soffrire… Al nono giorno della sua malattia, nel cinquantaseiesimo della sua vita, trentatreesimo della mia vita, quell’anima credente e pia fu liberata dal corpo. Le chiudevo gli occhi e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino a disseccarlo…
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PREGHIERA A SANTA MONICA
Santa Monica, prega per noi,
affinché possiamo avere la stessa fede incrollabile
e lo stesso amore per Dio che hai avuto tu.
Aiutaci a perseverare nelle sfide della vita
e ad avere fiducia nel piano di Dio per noi.
Possa il tuo esempio ispirarci
ad essere servitori fedeli e devoti di Dio,
e possiamo un giorno unirci a te
nel regno celeste. Amen.
SANT’AGOSTINO
Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, una piccola città dell’attuale Algeria, l’odierna Souk Ahras.
Monica, la madre, era cristiana; il padre, Patrizio, era invece pagano e solo alla fine della vita aderì alla fede cattolica.
Agostino muore nella sua Tagaste circondata dai Vandali il 28 agosto del 430, dopo 40 anni di intensissimo e fecondo servizio episcopale, all’età di 76 anni.
Le sue intuizioni filosofiche, letterarie e teologiche ne fanno un genio del cristianesimo e dell'umanità intera. Le sue aspirazioni e la sua esperienza spirituale, trasmesse soprattutto con la sua "Regola", hanno segnato e continuano a segnare il cammino ad una schiera innumerevole di uomini e donne, affascinati dalla sua figura e trascinati dal suo esempio
Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore
Sant'Agostino
Andate in tutto il mondo!
“Chi fa esperienza di una gioia profonda non è capace di contenerla in sé; anzi, desidera parteciparla ad un numero sempre maggiore di persone, perché è nella condivisione che se ne apprezza la ricchezza. Questo atteggiamento è ancor più vero quando nel nostro cuore conserviamo la buona novella di Cristo. Chi ha conosciuto Cristo, non può trattenere per sé questo dono: egli ne diviene martire, cioè testimone in parole ed opere. Ogni indugio è rimosso: in qualunque spazio e tempo ci troviamo e dinanzi ad una qualsiasi richiesta, siamo chiamati a rendere ragione della fede che è in noi, perché non avvenga che rinnegando Cristo incorriamo nella sventura di essere rinnegati da Lui nel giudizio finale.”
Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm. 260/E, 2)
Testimoni della risurrezione
“Anche voi, dunque, dite: Non possiamo non parlare di ciò che abbiamo udito; non possiamo non evangelizzare Cristo Signore. Ciascuno lo annunzi dovunque gli è possibile, e così è martire. Capita però, a volte, a certi che non debbano subire persecuzioni ma solo una qualche derisione: eppure si spaventano. Un tale, ad esempio, si trova a pranzo in mezzo a pagani, ed eccolo arrossire perché lo chiamano cristiano. Se ha timore d'un commensale, come potrà tenere incalcolate le minacce d'un persecutore? Suvvia dunque! Parlate di Cristo dovunque potete, con chiunque potete, in tutte le maniere che potete. Quello che si esige da voi è la fede, non l'abilità nel parlare. Parli la fede che vi nasce dal cuore, e sarà Cristo a parlare. Se infatti è in voi la fede, abita in voi Cristo. Avete udito il Salmo: Ho creduto e perciò ho anche parlato (Ps 115, 10). Non poteva aver fede e, insieme, restarsene muto. Chi non dona è ingrato verso colui che l'ha colmato di doni. Ciascuno pertanto deve comunicare le cose di cui è stato riempito. Da lui deve scaturire una fonte che sempre versa e mai si dissecca. Scaturirà in lui una fonte d'acqua che zampilla per la vita eterna (Io 4, 14)..Dio volle avere come suoi testimoni gli uomini, affinché a loro volta gli uomini abbiamo come loro testimone Dio stesso. “(In Io Ep. 1, 2)
Toccare Cristo con il cuore: questa è fede sincera!
"Credetelo così e l’avrete toccato, toccatelo in modo da aderire a Lui; aderite in modo da mai separarvene"
(Sermo 229/L, 2)
E adesso, fratelli miei, Gesù è in cielo. Quando era con i suoi discepoli nella sua carne visibile, nella sua sostanza corporale toccabile, fu visto e fu toccato: ma ora che siede alla destra del Padre, chi di noi lo può toccare? E tuttavia guai a noi se con la fede non lo tocchiamo! Tutti lo tocchiamo, se crediamo. Certo, egli è in cielo, certo è lontano, certo non si può immaginare per quali infiniti spazi disti da noi. Ma se credi, lo tocchi. Che dico, lo tocchi? Proprio perché credi, presso di te hai colui nel quale credi. Ma allora, se credere è toccare, anzi se toccare è credere, come si spiega: Non mi toccare, perché non sono ancora salito al Padre mio (Io 20, 17)? Che vuol dire? Perché vai cercando la mia carne se ancora non comprendi la mia divinità? Volete sapere come questa donna lo voleva toccare? Essa stava cercando un morto, non credeva che egli sarebbe risorto. Hanno portato via il mio Signore dal sepolcro (Io 20, 2); e lo piange come uomo. Oh! Toccarlo! Ed egli, vedendola tutta preoccupata nei riguardi della sua condizione di servo e che ancora non sapeva né gustare, né credere, né comprendere quella condizione di Dio per la quale è uguale al Padre, differisce il toccare, perché sia un toccare più completo. Non mi toccare, dice, perché non sono ancora salito al Padre mio. Tu mi tocchi prima che io risalga al Padre e mi credi solo uomo: che ti giova quel che credi? Fammi dunque risalire al Padre. Lassù da dove mai mi sono allontanato, è per te che io salgo, se mi crederai uguale al Padre. Difatti il Signore nostro Gesù Cristo non è disceso dal Padre lasciando il Padre; e anche nel risalire via da noi non si è allontanato da noi. Infatti quando stava per risalire e sedere alla destra del Padre, disse in anticipo ai suoi discepoli: Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo (Mt 28, 20)
Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm. 229/K, 1-2)
Ora noi non abbiamo nessuna possibilità di toccare qualche parte del corpo di Cristo, ma abbiamo la possibilità di leggere quello che di Lui si dice. Tutto nelle Scritture parla di Cristo; purché ci siano orecchie ad ascoltare. (In Io. Ep. tr. 2, 1)
La conversione fa germogliare uomini nuovi!
Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm 236, 2-3)
“Imparate ad accogliere gli ospiti, nella cui persona si riconosce Cristo. O che non sapete ancora che, tutte le volte che accogliete un cristiano, accogliete Cristo? Non lo dice forse lui stesso: Ero forestiero e mi avete accolto? E se gli replicheranno: Ma quando, Signore, ti abbiamo visto forestiero, risponderà: Tutte le volte che l'avete fatto a uno dei miei fratelli, fosse anche il più piccolo, l'avete fatto a me (Mt 25, 35. 38. 40). Quando dunque un cristiano accoglie un altro cristiano, è un membro che si pone al servizio di un altro membro, e con questo reca gioia al capo, che ritiene dato a sé ciò che si elargisce a un suo membro. Ebbene, finché siamo quaggiù, si dia il cibo a Cristo che ha fame, si dia da bere a lui assetato, lo si vesta quando è nudo, lo si ospiti quand'è pellegrino, lo si visiti quando è malato. Queste cose comporta l'asperità del cammino. Così dobbiamo vivere nel presente pellegrinaggio durante il quale Cristo è nel bisogno: ha bisogno nei suoi, pur essendo pieno di tutto in sé. Ma colui che nei suoi è bisognoso, mentre in sé abbonda di tutto, convocherà attorno a sé tutti i bisognosi. E vicino a lui non ci sarà più né fame né sete, né nudità né malattia, né migrazioni né stenti né dolore. So che tutti questi bisogni lassù non ci saranno, ma non so cosa ci sarà. Che tutte queste cose non ci saranno l'ho potuto apprendere; quanto invece a quel che troveremo lassù, non c'è stato occhio che l'abbia visto né orecchio che l'abbia udito né cuore d'uomo in cui sia penetrato (1 Cor 2, 9). Lo possiamo amare, lo possiamo desiderare; durante il presente esilio possiamo sospirare il possesso di un tanto bene; ma non possiamo raggiungere col pensiero né spiegare adeguatamente a parole quel che esso sia, o, per lo meno, io non ne sono capace. Cercatevi pure, o fratelli, qualcuno che abbia tale capacità, e, se vi riuscirà di trovarlo, trascinate da lui anche me insieme con voi perché divenga suo discepolo. Quanto a me, so una cosa sola, che cioè Dio - come dice l'Apostolo - ha la potenza di compiere opere che superano la nostra facoltà di chiedere e di comprendere (Eph 3, 20). Egli ci condurrà là dove si realizzeranno le parole scritturali: Beati coloro che abitano nella tua casa! Ti loderanno nei secoli dei secoli (Ps 83, 5). Tutta la nostra occupazione sarà la lode di Dio. E cosa loderemo se non ciò che ameremo? E null'altro ameremo se non ciò che vedremo. Vedremo la verità, e questa verità sarà Dio stesso, di cui canteremo la lode. Lassù troveremo ciò di cui oggi abbiamo cantato: troveremo l'Amen, cioè Quel che è vero, e l'Alleluia, cioè: Lodate il Signore.”
O Signore, va’ in aiuto a quei discepoli! Spezza loro il pane perché ti riconoscano. Se tu non li riconduci sono perduti. (Sermo 236/A, 3)
Perle di saggezza!
Sant'Agostino
Pondus meum amor meus, eo feror quocumque feror.
Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. (Confess. 13, 9, 10)
Quis autem veraciter laudat, nisi qui sinceriter amat?
Chi mai loda veramente, se non chi ama sinceramente? (Ep. 140, 18, 45)
Pedes tui, caritas tua est.
I tuoi piedi sono il tuo amore. (En. in ps. 33, d. 2, 10)
Dic animae meae: salus tua ego sum. Sic dic, ut audiam. Ecce aures cordis mei ante te, Domine; aperi eas et dic animae meae: salus tua ego sum.
Dì all'anima mia: Io sono la tua salvezza (Ps 34, 3). Dillo, che io l'oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, o Signore. Aprile, e dì all'anima mia: Io sono la tua salvezza. (Confess. 1, 5, 5)
Doce ergo me suavitatem inspirando caritatem ... Doce me disciplinam donando patientiam, doce me scientiam illuminando intelligentiam.
Insegnami la dolcezza ispirandomi la carità, insegnami la disciplina dandomi la pazienza e insegnami la scienza illuminandomi la mente. (En. in ps. 118, 17, 4)
Amor, qui semper ardes et numquam extingueris, caritas, Deus meus, accende me!
O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami! (Confess. 10, 29, 40)
Da quod amo: amo enim. Et hoc tu dedisti. Ne dona tua deseras, nec herbam tuam spernas sitientem.
Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. (Confess. 11, 2, 3)
Ama et propinquabit; ama et habitabit.
Ama ed egli si avvicinerà, ama ed egli abiterà in te. (Serm. 21, 2)
Da mihi amantem et sentit quod dico.
Dammi un innamorato e capirà quello che dico. (De cons. Evang. 26, 4)
Ogni amore o ascende o discende; dipende dal desiderio: se è buono ci innalziamo a Dio, se è cattivo precipitiamo nell'abisso... (En. in ps. 122, 1)
Ibi vacabimus et videbimus, videbimus et amabimus, amabimus et laudabimus.
(Nella città celeste) Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. (De civ. Dei 22, 30. 5)
Domine Deus, pacem da nobis - omnia enim praestitisti nobis - pacem quietis, pacem sabbati, pacem sine vespera.
Signore Dio, poiché tutto è tuo, donaci la pace, la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto. (Confess. 13, 35, 50)
I
In concordia Christi omnes una anima sumus.
Nell'unione dell'amore di Cristo siamo tutti una sola anima. (En. in ps. 62, 5)
Non est extra nos: in ipsius membris sumus, sub uno capite regimur, uno spiritu omnes vivimus, unam patriam omnes desideramus.
Non è fuori di noi. Siamo nelle sue membra, siamo retti tutti sotto un solo capo, viviamo di un solo spirito tutti e desideriamo tutti una sola patria. (En. in ps. 64, 7)
Nonne vides quia perdidisti quod non dedisti?
Non ti accorgi che hai perso quello che non hai donato? (En. in ps. 36, 3, 8)
Non stat ergo aetas nostra: ubique fatigatio est, ubique lassitudo, ubique corruptio.
La nostra vita, nelle sue varie età, non s'arresta; e dovunque c'è fatica, dovunque stanchezza, dovunque deterioramento. (En. in ps. 62, 6)
In isto deserto, quam multipliciter laborat, tam multipliciter sitit; quam multipliciter fatigatur, tam multipliciter sitit illam infatigabilem incorruptionem.
In questo deserto, siccome in molti modi si soffre, così in molti modi si ha sete. In molti modi ci si stanca, e in molti modi si ha sete di quella incorruttibilità che non conosce stanchezza. (En. in ps. 62, 6)
Et diligendo fit et ipse membrum, et fit per dilectionem in compage corporis Christi, et erit unus Christus amans se ipsum.
E amando, anch'egli diventa un membro e per mezzo dell'amore viene ad appartenere all'unità del Corpo di Cristo; e sarà un solo Cristo che ama se stesso. (In Io. Ep. tr. 10, 3)
Ipsum verum non videbis nisi in philosophiam totus intraveris.
Non potrai vedere la verità se non ti immergerai completamente nella filosofia. (Contra Acad. 2, 3, 8)
Hoc esse philosophari, amare Deum cuius natura sit incorporalis.
Esercitare la filosofia è amare Dio la cui natura è incorporea. (De civ. Dei 8, 8)
Causa contitutae universitatis, et lux percipiendae veritatis et fons bibendae felicitatis.
La sorgente della costituzione del tutto, la luce della verità che siamo chiamati a raggiungere e la fonte della felicità che siamo chiamati a bere. (De civ. Dei 8, 10, 2)
La parola chiave del lettore:
Siete occhi che guardano e che sognano!
Continuate a sognare, a inquietarvi, a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità universale.
Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio!
Papa Francesco