Canta e cammina.. l'Amore è tutto! Sant'Agostino

Mi dà speranza un Signore che mi assicura: il tuo desiderio di amore è già amore. Il tuo desiderio di preghiera è già preghiera. Il tuo desiderio di incontrarmi è già incontro

 

Tu non mi cercheresti se io non ti avessi già trovato

 

Sant'Agostino

 

 

 

“Dio ama ognuno di noi come se ci fosse solo uno di noi.”

 

Sant'Agostino 

  

  Invocheremo il Tuo nome

 

 

 

 

 

Seguiamo le sue vie che egli ci ha mostrato, in modo particolare la via dell'umiltà, perché egli stesso è divenuto umile per noi. Ci ha mostrato con l'insegnamento la via dell'umiltà e l'ha percorsa soffrendo per noi

 

 

allora con verità possiamo cantare: Confesseremo a te, Dio, confesseremo a te e invocheremo il tuo nome. Dio china a noi il suo orecchio. Egli è in alto, noi in basso. Egli è sulla vetta, noi nella miseria; ma non siamo abbandonati.

Felici in Dio

Vieni in me, Spirito Santo, Spirito di sapienza:

donami lo sguardo e l'udito interiore,

perchè non mi attacchi alle cose materiali, ma ricerchi sempre le realtà spirituali.

Vieni in me, Spirito Santo, Spirito dell'amore:

riversa sempre più la carità nel mio cuore.

Vieni in me, Spirito Santo, Spirito di verità:

concedimi di pervenire alla conoscenza della verità in tutta la sua pienezza.

Vieni in me, Spirito Santo,

acqua viva che zamplilla per la vita eterna:

fammi la grazia di giungere a contemplare il volto del Padre

 

nella vita e nella gioia senza fine.

 

Sant'Agostino

Con tutte le tue forze ama!

 

Sant'Agostino

 

 

Secondo quale ordine noi possiamo avere il vero amore, la vera carità, ce lo insegna il Signore stesso nel Vangelo con molta chiarezza: Ama il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze; e il prossimo tuo come te stesso. Dunque per prima cosa ama Dio, poi impara ad amare te stesso, quindi amerai il prossimo allo stesso modo di te stesso, perché se non avrai imparato ad amare te stesso, non potrai amare neppure il prossimo secondo verità. Infatti parecchie persone credono di amare se stesse in modo legittimo quando rapinano beni altrui, si ubriacano, si danno ai piaceri carnali, conseguono guadagni ingiusti, spargendo calunnie. Costoro devono prestare ascolto alla Scrittura: Chi ama l’ingiustizia, odia la sua anima . Uno che ami l’ingiustizia, manifesta con ciò odio per se stesso, e non so come possa avere amore per Dio e il prossimo. Volendo dunque rispettare l’ordine del vero amore, tu devi operare secondo giustizia, amare la misericordia, fuggire la lussuria; devi cominciare a voler bene non solo agli amici, ma anche ai nemici, come ha ordinato il Signore. E una volta che ti sia impegnato a osservare fedelmente questi comandamenti, salendo di virtù in virtù come su per gradini, potrai meritare di amare Dio con tutto il tuo animo, con tutte le tue forze. 

Portiamo frutto con l'Amore!

 

Sant'Agostino

 

Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Gv 15, 17). E' precisamente questo il frutto che egli intendeva quando diceva: Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole. E quanto a ciò che ha aggiunto: affinché il Padre vi dia ciò che chiederete nel mio nome, vuol dire che egli manterrà la sua promessa, se noi ci ameremo a vicenda. Poiché egli stesso ci ha dato questo amore vicendevole, lui che ci ha scelti quando eravamo infruttuosi non avendo ancora scelto lui. Egli ci ha scelto e ci ha costituiti affinché portiamo frutto, cioè affinché ci amiamo a vicenda: senza di lui non potremmo portare questo frutto, così come i tralci non possono produrre alcunché senza la vite. Il nostro frutto è dunque la carità che, secondo l'Apostolo, nasce da un cuore puro e da una coscienza buona e da una fede sincera (1 Tim 1, 5). E' questa carità che ci consente di amarci a vicenda e di amare Dio: l'amore vicendevole non sarebbe autentico senza l'amore di Dio. Uno infatti ama il prossimo suo come se stesso, se ama Dio; perché se non ama Dio, non ama neppure se stesso. In questi due precetti della carità si riassumono infatti tutta la legge e i profeti (cf. Mt 22, 40): questo il nostro frutto. E a proposito di tale frutto ecco il suo comando: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri. Per cui l'apostolo Paolo, volendo contrapporre alle opere della carne il frutto dello spirito, pone come base la carità: Frutto dello spirito è la carità; e ci presenta tutti gli altri frutti come derivanti dalla carità e ad essa strettamente legati, e cioè: la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la fedeltà, la mitezza, la temperanza (Gal 5, 22). E in verità come ci può essere gioia ben ordinata se ciò di cui si gode non è bene? Come si può essere veramente in pace se non con chi sinceramente si ama? Chi può essere longanime, rimanendo perseverante nel bene, se non chi ama fervidamente? Come può dirsi benigno uno che non ama colui che soccorre? Chi è buono se non chi lo diventa amando? Chi può essere credente in modo salutare, se non per quella fede che opera mediante la carità? Che utilità essere mansueto, se la mansuetudine non è ispirata dall'amore? E come potrà uno essere continente in ciò che lo contamina, se non ama ciò che lo nobilita? Con ragione, dunque, il Maestro buono insiste tanto sull'amore ritenendo sufficiente questo solo precetto. Senza l'amore tutto il resto non serve a niente, mentre l'amore non è concepibile senza le altre buone qualità grazie alle quali l'uomo diventa buono.

 

 

Dio ti guarda

 

Sant'Agostino

 

Se senti vacillare la Fede,

per la violenza della tempesta,

calmati!

Dio Ti Guarda.

 

Se ogni cosa che passa cade

nel nulla,

senza più ritornare,

calmati!

Dio Rimane.

 

Se il Tuo cuore è agitato

e in preda alla tristezza,

calmati!

Dio Perdona.

 

Se la morte Ti spaventa

e temi il mistero e l'ombra

del sonno notturno,

calmati!

Dio Risveglia.

 

Dio ci Ascolta

quando nulla ci risponde;

è con noi quando ci crediamo soli.

 

Ci Ama anche quando

 

sembra che ci abbandoni

Tu eri dentro di me, e io fuori.

 

E là ti cercavo.

 

Sant'Agostino

 

C’è una favola che Agostino ha inventato quando era giovane per descrivere gli ostacoli che aveva incontrato nella sua ricerca della verità. Questa favola racconta di Filocalia (amore della bellezza) e di Filosofia (amore della sapienza) che Agostino immagina come due sorelle che volano nel cielo alla ricerca dell’oggetto del loro desiderio. Filocalia resta però intrappolata nel viscum libidinis, cioè rimane intrappolata nella bellezza delle cose sensibili, che le impediscono di continuare a volare. Filocalia è addirittura deformata dalle cose a cui si è incollata. Solo Filosofia riuscirà a liberarla e a portarla al di là di un’attrazione superficiale delle cose del mondo.

 

 

Chissà qual è il nostro vero nome! Chissà cosa cerchiamo veramente. Forse siamo rimasti anche noi intrappolati nella nostra ricerca, forse non riusciamo più a muoverci e abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a riprendere il nostro volo.

 

 

Questo passo del Vangelo di Giovanni ci parla di persone che cercano. Si mettono in cammino perché c’è qualcosa che le attrae nella persona di Gesù. Non sanno ancora con precisione di cosa si tratti, ma intanto si sono messe in cammino.

Tu abiti nella nostra vita 

 

Sant'Agostino

 

Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d'ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'amplesso dell'uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov'è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio ( 10, 6, 8).

 

La felicità

Come ti cerco, dunque Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te (10, 20, 29).

 

La vera felicità

Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che si confessa a te, lontano il pensiero che qualsiasi godimento possa rendermi felice. C'è un godimento che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore, e il loro godimento sei tu stesso. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te, e fuori di questa non ve n'è altra. Chi crede ve ne sia un'altra, persegue un altro godimento, non il vero. Tuttavia da una certa immagine di godimento la loro volontà non si distoglie (10, 22, 32).

 

Dio, di te mi ricordo...

Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla tua ricerca, Signore; e fuori di questa non ti ho trovato. Nulla di te ho trovato, dal giorno in cui ti conobbi, che non sia stato un ricordo; perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona; e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. E' questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà (10, 24, 35).

 

Tu abiti nella mia memoria

Ma dove dimori nella mia memoria, Signore, dove vi dimori? Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei edificato? Hai concesso alla mia memoria l'onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando. Cercandoti col ricordo, ho superato le zone della mia memoria che possiedono anche le bestie, poiché non ti trovavo là, fra immagini di cose corporee. Passai alle zone ove ho depositato i sentimenti del mio spirito, ma neppure li ti trovai. Entrai nella sede che il mio spirito stesso possiede nella mia memoria, perché lo spirito ricorda anche se medesimo, ma neppure là tu eri, poiché, come non sei immagine corporea né sentimento di spirito vivo, quale gioia, tristezza, desiderio, timore, ricordo, oblio e ogni altro, così non sei neppure lo spirito stesso, essendo il Signore e Dio dello spirito, e mutandosi tutte queste cose, mentre tu rimari immutabile al di sopra di tutte le cose. E ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti conobbi! Perché cercare in quale luogo vi abiti? come se colà vi fossero luoghi. Vi abiti certamente, poiché io ti ricordo dal giorno in cui ti conobbi, e ti trovo nella memoria ogni volta che mi ricordo di te (10, 25, 36).

 

Dove ti trovai?

Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v'è spazio dovunque: a allontaniamo, ci avviciniamo, e non v'è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma volere piuttosto ciò che da te ode (10, 26, 37).

 

Tardi ti amai...

Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace (10, 27, 38)

 

La vera vita

Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te. Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo pieno di te, sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere, contrastano le afflizioni, di cui dovrei gioire, e non so da quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. Ahimè, Signore, abbi pietà di me! Ahimè! Vedi che non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato: tu sei misericordioso, io sono misero. Non è, forse, la vita umana sulla terra una prova? Chi vorrebbe fastidi e difficoltà? Il tuo comando è di sopportarne il peso, non di amarli. Nessuno ama ciò che sopporta, anche se ama di sopportare; può godere di sopportare, tuttavia preferisce non avere nulla da sopportare.

 

Nelle avversità desidero il benessere, nel benessere temo le avversità. Esiste uno stato intermedio fra questi due, ove la vita umana non sia una prova? Esecrabili le prosperità del mondo, una e due volte esecrabili per il timore dell'avversità e la contaminazione della gioia. Esecrabili le avversità del mondo, una e due volte esecrabili per il desiderio della prosperità e l'asprezza dell'avversità medesima e il pericolo che spezzi la nostra sopportazione. La vita umana sulla terra non è dunque una prova ininterrotta? (10, 28, 39).

 

Da' ciò che comandi

Ogni mia speranza è posta nell'immensa grandezza della tua misericordia. Da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Ci comandi la continenza e qualcuno disse: "Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono". La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell'unità, che abbiamo lasciato disperdendoci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami. Comandi la continenza. Ebbene, da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi (10, 29, 40).

 

Fortificami, affinché io sia potente

Ricordati, Signore, che siamo polvere, e con la polvere hai creato l'uomo, e si era perduto e fu ritrovato. Neppure l'Apostolo trovò in sé il suo potere, essendo polvere anch'egli, ma il tuo soffio gli ispirò le parole che tanto amo, quando disse: Tutto posso in colui che mi fortifica. Fortificami, affinché io sia potente; da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Quest'uomo riconosce i doni ricevuti, e, se si gloria, si gloria nel Signore; da un altro udii chiedere questa grazia: "Toglimi la concupiscenza del ventre". Ne risulta, santo Dio mio, che è un dono tuo, se facciamo ciò che ordini di fare (10, 31, 45).

 

Liberami da ogni tentazione

Tu, Padre buono, mi insegnasti che "tutto è puro per i puri", ma fa "male un uomo a mangiare con scandalo degli altri"; che ogni tua creatura è buona, e non si deve "respingere nulla di ciò che si prende rendendo grazie"; che "non è l'alimento a raccomandarci a Dio"; che "nessuno ci deve giudicare dal cibo o dalla bevanda che prendiamo", e "chi mangia non deve disprezzare chi non mangia, come chi non mangia non deve giudicare chi mangia". Ora lo so, e ti siano rese grazie e lodi, Dio mio, mio maestro, per aver bussato alle mie orecchie e illuminato la mia intelligenza. Liberami da ogni tentazione. Io non temo l'impurità delle vivande, temo l'impurità del desiderio (10, 31, 46).

 

O luce!

O Luce, che vedeva Tobia quando, questi occhi chiusi, insegnava al figlio la via della vita e lo precedeva col piede della carità senza mai perdersi; che vedeva Isacco con i lumi della carne sommersi e velati dalla vecchiaia, quando meritò non già di benedire i figli riconoscendoli, ma di riconoscerli benedicendoli; che vedeva Giacobbe quando, privato anch'egli della vista dalla grande età, spinse i raggi del suo cuore illuminato sulle generazioni del popolo futuro prefigurate nei suoi figlioli, e impose sui nipoti avuti da Giuseppe le mani arcanamente incrociate, non come il loro padre cercava di correggerlo esternamente, ma come lui distingueva internamente. Questa è la Luce, è l'unica Luce, è un'unica cosa coloro che la vedono e l'amano.

 

Viceversa questa luce corporale di cui stavo parlando insaporisce la vita ai ciechi amanti del secolo con una dolcezza suadente, ma pericolosa. Quando invece hanno imparato a lodarti anche per essa, Dio creatore di tutto, l'attirano nel tuo inno anziché farsi catturare da lei nel loro sonno. Così vorrei essere. Resisto alle seduzioni degli occhi nel timore che i miei piedi, con cui procedo sulla tua via, rimangano impigliati, e sollevo verso di te i miei occhi invisibili, affinché tu strappi dal laccio i miei piedi, come fai continuamente, poiché vi si lasciano allacciare. Tu non cessi di strapparli di là, mentre io ad ogni passo son fermo nelle tagliole sparse dovunque, perché tu non dormirai né sonnecchierai, custode d'Israele (10, 34, 52).

 

Sii tu la nostra gloria

Ma noi, Signore, siamo, ecco, il tuo piccolo gregge. Tienici dunque, stendi le tue ali, e ci rifugeremo sotto di esse. Sii tu la nostra gloria. Ci si ami per te, e in noi sia temuta la tua parola (10, 36, 59).

 

Signore, rivelami il mio animo

Ma ecco che in te, Verità, vedo come le lodi che mi si tributano non debbano scuotermi per me stesso, ma per il bene del prossimo. Se io sia già da tanto, non lo so. Qui conosco me stesso meno di come conosco te. Ti scongiuro, Dio mio, di rivelarmi anche il mio animo, affinché possa confessare ai miei fratelli, da cui aspetto preghiere, le ferite che vi scoprirò. M'interrogherò di nuovo, con maggiore diligenza: se nelle lodi che mi vengono tributate è l'interesse del prossimo a scuotermi, perché mi scuote meno un biasimo ingiusto rivolto ad altri che a me? perché sono più sensibile al morso dell'offesa scagliata contro di me, che contro altri, e ugualmente a torto, davanti a me? Ignoro anche questo? Non rimane che una risposta: io m'inganno da solo e non rispetto la verità davanti a te nel mio cuore e con la mia lingua. Allontana da me una simile follia, Signore, affinché la mia bocca non sia per me l'olio del peccatore per ungere il mio capo (10, 37,

 

O verità, vieni!

O Verità, quando non mi accompagnasti nel cammino, insegnandomi le cose da evitare e quelle da cercare, mentre ti esponevo per quanto potevo le mie modeste vedute e ti chiedevo consiglio? Percorsi con i sensi fin dove potei il mondo fuori di me, esaminai la vita mia, del mio corpo, e gli stessi miei sensi. Di lì entrai nei recessi della mia memoria, vastità molteplici colme in modi mirabili d'innumerevoli dovizie, li considerai sbigottito, né avrei potuto distinguervi nulla senza il tuo aiuto; e trovai che nessuna di queste cose eri tu. E neppure questa scoperta fu mia. Perlustrai ogni cosa, tentai di distinguerle, di valutarle ognuna secondo il proprio valore, quelle che ricevevo trasmesse dai sensi e interrogavo, come quelle che percepivo essendo fuse con me stesso. Investigai e classificai gli organi stessi che me le trasmettevano: infine entrai nei vasti depositi della memoria e rivoltai a lungo alcuni oggetti, lasciai altri sepolti e altri portai ana luce. Ma nemmeno la mia persona, impegnata in questo lavorio, o meglio, la stessa mia forza con cui lavoravo non erano te. Tu sei la luce permanente, che consultavo sull'esistenza, la natura, il valore di tutte le cose. Udivo i tuoi insegnamenti e i tuoi comandamenti. Spesso faccio questo, è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi della stretta delle occupazioni. Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te, non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te. Soltanto 1~ si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di mio si stacca da te. Talvolta m'introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita. Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell'abitudine. Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice ( 10, 40, 65).

 

Tu sei la Verità

Perciò considerai le mie debolezze peccaminose sotto le tre forme della concupiscenza e invocai per la mia salvezza l'intervento della tua destra. Vidi, pur col cuore ferito, il tuo splendore e, abbagliato, dissi: "Chi può giungervi?". Fui proiettato lontano dalla vista dei tuoi occhi. Tu sei la verità che regna su tutto, io nella mia avidità non volevo perderti, ma volevo possedere insieme a te la menzogna, come nessuno vuole raccontare il falso al punto d'ignorare egli stesso quale sia il vero. Così ti persi, poiché tu non accetti di essere posseduto insieme alla menzogna (10, 41, 66).

 

Quanto amasti noi!

Quanto amasti noi, Padre buono, che non risparmiasti il tuo unico Figlio, consegnandolo agli empi per noi! Quanto amasti noi, per i quali egli, non giudicando una usurpazione la sua uguaglianza con te, si fece suddito fino a morire in croce, lui, l'unico a essere libero fra i morti, avendo il potere di deporre la sua vita e avendo il potere di riprenderla, vittorioso e vittima per noi al tuo cospetto, e vittorioso in quanto vittima; sacerdote e sacrificio per noi al tuo cospetto, e sacerdote in quanto sacrificio; che ci rese, da servi, tuoi figli nascendo da te e servendo a noi! A ragione è salda la mia speranza in lui che guarirai tutte le mie debolezze grazie a Chi siede alla tua destra e intercede per noi presso di te. Senza di lui dispererei. Le mie debolezze sono molte e grandi, sono molte, e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che il tuo Verbo fosse lontano dal contatto dell'uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e non avesse abitato fra noi (10, 43, 69).

 

Signore, che io viva per te!

Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu me lo impedisti, confortandomi con queste parole: "Cristo morì per tutti affinché i viventi non vivano più per se stessi, ma per Chi morì per loro". Ecco, Signore, lancio in te la mia pena, per vivere; contemplerò le meraviglie della tua legge. Tu sai la mia inesperienza e la mia infermità, ammaestrami e guariscimi. Il tuo unigenito, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza, mi riscattò col suo sangue. Gli orgogliosi non mi calunnino, se penso al mio riscatto, lo mangio, lo bevo e lo distribuisco; se, povero, desidero saziarmi di lui insieme a quanti se ne nutrono e saziano. Loderanno il Signore coloro che lo cercano (10, 43, 70).

 

Confesso le mie miserie e le tue misericordie

Ignori forse, Signore, per essere tua l'eternità, ciò che ti dico, o vedi per il tempo ciò che avviene nel tempo? Perché dunque ti faccio un racconto particolareggiato di tanti avvenimenti? Non certo perché tu li apprenda da me. Piuttosto eccito in me e in chi li leggerà l'amore verso la tua persona. Tutti dovremo dire: "E' grande il Signore e ben degno di lode". Già lo dissi e lo dirò di nuovo: per amore del tuo amore m'induco a tanto. Noi preghiamo, certo; però la Verità dice: "Il Padre vostro sa cosa vi occorre prima ancora che glielo domandiate". Confessandoti dunque le nostre miserie e le tue misericordie su di noi, noi manifestiamo i nostri sentimenti verso di te, affinché tu possa completare la nostra liberazione già da te iniziata: affinché noi cessiamo di essere infelici in noi e ci rallegriamo in te che ci chiamasti a essere poveri nello spirito, e miti e piangenti, e affamati e assetati di giustizia, e misericordiosi e mondi in cuore, e pacifici. Ecco dunque ch'io ti narrai molti fatti, come potei e volli. Il primo a volere che mi confessassi a te, Signore Dio mio, poiché sei buono, poiché la tua misericordia è eterna, fosti tu (11, 1, 1).

 

Dammi ciò che amo!

Signore Dio mio, presta ascolto alla mia preghiera: la tua misericordia esaudisca il mio desiderio, che non arde per me solo, ma vuole anche servire alla mia carità per i fratelli. Tu vedi nel mio cuore che è così. Lascia che ti offra in sacrificio il servizio del mio pensiero e della mia parola, e prestami la materia della mia offerta a te. Sono misero e povero, tu ricco per tutti coloro che ti invocano, tu senza affanni, che ti affanni per noi. Recidi tutt'intorno alle mie labbra, dentro e fuori, ogni temerità e ogni menzogna. Siano le tue Scritture le mie caste delizie; ch'io non m'inganni su di esse, né inganni gli altri con esse. Signore, guarda e abbi pietà. Signore Dio mio, luce dei ciechi e virtù dei deboli, e tosto luce dei veggenti e virtù dei forti; volgi la tua attenzione sulla mia anima e ascolta chi grida dall'abisso. Se non fossero presenti anche nell'abisso le tue orecchie, dove ci volgeremo? a che grideremo?

 

Tuo è il giorno e tua la notte, al tuo cenno trasvolano gli istanti. Concedimene un tratto per le mie meditazioni sui segreti della tua legge, non chiuderla a chi bussa. Non senza uno scopo, certo, facesti scrivere tante pagine di fitto mistero; né mancano, quelle foreste, dei loro cervi, che vi si rifugiano e ristorano, vi spaziano e pascolano, vi si adagiano e ruminano. O Signore, compi la tua opera in me, rivelandomele. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce una voluttà superiore a tutte le altre. Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. Ti confesserò quanto scoprirò nei tuoi libri. Oh, udire la voce della tua lode, abbeverarsi di te, contemplare le meraviglie della tua legge fin dall'inizio, quando creasti il cielo e la terra, e fino al regno eterno con te nella tua santa città (11, 2, 3).

 

Signore, apri i recessi delle tue parole

Signore, abbi pietà di me ed esaudisci il mio desiderio. Non credo sia desiderio di cose terrene, di oro e argento e pietre preziose, o di vesti fastose, o di onori e potere, o di piaceri carnali, o di beni necessari al corpo durante il nostro pellegrinaggio in questa vita. Tutte queste cose ci vengono date in aggiunta, se cerchiamo il tuo regno e la tua giustizia. Vedi, Dio mio, ove s'ispira il mio desiderio. Gli empi mi hanno descritto le loro voluttà, difformi però dalla tua legge, Signore, e a questa s'ispira il mio desiderio. Vedi, Padre, guarda e vedi e approva, e piaccia agli occhi della tua misericordia che io trovi favore presso di te, affinché si aprano i recessi delle tue parole, a cui busso. Ti scongiuro per il Signore nostro Gesù Cristo, figlio tuo, eroe della tua destra, figlio dell'uomo, che stabilisti per te mediatore fra te e noi, per mezzo del quale ci cercasti mentre non ti cercavamo, e ci cercasti affinché ti cercassimo; il tuo Verbo, con cui creasti l'universo, e in esso me pure; il tuo Unigenito, per mezzo del quale chiamasti all'adozione il popolo dei credenti, e fra esso me pure. Per lui ti scongiuro, che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te; in cui sono ascosi tutti i tesori della sapienza e della scienza. Questi tesori appunto cerco nei tuoi libri. Mosè ne scrisse, egli stesso lo afferma, lo afferma la Verità (11, 2, 4).

 

Dammi ciò che amo!

Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi. Lascia che vi penetri e s'illuminino al lume della tua misericordia, Signore. Chi interpellare su questi argomenti, a chi confessare la mia ignoranza più vantaggiosamente che a te, cui non è sgradito il mio studio ardente, impetuoso delle tue Scritture? Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Dammi, o Padre, che davvero sai dare ai tuoi figli doni buoni; dammi, poiché mi sono proposto di conoscere e mi attende un lavoro faticos, finché tu mi schiuda la porta. Per Cristo ti supplico, in nome di quel santo dei santi nessuno mi disturbi. Anch'io ho creduto, perciò anche parlo. Questa è la mia speranza, per questa vivo: di contemplare le delizie del Signore (11, 22, 28).

 

Nel piccolo il grande

O Dio, concedi agli uomini di scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà (11, 23, 29).

 

Dio mio, non mento!

Ecco, Dio mio, davanti a te che non mento: quale la mia parola, tale il mio cuore. Tu, Signore Dio mio, illuminando la mia lucerna illuminerai le mie tenebre (11, 25, 32).

 

Insisti, spirito mio

Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto, egli ci fece, e non noi. Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità (11, 27, 34).

 

Signore, padre mio eterno!

Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l'Uno. Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso, non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste. Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue delizie, che non vengono né passano. Ora i miei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l'ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te (11, 29, 39).

 

Signore, quale abisso il tuo segreto!

Signore Dio mio, quale abisso il tuo profondo segreto, e come me ne hanno gettato lontano le conseguenze dei miei peccati! Guarisci i miei occhi, e parteciperò alla gioia della tua luce. Certo, se esistesse uno spirito di scienza e prescienza così potente da conoscere tutto il passato e il futuro come io una canzone delle più conosciute, susciterebbe, questo spirito, meraviglia e quasi sacro terrore, poiché nulla gli sfuggirebbe sia delle età già concluse, sia di quelle che rimangono: come a me che canto non sfugge sia la parte della canzone già passata dopo l'esordio, sia quella che resta fino alla fine.

 

 

Lontana invece l'idea che, creatore dell'universo, creatore delle anime e dei corpi, tu così conosci tutto il futuro e il passato! Tu assai, assai più mirabilmente e assai più misteriosamente. A chi canta o ascolta una canzone conosciuta, l'attesa delle note future e il ricordo delle passate modifica il sentimento e tende il senso. Nulla di simile accade a te, immutabilmente eterno, ossia davvero eterno creatore delle menti. Come conoscesti in principio il cielo e la terra senza modificazione della tua conoscenza, così creasti in principio il cielo e la terra senza tensione della tua attività. Chi lo capisce ti confessi, e anche chi non lo capisce ti confessi. Oh, quanto sei elevato! Eppure quanti si abbassano in cuore sono la tua casa. Tu infatti sollevi gli abbattuti, e non cadono quanti hanno in te la loro elevatezza (11, 31, 41).

Nulla si può fare senza di Lui 

 

Sant'Agostino

 

Non dice: senza di me potete far poco, ma dice: "non potete far nulla". Non poco o molto, ma nulla si può fare senza di lui.

 

 Gesù ha detto che egli è la vite, i suoi discepoli i tralci e il Padre l'agricoltore: su questo ci siamo già intrattenuti, come abbiamo potuto. In questa lettura, continuando a parlare di sé come vite e dei suoi tralci, cioè dei discepoli, il Signore dice: Rimanete in me e io rimarrò in voi (Gv 15, 4). Essi però sono in lui non allo stesso modo in cui egli è in loro. L'una e l'altra presenza non giova a lui, ma a loro. Sì, perché i tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Così, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite.

 

[Chi non è in Cristo, non è cristiano.]

 

2. Il Signore prosegue: Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me (Gv 15, 4). Questo grande elogio della grazia, o miei fratelli, istruisce gli umili, chiude la bocca ai superbi. Replichino ora, se ne hanno il coraggio, coloro che ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf. Rm 10, 3). Replichino i presuntuosi e quanti ritengono di non aver bisogno di Dio per compiere le opere buone. Non si oppongono forse a questa verità, da uomini corrotti di mente come sono, riprovati circa la fede (cf. 2 Tim 3, 8), coloro che rispondendo a sproposito dicono: Lo dobbiamo a Dio se siamo uomini, ma lo dobbiamo a noi stessi se siamo giusti? Che dite, o illusi, voi che non siete gli assertori ma i demolitori del libero arbitrio, che, per una ridicola presunzione, dall'alto del vostro orgoglio lo precipitate nell'abisso più profondo? Voi andate dicendo che l'uomo può compiere la giustizia da se stesso: questa è la vetta del vostro orgoglio. Se non che la Verità vi smentisce, dicendo: Il tralcio non può portar frutto da se stesso, ma solo se resta nella vite. Vi arrampicate sui dirupi senza avere dove fissare il piede, e vi gonfiate con parole vuote. Queste sono ciance della vostra presunzione. Ma ascoltate ciò che vi attende e inorridite, se vi rimane un briciolo di senno. Chi si illude di poter da sé portare frutto, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo, non è cristiano. Ecco l'abisso in cui siete precipitati.

 

3. Ma con attenzione ancora maggiore considerate ciò che aggiunge e afferma la Verità: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l'agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio. Siccome però senza la grazia è impossibile la vita, in potere del libero arbitrio non rimane che la morte. Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Gv 15, 6). I tralci della vite infatti tanto sono preziosi se restano uniti alla vite, altrettanto sono spregevoli se vengono recisi. Come il Signore fa rilevare per bocca del profeta Ezechiele, i tralci recisi dalla vite non possono essere né utili all'agricoltore, né usati dal falegname in alcuna opera (cf. Ez 15, 5). Il tralcio deve scegliere tra una cosa e l'altra: o la vite o il fuoco: se non rimane unito alla vite sarà gettato nel fuoco. Quindi, se non vuol essere gettato nel fuoco, deve rimanere unito alla vite.

 

 

4. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Gv 15, 7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l'avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole. Di sicuro fa parte delle sue parole l'orazione che egli ci ha insegnato e nella quale diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6, 9). Non allontaniamoci, nelle nostre richieste, dalle parole e dai sentimenti di questa orazione, e qualunque cosa chiederemo egli ce la concederà. Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Sal 102, 18). Molti, infatti, li conservano nella memoria per disprezzarli, per deriderli e combatterli. Non si può dire che dimorano le parole di Cristo in costoro, che sono, sì, in contatto con esse, ma senza aderirvi. Esse, perciò, non recheranno loro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di loro. E poiché quelle parole sono in loro, ma essi non le custodiscono, le posseggono soltanto per esserne giudicati e condannati.

Persevera nella Speranza

 

 

 

DALLE "ESPOSIZIONI SUI SALMI" DI SANT’AGOSTINO VESCOVO (En. in Ps. 41, 10-12)

 

Perseveriamo nella speranza

Vivi frattanto nella speranza. La speranza che si vede non è speranza; ma se speriamo ciò che non vediamo è per mezzo della pazienza che noi l’aspettiamo (cf. Rom 8, 24-25).

 

Spera in Dio. Perché spera? Perché ancora potrò dar lode a Lui. Come lo loderai? Salvezza del mio volto, Dio mio. La salvezza non mi può venire da me stesso; questo dirò, questo confesserò: Salvezza del mio volto, Dio mio. Infatti, temendo quelle cose che in qualche modo ha conosciuto, le esamina di nuovo perché non si insinui il nemico, e ancora, dice, non sono salvo da ogni parte. Avendo infatti le primizie dello Spirito, gemiamo in noi stessi aspettando l’adozione e la redenzione del nostro corpo (cf. Rom 8, 23). Perfezionata in noi quella salvezza, saremo nella casa di Dio e vivremo senza fine e senza fine loderemo colui al quale è detto: Beati coloro che abitano nella tua casa, nei secoli dei secoli ti loderanno (Sal 83, 5). Questo non è ancora accaduto, perché non è ancora venuta quella salvezza che è promessa; ma lodo il mio Dio nella speranza e gli dico: Salvezza del mio volto, Dio mio. Perché nella speranza già siamo salvati; ma la speranza che si vede non è speranza. Persevera dunque per giungere alla salvezza; persevera finché la salvezza non verrà. Ascolta il tuo stesso Dio che ti parla dal tuo intimo: spera nel Signore, comportati da uomo, e si conforti il tuo cuore, e spera nel Signore (Sal 26, 14); perché chi avrà perseverato fino alla fine, costui sarà salvo (Mt 10, 24; 24, 13). Orbene perché sei triste, anima mia, e perché mi turbi? Spera in Dio perché ancora potrò dar lode a Lui. Questa è la mia lode: Salvezza del mio volto, Dio mio.

 

 

Ascolta più chiaramente questo concetto. Non sperare in te, ma nel tuo Dio. Infatti, se speri in te, la tua anima si preoccupa per te; perché non è ancora sicura di te stesso. Ebbene poiché l’anima mia si è turbata per me, che mi resta se non l’umiltà, in modo che l’anima non presuma troppo di se stessa? Che le resta, se non che si faccia piccolissima, che si umili, se vuol meritare di essere esaltata? Non attribuisca nessun merito a se stessa, in modo che sia attribuito tutto a Colui dal quale è vantaggioso tutto attenderci.

 

 

Coltivare la vita spirituale

 

Agostino ha parlato a lungo di questo argomento e in particolare delle relazioni tra contemplazione ed azione. Non poteva essere diversamente: era un uomo immerso nell'azione, ma che portava nel cuore il desiderio bruciante della contemplazione. Nella vita aveva raggiunto, anche se non senza profonde tensioni 1, una sintesi tra l'una e l'altra; altrettanto fece nella dottrina. L'espressione più efficacemente riassuntiva è un testo della Città di Dio, dove l'opposizione tra vita contemplativa e apostolato viene risolta attraverso l'amore della verità e le esigenze dell'amore con la mediazione del godimento della verità. Eccolo con le sue stesse parole: " L'amore della verità cerca la quiete della contemplazione, l'esigenza dell'amore accetta le occupazioni dell'apostolato. Se nessuno c'impone questo fardello, dobbiamo attendere alla ricerca e all'acquisto della verità; ma se ci è imposto, dobbiamo accettarlo per dovere della carità. Però, neppure in questo caso bisogna abbandonare il godimento della verità, perché non avvenga che, sottrattaci questa dolcezza, si resti oppressi da quella esigenza " 2. Mi sembra di vedere in queste parole, scrivevo altrove, tre grandi principi, che si potrebbero enunciare così: il primato della vita contemplativa; la necessità di accettare la vita attiva, cioè il servizio della Chiesa, quando il bisogno lo richieda; l'obbligo di conservare, anche nelle fatiche della vita attiva, il gusto degli esercizi propri della vita contemplativa 3.

 

Dei tre principi, a noi qui interessa soprattutto il primo. Mi fermerò su di esso.

 

1) Primato della contemplazione

 

Agostino ne parla spesso e con profonda convinzione. In particolare a proposito di Lia e Rachele, amate ambedue da Giacobbe, ma la prima in grazia della seconda 4; di Marta e Maria, le due sorelle di Lazzaro, che rappresentano due generi di vita, attivo e contemplativo, ambedue buoni e lodevoli, ma il secondo migliore del primo 5; di Pietro e Giovanni, dei quali uno simboleggia la vita presente, l'altro la vita futura 6. Ecco alcuni testi. " Rachele rappresenta la speranza della contemplazione eterna di Dio, speranza che già racchiude in sé un'intelligenza certa e dilettevole della verità... Nessuno dunque, una volta liberato dalla grazia della remissione dei suoi peccati, si volge alle opere della giustizia se non per giungere alla quiete della contemplazione della parola che ci svela il Principio, cioè Dio: si ama quindi il servizio per amore di Rachele, non di Lia. Chi infatti potrebbe amare il peso di questo servizio e le inquietudini che esso comporta, chi potrebbe cioè amare quella vita per se stessa? ". Per questo " moltissimi, di acuta intelligenza, anelano allo studio e, benché capaci di governare, evitano tuttavia ogni attività a motivo delle sue preoccupazioni che provocano scompiglio, e si dedicano con tutto l'animo alla ricerca della verità " 7.

 

" (Le opere di misericordia) nascono da un bisogno contingente, la dolcezza della contemplazione nasce dall'amore... Ti potrebbe essere sottratto il peso del bisogno, mentre è eterna la dolcezza della verità. A Maria non sarà tolto quanto ha scelto; non solo, ma le sarà aumentato in questa vita e reso perfetto nell'altra, giammai tolto " 8. E ancora: " Di che cosa si dilettava Maria? Di che cosa si nutriva, che cosa beveva il suo avidissimo cuore? La giustizia, la verità. Si dilettava della verità, accoglieva la verità: vi era protesa, vi anelava; famelica, se ne nutriva; assetata, ne beveva: ne era ristorata, e la verità non diminuiva... Il vero godimento del cuore umano è nella luce della verità, nella sovrabbondanza della sapienza: non c'è piacere che possa paragonarsi in qualche modo (tanto meno poi essere maggiore) a questo godimento del cuore umano, purché il cuore sia giusto, sia santo " 9.

 

Il discorso agostiniano sul primato della contemplazione si riduce: a) al primato dell'amore della verità, che è il primato dell'amore di Dio vivo e vero; b) all'eternità della vita contemplativa a differenza di quella attiva, che dura solo in questa vita, dove ci sono i miseri che hanno bisogno di misericordia; c) all'altezza dei doni che l'accompagnano: è infatti legata al dono della sapienza, che il più alto dei doni dello Spirito Santo, e alla beatitudine della pace, la più alta tra le beatitudini.

 

Inutile dire che il vescovo d'Ippona, pur difendendo il primato della vita contemplativa, insiste sull'accettazione degli impegni della vita attiva quando i bisogni della Chiesa lo richiedono, cioè sulle esigenze dell'amore. Per questo, con felice intuizione e profonda originalità, insegna, attraverso la parola e l'esempio, a mettere insieme le scelte del monachesimo (preghiera e lavoro 10) e quelle del sacerdozio 11. Ma non è questo l'argomento che dobbiamo trattare qui.

 

Fa parte invece del nostro argomento mettere in rilievo che tra l'amore della verità o vita contemplativa e le esigenze dell'amore, o vita attiva, media, come si è accennato, il godimento della verità che fa parte della prima essendo il presupposto di essa, cioè il desiderio costante e la brama insoddisfatta di dedicarsi alle opere proprie della vita contemplativa.

 

Su questo tema Agostino ha toni ed accenti di commovente pietà. L'uomo di Dio " cerchi la gioia del silenzio, predichi solo secondo il bisogno...; godiamo dei beni interiori, negli esteriori sia la necessità non la volontà a guidarci " 12.

 

Parlando al popolo delle fatiche dell'apostolato e delle dolcezze della contemplazione, dice riferendosi a quest'ultima: " Nessuno più di me amerebbe una vita così sicura e tranquilla: niente di meglio, niente di più dolce che scrutare il divino tesoro lontano dai rumori del mondo; è cosa dolce e buona. Invece predicare, rimproverare, correggere, edificare, attendere ai bisogni di ciascuno è un gran peso, un gran carico, una grande fatica. Chi non rifuggirà da questa fatica? Ma mi spaventa il Vangelo " 13. Davvero lo atterriva il Vangelo. Esso gli comandava di pascere il gregge di Cristo, il che é, sì, un compito di amore (" Pascere il gregge del Signore è un impegno di amore " 14) ma un amore che impedisce di soddisfare come si vorrebbe un altro amore. Per questo comando del Vangelo, Agostino era restato 15 e restava sulla breccia, ma le sue preferenze erano ben altre: " Chiamo Cristo a testimonio delle mie parole, che per quanto riguarda il mio comodo preferirei molto più lavorare con le mie mani ogni giorno ad ore determinate, come si fa nei monasteri bene governati, ed avere poi le altre ore libere per leggere e pregare o per studiare la Scrittura, anziché soffrire il tormento e le perplessità delle questioni altrui, nelle quali pur bisogna intervenire o per dirimerle col giudizio o per finirle col proprio intervento... Ma - continua rassegnato - siamo servi della Chiesa e servi soprattutto dei membri più deboli di essa " 16.

 

In questa brama insoddisfatta della vita contemplativa pura c'è la testimonianza più bella dell'animo profondamente mistico del vescovo d'Ippona. Vediamo quali siano, nel suo pensiero, i momenti salienti di questa vita quando giunga, per quanto può giungere quaggiù, al suo apice. Sono essenzialmente tre: un'ascesa, un'intuizione, una "ricaduta". Ad essi si aggiunge il discorso sui frutti della contemplazione, che sono molti e preziosi.

 

2) Ascesa verso la contemplazione

 

È lunga e faticosa, perché suppone le dure fatiche della purificazione, delle quali è il premio " altissimo e segretissimo " 17.

 

Ho detto purificazione: il termine è filosofico, ma il contenuto evangelico. Agostino la ricollega alla beatitudine dei puri di cuore, e sentenzia: " Tutta la nostra opera in questa vita consiste nel purificare l'occhio del cuore allo scopo di vedere Dio " 18. Essa comprende quella assidua opera ascetica che serve non a mortificare ma a riordinare l'amore. " Nessuno vi dice: Non amate. Non sia mai! sareste pigri, morti, detestabili, miseri se non amate. Amate, ma state attenti a che cosa amate " 19.

 

Riordinare dunque l'amore, riportando ordine e pace dentro di noi: a tale scopo sono necessarie le opere dell'ascetismo cristiano, nelle quali occorre insistere in particolare nei primi passi della vita spirituale. Soprattutto sono necessarie, per elevarsi progressivamente verso la contemplazione, quelle opere che Agostino chiama le "delizie" delle anime consacrate, e cioè: " la lettura - che vuol dire studio, meditazione, ascolto della voce di Dio, dialogo con Dio -, l'orazione, la salmodia, i buoni pensieri, l'impegno in opere di bene, l'attesa della vita futura, l'elevazione del cuore " 20. Programma ascetico-mistico nel quale si muovono appunto le persone che sono più in alto nella vita dello spirito.

 

Da queste opere nasce il silenzio, quel prezioso silenzio interiore, che è per Agostino - e non solo per lui - la condizione indispensabile per il colloquio con Dio e per la contemplazione innamorata della bellezza divina. " La nostra anima ha bisogno di solitudine. Se l'anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa: per vedere Dio è necessario il silenzio " 21. Per questo egli chiede appassionatamente a Dio questo silenzio: " Liberami, o mio Dio - scrive nella preghiera con cui chiude il suo De Trinitate -, liberami dalla moltitudine di parole di cui soffro nell'interno della mia anima... Infatti non tace il pensiero anche quando tace la lingua " 22.

 

Frutto di questo silenzio, non vuoto ma pieno, è quello di raccogliere tutte le potenze del nostro spirito in Dio. Ancora un testo agostiniano: " Che cosa facciamo quando ci sforziamo di essere sapienti se non raccogliere, per così dire, con la maggiore alacrità possibile, tutta la nostra anima in ciò che tocchiamo con la mente, e metterla lì e fissarcela stabilmente, di maniera che non goda più del suo bene privato con il quale si è avvinta alle cose transitorie, ma, spogliatasi di tutti gli affetti temporali e spaziali, afferri l'Essere ch'è uno ed è sempre lo stesso? " 23.

 

3) La contemplazione

 

Se l'ascesa è lunga e faticosa, la contemplazione invece, nel suo grado più alto, è rapida e folgorante, simile a un baleno, un battito del cuore, un'intuizione momentanea. Agostino la nota ogni volta che ne parla. " E pervenne (la mente) all'Essere stesso in un impeto di trepida visione " 24. " La cogliemmo un poco (la fonte della sapienza), con tutto l'impeto del cuore, e sospirammo " 25. " Allietati da una ineffabile dolcezza interiore, abbiamo potuto scorgere con l'occhio della mente qualcosa d'immutabile, anche se per un momento solo e di sfuggita " 26. " Una visione da non poterla sopportare lungamente " 27.

 

Ma pur nella sua momentaneità, essa è insieme " conoscenza e dilezione dell'Essere eterno e immutabile, Dio " 28. Una conoscenza non nozionale, dunque, ma sperimentale, cioè conoscenza amorosa e, pur nella sua oscurità, piena di luce. Nella contemplazione, quale Agostino la descrive, vi sono due elementi: la conoscenza e l'amore; importa infatti un "conoscere le cose divine" e insieme "toccarle" con la punta del cuore, un "raggiungerle", un "raccogliere" in esse tutte le proprie facoltà e il proprio essere.

 

Del resto è difficile esprimere a parole questa sublime esperienza. Anche chi l'ha avuta la esprime con difficoltà. Agostino non ha saputo dirci nulla di meglio, e ha detto stupendamente che talvolta il Signore lo introduceva in un sentimento interiore affatto sconosciuto, che se fosse cresciuto un poco sì da esser pieno, questa vita non sarebbe stata più questa vita 29. Si avrebbe torto però d'interpretare questa dottrina come una visione immediata di Dio. Agostino lo esclude. La vita contemplativa, scrive, è vissuta qui in terra nella fede, e solo " pochissimi (la vivono) in una qualche visione della verità immutabile, come in uno specchio, in maniera confusa, imperfettamente " 30. Né dai testi si può dedurre che egli stesso, Agostino, abbia qualche volta usufruito del privilegio della visione immediata di Dio 31.

 

4) La "ricaduta"

 

Dopo la rapida esperienza contemplativa che fa gustare, per un istante, qualcosa che non è di questa vita, il ritorno alle occupazioni abituali è sentito come una discesa, una "ricaduta" verso le cose che, in comparazione del bene gustato, non si amano più ma si sopportano in vista di quello. Agostino lo nota ogni volta che tocca l'argomento o narrando le sue esperienze personali o parlando al popolo.

 

" Non fui capace di fissarvi lo sguardo ", dice della prima esperienza che finì in un insuccesso. " Quando, rintuzzata la mia debolezza, tornai fra gli oggetti consueti, non riportavo con me che un ricordo amoroso e il rimpianto, per così dire, dei profumi di una vivanda che non potevo ancora gustare " 32.

 

La narrazione della celebre estasi di Ostia si conclude con queste meste parole: " ...E ridiscendemmo allo strepito delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine " 33; quella delle sue non infrequenti esperienze mistiche con parole diverse e identiche: " Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell'abitudine " 34.

 

Di questa esperienza di ascesa, di intuizione e di "ricaduta", il vescovo d'Ippona parla anche al popolo (si veda, per esempio, lo splendido commento a quelle parole Dov'è il tuo Dio? 35), e la conclusione è sempre la stessa: il rammarico di tornare alla vita di quaggiù che scorre nel tempo ed è tormentata di tanti affanni, per cui ci si accorge di essere non tra quelli che " sopportano la morte " ma tra quelli che " sopportano la vita " 36; " ...Come per un contatto spirituale raggiunse quella luce immutabile, ma non poté, a causa della debolezza dello sguardo, sopportarne lo splendore, e ricadde, per così dire, nella sua malattia e nel suo languore; si paragonò ad essa e si accorse che l'occhio della mente non era ancora adatto a contemplare la luce della sapienza " 37.

 

5) I frutti

 

Il nostro dottore non ha mancato di mettere in rilievo i frutti preziosi e ricchissimi che derivano dall'esperienza mistica, anche se passeggera e momentanea. Li descrive nella Grandezza dell'anima, opera del neofita, ma d'un neofita già molto avanti nelle vie dello spirito: poco prima aveva avuto, insieme a sua madre, l'indimenticabile e sublime esperienza dell'estasi di Ostia.

 

Come questi frutti operassero nella sua vita l'ho accennato sopra. Qui un accenno all'aspetto più generale e teorico. Tra questi frutti, ho scritto altrove 38, ci sono in primo luogo quelli spirituali, come la chiara percezione della vanità delle cose terrene, le quali, se " considerate in se stesse sono ammirabili e belle ", invece " comparate ai beni eterni, sono come se non fossero ". Ma vi sono anche i frutti di ordine intellettuale, quelli che acuiscono lo sguardo della mente e potenziano la scienza teologica: " Riconosceremo allora quanto siano vere le verità che crediamo e quanto sapientemente e salutarmente in seno alla madre Chiesa siamo stati nutriti " con il latte della fede.

 

Vale la pena, terminando, citare un passo di quest'opera giovanile: esso esprime, meglio di ogni altro, il dischiudersi di una grande vita tutta dedita alle speculazioni del pensiero, agli impegni dell'apostolato e alle esperienze della mistica.

 

 

" Vedremo anche i tanti mutamenti e le vicissitudini della natura corporea che ubbidisce alle leggi divine, per cui la stessa resurrezione, che alcuni credono languidamente e altri non credono affatto, la riterremo per certa non meno dello spuntar del giorno dopo ogni tramonto. Così pure non baderemo a coloro che irridono l'incarnazione del Figlio di Dio e la sua nascita da una vergine e gli altri miracoli della storia della salvezza; come non badiamo a quei fanciulli, che, avendo visto un pittore dipingere copiando un quadro, s'immaginano che l'uomo non possa dipingere se non guardando un'altra pittura. Il diletto che si prova nella contemplazione della verità è così grande, così puro, così sincero, e dà tanta certezza della verità, che chi lo prova ritiene di non aver mai saputo le cose che prima credeva di sapere; e perché l'anima possa aderire integralmente alla Verità totale, non teme più la morte... che prima temeva, anzi la desiderava come un sommo acquisto " 

 

"Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui

e che ora vi annunziamo: Dio è luce

e in lui non ci sono tenebre".

 

(1 Gv 1, 5)

 

DAI "DISCORSI"DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO  (Sermo 136/C, 1-3.5)

 

Vedere la luce di Dio

Le opere proprie di Cristo Signore, quelle che allora egli compì nei corpi, compie ora nei cuori. Sebbene non cessi affatto di operare anche in molti corpi, tuttavia nei cuori la sua azione è superiore. Se indubbiamente è gran cosa la vista della luce del cielo, quanto è più grande vedere la luce di Dio! A questo fine infatti sono risanati gli occhi del cuore, a questo vengono aperti, a questo sono purificati, affinché vedano la luce, che è Dio. Infatti Dio è luce, afferma la Scrittura, e in lui non ci sono tenebre (1Gv 1, 5); e il Signore nel Vangelo: Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt 5, 8). Perciò noi che restiamo ammirati che questo cieco ora vede, con tutte le nostre forze, di cui Dio stesso ci fa dono, perseveriamo nella preghiera affinché i nostri cuori siano risanati ed anche purificati. A che giova infatti essere stati resi mondi dai peccati nel fonte battesimale e subito dopo tornare a macchiarsi con perfidi costumi?

 

Il compiersi progressivo di quest’opera del Signore, per la quale il cieco ebbe la luce degli occhi, induce a intravedere qualcosa di grande e di essenziale. Evidentemente il Signore Gesù Cristo poteva - e chi è che può dire: Non poteva? - toccargli gli occhi senza l’impasto di saliva e di fango, e subito rendergli, o piuttosto, dargli la vista. Poteva farlo. Che dovrei dire: Se avesse toccato? Che cosa egli non poteva fare con la parola se lo avesse voluto? Mediante la parola che cosa è impossibile alla Parola, non ad una parola qualsiasi, ma a quella che in principio era il Verbo, e il Verbo era Dio. Questo Verbo in principio Dio presso Dio si fece carne per abitare in mezzo a noi (Gv 1, 1-2.14). […] Seguì perciò, nel curare questo cieco nato, nel quale era figurato il genere umano, nato cieco; seguì perciò anche il Signore un procedere graduale in quest’uomo da illuminare. Sputò in terra e fece del fango, poi con quello intriso di saliva spalmò gli occhi di lui.

 

Ma considera dove fu inviato a lavarsi il volto. Alla piscina di Siloe. Che significa "Siloe"? Opportunamente non lo tacque l’Evangelista: che significa "inviato" (Gv 9, 7). Chi è l’inviato se non colui del quale è detto: Ecco l'Agnello di Dio? In lui stesso viene lavato il volto e chi era stato spalmato vede, perché in Cristo Signore si realizzò ogni profezia. Chi non conosce Cristo procede impedito nella vista. Ma tale procedere graduale usato prima sugli occhi di quest’uomo, ebbe seguito anche nel cuore di lui. Ponete attenzione al modo di condurre l’interrogatorio da parte dei Giudei: Tu che dici di quest’uomo? Dico - rispose - che è un profeta (Gv 9, 17). Non aveva ancora lavato in Siloe gli occhi del cuore. Gli occhi in realtà erano già aperti, ma il cuore era ancora impedito. Quando aveva lavato il volto, rispose come poté, in quanto aveva il cuore impedito, non era ancora vedente. Dette ragione e di avere l’impasto – l’aveva cioè il suo cuore - e, invece, di aver avuto già aperti gli occhi del corpo.

 

Cerchiamo costui che ha già gli occhi aperti, tuttavia ha la vista del cuore ancora impedita. Pieni di sdegno i Giudei, vinti e per di più smascherati, furenti e accecati contro di lui che vedeva, lo cacciarono fuori. Nel momento in cui lo cacciarono fuori, allora entrò là, da dove i Giudei presenti nella casa di Dio non lo avrebbero potuto cacciare fuori. Quindi, cacciato fuori, trovò nel tempio il Signore che gli parlò - certamente era conosciuto da chi gli aveva reso la vista del corpo, restando coperto il cuore. Ora ha la vista del cuore, ora va a Siloe, perché ora riconosce l’Unigenito inviato -. Tu credi - dice - nel Figlio di Dio? E quello: Chi è, Signore, perché io creda in lui? Come impedito, non ancora vedente. E il Signore: Lo hai visto e colui che parla con te è proprio lui. L’ascolto di queste parole equivale a lavare il volto del cuore. Finalmente quello, lavato già il volto, con la vista del cuore disse: Credo, Signore, e gli si prostrò innanzi, e lo adorò (Gv 9, 34-38).

 

 

 

 

Siamo luce per gli altri nelle nostre azioni in quanto riflettiamo la Luce che proviene dall’alto. Impariamo a riscoprire il primato di Dio nella nostra vita, a riconoscere come suoi quei meriti e quelle opere meravigliose che noi possiamo realizzare. Scrive l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinti (15, 10): Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana.

 

 

 

DAI "DISCORSI"DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO  (Serm. 136/B, 2-3)

 

Accorriamo a Cristo per ricevere la luce

Cristo è venuto come Salvatore. In un certo passo afferma pure: Il Figlio dell’uomo non è venuto infatti per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui (Gv 3, 17). Di conseguenza, se è venuto per questo, per salvare, trova pieno consenso l’affermazione che sia venuto perché quelli che non vedono vedano. Quello invece che resiste al buon senso è il perché quelli che vedono diventino ciechi. Se giungiamo a comprendere, non è impenetrabile, è semplice. Ma perché intendiate come sia stato detto in tutta verità, tornate a guardare proprio quei due che pregavano nel tempio. Il Fariseo vedeva, il Pubblicano era cieco. Che significa: "vedeva"? Si riteneva uno con gli occhi aperti, si vantava della sua vista, cioè della giustizia. Quello, invece, era cieco perché confessava i suoi peccati. Quello vantò i suoi meriti, costui confessò i suoi peccati.

 

Perciò si affrettino i ciechi a ricorrere a Cristo per ricevere la luce. Cristo è infatti la luce del mondo, anche in mezzo agli uomini peggiori. Si sono compiuti miracoli divini e non c’è stato alcuno che ha fatto miracoli dall’inizio del genere umano se non colui al quale si rivolge la Scrittura: Tu sei il solo che compi meraviglie (Sal 71, 18). Per quale ragione fu detto: Tu sei il solo che compi meraviglie, se non perché quando egli vuole operare non ha bisogno dell’uomo? L’uomo, invece, quando opera, ha bisogno di Dio. Egli solo ha compiuto meraviglie. Perché? Perché il Figlio di Dio è nella Trinità con il Padre e lo Spirito Santo, assolutamente un solo Dio, il solo che compie meraviglie. Ma i discepoli di Cristo compiono anch’essi cose mirabili, nessuno da solo, però. Quali cose mirabili compirono anch’essi? Così com’è scritto negli Atti degli Apostoli: gli infermi bramavano toccare i lembi delle loro vesti e, al contatto, venivano risanati; gli infermi che erano a giacere desideravano di essere coperti dall’ombra di quelli quando s’incontravano a passare. Quali cose mirabili operarono, ma, da soli, nessuno di loro! Ascolta il loro Signore: Senza di me, nulla potete fare (Gv 15, 5). Pertanto, carissimi, amiamo il patriarca come patriarca, il profeta come profeta, l’apostolo come apostolo, il martire come martire; tuttavia, al di sopra di tutte le cose riserviamo a Dio la nostra predilezione e, senza esitazione alcuna, attendiamoci di essere salvati proprio da lui solo. Ci possono aiutare le preghiere dei santi che godono dei meriti per dono di Dio, tuttavia non dovuto ad alcun precedente effetto dei loro meriti, poiché i meriti di qualsiasi santo sono doni di Dio. È Dio che opera in luce manifesta, che opera in segreto, che opera nelle cose visibili, che opera nei cuori. Egli nel suo tempio compie le sue meraviglie quando opera negli uomini giusti. Tutti i santi, infatti, sono fusi in uno dal fuoco dell’amore e formano per Dio un unico tempio, e i singoli sono un tempio e tutti insieme un tempio solo.

 

 

 Dio è Padre di misericordia, con lo sguardo fisso all’orizzonte in attesa del ritorno del peccatore; è pronto alla sua accoglienza e al suo riscatto. A tale riguardo risulta consolante la profezia di Isaia (1, 18): Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. Tuttavia Dio non fa violenza al peccatore, non gli impone la salvezza: attende che ci sia sempre un movimento di ritorno, un primo passo dell’uomo verso la conversione, che si compie attraverso l’ascolto e la docilità alla sua Parola (Is 1, 19).

 

 

 

DAI "DISCORSI"DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO  (Sermo 135, 5.6-6.7)

 

Dio ascolta ed esaudisce i peccatori che si riconoscono tali

Nelle parole dell’uomo che era cieco c’è un non so che capace di turbare e forse indurre a perdere la speranza quanti non ne intendono il senso vero. Quello stesso uomo al quale furono aperti gli occhi, tra le altre espressioni, giunse ad asserire: Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori (Gv 9, 31). Che facciamo, se Dio non ascolta i peccatori? Abbiamo il coraggio di supplicare Dio se non ascolta i peccatori? Datemi uno che preghi ed ecco c’è chi può esaudire. […] Dammi quel Pubblicano. Vieni, Pubblicano, poniti in mezzo, fa’ vedere la tua speranza, perché i deboli non cessino di sperare. Ecco infatti il Pubblicano salire a pregare e il Fariseo con lui; e a capo basso, tenendosi a distanza e battendosi il petto, diceva: Signore, abbi pietà di me peccatore. E si allontanò perdonato, a differenza di quel Fariseo (Lc 18, 10ss). Quello che disse: Abbi pietà di me peccatore, affermò il vero o il falso? Se disse il vero, era peccatore; e venne esaudito e fu perdonato. Che vuol dire allora ciò che hai detto tu dopo che il Signore ti aprì gli occhi: Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori? Ecco, Dio ascolta i peccatori. Lava, però, il tuo volto interiore, si operi nell’intimo ciò che si è curato di fare al tuo aspetto esterno, e ti renderai conto che Dio ascolta i peccatori. Ti ha tratto in inganno il divagare della tua mente. C’è dell’altro che il Signore deve operare in te. Indubbiamente quel [cieco] venne espulso dalla sinagoga; il Signore lo apprese, lo incontrò e gli disse: Credi tu nel Figlio di Dio? E quello: Chi è, Signore, perché io creda in lui? Guardava e non vedeva: guardava con gli occhi, ma con la mente non discerneva ancora. Gli affermò il Signore: Tu l’hai visto, e colui che parla con te è proprio lui. Allora, prostratosi, lo adorò (Gv 9, 35-38). Fu allora che deterse il volto interiore.

 

Volgetevi perciò alla preghiera, peccatori! Confessate i vostri peccati, supplicate affinché siano rimossi, implorate che abbiano termine, scongiurate che appunto essi vengano meno intanto che voi progredite; tuttavia non cessate di sperare e, da peccatori, pregate. Chi è infatti che non ha commesso peccato? Prendi a considerare dai sacerdoti: Offrite sacrifici prima per i vostri peccati, e poi per il popolo (Lev 16, 6). I sacrifici erano prove d’accusa a carico dei sacerdoti; così che se alcuno si fosse dichiarato giusto e senza peccato, potesse essergli opposto: Non bado a ciò che vai dicendo, ma a ciò che offri; ti scopre la vittima per tuo conto. Perché fai l’offerta per i tuoi peccati, se da ogni peccato tu sei immune? O magari fingi con Dio nel sacrificare a lui? Ma può darsi che erano peccatori i sacerdoti del popolo antico e che non sono peccatori quelli del popolo nuovo. È vero, fratelli, perché Dio lo ha voluto, sono sacerdote proprio di lui, sono peccatore, insieme a voi mi batto il petto, insieme a voi chiedo il perdono, con voi spero che Dio sia benevolo. Ma forse gli Apostoli santi, i massimi arieti del gregge, i pastori membra del Pastore, appunto essi forse non avevano il peccato. Veramente lo avevano, anch’essi lo avevano; non se ne adontano, perché lo confessano. Da me non avrei l’ardire. Prima di tutto, sta’ a sentire il Signore stesso che si rivolge agli Apostoli: Pregate così. Come riguardo a quei sacerdoti si dava prova mediante i sacrifici, ugualmente per costoro mediante l’orazione. Pregate così. E tra le altre petizioni che comandò si facessero, assegnò anche questa: Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6, 9.12). Che dicono gli Apostoli? Chiedono ogni giorno per sé la remissione dei debiti. Si presentano da debitori, si allontanano perdonati, e tornano alla preghiera da debitori. Questa vita non è immune da peccato, così che tante volte si prega, altrettante volte vengono rimessi i peccati.

 

 

 Se l’uomo desidera ardentemente di unirsi a Dio non può non seguire Cristo: il Verbo, divenuto carne, è disceso dal cielo per indicare, in senso inverso, all’uomo la via che lo riconduce in cielo. Cristo dunque è la via per eccellenza; percorrendola, l’uomo potrà appagare il desiderio di verità e vita eterna. Da sé, con le sue deboli forze, l’uomo non avrebbe mai potuto ascendere a Dio; ed ecco che Dio si è degnato di indicarci in Cristo il cammino da seguire. "Attraverso l’umanità di Cristo puoi arrivare alla divinità di Cristo. Dio è troppo lontano da te, ma Dio si è fatto uomo. Colui che era lontano da te, assumendo l’umanità si è fatto vicino a te. È insieme Dio e uomo: Dio in cui rimanere, uomo per il quale andare. Cristo è insieme la tua strada e la tua meta" (Sermo 261, 7).

 

 

 

DAL "COMMENTO AL VANGELO DI S. GIOVANNI" DI SANT’AGOSTINO VESCOVO (In Io. Ev. tr. 34, 9)

 

Seguire Cristo via, verità e vita

Cosa seguono coloro che sono stati liberati e raddrizzati, se non la luce dalla quale si sentono dire: Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre? (Gv 8, 12) Sì, perché il Signore illumina i ciechi. Noi veniamo ora illuminati, o fratelli, con il collirio della fede. Egli dapprima mescolò la sua saliva con la terra per ungere colui che era nato cieco (cf. Gv 9, 6). Anche noi siamo nati ciechi da Adamo e abbiamo bisogno di essere da lui illuminati. Egli mescolò la saliva con la terra: Il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi (Gv 1, 14). Mescolò la saliva con la terra, perché era stato predetto: La verità è uscita dalla terra (Sal 84, 12), ed egli dice: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). Noi godremo pienamente della verità quando lo vedremo faccia a faccia. Anche questo, infatti, ci è stato promesso. E chi oserebbe sperare ciò che Dio non si fosse degnato promettere o dare? Lo vedremo faccia a faccia. Dice l'Apostolo: Adesso conosco in parte, adesso vedo in modo enigmatico come in uno specchio, allora invece faccia a faccia (1Cor 13, 12). E l’apostolo Giovanni nella sua epistola aggiunge: Carissimi, già adesso noi siamo figli di Dio, ma ancora non si è manifestato ciò che saremo; sappiamo infatti che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è (1Gv 3, 2). Che grande promessa è questa! Se lo ami, seguilo! Io lo amo, - tu dici - ma per quale via debbo seguirlo? Vedi, se il Signore tuo Dio ti avesse detto soltanto: Io sono la verità e la vita, il tuo desiderio della verità e il tuo anelito per la vita ti spingerebbero a cercare la via per poter giungere all’una e all’altra, o diresti a te stesso: Che grande cosa la verità, che grande cosa la vita, oh se l’anima mia sapesse come giungervi! Cerchi la via? Ascolta il Signore; è la prima cosa che egli ti dice. Ti dice: Io sono la via; la via per arrivare dove? e sono la verità e la vita. Prima ti dice che via devi prendere, poi dove devi arrivare: Io sono la via, io sono la verità, io sono la vita. Dimorando presso il Padre, egli è la verità e la vita; rivestendosi di carne, è diventato la via. Non ti è detto: sforzati di cercare la via per giungere alla verità e alla vita; non ti è stato detto questo. Pigro, alzati! La via stessa è venuta a te e ti ha scosso dal sonno; e se è riuscita a scuoterti, alzati e cammina! Forse tenti di camminare e non riesci perché ti dolgono i piedi; e ti dolgono perché, forse spinto dall’avarizia, hai percorso duri sentieri. Ma il Verbo di Dio è venuto a guarire anche gli storpi. Ecco, dici, io ho i piedi sani, ma non riesco a vedere la via. Ebbene, egli ha anche illuminato i ciechi.

 

 

 

 

Nel libro XII delle Confessioni (10, 10) nel descrivere il proprio itinerario spirituale di dialogo con Dio Agostino ricorre alla metafora luce/tenebra. È solo un esempio che riportiamo, quale testimonianza del livello mistico delle sue parole: "O verità, lume del mio cuore, non siano le mie tenebre a parlarmi! Riversatomi fra gli esseri di questo mondo, la mia vista si è oscurata; ma anche di quaggiù, di quaggiù ancora ti ho amato intensamente. Nel mio errore mi sono ricordato di te, ho udito alle mie spalle la tua voce che mi gridava di tornare, con stento l’ho udita per il tumultuare di uomini insoddisfatti. Ed ora torno riarso e anelante alla tua fonte. Nessuno me ne tenga lontano, ch’io ne beva e ne viva".

 

 

 La luce di Dio

È questo il nostro annuncio: Che Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Chi oserebbe dire che in Dio ci sono tenebre? Ma che cosa si intende per luce, che cosa per tenebre? Non deve capitare di stabilire nozioni che abbiano qualche legame con la nostra vista materiale. Dio è luce dice uno qualsiasi, ma anche il sole è luce, anche la luna è luce, anche la lucerna è luce. La luce di Dio deve essere evidentemente qualcosa di superiore a queste luci, di più prezioso ed eccellente. Tanto questa luce deve essere al di sopra delle altre, quanto la creatura dista da Dio, quanto il Creatore dalla sua creazione, la Sapienza da ciò che per suo mezzo fu fatto. Potremo essere vicini a questa luce, se conosceremo quale essa sia, se ad essa ci accosteremo per esserne illuminati; poiché in noi stessi siamo tenebre, ma, illuminati da essa, possiamo divenire luce e non essere dalla luce confusi, dato che siamo da noi stessi confusi. Chi è confuso da se stesso? Chi si riconosce peccatore. Chi non è confuso dalla luce? Chi ne è illuminato. Ma che significa essere illuminati? Chi s’accorge di essere ricoperto delle tenebre dei peccati e brama essere rischiarato da quella luce, ad essa s’accosta. Perciò dice il salmo: Accostatevi a lui e siatene illuminati e i vostri volti non arrossiranno (Sal 33, 6). Ma non arrossirai di essa, se nel momento in cui ti rivelerà ripugnante a te stesso, sentirai dispiacere di questo tuo stato e capirai quanto è bella quella luce.

 

[…] Tu sostieni di vivere con Dio e poi cammini nelle tenebre. Ma Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Come è possibile una convivenza tra luce e tenebre? Ognuno perciò dica: Che posso fare? Come sarò luce io che vivo nei peccati e nelle iniquità? Subentrano allora la tristezza e la disperazione. Non v’è salvezza fuor che nell’unione con Dio. Dio è luce ed in lui non vi sono tenebre. Ma i peccati sono tenebra, poiché l’Apostolo chiama il diavolo ed i suoi angeli signori delle tenebre (cf. Ef 6, 12). Così non li chiamerebbe, se non fossero anche i padroni dei peccatori, i dominatori degli iniqui. Che possiamo fare, fratelli miei? Dobbiamo associarci a Dio, poiché non esiste altra speranza di vita eterna. Ma Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Ogni iniquità è tenebra e noi siamo sommersi dalle iniquità, così che non possiamo associarci a Dio; che speranza ci resta allora? Non vi avevo forse avvisato che vi avrei intrattenuto su cose che procurano gioia? Non facendolo, siamo immersi nella tristezza. Dio è luce ed in lui non ci sono tenebre. I peccati sono tenebre. Che sarà di noi? Cerchiamo di ascoltare, perché quanto ci viene dicendo potrebbe recarci consolazione, sollevarci e darci speranza, così che non veniamo meno per strada. Sì, siamo impegnati in una corsa e siamo diretti verso la patria; se disperiamo di giungervi questa disperazione ci fa fermare. Orbene: colui che desidera vederci giungere al termine, ci somministra il cibo lungo il cammino, per averci con sé nella patria. Perciò ascoltiamo le parole di Giovanni: Se diremo di vivere con lui e camminiamo nelle tenebre, noi mentiamo e non siamo nella verità. Non possiamo dire di essere associati a lui, se viviamo nelle tenebre. Se invece camminiamo nella luce, come lui stesso è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri (1Gv 1, 7). Camminiamo dunque nella luce, come lui è nella luce, per poter stare in sua compagnia.

 

 

 

 

Il desiderio di Cristo è il desiderio di luce, di sazietà, di giungere a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2, 3). La nostra beatitudine e perfezione è nel tendere a Cristo, nel riposare in Dio per non desiderare più nulla, avendo raggiunto ogni appagamento. Cristo infatti si presenta al nostro cuore come l’insieme di ogni delizia! (Cf. En. in ps. 138, 11)

 

 

 

DALLE "ESPOSIZIONI SUI SALMI" DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO  (En. in Ps. 35, 14-15)

 

Vedere la luce di Dio

Dunque, fratelli, siamo figli degli uomini, speriamo nella protezione delle sue ali, e ci inebrieremo nell’abbondanza della sua casa. Mi sono espresso come ho potuto, e come posso vedo, ma non posso esprimermi come vedo. Si inebrieranno nell’abbondanza della tua casa; e li disseterai al torrente della tua delizia. È detto torrente il corso d’acqua che scorre con impeto. Impetuosa sarà la misericordia di Dio, nell’irrigare e nell’inebriare coloro che ora pongono la loro speranza sotto la protezione delle sue ali. Che cos’è quella delizia? È come un torrente che inebria gli assetati. Chi ora dunque ha sete, fondi la sua speranza; chi ha sete abbia la speranza e, inebriato, avrà la realtà; ma prima di avere la realtà, sia assetato nella speranza. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati (Mt 5, 6).

 

Da quale fonte dunque sarai inondato e donde scaturisce questo così grande torrente della sua delizia? Perché presso di te è la sorgente della vita, dice. Chi è la sorgente della vita, se non Cristo? È venuto a te nella carne, per bagnare la tua gola assetata; sazierà chi spera, Colui che ha bagnato l’assetato. Perché presso di te è la sorgente della vita, nella tua luce vedremo la luce. Qui una cosa è la sorgente ed un’altra la luce: non così lassù. Perché ciò che è la fonte è anche la luce; chiamalo come vuoi, ma non è quello che tu chiami, perché non puoi trovare un nome adeguato, non è racchiuso in un solo nome. Se tu dicessi che è soltanto luce, ti si potrebbe rispondere: Senza ragione dunque mi è stato detto di aver fame e sete: chi infatti può mangiare la luce? Con tutta verità mi è stato detto: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5, 8); se è luce preparo i miei occhi. Prepara anche la gola, perché ciò che è luce è anche sorgente; è sorgente perché sazia gli assetati, luce perché illumina i ciechi. Sulla terra talora in un luogo è la luce, ed in un altro la sorgente. Talvolta infatti i fiumi scorrono anche nelle tenebre; e talora, nel deserto sopporterai il sole, ma non troverai la fonte. Qui dunque queste due cose possono essere separate: lassù non ti affaticherai, perché è sorgente; e non sarai ottenebrato, perché è luce.

 

 

 

Il CENTRO DELLA VITA SPIRITUALE

 

 

Uno dei meriti, e non l'ultimo, del vescovo d'Ippona è quello di aver ricondotto tutte le virtù al tema eterno dell'amore. È celebre la sua definizione delle virtù: " La virtù è l'amore ordinato " 1. Ha fatto, poi, dell'amore il centro focale della vita dello spirito, mettendone in rilievo le molteplici potenzialità che investono e dirigono tutta l'attività umana.

 

Chi volesse avere un'idea di questa centralità dovrebbe studiare l'ampio panorama agostiniano che ha il suo punto d'irradiazione nella carità. Eccone un saggio.

 

La carità di Dio e del prossimo è il contenuto di tutte le Scritture 2, la sintesi della filosofia 3, il fine della teologia 4, l'anima della pedagogia 5, il segreto della politica 6, l'essenza e la misura della perfezione cristiana 7, la somma di ogni virtù 8, l'ispirazione della grazia 9, il dono da cui derivano tutti i doni dello Spirito Santo 10, la regola che distingue le opere buone da quelle cattive 11, la realtà con la quale nessuno può esser cattivo 12, il bene in cui si possiedono tutti i beni e senza il quale gli altri non giovano a nulla (" Abbi la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò che potrai avere " 13), la caparra o il principio della vita eterna 14. È in questo contesto che si deve intendere il celebre aforisma agostiniano: " Ama e fa' ciò che vuoi " 15.

 

Della carità Agostino ha messo in rilievo l'inesauribile dinamismo, l'intransigente radicalità, il totale disinteresse, la forza progressiva dell'assimilazione, l'inseparabile compagnia dell'umiltà e in ultimo, ma non meno importante, la soprannaturalità. Ecco un altro panorama vastissimo, soffermarci sul quale in dettaglio è qui impossibile.

 

1) Dinamismo

 

Continuando quindi per accenni, si può dire che sul dinamismo della carità, che qui in terra non può essere mai piena, il vescovo d'Ippona ha scritto un libro apposito - Perfezione della giustizia dell'uomo - e ha sostenuto una lunga controversia con i pelagiani intorno all'impeccantia, affermata da Pelagio, negata da lui. Perciò qui in terra l'uomo giusto sarà sempre iustus et peccator, non perché non gli siano stati rimessi i peccati o perché commetta peccato operando il bene, ma perché non sarà mai libero da imperfezioni, debolezze, trasgressioni veniali, mai in ogni caso avrà la pienezza dell'amore. Questa ci viene comandata - " Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore " -, ma non come perfezione che dobbiamo possedere, bensì come mèta a cui dobbiamo tendere.

 

Nasce da qui l'inesauribile movimento della carità che non può, non deve mai arrestarsi. Da qui l'esortazione di Agostino al suo popolo: " Aggiungi sempre, cammina sempre, progredisci sempre: non ti fermare nella strada, non tornare indietro, non deviare... è meglio uno zoppo nella strada che un corridore fuori strada " 16.

 

Inutile dire che questo dinamismo si fonda sulla natura stessa dell'amore, che è essenzialmente tensione, moto, peso; un peso - è nota la celebre metafora agostiniana -, che trascina lo spirito verso il luogo del suo riposo e si non placa finché non l'abbia trovato: " Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto " 17.

 

2) Radicalità

 

La carità dunque, possiamo dire con Dante, è " la sete natural che mai non sazia " 18. Una prerogativa, questa, su cui Agostino insiste molto. Si può dire giustamente che egli sia il filosofo e il teologo dell'" inquieto è il nostro cuore " 19. Ma questa prerogativa sembra contraddire ad un'altra che pur si trova negli scritti agostiniani: la totalità o radicalità. Dice infatti: " Tutto ti esige Colui che ti fece " 20. Dio infatti non esige solo l'azione ma anche l'intenzione, non solo la lode della bocca ma anche, anzi prima di tutto, quella del cuore, non solo l'ossequio dell'intelletto per mezzo della fede ma anche quello della volontà per mezzo dell'obbedienza. Dio è tutto per l'uomo: causa dell'essere, luce del conoscere, fonte dell'amore; l'uomo dunque deve tutto se stesso a Dio: l'essere, la conoscenza, l'amore. Nessuna fibra del cuore può restar fuori da questa esigenza divina.

 

Ma qui, come si vede, la totalità è diversa da quella di cui si diceva prima: non è la totalità intensiva, che nessuno può raggiungere qui in terra, ma quella estensiva, che deve abbracciare tutto l'uomo, ogni sua attività, ogni suo pensiero, pena di venir meno alla legge universale della carità. Perché lo spazio che non occupa la carità lo occupa la cupidigia, l'egoismo, l'amore "privato", che è l'amore perverso di sé e degli altri.

 

Da questa esigenza della carità nasce l'opposizione tra l'amore di sé e l'amore di Dio, sulla quale Agostino fonda, come è noto, la città del mondo e la città di Dio 21.

 

Questa opposizione viene espressa appunto con i termini di cupidigia e di carità, i cui regni sono tanto contrari che se uno si dilata l'altro si restringe. Occorre dunque diminuire il regno della cupidigia perché si dilati quello della carità. " Nutrimento della carità è la diminuzione della cupidigia, la perfezione assenza della cupidigia " 22. Ma la cupidigia sparirà quando la carità avrà raccolto in unità e ordinato verso Dio tutti i moti del cuore, prendendo perciò il dominio di tutto l'uomo.

 

3) Disinteresse

 

Terza prerogativa della carità è il totale disinteresse. Amare Dio gratuitamente: questa la tesi di fondo dell'agostinismo spirituale. Ragione: " Ciò che non si ama per se stesso, non si ama " 23. Ma quest'amore non esclude il desiderio del premio quando questo non sia altro che Dio. Amare Dio gratuitamente vuol dire non desiderare da Dio se non Dio stesso o, come dice Agostino, " sperare Dio da Dio " 24. E altrove: " Dio sia amato e lodato gratuitamente. Che significa "gratuitamente"? Significa amarlo e lodarlo per se stesso, non per qualcosa di estraneo a Lui " 25.

 

Questo desiderio di possedere Dio è tanto importante che il vescovo d'Ippona lo pone come fondamento e come segno dell'autentico amore di lui. Fa, più volte, al suo popolo questo ragionamento: Poni che Dio ti dica: Vuoi vivere sempre? vivrai; vuoi essere libero da ogni male? lo sarai; vuoi godere tutti i piaceri? li godrai; ma ad una condizione: non vedrai mai la mia faccia. Se accetti questa proposta, vuol dire che non c'è in te l'amore di Dio; se invece rispondi subito: "No, Signore, via tutto quello che mi prometti, dammi te stesso, perché te solo io cerco", vuol dire che la scintilla dell'amore divino nel tuo cuore è accesa 26.

 

Questa nozione dell'amore gratuito, che non esclude ma include il desiderio di Dio, porta Agostino a distinguere accuratamente il timore "servile" dal timore "casto". Il primo, se esclude la volontà di peccare, è "buono e utile" perché prepara il posto alla carità, ma solo il secondo è inseparabile da essa e cresce con essa; solo esso è compagno dell'amore vero, cioè "gratuito" 27. " Fratelli - esclama il vescovo parlando al popolo -, amiamo Dio con cuore puro e casto. Non è certo il cuore di chi onora Dio in vista della ricompensa ". E, quasi a fugare la possibilità di false interpretazioni di queste parole, continua: " Come? Non avremo la ricompensa per aver servito Dio? Certamente l'avremo, ma sarà lo stesso Dio che serviamo " 28.

 

4) Forza di assimilazione

 

Un'altra prerogativa della carità, sulla quale Agostino opportunamente insiste, è la forza d'assimilazione con l'oggetto amato. Prima di tutto ne stabilisce il principio: quello che qualifica moralmente l'uomo non è ciò che conosce, ma ciò che ama. Perciò " ognuno è tale qual è il suo amore ". E ne tira le conseguenze. Continua infatti: " Ami la terra? sarai terra. Ami Dio? Che dirò, sarai Dio? Non oso dirlo da me, ascoltiamo le Scritture: Ho detto: Siete dèi e figli dell'Altissimo, tutti " 29.

 

Questo principio deriva dalla natura stessa dell'amore, che è apertura verso l'altro, movimento - Agostino, abbiamo visto, parla di peso -, che non si quieta se non nell'assimilazione, assimilazione dell'amante con la persona amata; assimilazione che vuol dire fusione o perdita di identità, ma - Agostino è sempre preciso nelle sue idee metafisiche e teologiche - perfetta unione per cui i due, pur restando due, diventano uno. Da questo principio nascono conseguenze luminose come questa: amando Dio si diventa partecipi delle perfezioni di Dio, dell'eternità, della bontà, della bellezza. " Aderendo al Creatore, che è eterno, anche noi, per necessaria conseguenza, diventiamo eterni " 30. Perciò " stando in terra, sei già in cielo, se ami Dio " 31. L'amore infatti non è il pegno ma la caparra della vita eterna 32. Avevano ragione gli scolastici di tradurre questa dottrina agostiniana nell'effato: l'anima è più presente nella cosa che ama che corpo che anima. Del resto egli stesso aveva detto: " Amando abitiamo col cuore " nella casa che amiamo 33.

 

Altra conseguenza di questo principio è la dottrina della deificazione, cara ai Padri greci. Anche Agostino la conobbe e la propose come termine ed apice della giustificazione, se non nella controversia pelagiana, dove l'argomento in discussione era un altro, certamente nella predicazione al popolo. In questa ricorre spesso, come si sa, a formule lapidarie perché la verità s'imprima meglio nella mente degli ascoltatori. Eccone una: " Dio vuol farti Dio, non per natura come Colui che ha generato, ma per suo dono e adozione " 34. E insiste su questa necessaria distinzione: " Gli uomini sono dèi non per essenza, ma per partecipazione di quell'unico e vero Dio " 35. Ora la partecipazione avviene attraverso l'amore che lo Spirito Santo diffonde nei nostri cuori. La deificazione infatti sarà completa dopo la resurrezione dei corpi quando " tutto l'uomo deificato aderirà - appunto con l'amore - alla verità perpetua ed immutabile " 36.

 

Inutile dire che il fondamento di tutto è l'incarnazione del Verbo di cui Agostino esprime lo scopo con questi brevi parole che riassumono una grande dottrina: " Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio ". Ed ancora nello stesso luogo: " Perché l'uomo mangiasse (con l'amore) il pane degli angeli, il Signore degli angeli si è fatto uomo " 37.

 

Sublime dottrina, questa, che meriterebbe un più ampio approfondimento; qui invece occorre continuare a recensire rapidamente le prerogative di questo mirabile centro della vita spirituale. Un'altra di esse è l'umiltà.

 

5) L'umiltà compagna inseparabile della carità

 

Parlando dell'umiltà non ci si allontana dal tema della carità, perché l'una è inseparabile dall'altra, anzi si può dire che ne è l'altra faccia: " Dov'è l'umiltà, ivi è la carità " 38. Infatti l'umiltà è il fondamento su cui si costruisce l'edificio della carità 39, l'unica via da percorrere per giungere a possederla 40, la casa dove essa stabilisce la sua dimora 41. Per riempirsi della carità, occorre svuotarsi della superbia, che è, per definizione, disordinato amore di sé.

 

Non fa meraviglia dunque che al celebre binomio, amore di sé e amore di Dio - su cui Agostino, come è noto, pone il fondamento delle due città -, egli equipari l'altro: orgoglio e umiltà 42. Effettivamente, chi non riconosce Dio come creatore da cui gli viene ogni bene - l'uomo non ha di suo che il limite, e perciò l'errore e il peccato 43 -, o non confessa la gratuità della grazia che salva o non guarda a Cristo che offre se stesso come modello d'umiltà, non può avere la carità nel cuore. Ora questi motivi - metafisico, teologico, cristologico - sono quelli appunto che costituiscono la ragione dell'umiltà, che Agostino non si stanca di approfondire, d'illustrare e di raccomandare. Per lui l'umiltà s'identifica con la sapienza 44 e la sapienza a sua volta con la carità; consiste infatti nella conoscenza e nel possesso del sommo bene 45.

 

Agostino è stato chiamato giustamente il dottore dell'umiltà com'è il dottore della carità, ma è il dottore dell'una e dell'altra perché è il dottore della grazia. Infatti al panorama abbozzato sopra mancherebbe un elemento essenziale se non si dicesse che la carità è il grande dono di Dio.

 

6) La carità dono di Dio

 

Non si tratta di esporre qui la dottrina agostiniana della grazia che si sa quanto sia ampia e profonda. Basta dire solamente che la carità, centro della vita spirituale, non si pone sul piano naturale ma, essenzialmente, sul piano soprannaturale, su cui si pone tutta la mistica cristiana. Agostino lo intuì e lo ridisse con chiarezza e fermezza, tanto da ridurre a questo punto tutta la controversia pelagiana. Ecco le sue forti parole: " Da dove negli uomini la carità di Dio e del prossimo se non da Dio stesso? Poiché se essa proviene non da Dio ma dagli uomini, hanno partita vinta i pelagiani, se invece proviene da Dio abbiamo vinto i pelagiani " 46.

 

Non dunque uno sforzo umano, ma prima di tutto un dono divino; non un'ascesa con le nostre forze verso Dio, ma prima di tutto la nozione di Dio che afferra l'uomo e lo trae nella sfera del divino; in una parola, non l'erôs greco ma l'agapê cristiana. Non già che l'agapê non sia un'ascesa verso Dio o non costituisca il compimento del più profondo desiderio dello spirito umano, che è stato fatto per Dio e non ha posa finché non si riposi in Dio 47, ma essa suppone la consapevolezza che noi possiamo salire verso Dio perché Dio è disceso verso di noi, perché lo Spirito Santo diffonde il suo dono nei nostri cuori. Parlando della trascendenza divina, Agostino pone sulla bocca di Dio queste parole: " Scendo io, giacché tu non puoi salire: io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe " 48.

 

Il testo dell'Apostolo (Rom 5, 5) - " l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato " - costituisce il motivo dominante dell'insegnamento agostiniano: ad esso Agostino riconduce la nozione stessa della grazia adiuvante che altro non è se non " ispirazione della carità con cui con santo amore facciamo quel che sappiamo di dover fare " 49.

 

 

Questo doveva essere, se pure sommariamente, ricordato perché risultasse chiara la collocazione che Agostino dà alle ascensioni mistiche. Parlandone, egli fa mostra di essere un acuto psicologo ma anche, e soprattutto, di essere un teologo illuminato e sicuro: il teologo della grazia. Doveva essere ricordato, poi, per capire il posto che occupa la preghiera nella dottrina (e nella vita) del vescovo d'Ippona; un posto che è pari solo a quello della grazia che implora e della quale esprime i frutti. Essa è il luogo dove si attinge la forza per amare, il mezzo e l'esercizio della vita spirituale. Non ci resta che parlarne brevemente.


Sull'amore:

 

Sant'Agostino

 

Maurizio Schoepflin

 

Sant'Agostino

l'amore è carità

 

 

Nell'opera di Agostino* l'amore rappresenta un tema non circoscrivibile: sono infatti molte e decisive le direzioni in cui esso svolge un ruolo. Si possono tuttavia indicare tre livelli nella costruzione filosofica agostiniana, in cui il concetto di amore risulta essenziale per definire i contorni di alcune originali meditazioni. Uno è quello della natura dell'anima e del suo rapporto con Dio; gli altri due concernono l'opposizione fra le due città e il nesso fra la dilectio proximi e l'amor Dei [1]. Quest'ultima questione conduce alla concettualizzazione del rapporto fra amore umano e amore di Dio secondo le modalità dell'uso e del godimento (uti e frui).

Nel trattato De Trinitate, Agostino analizza il rapporto fra la Trinità e le molte forme in cui il principio del « trein-uno» si presenta nell'anima umana, in quanto vestigio di Dio. Il rapporto che corre tra la trinità divina e quelle umane scopre il nesso di amore e conoscenza: «Il verbo nasce quando un pensiero ci attira al peccato o a far bene. Mediatore tra il nostro verbo e la mente da cui è generato, l'amore dunque li unisce..., in un abbraccio spirituale senza con essi confondersi» [2]. E questo un tipico carattere del modo di intendere agostiniano: la caritas assume un ruolo ermeneutico. A proposito della necessità di ben condursi nella discriminazione fra interpretazione letterale e allegorica, il filosofo cristiano indica la via di «esaminare con diligente attenzione quel che si legge, finché l'interpretazione non raggiunga il regno della carità» [3]. Nel contesto del De Trinitate Agostino sviluppa però particolarmente il tema delle facoltà dell'anima e della loro unità e articolazione. Tra le varie immagini della Trinità da lui prese in esame, quella che consente di osservare più estesamente la funzione dell'amore è quella del rapporto fra la memoria, la conoscenza e la volontà. In questa relazione trinitaria, la natura spirituale dell'uomo, costituita ad imaginem Dei, può accorgersi della sua possibilità di volgersi verso la verità eterna, poiché in lei ricordare, vedere e desiderare sono uniti. L'anima infatti «per ricordare, vedere, amare quella suprema Trinità deve ad essa riferire tutto ciò che vive perché tale Trinità divenga oggetto del suo ricordo, della sua contemplazione e della sua compiacenza» [4]. In questo caso la volontà è identica all'amore.

Per comprendere questo concetto bisogna richiamare il modo in cui Agostino descrive i rapporti delle facoltà dell'anima nel loro stadio più naturale. Nelle Confessiones, commisurando provvisoriamente l'essere dell'uomo all'idea trinitaria, scrive infatti che «i tre princìpi sono: l'essere, il conoscere, il volere. Io infatti esisto, so, voglio; sono sciente e volente; so di esistere e di volere; voglio esistere e sapere» [5]. È stato osservato da Hannah Arendt che in questi rapporti trinitari la volontà può avere un ruolo privilegiato in quanto viene trasformata in amore che è «il fattore di congiunzione più efficace»6. La volontà unisce infatti la visione, accolta nella memoria mediante l'attenzione, con il pensiero che si dirige su quell'immagine. Tanto nell'accogliere e nel dirigersi quanto nell'unire, scopriamo ancora una volontà che è amore. «La volontà che unisce l'uno all'altro - dice Agostino - è dunque manifestamente... più spirituale e perciò essa è, in questa trinità, come il primo annuncio della persona dello Spirito» [7]. Quando poi Agostino considera la Trinità eterna, il principio della volontà amante viene collocato nello Spirito Santo. Tuttavia la differenza ontologica fra la Trinità divina e le immagini di essa, colte nello specchio delle cose mondane, rende ancora più essenziale l'ufficio dell'amore nell'essere eterno di Dio. Infatti, anche nella più elevata trinità umana una sola persona «possiede queste tre potenze, ma... non è queste tre potenze. Invece in quella natura supremamente semplice, che è Dio, sebbene vi sia un solo Dio, vi sono tuttavia tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo» [8].

In questa opposizione fra possedere umano ed essere divino, l'amore assume il senso dell'anelito alla ricerca. La lode agostiniana ha alla base una volontà orientata dall'amore divino: «Il miglior tuo servo è colui che non tanto cerca di udire da te ciò che egli vorrebbe, quanto di volere ciò che ha sentito da te» [9]. E ancora: «Ti degustai, ed ora ho fame e sete; mi toccasti, ed ora brucio di desiderio per la tua pace» [10]. Dal ruolo che in questa parte della speculazione agostiniana è attribuito all'amore, si comprende in quale misura l'estasi della fede, in cui appaiono influenze neoplatoniche, abbia parzialmente contribuito all'attenuazione del conflitto tra la legge e la fede, messo in luce da san Paolo. Contemporaneamente la rivelazione cristiana diviene mediatrice di conoscenza nel senso più ampio e pregnante. «Cerchiamo dunque con l'animo di chi sta per trovare e troviamo con l'animo di chi sta per cercare» [11]: in queste parole è possibile condensare il senso delle idee di Agostino in rapporto alle questioni inerenti all'amore, quale principio esplicativo della vita dell'anima e del suo orientamento spirituale.

Un altro livello in cui può essere disposta la complessa dottrina agostiniana dell'amore è costituito dalla problematica del De civitate Dei. Il conflitto fra la civitas terrena e la civitas Dei è sotteso all'opposizione di due diverse forme d'amore: «La prima si gloria di se stessa, la seconda in Dio» [12]; e mentre quella «ama la propria forza; questa dice al suo Dio: amerò te, o Signore, mia fortezza» [13]. In quest'opera, la più ampia da lui composta, Agostino dà alla sua cristologia quell'impronta storica che distingue íl cristianesimo da ogni altra religione. La coscienza del tempo e l'Incarnazione sono strettamente congiunte. Agli occhi del vescovo di Ippona, infatti, Cristo quale mediatore di grazia ha «abbattuto con la sua umiltà» l'orgoglio di coloro che disprezzavano «quella carne che il Cristo volle assumere in vista del sacrificio della nostra purificazione» [14]. Il tempo è commisurato alla capacità dell'anima di produrre, attraverso l'attenzione e l'amore, una conservazione del passato e un'attesa del futuro, in un presente che appartiene solo alla coscienza: «L'impressione lasciata in te dalle cose mentre passano e che dura anche quando esse sono passate, quella io misuro come presente, non le cose che passando, ve la lasciarono» [15]. L'idea di Incarnazione (che appare nei termini della kenosis), insieme alla reciproca convertibilità del tempo e dell'anima, consentono ad Agostino di pervenire a una concezione dell'uomo che rappresenta una premessa indispensabile per saggiarne le profondità. Solo la conoscenza di aspetti dell'uomo sconosciuti all'antichità e mostrati dal cristianesimo rende infatti possibile l'edificazione dell'ordo amoris agostiniano.

A proposito dell'etica degli stoici - per esempio - Agostino critica la pretesa di far coincidere la volontà con la ragione, al punto di vedere nel pieno dominio delle passioni la virtù del saggio. Il filosofo cristiano sa infatti riconoscere che le passioni non sono in sé distruttive, ma che debbono ricevere il posto adeguato. «Gli stoici sono soliti biasimare la misericordia; tuttavia, quanto sarebbe più meritevole di onore lo stoico che si turba per salvare un uomo, piuttosto che per timore di naufragare» [16]. Si può misurare la portata delle idee di Agostino se si considera quanto l'abstine et sustine di Epitteto abbia rappresentato, in quei secoli di crisi, l'aspetto migliore dello spirito greco-romano. Possiamo infine capire dalle seguenti parole del padre della Chiesa quale sia l'orizzonte antropologico della rivelazione cristiana: «Ma che cos'è la misericordia se non la simpatia che il cuore prova per l'altrui miseria che vorrebbe sollevare per quanto gli è possibile? I questo impulso fa buon servizio alla ragione quando usa benevolenza senza compromettere la giustizia, sia elargendo al bisognoso, sia perdonando al pentito» [17]. Giungiamo così al fondo della questione del rapporto delle due città con la sfera ontologico-etica dell'amore.

Trattando il tema della consonanza fra caritas e amor come ordinata dilectio, così si esprime Agostino: «La volontà retta... è un amore buono, la volontà cattiva è un amore cattivo. L'amore che aspira a possedere ciò che ama è desiderio; l'amore che ha e possiede ciò che ama è gioia... e questi sentimenti sono cattivi se l'amore è cattivo, sono buoni se l'amore è buono» [18]. La qualità dei due amori contribuisce quindi a tracciare i contorni delle due città. L'amore che domina la città terrena non è malvagio per colpa di ciò che lo accende, ma per il disordine delle passioni al quale conduce il desiderio esclusivo delle cose create, nell'oblio e nel rifiuto di Dio. Al contrario, l'amore che guida la città di Dio non è rinuncia ascetica alle creature, ma la loro valorizzazione nell'ordine della caritas. L'amor Dei libera, infatti, l'amor mundi dalla cupiditas, in conseguenza della sua qualità metafisica di essere radice e orizzonte dell'ordine della carità che gli appartiene. «Ogni cosa creata, per quanto buona essa sia, può essere amata con un amore buono o cattivo: buono se è rispettato l'ordine, cattivo se è violato» [19]. L'opposizione fra le due città, che attraverso la definizione del concetto d'amore si arricchisce di un contenuto decisivo, culmina nell'attribuzione all'ordinata dilectio del significato di misura assoluta della virtù: «L'amore, con il quale amiamo ciò che bisogna amare, deve essere anch'esso amato ordinatamente affinché possediamo la virtù che ci fa vivere bene. Mi sembra quindi che una vera e breve definizione della virtù sia questa: l'ordine dell'amore» [20]. L'amore entra nello spazio dell'etica e ciò conferisce al tema paolino del rapporto tra fede e grazia, assai influente nel pensiero di Agostino, un orizzonte più ampio in virtù del quale tale tema può essere collocato entro una considerazione filosofica della storia.

Il terzo campo di questioni è quello del rapporto fra uso e godimento (uti e frui). Per procedere in tal senso, è necessario ricordare che l'ordo amoris agostiniano include in sé il motivo etico della giustizia, che appartiene al Dio biblico in senso eminente. È famoso il passo del De civitate Dei che recita: «Bandita la giustizia, che altro sono i regni se non grandi associazioni di delinquenti?» [21]. E altrove, biasimando i danni della dipendenza dalla lode umana, Agostino scrive che «se almeno questo desiderio sfrenato di gloria fosse superato dall'amore verso la giustizia» [22], i reggitori degli Stati sarebbero migliori. In ultima istanza, tuttavia, la fonte di una ordinata e pacifica vita sociale è riposta nell'interiorità. Platonismo e cristianesimo si incontrano in una concezione della vita pubblica che colloca l'anima alla base della giustizia. L'idea cristiana dell'incarnazione del Verbo, che singolarizza l'anima e rivaluta il corpo, domina l'atteggiamento agostiniano, che salda strettamente la coscienza a Dio. «Ma quando l'uomo non è sottomesso a Dio, qual giustizia vi può essere in lui, dal momento che, senza questa sottomissione a Dio, l'anima non può in nessun modo comandare con giustizia al corpo né la ragione ai vizi? E se in un tal uomo non vi è giustizia, senza dubbio essa non sussiste neppure in una società composta di uomini simili» [23]. Anche in questo caso, la struttura concettuale dell'ordo amoris gioca un ruolo importante. L'esame del problema della giustizia mostra comunque che l'amor Dei non assorbe in un'assolutezza uniforme l'autonomia delle sfere ontologiche mondane, ma le raccoglie in una totalità articolata da esso costituita. L'idea cristiana di Dio rivela qui la sua capacità di esprimere il complesso rapporto fra temporalità e trascendenza.

Quanto di ascetico è racchiuso nel pensiero di Agostino tocca soltanto alcuni aspetti pratico-normativi della sua filosofia (ad esempio la concezione del matrimonio e i pregiudizi nei confronti delle donne), ma non coinvolge l'impostazione fondamentale della sua speculazione. Ha scritto Karl Jaspers che nel pensiero di Agostino «ragione e fede non sono due fonti separate... che debbono alla fine incontrarsi. La ragione è nella fede, la fede nella ragione. Agostino non conosce un conflitto che debba risolversi con la sottomissione della ragione. Il sacrificium intellectus, il credo quia absurdum est di Tertulliano gli sono estranei» [24]. Fede e ragione sono nel vescovo di Ippona una dimensione spirituale fondata sulla coappartenenza. Il Verbum giovanneo ha trovato in Agostino il suo più esplicito interprete filosofico.

Su tali basi metafisico-teologiche, si comprende la distinzione fra uti e frui in cui consiste il lato propriamente etico della complessa dottrina agostiniana dell'amore. Il comandamento biblico di amare il prossimo come se stessi e Dio con tutto il cuore è alla base delle forme della dilectio proximi e del frui Deo. Le modalità del godere (o fruire) e dell'usare indicano due tipi di amore che possono contrapporsi (provocando la caduta nell' appetitus o nella cupiditas), oppure costituire un ordine comprensivo. A questo proposito, così si esprime Agostino: «Non è questione da poco, pertanto, chiedersi se gli uomini debbano godere di se stessi o servirsi di se stessi... è vero che ci è stato dato il precetto dell'amore scambievole; ma è in questione se l'uomo debba essere amato dall'altro uomo per se stesso, o in vista di altro. Nel primo caso si tratta di godimento; nel secondo di uso» [25]. Il godimento è quindi la modalità di relazione conforme all'eternità di Dio (frui Deo). Tale amore deve orientare tutto l'essere dell'uomo verso la sfera soprasensibile, producendo un accrescimento delle forze umane che tendono al bene. Secondo Agostino, l'unico modo di amare Dio è amarlo illimitatamente. L'uso è invece la forma d'amore con cui si possono abbracciare il mondo e gli altri esseri umani. L'orientamento dell'amore secondo la modalità dell'uti non svaluta le inclinazioni che producono i molti e decisivi vincoli che uniscono le persone umane (e che ne definiscono in modo essenziale la natura), ma le riscatta dal disordine in cui cadono quando alterano l'ordo amoris sostituendo l'orientamento dell'uti con quello del frui Deo e arrivando, di conseguenza, a divinizzare ciò che appartiene al mondo e alla temporalità. Commentando il passo del vangelo secondo Matteo sull'amore di Dio e del prossimo, quale principio della legge e della profezia, così scrive Agostino: «Il fine di questo insegnamento è... l'amore duplice, cioè di Dio e del prossimo. E se vi comprendi tutto te stesso, cioè la tua anima e il tuo corpo, e tutto il prossimo, cioè la sua anima e il suo corpo... potrai riconoscere che in questi due insegnamenti non si trascura nessun genere di realtà da amare» [26]. Il primato dell'amore di Dio dà quindi all'amore del prossimo la direzione e il posto che gli consentono di compiersi nell'ordine generale dominato dalla caritas. In questa direzione la dottrina agostiniana dell'amore fornisce alla cristianità in formazione alcuni essenziali riferimenti etici.

Concludendo questa presentazione generale degli aspetti della filosofia di Agostino che sono implicati nel tema dell'amore, bisogna ricordare che in essi si trova abbozzata quella dottrina della voluntas che ha avuto grandi conseguenze nel Medioevo e nell'età moderna. «Ciò che importa nell'uomo è la volontà: se essa è sregolata, anche i suoi movimenti saranno sregolati; se essa è irreprensibile anche i suoi movimenti saranno non solo irreprensibili, ma anche degni di lode. La volontà è in tutti questi movimenti, o meglio tutti questi movimenti non sono niente altro che volontà» [27]. Il nesso di voluntas e amor dischiude prospettive che contengono una buona parte della filosofia occidentale ed arrivano alla nostra contemporaneità [28].

 

NOTE

 

* Nato nell'odierna Algeria nel 354, si dedicò ben presto agli studi e alla ricerca filosofica, manifestando una profonda e feconda inquietudine esistenziale, che si placò soltanto con la conversione al cristianesimo, avvenuta a Milano, ove venne battezzato dal vescovo sant'Ambrogio. Costantemente sostenuto dalla presenza e dalla preghiera Ila madre Monica, cristiana ferventissima, alla morte di lei rientrò in Africa e diventa. vescovo di Ippona. Fu uno scrittore assai prolifico (tra i suoi scritti ricordiamo le Confessiones, il suo capolavoro, il De vera religione, il De Trinitate, il De civitate Dei). Il suo pensiero si concentrò intorno ai grandi temi di Dio e dell'anima, che egli considerò vitalmente uniti, tanto da ritenere l'interiorità dell'uomo il luogo privilegiato della presenza divina. Svolse riflessioni memorabili intorno al problema del male e a quello del tempo, e si oppose con forza alle eresie che andavano diffondendosi (manicheismo, pelagianesimo, donatismo). Di grande rilievo è pure la sua speculazione sul senso della storia. Morì nel 430.

1 Cfr. H. Arendt, Il concetto di amore in Agostino, Se, Milano 1992, pp. 114-119.

2 Sant'Agostino, La Trinità, Città Nuova, Roma 1973, p. 381.

3 Id., La dottrina cristiana, Edizioni Paoline, Milano 1989, p. 245.

4 Id., La Trinità, op. cit., p. 695.

5 Sant'Agostino, Le confessioni, Rizzoli, Milano 19806, p. 378.

6 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 421.

7 Sant'Agostino, La Trinità, op. cit., p. 445.

8 Ibid., p. 699.

9 Id., Le confessioni, op. cit., p. 285.

10 Ibidem.

11 Sant'Agostino, La Trinità, op. cit., p. 365.

12 Id., La Città di Dio, Edizioni Paoline, Alba 1973, p. 806.

13 Ibid., p. 807.

14 Ibid., p. 561.

15 Sant'Agostino, Le confessioni, op. cit., p. 332.

16 Id., La Città di Dio, op. cit., p. 488.

17 Ibidem.

18 Ibid., p. 763.

19 Ibid., p. 860.

20 Ibidem.

21 Ibid., p. 299.

22 Ibidem.

23 Ibid., p. 1176.

24 K. Jaspers, I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 423.

25 Sant'Agostino d'Ippona, La dottrina cristiana, op. cit., p. 120.

26 Ibid., p. 129.

27 Sant'Agostino, La Città di Dio, op. cit., p. 761.

 

28 Al termine di questa breve ricostruzione della riflessione agostiniana sull'amo-:e, ci preme segnalare alcune pagine illuminanti dell'opera di E. Gilson, Introduzione allo studio di Sant'Agostino, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 154-165. Qui il celebre interprete della filosofia dell'Ipponense traccia le essenziali coordinate del discorso aiiostiniano sull'amore, di cui si è fatto tesoro, pur senza citarle espressamente.

DISCORSO DI SANT'AGOSTINO VESCOVO

SULL'AMORE DI DIO E DEL PROSSIMO

 

 

Attrai il prossimo a Dio.

Tu dunque amerai il sommo Bene e ad esso volgerai l'affetto del tuo cuore. In tal caso posso affidarti il prossimo. Vedo infatti dove tendi e dove vuoi risiedere. Conducilo da lui! E in effetti non potrai condurre da altri colui che ami come te stesso, ora che veramente ami te stesso. Conduci là il tuo prossimo, attrailo, rapiscilo insistendo in ogni maniera accettabile 32. Se si fosse all'alba di un giorno di gare circensi, tu, appassionato d'un concorrente nei giochi venatori, non riusciresti a prender sonno e non ti faresti sfuggire l'ora di correre all'anfiteatro. Giunta l'ora, andresti a svegliare con fastidiosa insistenza il tuo amico, per ipotesi ancora immerso nel sonno e desideroso più di dormire che d'andare ai giochi. Con la tua insistenza faresti pressione su quel pigro: se ti fosse possibile, lo vorresti buttar giù dal letto e piazzarlo nell'anfiteatro. Né, con tutto questo, recheresti a lui fastidio se non finché si sia destato dal sonno, poiché, scomparso il sonno, egli viene subito con te e ti ringrazia per la tua importunità. Ma cosa dire se, condotto quell'uomo all'anfiteatro, dove tutti e due siete andati in gran fretta, l'atleta da voi preferito venisse sconfitto e voi ve ne doveste andare a testa bassa? Ama dunque Dio con tutto il tuo essere: con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 33. Così e soltanto così ami te stesso; e solo in questa maniera puoi amare il prossimo come te stesso. Lo attiri infatti con entusiasmo da colui del quale mai dovrai arrossire.

 

Ama se stesso solo colui che ama Dio.

Non essendo possibile che chi vuol amare il prossimo lo ami veramente se prima non ama Dio, per questo motivo fu necessario che i due precetti della carità venissero formulati insieme. Chi ama Dio non può amare l'iniquità poiché, amando l'iniquità, odierebbe la sua anima 34. Se non ama l'iniquità, amerà la giustizia, e amando la giustizia amerà Dio. Egli pertanto non cerchi Dio con gli occhi del corpo: lo cerchi con la mente e lo ami in maniera sempre crescente con l'affetto del cuore. Non costruiamoci [con la fantasia] divinità che non sono Dio, se non vogliamo amare anche chi non è Dio, se non vogliamo amare vani fantasmi. Non dobbiamo cadere in errore immaginando cose di questo genere; non dobbiamo formarci un Dio a misura delle nostre voglie naturali né costruircelo a nostro talento. Per distoglierci da queste fantasticherie ci dice la Scrittura: Dio è amore 35. Se dunque ami, ama chi ti dà il potere di amare, e allora ami Dio. Non hai udito che chi ama l'iniquità odia la sua anima 36? Ebbene, se ami, ama colui che ti dona di poter amare, e ami Dio. Il principio per cui ami è infatti la carità. Tu ami in forza della carità: ama dunque la carità e così ami Dio, perché Dio è carità, e chi dimora nella carità dimora in Dio 37. Ecco perché fu necessario che venissero inculcati distintamente i due precetti. Di per sé sarebbe stato sufficiente menzionarne uno: Amerai il prossimo tuo come te stesso 38, ma l'uomo si sarebbe potuto ingannare su questo amore del prossimo non sapendo amare rettamente se stesso. Per questo motivo il Signore, quando volle dare una forma all'amore con cui ami te stesso, la trovò nell'amore che si ha verso Dio. Stabilito questo, ti affidò il prossimo perché tu lo amassi come te stesso.

 

Unico oggetto del duplice comandamento.

 A questo punto, se tu sei d'accordo, ti dovrebbe bastare anche l'unico precetto dell'Apostolo. Ora che hai compreso la portata dei due precetti te ne può bastare anche uno solo, mentre prima, quando non li comprendevi, uno non sarebbe bastato. Se infatti poni all'inizio un cattivo amore per te stesso, ami malamente anche colui che ami come te stesso. Anzi, non va detto: " Ami male " ma: " Non ami affatto ". Se dunque ti si dice che non devi commettere adulterio, né uccidere, né desiderare maliziosamente 39, ti si richiama a [rientrare in] te stesso, là cioè dove ha sede la pienezza [dell'uomo]. Infatti tu puoi evitare l'adulterio per timore della punizione, non per amore della giustizia. Così per l'omicidio. Puoi avere la volontà di uccidere ma temi di più il castigo: nel qual caso con la mano non commetti l'omicidio ma nel cuore ne sei colpevole. Ti proponi di uccidere una persona ma temi; comunque vuoi uccidere. È segno che non ami il non uccidere. Il tuo agire all'esterno deve esistere già nel tuo interno, risiedere là dove ti vede Colui che ti darà la corona. Lì devi combattere e vincere, poiché lì risiede Colui che ti osserva. Con ragione quindi è detto: Non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare malamente e tutti gli altri comandamenti si riassumono in questa parola: ama il prossimo tuo come te stesso 40. Tu certamente già ami Dio, poiché non potresti amare il prossimo senza amare Dio: il secondo precetto segue il primo. Sia dunque in te il primo, e questo porterà con sé anche il secondo, mentre il secondo non può esistere senza il primo. Se pensavi al perché dei due precetti, adempine pure uno; ma non potrai adempiere quest'uno se non osservandoli tutti e due. Tant'è vero che il secondo si chiama appunto secondo per il fatto che segue [l'altro]. È dunque un precetto conseguente. Ama il prossimo tuo come te stesso: ciò mi basta. Ma se tu a Dio non puoi giungere col pensiero, da dove comincerai per poter amare te stesso? L'amore del prossimo non commette alcun male. Pienezza della legge è dunque la carità 41. E questa carità in che cosa consiste? Nell'amore di Dio e nell'amore del prossimo. Scegli pure l'amore che preferisci! Se scegli l'amore del prossimo, esso non è vero se non ami anche Dio. Se scegli l'amore di Dio, esso non è vero se non v'includi anche il prossimo.

 

L’amore cristiano è dono di Dio.

 

Se ancora non hai l'amore, gemi e credi; chiedi e otterrai. Ciò che ti viene comandato, ciò che la legge impone, la fede ottiene. Se quanto devi impetrare già lo possiedi, [ricorda le parole]: Che cosa hai tu senza averlo ricevuto? 42 Se non lo possiedi, chiedilo per poterlo ottenere. Quel che noi chiediamo è la carità 43. Se ancora non l'abbiamo, chiediamola per non restarne privi. Come infatti potremmo attingerla in noi stessi se, essendo cattivi, non abbiamo nulla di buono per meritarla? La otterremo piuttosto da Colui al quale dice la nostra anima: Benedici il Signore, anima mia, e non dimenticare i tanti suoi benefici. Egli è misericordioso verso tutte le tue iniquità 44. Ciò avviene nel battesimo. Ma se avvenisse questo soltanto, come rimarremmo in seguito? Continua però [il salmo]: Egli sana tutte le tue malattie 45. Guarite le malattie, non rifiuteremo il nostro pane; e osserva cosa accadrà quando tutte le malattie saranno state guarite: Egli riscatterà la tua vita dalla corruzione 46. È quanto accadrà nella resurrezione dei morti. E dopo che la nostra vita sarà stata liberata dalla corruzione cosa accadrà? Egli ti corona. Forse per i tuoi meriti? Poni attenzione a quel che segue: Egli ti corona nella sua compassione e misericordia 47. Il giudizio infatti sarà senza misericordia per colui che non avrà usato misericordia 48. Ci saranno dunque rimessi i peccati e guarite le malattie; la nostra vita sarà sottratta alla corruzione e per la sua misericordia ci sarà consegnata la corona. Conseguito tutto questo, di che cosa ci occuperemo? Cosa avremo? Egli ti sazia di beni 49, senza alcun male. Eri avaro e l'oro non ti saziava perché, essendo avaro, non puoi trovare la sazietà nell'oro. Sii giusto, e troverai la sazietà in Dio. Non c'è infatti assolutamente nulla che possa saziarti all'infuori di Dio, nulla può bastarti all'infuori di Dio. Mostraci il Padre e questo ci basta! 50 Siamo dunque alacri nel compiere le opere di misericordia mentre veniamo curati dalle nostre malattie, affinché, guariti dalle malattie, acquistino vigore i nostri desideri. Facciamo sì che questi desideri, guariti dal male, crescano in vigore, e, diventati vigorosi, raggiungano la sazietà. Si compia allora il giudizio, ma sia un giudizio di misericordia, poiché sarebbe gravoso un giudizio non accompagnato dalla misericordia, essendo difficile che Dio non trovi in te nulla da punire. Tu forse ti compiacevi di te stesso, ma Lui sa scoprire in te colpe che tu non conosci; trova in te cose che tu volevi nascondere o che magari del tutto ignoravi. Siamo dunque zelanti nel compiere le opere di misericordia: amiamo il prossimo pur nell'attuale scarsità di beni temporali, perché ci sia dato di udire, nel giudizio, una sentenza di misericordia.


"Pochi tra i grandi pensatori cristiani hanno manifestato nella loro vita, come sant’Agostino, quanto potente sia il desiderio di felicità e quanto faccia tutt’uno con quello della verità, tanto da fargli parlare di gaudium de veritate, la gioia arrecata dalla contemplazione della verità e della sua bellezza. Come ci viene narrato nelle Confessioni, fin dalla giovinezza, quando ancora diciottenne lesse con avidità l’Ortensio di Cicerone (libro di esortazione alla filosofia), intraprese una lunga ricerca che lo condusse, attraverso varie vicissitudini e peregrinazioni intellettuali, al porto della fede. E per questo interruppe la promettente carriera di retore.

 

Al tema della felicità Agostino dedicò uno dei primissimi scritti, il cui titolo originale è De vita beata, un dialogo filosofico che egli scrisse nel 386, pochissimo tempo dopo la sua conversione, nella villa alle porte di Milano dove si era ritirato in compagnia di famigliari e amici, impegnandosi in profonde conversazioni, e in attesa di ricevere il battesimo, cosa che avvenne l’anno seguente dalle mani del vescovo Ambrogio.

 

L’opera riporta una vivace e appassionata discussione fra il santo, la madre Monica, il figlio Adeodato e alcuni amici, che comincia il giorno del trentaduesimo compleanno del protagonista. Lo stile letterario è quello di un fine conoscitore della lingua latina, un retore appunto, forgiatosi alla scuola dei grandi oratori, Cicerone su tutti, ma anche di un esperto dell’arte della discussione e delle sue rigorose leggi, la dialettica, che fanno andare la mente ai grandi dialoghi platonici, capostipiti e modelli inarrivabili del genere letterario del dialogo filosofico.

 

Il santo ritiene che la felicità sia un desiderio universale dell’uomo, ma che, a differenza di quello che tanti credono, essa non consista nel soddisfare i propri desideri se questi desideri non sono quelli convenienti. Il bene solo che dà felicità deve essere un bene stabile e totale, che non dipende dalla fortuna o dai vari accadimenti. E questo bene, somma di tutti i desideri, non può che essere Dio, l’Essere eterno. Se l’infelicità è data dalla privazione del bene a cui tutti tendiamo, non sono le privazioni dei beni materiali quelle che più rendono infelici, quanto quella spirituale che consiste nella stoltezza, ossia nel non comprendere quale sia il vero bene.

 

Se l’infelicità è stoltezza, il suo contrario, la saggezza, è definita come la pienezza dell’anima, ossia quella misura che permette di evitare di cadere nell’eccesso dei vizi quali la lussuria, la volontà di dominio e l’orgoglio, o al contrario nell’estremo opposto, rappresentato dall’avarizia, la pusillanimità e la tristezza.

 

A conclusione della discussione viene affermato che la saggezza ha la sua ragione ideale nella Sapienza di Dio, ossia nel Figlio di Dio, che è la Verità; dunque chi è saggio è felice, ed è felice perché possiede Dio, al quale abbiamo fiducia di arrivare pienamente con “una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”.

 

Questo breve testo di Agostino si rivela un piccolo gioiello per la freschezza e il rigore con cui è affrontato l’argomento della felicità. In esso sono già presenti alcune delle linee di fondo del suo pensiero, che emergeranno in modo più ampio nelle opere mature. A questo riguardo mi piace concludere con una citazione che rimarca il carattere non emozionalistico, a differenza di tanti approcci attuali, con cui egli ha sempre trattato il tema della felicità, ed è tratta da un’opera che, rispetto al dialogo giovanile, si colloca cronologicamente agli antipodi della sua vita, La Città di Dio: «Così infatti non può essere privo di infelicità colui che venera la felicità come una dea e trascura Dio, datore della felicità, così come non può essere privo di fame chi lecca un pane dipinto e non lo chiede all’uomo che ha quello vero».

Il più grande desiderio

 

Sant'Agostino

 

 

Noi desideriamo esser felici. Avevo appena espresso tale principio che l'accettarono all'unanimità. "Ritenete, soggiunsi, che sia felice chi non ha l'oggetto del suo desiderio?". Dissero di no. "Allora chiunque consegua l'oggetto del suo desiderio è felice?". Mia madre intervenne: "Se desidera e consegue il bene è felice; se poi desidera il male, ancorché lo raggiunga, è infelice". Ed io, sorridendole con espressione di gioia, le dissi: "Madre mia, decisamente hai raggiunto la vetta del filosofare. Ti è mancata certamente la terminologia per poterti esprimere come Tullio che ha sull'argomento le seguenti parole. Ne L'Ortensio, il libro che ha scritto a lode e difesa della filosofia, dice: Avviene che coloro i quali sono esercitati nella dialettica, anche se non ancora filosofi, sono unanimi nell'affermare che sono felici coloro che vivono secondo i loro desideri. L'opinione è certamente erronea: desiderare infatti ciò che non è conveniente è somma infelicità. E non è tanto fonte d'infelicità il non conseguire ciò che si desidera quanto desiderare ciò che non è opportuno. Difatti il desiderio disordinato apporta all'uomo un male superiore al bene che apporta la fortuna (Cicerone, framm. 39 t. B.)". A queste parole convenivano con tanta esattezza quelle di lei che, dimentichi del suo sesso, la considerammo un uomo illustre assiso in mezzo a noi. Io frattanto, per quanto potevo, mi sforzavo di comprendere da quale e quanta sovrumana sorgente derivassero le sue parole. Licenzio intervenne: "Dovresti indicarci che cosa, per esser felice, l'uomo deve desiderare e di quali cose è opportuno abbia il desiderio". Gli risposi: "Invitami, se vorrai, nel tuo compleanno ed io mangerò volentieri ciò che mi offrirai. Io ti chiedo di pranzare oggi con me alla stessa condizione e di non chiedermi una vivanda che non è stata ammannita". Egli accettò il richiamo a rientrare rispettosamente nei suoi limiti. Allora continuai: "Finora è stato accettato fra noi che non può esser felice chi non ha ciò che desidera e che non necessariamente è felice chi consegue ciò che desidera". Furono d'accordo.

 

L'oggetto del desiderio e la felicità.

2. 11. "E, continuai, concedete che chi non è felice, è infelice?". Non contestarono. "Ogni uomo dunque che non ha ciò che desidera è infelice". Furono tutti d'accordo. "Che cosa pertanto, chiesi, l'uomo deve conseguire per esser felice? Forse anche al nostro banchetto sarà presentata una vivanda adatta a non lasciare insoddisfatto l'appetito di Licenzio. Io penso che l'uomo deve tendere all'oggetto che può possedere quando lo desidera". Affermarono che era evidente. "Deve esser dunque, soggiunsi, un bene stabile non dipendente dalla fortuna, non condizionato ai vari accadimenti. Infatti non possiamo assicurarci quando e per tutto il tempo che vogliamo ciò che è perituro e caduco". Fecero un unanime cenno d'assenso. Soltanto Trigezio obiettò: "Vi sono molti che accumulano e godono largamente di beni fragili e condizionati agli avvenimenti, ma fonti di gioia in questa vita e non manca loro alcuno degli oggetti del loro desiderio". Gli chiesi: "Ritieni che chi teme è felice?". "Non lo ritengo", disse. "Dunque se può perdere ciò che ama, può non temere?". "È impossibile", mi rispose. "Ora, conclusi, i beni soggetti al caso si possono perdere. Dunque chi li ama e possiede non può assolutamente esser felice". Non contestò. A questo punto mia madre intervenne: "Anche se fosse sicuro di non perdere le proprie sostanze, tuttavia non ne può esser saziato. Quindi intanto è infelice in quanto è sempre bisognoso". Le chiesi: "Non ritieni che possa esser felice se, abbondando e traboccando di tante ricchezze, stabilisse un limite al desiderio e, contento di esse, ne goda convenientemente e gioiosamente?". "Non è felice, rispose, per il possesso delle sostanze ma per la moderazione del suo desiderio". "Benissimo, replicai. Anche a tale domanda da te non si poteva attendere una risposta diversa. Quindi non abbiamo più dubbi che, se qualcuno ha deciso di esser felice, si deve assicurare ciò che rimane per sempre né può essere sottratto dalla fortuna spietata". "Ormai, intervenne Licenzio, siamo d'accordo su tale verità". "Ritenete, ripresi, che Dio è eterno e non cessa mai d'essere?". "È verità tanto certa, rispose Licenzio, che non è necessario farla argomento del dialogo". E gli altri con profondo sentimento religioso concordarono. "Dunque, conclusi, chi ha Dio è felice".

 

Le varie opinioni dei convitati.

2. 12. Accettarono la conclusione con viva gioia; ed io ripresi: "Ci rimane da indagare soltanto, come penso, chi è l'uomo che possiede Dio; egli sarà certamente felice. Chiedo la vostra opinione sull'argomento". Licenzio: "Ha Dio chi vive bene". Trigezio: "Ha Dio chi obbedisce ai suoi comandamenti". Alla sua opinione aderì Lastidiano. Il più giovane di tutti: "Ha Dio chi non ha l'animo immondo (cf. Mt 5, 8)". Mia madre approvò tutte le opinioni, ma soprattutto quest'ultima. Navigio se ne era rimasto in silenzio. Gli chiesi come la pensasse. Mi rispose che gli piaceva l'ultima. Mi parve opportuno non trascurare Rustico nel chiedergli la propria opinione su un argomento di tanta importanza poiché mi sembrava che taceva più per vergogna che per volontà. Aderì a Trigezio.

 

Moderazione nella ricerca.

2. 13. Allora ripresi: "Prendo atto dei singoli pareri su un argomento importante che implica pertanto ogni ulteriore problema e ogni ulteriore scoperta purché noi ora, come abbiamo cominciato, lo sottoponiamo all'indagine senza preconcetti e con molta serietà. Per oggi tuttavia non si deve prolungare la trattazione poiché anche lo spirito ha nei suoi conviti una certa intemperanza se si getta sulle vivande senza moderazione e con avidità e rischia, per così dire, l'indigestione. E poiché da essa si deve temere per la sanità mentale come dalla stessa fame, è meglio che domani, se preferite, col ritorno dell'appetito riprendiamo la trattazione. Voglio tuttavia che subito assaporiate ciò che io adesso, come vostro anfitrione, devo apporvi offrendolo direttamente alla vostra mente. Ed è, salvo errore, l'ultima rituale vivanda ammannita e condita dal miele della lezione". Alle mie parole tutti si tesero come verso una vivanda non a portata di mano e insistettero perché mi accingessi a dire di che si trattava. "Non vi pare, dissi, che è conchiusa la discussione iniziata qualche giorno addietro contro gli accademici?". Udito tale nome, i tre, cui era noto il fatto, si alzarono in piedi con vivacità e, quasi con le mani distese, come comunemente avviene, aiutarono con le parole che poterono il servitore che apponeva. Facevano capire che non avrebbero udito nulla di più gradevole.

 

La tesi di Agostino che gli accademici non conseguono felicità...

2. 14. Proposi l'argomento in questi termini: È manifesto che non è felice chi non ha l'oggetto del desiderio, come dianzi è stato logicamente dimostrato. Ma nessuno cerca ciò che non vuol conseguire. Ora essi ricercano sempre la verità, dunque desiderano conseguirla; desiderano, cioè, avere il conseguimento della verità. Ma non la conseguono. Ne deriva che essi non hanno ciò che desiderano e ne deriva quindi che non sono felici. Ma non si è saggi se non si è felici; dunque il filosofo accademico non è un saggio. A questo punto essi, soddisfatti di essersi assicurati l'intera porzione, approvarono gridando. Ma Licenzio, riflettendo più attentamente e diligentemente, esitò a prestar l'assenso e disse: "Mi sono assicurato assieme a voi la porzione poiché ho approvato convinto della conclusione. Ma per il momento non trangugerò nulla e riserverò la mia porzione per Alipio. O la gusterà assieme a me o mi avvertirà sui motivi per non ingerirla". "Ma Navigio piuttosto, dissi, non avendo il fegato sano, dovrebbe temere i dolci". Ed egli sorridendo rispose: "Al contrario, essi mi faranno bene. Non so come, ma la tua confezione contorta e pungente a causa del miele d'Imetto, come dice quel tale, è dolce-asprigna e non costipa l'intestino. Quindi la ingerisco tutta, sia pure con qualche puntura al palato, ma con piena soddisfazione. Non vedo infatti come possa esser contestata la tua conclusione". "È certamente impossibile, intervenne Trigezio. E per questo son contento d'essermi già schierato contro di loro. Infatti non so per quale impulso naturale, o per dire con maggior verità, divino, ho sempre avuto una viva antipatia per loro sebbene non sapessi come confutarli".

 

... è ribattuta da Licenzio...

2. 15. "Io non li abbandono ancora", disse Licenzio. "Dunque, ribatté Trigezio, dissenti da noi?". "E voi, rimbeccò l'altro, non dissentite da Alipio?". Gli dissi: "Non dubito che, se fosse stato presente Alipio, avrebbe accettato la mia breve dimostrazione. Non avrebbe infatti potuto accogliere l'assurda opinione di ritenere felice chi non ha un bene spirituale tanto eccellente e che ha ardentemente desiderato di avere, ovvero che essi non vogliono raggiungere la verità, o che è saggio chi non è felice. Da questi tre motivi, come se fossero miele, farina e mandorle, è confezionata la torta che temi d'ingerire". "Ed egli, ribatté Licenzio, accetterebbe questo piccolo divertimento da fanciulli abbandonando la ricca tradizione degli accademici? Da essa, come da fiume in piena, la tua breve dimostrazione sarebbe sommersa e trascinata via". "Come se, rimbeccai, stessimo cercando una lunga dimostrazione soprattutto contro Alipio. Egli stesso con il tuo intervento dimostra sufficientemente che questi motivi lievi ma non scarsi di pensiero sono validi e utili. Ma tu che preferisci dipendere dall'autorità di un assente, quale punto biasimi? Che chi non ha l'oggetto del desiderio non è felice? Ovvero che gli accademici, i quali ricercano con ardore la verità, non la vogliono avere, una volta conseguita? O ritieni che l'uomo saggio non è felice?". "È certamente felice, rispose sorridendo sdegnosamente, chi non ha l'oggetto del desiderio". Ordinai che le sue parole fossero trascritte. Ed egli esclamò: "Ma io non l'ho detto". Feci cenno che si trascrivessero ugualmente anche queste. Allora ammise: "L'ho detto". Avevo ordinato, una volta per sempre, che non potesse profferire parola che non fosse trascritta. E così tenevo il giovanotto in esercizio fra la vergogna e l'ostinatezza.

 

... ma Monica li definisce epilettici.

2. 16. Ma mentre, motteggiandolo con tali parole, lo invitavo ad ingerire, per così dire, la sua porzione, mi accorsi che gli altri ignari dell'argomento e desiderosi di conoscere il tema della nostra scherzosa conversazione, ci guardavano seri. E riferendomi a un caso piuttosto frequente, mi parve di poterli paragonare a quelle persone che, sedendo a mensa con individui sempre affamati ed eccellenti divoratori, o si trattengono dal tirar giù per contegno o si lasciano prendere dalla vergogna. Ma io ero l'anfitrione e tu mi hai insegnato a sostenere la parte di un uomo illustre e, per svelare tutto, dell'uomo vero, ma anche dell'anfitrione in quel convito. Mi turbò quindi il diverso e incoerente trattamento usato alla nostra mensa. Sorrisi a mia madre. E lei, con grande liberalità, mi ordinò di offrire, come se la dispensa fosse sua, la vivanda di cui erano privi. Mi pregò poi: "Dicci ormai chiaramente la posizione di codesti accademici e le loro tesi". Gliene presentai una breve e chiara esposizione in maniera che tutti i presenti potessero comprendere. E lei: "Ma costoro sono affetti da mal caduco". Con questo termine in gergo popolare sono designati coloro che sono sconvolti da attacchi d'epilessia. Nel contempo si alzò per andarsene. E tutti rallegrati ed esilarati dal motto, posta fine alla discussione, ce ne andammo.

 

 

 

Dio e la felicità (3, 17 - 22)

Ricapitolazione della disputa precedente.

3. 17. L'indomani, sempre dopo pranzo ma un po' più tardi del giorno antecedente, ci adunammo i medesimi e nel medesimo luogo. "Oggi, cominciai, siete arrivati tardi al banchetto; ed io penso che il fatto non dipenda dalla cattiva digestione, ma dalla certezza della scarsezza delle vivande. Siete convinti che non dovete iniziare a prendere all'ora consueta un cibo che, a vostro avviso, potete ingoiare in pochi bocconi. Ed era ovvio pensare che non fossero rimasti avanzi d'un pranzo che nel giorno stesso della festa era stato frugale. E forse avete ragione. Io stesso, come voi, non so che cosa v'è stato ammannito. V'è un Altro che non manca di preparare a ciascuno ogni vivanda e soprattutto quelle di questo tipo. Siamo noi che assai spesso manchiamo di nutrirci o per debolezza o per sazietà o per affari. E ieri, con sentimento religioso e con fondamento logico, siamo rimasti d'accordo che egli, con la sua presenza negli uomini, li rende felici. Il nostro ragionamento ha infatti accertato, senza dispareri fra di voi su tale punto, che è felice chi possiede Dio. È stato allora chiesto chi sia, a vostro avviso, che possiede Dio,. Sull'argomento, se ben ricordo, sono state dichiarate tre opinioni. Alcuni hanno ritenuto che possiede Dio chi compie le opere che egli vuole. Altri hanno affermato che possiede Dio chi vive bene. Altri, infine, furono d'opinione che Dio è in coloro in cui non è lo spirito denominato immondo.

 

Convenienza di massima delle tre opinioni.

3. 18. Ma forse con diverse espressioni hanno tutti pensato la stessa cosa. Limitiamoci ad analizzare le prime due opinioni. Chiunque vive bene compie ciò che Dio vuole e chiunque compie ciò che Dio vuole vive bene; altro non è infatti vivere bene che fare ciò che piace a Dio, salvo un vostro disparere". Furono d'accordo. "Più attentamente bisogna esaminare la terza opinione perché, nella terminologia della Sacra Scrittura, immondo spirito, per quanto io ne comprendo, viene inteso in due significati. O s'intende quello che invade l'anima dal di fuori, sconvolge la normale funzione dei sensi e genera negli uomini una specie di mania; e si dice che, per allontanarlo, i sacerdoti impongono le mani ed esorcizzano, cioè lo scacciano con l'invocazione di Dio. Con altra accezione si denomina spirito immondo ogni anima immonda e non significa altro che anima inquinata da vizi e colpe. Pertanto chiedo a te, giovanetto, che forse hai dichiarato questa tua opinione a causa del tuo spirito un po' più sereno e puro, chi ti sembra che non abbia lo spirito immondo: quegli che non è invaso dal demone che di solito rende furibondi gli uomini, ovvero quegli che ha già resa monda l'anima da tutti i vizi e peccati". "Penso, rispose, che non ha lo spirito immondo chi vive castamente". "Ma, soggiunsi, chi intendi come casto: colui che non commette peccato o colui soltanto che si astiene da un illecito contatto carnale?". "Come, rispose, può esser casto se, astenendosi soltanto dall'illecito contatto, non cessa di macchiarsi di altri peccati? Quegli è veramente casto che è fisso in Dio e soltanto a lui aderisce". Volli che le parole del ragazzo fossero trascritte come erano state profferite; quindi continuai: "Ne consegue pertanto necessariamente che questo tale viva bene e chi vive bene è necessariamente casto, salvo il tuo disparere". Manifestò la sua adesione assieme agli altri. "Quindi, conclusi, fino a questo punto c'è unanimità di opinioni.

 

Cercare Dio: somma di tutti i desideri.

3. 19. Ma ora per un po' vi propongo il problema se Dio può volere che l'uomo lo cerchi". Lo ammisero. "Vi chiedo egualmente se possiamo affermare che vive male chi cerca Dio". "No certamente", risposero. "E rispondete anche a questo terzo quesito: Può lo spirito immondo cercare Dio?". Dissero di no, nonostante una certa esitazione di Navigio che poi cedette alle contestazioni degli altri. "Dunque, conclusi, chi cerca Dio fa ciò che Dio vuole e vive bene e non ha lo spirito immondo. Ma chi cerca Dio non lo ha ancora. Quindi a rigor di logica non consegue che ha Dio in sé chi vive bene o fa ciò che Dio vuole e non ha lo spirito immondo". A questo punto tutti riconobbero ridendo di essere stati tratti in inganno dalle loro stesse ammissioni. Ma mia madre, dopo un lungo momento di stupore, chiese che io chiarissi e dilucidassi distintamente quanto, per esigenza di conchiudere, avevo esposto in forma involuta. Soddisfeci la sua richiesta. Ed ella disse: "Ma nessuno può raggiungere Dio se non lo cerca". "D'accordo, risposi. Tuttavia chi ancora cerca, non ha ancora raggiunto Dio, tuttavia già vive bene. Dunque non di necessità chi vive bene ha Dio". "Ritengo, ribatté, che ognuno ha Dio, ma l'hanno propizio coloro che vivono bene e avverso coloro che vivono male". "Dunque, le risposi, non a rigore di logica abbiamo ammesso che è felice chi ha Dio poiché ogni uomo ha Dio e tuttavia non ogni uomo è felice". "Allora, suggerì, aggiungi propizio".

 

L'obiezione di Navigio sulla ricerca del saggio accademico.

3. 20. "Dunque, soggiunsi, siamo per lo meno sufficientemente d'accordo che è felice chi ha Dio propizio". "Vorrei, interruppe Navigio, essere d'accordo ma mi trattiene la condizione di chi ancora ricerca, soprattutto se tu dovessi concludere che è felice l'accademico che nella disputa di ieri, con termine popolano e non letterario ma assai efficace, a mio parere, fu denominato sofferente di mal caduco. Non posso ammettere che Dio sia avverso a un uomo che lo cerca. E se ciò non è ammissibile, Dio gli sarà propizio e chi ha Dio propizio è felice. Dunque chi lo cerca è felice, ma chi cerca non ha ancora l'oggetto del suo desiderio. Ne conseguirebbe che è felice l'uomo che non possiede ciò che desidera. Ma tale affermazione ieri ci è sembrata assurda e ne abbiamo dedotto che erano stati eliminati i punti deboli della tesi accademica. E per questo ormai Licenzio canterà vittoria su di noi e, come medico saggio per me, mi farà notare che i dolci da me imprudentemente ingeriti a danno della mia salute esigono un simile scotto".

 

Dio propizio e il movimento verso la felicità.

3. 21. A queste parole anche mia madre sorrise. Trigezio intervenne: "Io non vedo come conseguente che Dio è avverso a chi non è propizio, ma penso che si dia una condizione di mezzo". Gli chiesi: "Ma tu ammetti che questo tale, posto in una condizione di mezzo perché Dio non gli è né propizio né ostile, in qualche modo ha Dio?". Essendo egli rimasto perplesso, mia madre intervenne: "Un conto è avere Dio ed un altro non essere senza Dio". "Ma, ribattei, che cosa è meglio: avere Dio o non essere senza Dio?". "Per quanto m'è dato di comprendere, rispose, questa è la mia opinione: chi vive bene ha Dio ma propizio; chi vive male ha Dio ma avverso; chi invece ricerca e non ha ancora trovato non lo ha né ostile né propizio ma non è senza Dio". "Questo, chiesi, è anche il vostro parere?". Risposero affermativamente. "Ditemi, ripresi, e vi prego di scusarmi: non vi pare che Dio sia propizio all'uomo cui concede il suo favore?". Lo ammisero. "E allora, soggiunsi, Dio non dà il suo favore all'uomo che lo cerca?". Risposero di sì. "Dunque, conclusi, chi cerca Dio ha Dio propizio e chi ha Dio propizio è felice. Pertanto è felice anche chi cerca. Ma chi cerca non possiede ancora l'oggetto del suo desiderio. Quindi è felice anche chi non possiede l'oggetto del suo desiderio". "Ma a me, ribatté mia madre, non pare affatto che sia felice chi non possiede l'oggetto del suo desiderio". "Ne conseguirebbe, le risposi, che non necessariamente è felice chi ha Dio propizio". "Se il rigore della logica, soggiunse, postula tale conclusione, m'è impossibile escluderla". "Si avrà pertanto, conclusi, la seguente classificazione: chi ha trovato Dio e lo ha propizio è felice; chi cerca e lo ha propizio non è ancora felice; chi infine con vizi e colpe si rende estraneo a Dio, non solo non è felice ma non vive neppure nel favore di Dio".

 

L'aporia: avere Dio propizio e non esser felici.

3. 22. Le mie parole furono approvate da tutti. "D'accordo, dissi; temo tuttavia che non vi convinca il motivo dianzi da noi accettato e cioè che sarebbe infelice chi non fosse felice. Ne conseguirebbe che è infelice l'uomo che ha [Dio propizio e non è felice appunto perché, come abbiamo detto, ancora cerca Dio]. Ovvero, come dice Tullio, dovremmo reputare ricchi i possessori di molti fondi e poveri i possessori di tutte le virtù? (Cicerone, Hort. framm. 104). Ma considerate se è vero il principio che come chi soggiace alla privazione è infelice, così sia vero che chi è infelice soggiace alla privazione. Di conseguenza sarebbe vera l'opinione da me approvata, mentre veniva dichiarato, come avete udito, che l'infelicità non è altro che soggezione alla privazione. Sarebbe lungo trattare l'argomento oggi e per questo chiedo che non vi dispiaccia di partecipare anche domani a questo convito". E poiché tutti affermarono di gradirlo assai, ci alzammo.

 

 

 

Pienezza e misura (4, 23 - 36)

Problematicità del concetto di privazione.

4. 23. Al terzo giorno della nostra disputa, di mattino, si dissipò la nebbia che ci costringeva ad adunarci nella sala delle terme e si ebbe un limpido pomeriggio. Ci fece piacere quindi scendere nel prato vicino. Ci sedemmo, ciascuno nel luogo che sembrò più comodo. Quindi fu continuata la disputa nei termini seguenti. "Conservo e ritengo valido, cominciai, quasi tutto ciò che voluto mi fosse da voi concesso in risposta alle mie domande. Oggi pertanto, affinché possiamo per qualche giorno por fine a questo nostro banchetto, non rimane nulla o poco, come penso, da darmi in risposta. È stato detto da mia madre che l'infelicità non è altro che privazione ed è stato stabilito da noi che coloro i quali soggiacciano alla privazione sono infelici. Ma la tesi che proprio tutti gli infelici soggiacciano alla privazione ha qualche aspetto problematico che ieri non abbiamo potuto chiarire. Che se la forza del ragionamento riuscirà a dimostrare che è proprio così, sarà stabilito con esattezza chi sia felice. Sarà chi non soggiace alla privazione. Infatti chi non è infelice è felice. È felice dunque chi è libero dalla privazione se risulterà che quella che denominiamo privazione equivale all'infelicità".

 

Non necessariamente chi non soggiace a privazione è felice...

4. 24. "E perché, domandò Trigezio, non si potrebbe già dedurre che è felice chi non soggiace a privazione, dall'evidente principio che chi soggiace a privazione è infelice? Rammento che abbiamo accertato non darsi uno stato di mezzo fra infelice e felice". "Ritieni, gli chiesi, che si dia qualche cosa di mezzo fra morto o vivo? Non si è forse o vivi o morti?". "Ammetto, ribatté, che anche per questo aspetto non si dà qualche cosa di mezzo. Ma a che mira la domanda?". "Perché, gli risposi, tu ritieni, come penso, che chi è stato sepolto da un anno è morto". Non contestò. "E allora, proseguii, forse che vive chi non è stato sepolto da un anno?". "Non consegue", mi rispose. "Quindi, conclusi, dal fatto che chi soggiace alla privazione è infelice non consegue a rigore che chi non soggiace alla privazione è felice sebbene non sia possibile trovare una condizione di mezzo tra felice e infelice come tra vivo e morto".

 

... poiché la felicità è valore.

4. 25. E poiché alcuni tardavano alquanto a comprendere il ragionamento, tentai di chiarirlo e trattarlo con parole, per quanto possibile, adatte al loro intendimento. "Dunque, dissi, nessuno dubita che è infelice chi soggiace alla privazione. Non costituisce ovviamente difficoltà la soggezione anche degli uomini saggi ai bisogni materiali. Non lo spirito, in cui alberga la felicità, soggiace a tali bisogni. Esso infatti è perfetto e l'essere perfetto non ha bisogni. Per quanto riguarda i beni indispensabili alla vita fisica, il saggio li userà se ci sono e se non ci saranno non si lascerà abbattere dalla loro scarsezza. Il saggio infatti è forte e l'uomo forte non teme. Dunque il saggio non temerà né la morte fisica né le privazioni che si possono allontanare, evitare o differire con l'uso di beni sensibili dei quali potrebbe esser privo. Tuttavia ne usa bene se non mancano. È infatti vero quel detto: È da stolti subire ciò che puoi evitare (Terenzio, Eun. 761). Dunque eviterà la morte e la privazione quanto è possibile e conveniente per non diventare, in caso contrario, infelice non a causa di simile contingenza ma per non averlo voluto, potendolo. Sarebbe segno manifesto di stoltezza. Chi non le evita sarà dunque infelice a causa della sua stoltezza e non per la soggezione ai mali sensibili. Se poi non riuscirà ad evitarli, sebbene vi si adoperi diligentemente, non sarà il loro verificarsi a renderlo infelice. Infatti non è meno vero il detto del medesimo commediografo: Perché non può realizzarsi ciò che vuoi, fa' di volere ciò che è possibile (Terenzio, Andria 305-306). Non può essere infelice colui a cui nulla avviene contro il proprio desiderio. In verità non desidera ciò che non può ottenere. Ha infatti il desiderio di beni assai più sicuri che è quello di non agire se non a norma di virtù e secondo la divina legge della saggezza che non gli possono esser tolte sicuramente.

 

Al contrario chi è infelice, per mancanza di saggezza, soggiace a privazione.

4. 26. Ed ora esaminate se anche chi è infelice soggiace alla privazione. Costituisce difficoltà ad ammettere tale verità il fatto che molti, i quali godono di una grande quantità di beni di fortuna e ai quali tutto riesce possibile al punto che l'oggetto del loro desiderio dipende da un loro cenno, trovano tuttavia in questa vita gravi difficoltà. Ma facciamo l'ipotesi di un individuo quale Tullio dice che fosse Orata (cf. Cicerone, Hort. framm. 10). Chi potrebbe dire che Orata soggiacesse alla privazione se fu un uomo ricchissimo, dedito al lusso e alla gioia di vivere, cui non mancò nulla di ciò che è piacere, bellezza e buona e perfetta salute? Infatti ebbe a profusione fondi assai produttivi, amici dediti alle gioie e delle sue sostanze usò con molto discernimento per il benessere fisico. Per dirla in breve, un prospero successo seguì a tutti i suoi progetti e desideri. Ma qualcuno di voi obietterà che desiderava avere più di quanto aveva. Non lo sappiamo. Ma facciamo l'ipotesi, e ciò è sufficiente alla nostra indagine, che egli non desiderasse più di quanto possedeva. Ritenete allora che soggiacesse alla privazione?". "Vorrei ammettere, rispose Licenzio, che non desiderasse di più, a parte che non saprei come ammetterlo in un uomo non saggio. Sta il fatto che temeva, poiché era di retto intendimento come si suol dire, l'improvvisa perdita di tutte le sostanze a causa di qualche avversità. Non era difficile comprendere che tutti quei beni, per quanto grandi fossero, erano soggetti alla forza degli avvenimenti". Sorridendo gli risposi: "Stai rilevando, o Licenzio, che questo individuo assai fortunato è stato impedito dal raggiungere la felicità a causa della sua rettitudine. Infatti essendo assai avveduto, prevedeva che poteva perdere tutti i suoi beni. Ed era travagliato da simile timore e spesso ripeteva quel detto popolare: L'uomo che non s'illude è assennato per la propria infelicità (Plutarco, De tranq. an. 1, 465c.)

 

Quindi l'insipienza è essenziale privazione...

4. 27. Egli e gli altri sorrisero. Io soggiunsi: "Esaminiamo attentamente il motivo per il quale costui, sebbene ebbe timore, non soggiacque alla privazione poiché da qui ha origine il problema. Il soggiacere alla privazione infatti consiste nel non avere e non nel timore di perdere ciò che si ha. Egli era infelice perché temeva, sebbene non fosse soggetto al bisogno. Dunque non si è soggetti al bisogno per il fatto che si è infelici". Anche mia madre, la cui opinione stavo difendendo, approvò assieme agli altri. Tuttavia, esprimendo una riserva disse: "Ancora non so e non riesco bene a comprendere come si possa separare l'infelicità dalla privazione e la privazione dall'infelicità. Anche costui che era ricco e possidente e, come state dicendo, non desiderava più nulla, tuttavia, poiché temeva di perdere, era privo di saggezza. Dunque lo dovremmo considerare bisognoso se fosse stato privo di denaro e di possessioni e non lo considereremo tale per il fatto che era privo della saggezza?". Fu un grido unanime d'ammirazione. Anche io fui non poco contento e lieto che proprio da lei fosse espresso il concetto che avevo inteso di esporre in fine come verità di fondo desunta dagli insegnamenti dei filosofi. "Osservate, esclamai, che altro è la molteplice e varia cultura e altro lo spirito sempre fisso in Dio? Da dove infatti procedono le parole udite che hanno destato la nostra ammirazione se non da lui?". A questo punto Licenzio tutto lieto m'interruppe esclamando: "Certamente non si poteva dire qualche cosa di più vero e di più divino. Non c'è infatti tanta privazione che produca tanta infelicità quanto, esser fuori della saggezza. Chi non è privo della saggezza non ha bisogno assolutamente di nulla".

 

... la saggezza è felicità, la stoltezza infelicità.

4. 28. "La soggezione alla privazione spirituale, continuai, non è altro che stoltezza. Essa è contraria alla saggezza e così contraria come la morte alla vita, come la felicità all'infelicità senza condizioni di mezzo. Allo stesso modo che l'uomo non felice è infelice e chi non è morto è vivo, così è evidente che chi non è stolto è necessariamente saggio. Ne possiamo dedurre che Sergio Orata non fu infelice tanto perché temeva di perdere i doni di fortuna ma perché era stolto. Ne consegue che sarebbe stato più infelice se non avesse avuto timori da parte di cose tanto instabili e incerte che egli reputava beni. Sarebbe stato infatti più sicuro non per vigile fortezza di spirito ma per torpore mentale, comunque infelice perché immerso nella più profonda stoltezza. Ma se chiunque è privo della saggezza soggiace alla più grande privazione e chi ne è in possesso non ha alcuna privazione, ne consegue che la stoltezza è privazione. Inoltre come ogni stolto è infelice, così ogni infelice è stolto. Dunque è provato che la privazione è infelicità e l'infelicità privazione.

 

La privazione significa non avere;

4. 29. Trigezio confessò di non aver compreso la conclusione. Che cosa, gli chiesi, abbiamo accertato con la nostra analisi?". Che soggiace alla privazione chi non possiede la saggezza", mi rispose. "E che cosa è, soggiunsi, soggiacere a privazione?". "Non avere la saggezza". "E che cos'è, dissi, non avere la saggezza?". Poiché taceva gli chiesi: "Avere la stoltezza?". "Si", ammise. "Dunque, conclusi, avere la privazione e rispettivamente la stoltezza è la medesima cosa. Ne consegue che privazione è sinonimo di stoltezza. Tuttavia, non so perché, diciamo: Ha la privazione; ovvero: Ha la stoltezza. È lo stesso caso di quando diciamo che un luogo privo di luce ha le tenebre; non significa altro che non avere la luce. Le tenebre non vanno e vengono, ma mancare di luce significa essere nelle tenebre, come esser privo delle vesti significa esser nudo. Insomma, quando s'indossa una veste la nudità non fugge come un oggetto condizionato al moto locale. Così dunque diciamo che si ha la privazione come si dice che si ha la nudità. La privazione è categoria del non avere. Quindi per spiegare, come posso, il mio pensiero, si dice: Ha la privazione, come se si dicesse: Ha il non avere. E pertanto se risulta che la stoltezza è per sé vera e autentica privazione, cerca di comprendere che il problema è stato da noi risolto. Eravamo in dubbio se nel dire infelicità non intendessimo altro che privazione. Abbiamo spiegato che la stoltezza giustamente significa privazione. Dunque dobbiamo ammettere che, come lo stolto è infelice e l'infelice è stolto, così non solo chi soggiace a privazione è infelice ma anche chi è infelice soggiace a privazione. Dal principio che ogni stolto è infelice e ogni infelice è stolto si deduce che la stoltezza è infelicità. Così dal principio che chi soggiace alla privazione è infelice e chi è infelice soggiace alla privazione dobbiamo dedurre che l'infelicità è essenzialmente privazione".

 

quindi si oppone a pienezza...

4. 30. Tutti dichiararono di essere d'accordo. "Ora è opportuno, proseguii, che esaminiamo chi non soggiace a privazione. Questi sarà l'uomo saggio e felice. Ora la stoltezza è privazione. Il nome stesso indica privazione poiché la parola si usa per significare una certa improduttività e insufficienza. Considerate dunque più attentamente con quanta diligenza gli antichi hanno foggiato tutte o, come si può vedere, alcune parole relative a significati la cui conoscenza era indispensabile. Ormai ammettete che lo stolto soggiace a privazione e chi soggiace a privazione è stolto. Penso che siate anche d'accordo che l'animo stolto è vizioso e che tutti i vizi dello spirito sono inclusi nell'unico concetto di stoltezza. Nel primo giorno di questa nostra disputa abbiamo detto che l'immoderatezza (nequitia) è stata così denominata perché è un non qualche cosa (nequidquam) e che il suo contrario, la moderatezza, è stata nominata da produttività (frux). Dunque in questi due contrari, moderatezza e immoderatezza, sono posti in evidenza l'essere e il non essere. Che cosa pensiamo sia il contrario di privazione, di cui si sta trattando?". Esitarono a rispondere. "Se dicessi ricchezza, intervenne Trigezio, noto che il suo contrario è povertà". "Il concetto è simile, gli risposi. Povertà e privazione di solito significano la stessa, cosa. Tuttavia si deve trovare un altro termine affinché alla parte migliore non ne rimanga uno solo. Difatti mentre la parte di povertà e privazione abbonda di termini, da quest'altra si opporrebbe soltanto il termine di ricchezza. E sarebbe veramente assurdo che si dia privazione di termini nella parte che è contraria alla privazione". "Sono d'avviso, disse Licenzio, che la pienezza, se il termine è passabile, giustamente si oppone alla privazione".

 

... che consiste nella misura e nel limite.

4. 31. "Per quanto riguarda la terminologia, risposi, ci torneremo sopra in seguito con maggiore attenzione. Non è un aspetto che si debba curare eccessivamente nella ricerca in comune della verità. E sebbene Sallustio, attentissimo ponderatore di parole, contrappone alla privazione l'abbondanza (cf. Sallustio, Cat. 52, 22), accetto codesta pienezza. Neanche nella presente indagine saremo liberi dalla preoccupazione per i grammatici e non dobbiamo correre il rischio di essere puniti da loro per avere usato senza sufficiente esame dei termini che essi hanno posto a nostra disposizione". Sorrisero. "Dunque, continuai, poiché ho deciso, mentre siete intenti in Dio, di prendere in considerazione i vostri pensieri come se fossero oracoli, esaminiamo il significato del termine. Penso che sia più adattabile alla verità. Pienezza e privazione sono in opposizione. Ma anche in questa fattispecie, come nell'altra di immoderatezza e moderatezza, appaiono i due opposti di essere e non essere. E se la privazione è di per sé stoltezza, la pienezza sarà saggezza. Molti hanno giustamente insegnato che la moderatezza è madre di tutte le virtù. In accordo a loro anche Tullio in un discorso ha detto: Ciascuno la intenda come vuole; io ritengo la moderatezza, cioè la regola della misura e del limite, come la virtù più alta (Cicerone, Pro Deiot. 9, 26). Opinione assai ragionevole e conveniente perché ha tenuto in considerazione la produttività, cioè un qualche cosa di cui diciamo l'essere cui è contrario il non essere. Ma a causa dell'uso della parola nel popolo che di solito intende moderatezza come parsimonia, egli ha chiarito il proprio pensiero aggiungendo la regola della misura e del limite. Quindi esaminiamo attentamente questi due termini.

 

Quindi la saggezza è pienezza...

4. 32. Regola della misura (modestia) deriva da modus (misura) e regola del limite (temperantia) da temperies (limite). E dove si hanno misura e limite non c'è né il più né il meno. Dunque è di per sé la pienezza che abbiamo contrapposto a privazione molto più ragionevolmente che se le avessimo contrapposto abbondanza. Nell'abbondanza infatti sono implicite l'affluenza e quasi la produzione eccessiva di qualche cosa. E quando ciò si verifica al di là della sufficienza, manca la misura, poiché anche una cosa eccessiva è priva della misura. Quindi anche l'abbondanza non è altro dalla privazione poiché l'una e l'altra sono prive della giusta misura. Se poi si analizza il concetto di opulenza, si trova che rientra nella categoria della misura. Infatti opulenza deriva da ops (facoltà, potere). E il troppo non può conferire facoltà se spesso implica maggiore svantaggio del poco. Il poco e il troppo quindi, in quanto sono privi della misura, significano privazione. Ora la misura dell'anima è la saggezza. Infatti non si può negare che la saggezza è contraria alla stoltezza, che la stoltezza è privazione e che alla privazione è contraria la pienezza. Dunque la saggezza è pienezza e la pienezza consiste nella misura. Pertanto la misura per lo spirito consiste nella saggezza. Da qui il proverbio non immeritatamente celebre: È prima norma pratica del vivere: Non di troppo (Terenzio, Andria 61; cf. anche Plutarco, De tranq. an. 16, 474c.).

 

... e misura.

4. 33. Abbiamo detto al principio della nostra discussione d'oggi che se avessimo accertato la tesi dell'infelicità come privazione, avremmo dichiarato felice chi non soggiace a privazione. Ed è stato quindi dimostrato che esser felici è necessariamente non soggiacere a privazione, cioè esser sapiente. Ma forse voi chiedete che cosa sia la saggezza, poiché il pensiero umano, per quanto gli è possibile in questa vita, ha già tentato di analizzare e chiarire anche il suo significato. Non è altro che la misura dello spirito con cui esso raggiunge l'equilibrio in maniera da non effondersi nel troppo né restringersi al di sotto del limite della pienezza. Si effonde nella lussuria, nella volontà di dominio, nell'orgoglio e simili con cui lo spirito d'individui incapaci di moderazione e infelici crede d'accaparrarsi gioie e potenza. Si restringe nell'avarizia, nella pusillanimità, nella tristezza, nella cupidigia ed altri mali di varia specie, a causa dei quali anche gli infelici ammettono che gli uomini sono infelici. Quando invece lo spirito, raggiunta la saggezza, la fa oggetto della sua meditazione, e quando, per usare le parole di questo ragazzo, si tiene ad essa e non lasciandosi distogliere dalla vanità non si volge al culto dei falsi idoli, al cui peso abbracciato potrebbe cadere dal suo Dio e inabissarsi, allora non teme la mancanza di moderazione e quindi la privazione e l'infelicità. Pertanto chi è felice ha la misura di se stesso, la saggezza.

 

Dio, in quanto Verità, è l'ideale pienezza e misura...

4. 34. Ora dove la saggezza ha la sua ragione ideale se non nella sapienza di Dio? Sappiamo anche per magistero divino, che il Figlio di Dio è la stessa Sapienza di Dio e il Figlio di Dio è certamente Dio. Dunque chi è felice ha Dio. Sull'argomento si è avuto l'unanime nostro consenso all'inizio di questo banchetto. E voi siete d'avviso che la sapienza è la stessa verità. Anche questo è stato detto: Io sono la verità (Io 14, 6). Ma perché ci sia la verità si richiede la misura ideale da cui quella deriva e in cui realizzatasi ritorna. Alla misura ideale non è superiore altra misura. Se infatti la misura ideale è misura per la mediazione di una misura ideale, è misura per sé. Ma è fondamentale che la misura ideale sia vera misura. Come la verità diventa reale dalla misura, così la misura si conosce dalla verità. Né può avvenire dunque che si dia la verità senza la misura né la misura senza la verità. Chi è il Figlio di Dio? È stato già detto: Verità. E proprio la misura ideale non dovrebbe essere ingenerata? Chi dunque attraverso la verità raggiungerà la misura ideale è felice. Questo è possedere Dio nello spirito, cioè beatificarsi in Dio. Gli altri esseri, sebbene siano nel potere di Dio, non hanno in potere di raggiungerlo.

 

... di cui partecipando diveniamo felici.

4. 35. Un certo avvertimento, che opera in noi per farci ricordare di Dio, cercarlo e averne sete senza saziarci, ci proviene dalla stessa fonte della verità. Il sole intelligibile diffonde tale raggio sulla nostra vista interiore. Suo è il vero che pensiamo anche quando ci affanniamo a volgerci audacemente verso di lui e contemplarlo nella sua pienezza con occhi non ancora del tutto guariti o appena aperti. Ma ci si rivela soltanto che è Dio perfetto per assenza di mutazione del suo essere. Infatti in lui il tutto e la singola parte sono la stessa perfezione ed in atto è Dio totalità del possibile. Tuttavia finché cerchiamo, non ancora dissetati alla sorgente e, per usare il solito termine, alla pienezza, dobbiamo confessare che non abbiamo raggiunto la misura. Pertanto, nonostante l'aiuto di Dio, non siamo ancora saggi e beati. Questo è dunque il pieno appagamento dello spirito, questa è la felicità: conoscere con vivo sentimento religioso da chi l'uomo è indirizzato alla verità, da quale verità è beatificato e mediante quale principio si ricongiunge alla misura ideale. E questi tre principi sono il Dio unico ed unica sussistenza per coloro che sanno intendere dopo aver superato la falsità della multiforme superstizione pagana". A questo punto mia madre, avendo rievocato le parole che erano profondamente impresse nella sua memoria e risvegliandosi, per così dire, alla propria fede, profferì con gioia il versetto del nostro vescovo: O Trinità, proteggi coloro che t'invocano (Ambrogio, cit. da Deus Creator omnium; PL 32, 1473) e soggiunse: "La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un'ardente carità".

 

Fine del banchetto e congedo.

 

4. 36. "E adesso, conclusi, la misura ci ammonisce d'interrompere per alcuni giorni anche il banchetto. Ringrazio, com'è possibile, il sommo e vero Dio Padre e Signore, liberatore delle anime e quindi voi che, cordialmente da me invitati, mi avete riempito di regali. Infatti avete contribuito alla nostra disputa in tal maniera che non posso negare di essere stato saziato dagli stessi miei invitati". Tutti erano soddisfatti e lodavano Dio. E Trigezio esclamò: "Come vorrei che tu ci nutrissi tutti i giorni in tal misura". Gli risposi: "Ma proprio la misura si deve osservare e rispettare in ogni cosa se vi sta a cuore il nostro ritorno a Dio". Posto fine alla disputa con queste parole, ce ne andammo.


Festa di Sant'Agostino 28 agosto 2023

Pubblicazione Pellegrinaggio Ostia Antica 24 aprile 2023

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Presenza viva del Verbo

Sandro Botticelli Visione di Sant’Agostino del fanciullo, Predella - Pala di San Barnaba 1487 - tempera su tavola - 268x280 cm - Firenze, Uffizi.

Secondo la leggenda un giorno Sant’Agostino, mentre si trovava meditabondo lungo il mare, ebbe la visione di Gesù bambino. L’episodio è noto e, benché non si sia trovato riscontro storico nelle fonti agostiniane, ha avuto molta fortuna nell’iconografia sul Santo d’Ippona. La leggenda compare, sotto forma di exemplum, nel XIII secolo in uno scritto Cesare d'Heisterbach dove protagonista era una vedova. L’attribuzione dell’episodio a Sant’Agostino reca la data 1263 e si fonda su alcune basi: una lettera apocrifa a Cirillo dove Agostino ricorderebbe una rivelazione divina con queste parole: Augustine, Augustine, quid quaeris ? Putasne brevi immittere vasculo mare totum? Cioè: «Agostino, Agostino che cosa cerchi? Pensi forse di poter mettere nella tua nave tutto il mare?» E un altro testo apocrifo dove San Girolamo discute con Sant’Agostino sulla capacità umana di comprendere il mistero divino.

 

La fortuna dell’episodio attesta la sua profonda verità. Quando l’uomo si attarda a scandagliare misteri che non gli competono naufraga e annega nello stesso mare che vorrebbe solcare.

 

Una delle opere più belle, che illustra il fatto, è contenuta nella predella della Pala di San Barnaba di Sandro Botticelli (agli Uffizi di Firenze). Sant’Agostino, vestendo i panni episcopali, i panni cioè di colui che, avendo raggiunto la pienezza del sacerdozio può, ex cattedra, educare alla fede, sta sul lungo mare. Quale mare, è impossibile dirlo. Alcuni ritengono possa essere Civitavecchia ma, in tal caso, i paramenti da vescovo indossati dal Santo costituirebbero un anacronismo, poiché quando Agostino si trova a Roma non è né prete, né vescovo. Per altri si tratta del mare di Ippona e ciò giustificherebbe la tenuta del Santo. Questa, del resto, pare la corrente di pensiero seguita da Botticelli.

L’episodio narra che, mentre Agostino scandagliava con la mente il Mistero della Trinità, vide un bimbo intento a giocare. Dapprima il santo vescovo non comprese l'origine divina di quel Bambino e lo stette ad osservare. Questi, correndo al mare, pescava dell'acqua con una conchiglia per poi, ritornando sulla spiaggia, riempire con essa una buca fatta nella sabbia.

Incuriosito dall'operazione ripetuta più e più volte, Agostino decide di interrogare il bambino: «Che fai?» Alla risposta del fanciullo rimane interdetto: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant'Agostino spiega pazientemente che ciò è impossibile. Il bambino fattosi serio replica: «È impossibile anche a te scandagliare con la piccolezza della tua mente l'immensità del Mistero divino». E detto questo sparì.

Botticelli veste di rosso l'uno e l'altro, indicando così la prossimità degli intenti: entrambi cercavano di circoscrivere un mistero insondabile. Il volto espressivo del Bambin Gesù di Botticelli, lascia intravedere lo sdegno e la sorpresa divina per un uomo fattosi sì ardito.

In fondo l'episodio, non a caso ai nostri giorni quasi dimenticato, si adatta anche alle velleità dell'uomo post-contemporaneo. Il desiderio di indagare, dominandoli, i grandi principi non negoziabili, come la vita, la morte, la dignità della persona e la distinzione orientata alla vita fra uomo e donna, avrà come naturale approdo il naufragio, la sconfitta, l'abbruttimento umano. Così Agostino insegna ancora, in questo pur dubbio episodio, una grande verità che, se osservata, può salvare l'uomo è la città.

 

La salvezza del mondo e della città era nascosta per Sant'Agostino, nella vita monastica, vero luogo dove la filosofia e financo la teologia diventano sapienza di vita. L’esperienza di Cassiciago, che lo portò alla conversione e al Battesimo, maturato anche grazie alle liturgie celebrate dal Vescovo Ambrogio nella città di Milano, plasmò il suo animo a comprendere che la vita monastica del grande Antonio (del quale aveva udito parlare rimanendone affascinato) non doveva essere prerogativa del deserto, ma poteva essere vissuta pienamente anche nella civitas. Le intuizioni avute a Cassiciago si concretizzarono meglio a Tagaste, luogo dove la celebre e discussa Regola Agostiniana prese forma. Ma sarà a Ippona che Agostino, divenuto sacerdote e poi vescovo, avrà modo di unire la vita monastica a quella apostolica dei chierici.

 

Una suggestiva pittura, attribuita a Niccolò di Pietro, raffigura il santo Padre Agostino con i discepoli ed esprime bene quello che fu la sua vita ad Ippona. Anche qui egli veste i panni del vescovo e tiene in mano la Parola circondato dai chierici. Il portale che incornicia il gruppo ricorda quella sorta di grande portale che apre la Regola Agostiniana: il motivo essenziale per cui vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un sol cuore protesi verso Dio.

 

La postura orante di ciascun membro dice la tensione verso Dio, mentre e i visi sereni rivolti al Padre Agostino dicono l’attitudine alla carità. La carità per Agostino era il grande modo di essere presenti. Solo la carità è capace di dilatarsi oltre i confini del Monastero. Solo la carità per il grande dottore della Chiesa, è salvezza della città. Per questo il portale dell’ambito monastico in cui si trovano gli agostiniani si apre generosamente allo sguardo di chi li osserva. L’ascolto di Dio, il pervenire alla sapienza era, per Agostino, a servizio ed edificazione della civitas. Lui che morì povero, ma ricco solo della sua biblioteca, dichiarò spesso di non aver mai scritto nulla per se, ma solo per gli amici e per la ricerca del vero e del Bene a servizio di molti. Non a caso nel Prologo della Città di Dio (scritta mentre era Vescovo) Agostino così si esprime: L’argomento di quest’opera […] l’ho intrapresa dietro tua richiesta per adempiere la promessa che ti ho fatto di difendere la città di Dio contro coloro che feriscono i loro dei e al suo fondatore

 

Il libro, in questo affresco, non a caso allora è al centro del gruppo. Tutto ruota attorno ad esso: un libro che non è certamente lettera morta, ma è segno della Presenza viva del Verbo.

 

Anche l'uomo post contemporaneo, dovrebbe imparare quello che Agostino sedici secoli or sono aveva già capito, l'uomo progredisce, la città si salva solo grazie a una Presenza, a una relazione che, fondata sul Tu eterno, apre agli infiniti tu dell’umanità.


"Te solo amo, Te solo seguo, Te solo cerco" Conversione di Sant'Agostino

In occasione della festa della conversione di Sant'Agostino,il 24 aprile i padri CRIC di Roma hanno organizzato un pellegrinaggio con gli Amici CRIC e l'Associazione Culturale Dom Adriano Grea presso la chiesa di Sant'Aura a Ostia antica dove é morta ed era sepolta Santa Monica, la mamma di Sant'Agostino

CONVERSIONE DI SANT’AGOSTINO – 24 APRILE

 a cura di Padre Rinaldo Guarisco Padre Generale Cric e Presidente Associazione Culturale Dom Adriano Grea

 

PRIMA LETTURA: Romani 13,11-14a

 
            Questo brano fa parte degli ultimi capitoli della lettera ai Romani. Dopo aver spiegato in modo approfondito il rapporto tra la religione ebraica, con il suo attaccamento alla Legge e alle sue tradizioni, e la nuova vita in Cristo, Paolo passa alle conseguenze pratiche, indicando lo stile che il cristiano deve assumere:

-          il culto spirituale, la carità verso i fratelli ma anche verso i nemici, la sottomissione ai poteri civili.

-          I cristiani di Roma quindi non hanno nessuna giustificazione, non possono più "dormire " o rimanere nello stile di vita precedente alla loro conversione.         
 

 11 Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno…

Qualche versetto prima (13,8-10) li ha esortati a osservare la legge della carità, ad avere amore gli uni verso gli altri… La legge della carità riassume in sé tutta la legge mosaica.

-          Quindi i Romani vengono invitati ad amarsi gli uni gli altri, ad avere un atteggiamento di benevolenza.  


12 La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.      

Le immagini della notte e del giorno, della luce e delle tenebre sono riprese dalla liturgia battesimale. La luce è necessaria alla vita dell'uomo. La conversione a Cristo è da sempre rappresentata come un passaggio dal buio alla luce, dalle tenebre della morte e del peccato alla luce della vita.  


13 Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie.    

In questo versetto Paolo scende nei particolari. La condotta del cristiano deve essere onesta,  ricordare che il male fa male, che c'è una dignità  che ci permette di vivere in gioia e pienezza.  Cambiare l'atteggiamento che stride con lo stile cristiano.

Questi versetti sono quelli che hanno fatto convertire definitivamente sant'Agostino.


14 Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo         
Gli interlocutori di Paolo si sono rivestiti delle vesti bianche nel giorno del battesimo, hanno così scelto di vivere secondo una vita nuova. In quella vita devono continuare.  

 

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CONVERSIONE DI AGOSTINO

 

Milano, tarda estate del 386.

Nel libro ottavo delle Confessioni Agostino racconta l’ultima lotta interiore in vista della conversione definitiva, ascoltando le

-          testimonianze di alcuni personaggi che si sono convertiti

-          leggendo la biografia dell’eremita egiziano Antonio e

-          sollecitato già in precedenza dalle omelie del vescovo Ambrogio.

 

Rimorso e vergogna afferrano violentemente Agostino. Esce, seguito da Alipio, nel giardinetto annesso alla casa e lì, sconvolto dalla tempesta interiore,  si apparta sotto un fico, disteso a terra, scoppia in un pianto dirotto.

Quand’ecco dalla casa vicina una voce sottile:

“Prendi e leggi”.

Agostino torna correndo presso Alipio, afferra il testo di San Paolo e vi legge quel versetto della lettera ai Romani ove si invita il cristiano ad abbandonare il disordine della carne per abbracciare Cristo. Una serenità ineffabile si diffonde nel suo cuore.  

-          Nella notte di Pasqua tra il 24-25 aprile del 387, dalle mani del vescovo Ambrogio, riceve il battesimo con Alipio e Adeodato (suo figlio).

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VANGELO: VEDOVA DI NAIM

 IL SUO PIANTO E L’AFFETTO PER LA MORTE DEL FIGLIO

 

AGOSTINO PARLA DI SUA MIA MADRE

 

“La mia salvezza fu concessa alle lacrime sincere

che tutti i giorni mia madre versava” (Sant’Agostino)

* * *

Quando Agostino parla di sua madre sia nelle confessioni che in altri scritti, narra con sincerità non solo le virtù, ma anche quelli che sono o possono sembrare errori o difetti della madre

Comunque per lui è stata una donna mistica.

Agostino fa una rievocazione commovente della figura di Monica. Egli sa di dover tutto a sua madre. Lo dice nella prima delle sue opere: “C’era con noi mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, tutto ciò che ho, tutto ciò che sto vivendo” (De beata).

Le doveva infatti:

-       l’intelligenza che gli brillava nella mente,

-       la passione per la verità che gli bruciava nel cuore,

-       la nobiltà e la fortezza di carattere,

-       l’educazione cristiana,

-       il mantenimento agli studi;

-       ma soprattutto le doveva la riconquista della fede.

Si sentiva doppiamente generato da lei: generato alla vita della terra e a quella del cielo.

Due perciò erano i fatti inseparabilmente presenti nella sua memoria:

-       le lacrime della madre

-       e la sua conversione.

 

Li ricorda ancora, ormai vecchio, in una delle ultime opere: “Ciò che narrai della mia conversione nei libri delle Confessioni, non ricordate che lo narrai in modo da dimostrare che la mia salvezza fu concessa alle lacrime sincere che tutti i giorni mia madre versava?”.

 

Meditiamo
- Sono un cristiano che "dorme", oppure mi sento sempre

coinvolto in un cammino di conversione?

- Vi sono nella mia vita delle zone di tenebra?  

- E quindi, come posso fare per rivestirmi del Cristo risorto

 

e cambiare vita?


L’ESTASI DI OSTIA TIBERINA (durante il ritorno in Africa)

Lettore – Venne il momento di ripartire per l’Africa. Agostino e i suoi famigliari decisero infatti di tornare in patria per meglio servire Dio. In attesa dell’imbarco si fermarono ad Ostia, dove Monica morì. Come non ricordare qui la sua esistenza esemplare? Educata con vigile cura, guarita dal vizio del bere che, adolescente, aveva contratto, da sposa si adoprò con ammirevole pazienza a correggere il carattere intemperante del marito e guadagnarlo a Dio; fu modello e conforto alle amiche, serva di tutti e straordinariamente sollecita nel bene dei figli. A Ostia, pochi giorni prima della sua morte, Agostino stava con lei. Di questo soggiorno Agostino racconta nelle Confessioni l’episodio noto come estasi di Ostia.

Agostino – (Conf. Libro IX, 8.17) “…Presso Ostia Tiberina mia madre morì… Accogli la mia confessione e i miei ringraziamenti, Dio mio, per innumerevoli fatti, che pure taccio. Ma non tralascerò i pensieri che partorisce la mia anima al ricordo di quella tua serva, che mi partorì con la carne a questa vita temporale e col cuore alla vita eterna… All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire da questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, Accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d'uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta. Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d'amore verso l'Essere stesso, percorremmo su tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole e la luna e le stelle brillano sulla terra. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l'esaltazione, l'ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch'esse superammo per attingere la plaga dell'abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno…

Si diceva, dunque: "Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell'acqua e dell'aria, tacessero i cieli, e l'anima stessa si tacesse… e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: "Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece Chi permane eternamente"; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l'orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse… non sarebbe questo l'"entra nel gaudio del tuo Signore"? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati?".

Così dicevo, sebbene in modo e parole diverse. Fu comunque, Signore, tu sai, il giorno in cui avvenne questa conversazione… che mia madre disse:

Monica - "Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me. Cosa faccio ancora qui e perché sono qui, lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c'era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui?" (Conf. IX, 10.23-26).

LA MORTE DI MONICA

Lettore - Monica morì pochi giorni dopo questo colloquio con il figlio, che la pianse amaramente implorando dalla misericordia di Dio la sua salute eterna. Così per lei e per suo marito preghino i lettori.  Agostino così ci racconta gli ultimi istanti della vita della madre. Era l’autunno del 387:

Agostino - “… Entro cinque giorni o non molto più, si mise a letto febbricitante e nel corso della malattia un giorno cadde in deliquio e perdette la conoscenza per qualche tempo. Noi accorremmo, ma in breve riprese i sensi, ci guardò, mio fratello e me, che le stavamo accanto in piedi, e ci domandò, quasi cercando qualcosa:

Monica - "Dov'ero?";

Agostino - Poi, vedendo il nostro afflitto stupore:

Monica - "Seppellirete qui, soggiunse, vostra madre".

Agostino - Io rimasi muto, frenando le lacrime; mio fratello invece pronunziò qualche parola, esprimendo l'augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma in patria, che sarebbe stata migliore fortuna. All'udirlo, col volto divenuto ansioso gli lanciò un'occhiata severa per quei suoi pensieri, poi, fissando lo sguardo su di me, esclamò:

Monica - "Vedi cosa dice",

Agostino - e subito dopo, rivolgendosi a entrambi:

Monica - "Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all'altare del Signore" (Conf. IX, 11.27).

Agostino – Espressa così come poteva a parole la sua volontà, tacque. Il male aggravandosi la fece soffrire… Al nono giorno della sua malattia, nel cinquantaseiesimo della sua vita, trentatreesimo della mia vita, quell’anima credente e pia fu liberata dal corpo. Le chiudevo gli occhi e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino a disseccarlo…

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PREGHIERA A SANTA MONICA

Santa Monica, prega per noi,

affinché possiamo avere la stessa fede incrollabile

e lo stesso amore per Dio che hai avuto tu.

Aiutaci a perseverare nelle sfide della vita

e ad avere fiducia nel piano di Dio per noi.

Possa il tuo esempio ispirarci

ad essere servitori fedeli e devoti di Dio,

e possiamo un giorno unirci a te

nel regno celeste. Amen.

SANT’AGOSTINO

 

Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, una piccola città dell’attuale Algeria, l’odierna Souk Ahras.

 Monica, la madre, era cristiana; il padre, Patrizio, era invece pagano e solo alla fine della vita aderì alla fede cattolica.

Agostino muore nella sua Tagaste circondata dai Vandali il 28 agosto del 430, dopo 40 anni di intensissimo e fecondo servizio episcopale, all’età di 76 anni.

 

Le sue intuizioni filosofiche, letterarie e teologiche ne fanno un genio del cristianesimo e dell'umanità intera. Le sue aspirazioni e la sua esperienza spirituale, trasmesse soprattutto con la sua "Regola", hanno segnato e continuano a segnare il cammino ad una schiera innumerevole di uomini e donne, affascinati dalla sua figura e trascinati dal suo esempio


La luce penetrò il nostro cuore!

Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore

 

Sant'Agostino

 

 

 

Andate in tutto il mondo!

 

 

“Chi fa esperienza di una gioia profonda non è capace di contenerla in sé; anzi, desidera parteciparla ad un numero sempre maggiore di persone, perché è nella condivisione che se ne apprezza la ricchezza. Questo atteggiamento è ancor più vero quando nel nostro cuore conserviamo la buona novella di Cristo. Chi ha conosciuto Cristo, non può trattenere per sé questo dono: egli ne diviene martire, cioè testimone in parole ed opere. Ogni indugio è rimosso: in qualunque spazio e tempo ci troviamo e dinanzi ad una qualsiasi richiesta, siamo chiamati a rendere ragione della fede che è in noi, perché non avvenga che rinnegando Cristo incorriamo nella sventura di essere rinnegati da Lui nel giudizio finale.”

 

Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm. 260/E, 2)

 

 

 

Testimoni della risurrezione

 

 

“Anche voi, dunque, dite: Non possiamo non parlare di ciò che abbiamo udito; non possiamo non evangelizzare Cristo Signore. Ciascuno lo annunzi dovunque gli è possibile, e così è martire. Capita però, a volte, a certi che non debbano subire persecuzioni ma solo una qualche derisione: eppure si spaventano. Un tale, ad esempio, si trova a pranzo in mezzo a pagani, ed eccolo arrossire perché lo chiamano cristiano. Se ha timore d'un commensale, come potrà tenere incalcolate le minacce d'un persecutore? Suvvia dunque! Parlate di Cristo dovunque potete, con chiunque potete, in tutte le maniere che potete. Quello che si esige da voi è la fede, non l'abilità nel parlare. Parli la fede che vi nasce dal cuore, e sarà Cristo a parlare. Se infatti è in voi la fede, abita in voi Cristo. Avete udito il Salmo: Ho creduto e perciò ho anche parlato (Ps 115, 10). Non poteva aver fede e, insieme, restarsene muto. Chi non dona è ingrato verso colui che l'ha colmato di doni. Ciascuno pertanto deve comunicare le cose di cui è stato riempito. Da lui deve scaturire una fonte che sempre versa e mai si dissecca. Scaturirà in lui una fonte d'acqua che zampilla per la vita eterna (Io 4, 14)..Dio volle avere come suoi testimoni gli uomini, affinché a loro volta gli uomini abbiamo come loro testimone Dio stesso. “(In Io Ep. 1, 2)

 

 

 

 

 

 

 

Toccare Cristo con il cuore: questa è fede sincera!

 

 

"Credetelo così e l’avrete toccato, toccatelo in modo da aderire a Lui; aderite in modo da mai separarvene"

 (Sermo 229/L, 2)

 

E adesso, fratelli miei, Gesù è in cielo. Quando era con i suoi discepoli nella sua carne visibile, nella sua sostanza corporale toccabile, fu visto e fu toccato: ma ora che siede alla destra del Padre, chi di noi lo può toccare? E tuttavia guai a noi se con la fede non lo tocchiamo! Tutti lo tocchiamo, se crediamo. Certo, egli è in cielo, certo è lontano, certo non si può immaginare per quali infiniti spazi disti da noi. Ma se credi, lo tocchi. Che dico, lo tocchi? Proprio perché credi, presso di te hai colui nel quale credi. Ma allora, se credere è toccare, anzi se toccare è credere, come si spiega: Non mi toccare, perché non sono ancora salito al Padre mio (Io 20, 17)? Che vuol dire? Perché vai cercando la mia carne se ancora non comprendi la mia divinità? Volete sapere come questa donna lo voleva toccare? Essa stava cercando un morto, non credeva che egli sarebbe risorto. Hanno portato via il mio Signore dal sepolcro (Io 20, 2); e lo piange come uomo. Oh! Toccarlo! Ed egli, vedendola tutta preoccupata nei riguardi della sua condizione di servo e che ancora non sapeva né gustare, né credere, né comprendere quella condizione di Dio per la quale è uguale al Padre, differisce il toccare, perché sia un toccare più completo. Non mi toccare, dice, perché non sono ancora salito al Padre mio. Tu mi tocchi prima che io risalga al Padre e mi credi solo uomo: che ti giova quel che credi? Fammi dunque risalire al Padre. Lassù da dove mai mi sono allontanato, è per te che io salgo, se mi crederai uguale al Padre. Difatti il Signore nostro Gesù Cristo non è disceso dal Padre lasciando il Padre; e anche nel risalire via da noi non si è allontanato da noi. Infatti quando stava per risalire e sedere alla destra del Padre, disse in anticipo ai suoi discepoli: Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo (Mt 28, 20)

Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm. 229/K, 1-2)

 

Ora noi non abbiamo nessuna possibilità di toccare qualche parte del corpo di Cristo, ma abbiamo la possibilità di leggere quello che di Lui si dice. Tutto nelle Scritture parla di Cristo; purché ci siano orecchie ad ascoltare. (In Io. Ep. tr. 2, 1)

 

 

 

La conversione fa germogliare uomini nuovi!

 

 

Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm 236, 2-3)

 

“Imparate ad accogliere gli ospiti, nella cui persona si riconosce Cristo. O che non sapete ancora che, tutte le volte che accogliete un cristiano, accogliete Cristo? Non lo dice forse lui stesso: Ero forestiero e mi avete accolto? E se gli replicheranno: Ma quando, Signore, ti abbiamo visto forestiero, risponderà: Tutte le volte che l'avete fatto a uno dei miei fratelli, fosse anche il più piccolo, l'avete fatto a me (Mt 25, 35. 38. 40). Quando dunque un cristiano accoglie un altro cristiano, è un membro che si pone al servizio di un altro membro, e con questo reca gioia al capo, che ritiene dato a sé ciò che si elargisce a un suo membro. Ebbene, finché siamo quaggiù, si dia il cibo a Cristo che ha fame, si dia da bere a lui assetato, lo si vesta quando è nudo, lo si ospiti quand'è pellegrino, lo si visiti quando è malato. Queste cose comporta l'asperità del cammino. Così dobbiamo vivere nel presente pellegrinaggio durante il quale Cristo è nel bisogno: ha bisogno nei suoi, pur essendo pieno di tutto in sé. Ma colui che nei suoi è bisognoso, mentre in sé abbonda di tutto, convocherà attorno a sé tutti i bisognosi. E vicino a lui non ci sarà più né fame né sete, né nudità né malattia, né migrazioni né stenti né dolore. So che tutti questi bisogni lassù non ci saranno, ma non so cosa ci sarà. Che tutte queste cose non ci saranno l'ho potuto apprendere; quanto invece a quel che troveremo lassù, non c'è stato occhio che l'abbia visto né orecchio che l'abbia udito né cuore d'uomo in cui sia penetrato (1 Cor 2, 9). Lo possiamo amare, lo possiamo desiderare; durante il presente esilio possiamo sospirare il possesso di un tanto bene; ma non possiamo raggiungere col pensiero né spiegare adeguatamente a parole quel che esso sia, o, per lo meno, io non ne sono capace. Cercatevi pure, o fratelli, qualcuno che abbia tale capacità, e, se vi riuscirà di trovarlo, trascinate da lui anche me insieme con voi perché divenga suo discepolo. Quanto a me, so una cosa sola, che cioè Dio - come dice l'Apostolo - ha la potenza di compiere opere che superano la nostra facoltà di chiedere e di comprendere (Eph 3, 20). Egli ci condurrà là dove si realizzeranno le parole scritturali: Beati coloro che abitano nella tua casa! Ti loderanno nei secoli dei secoli (Ps 83, 5). Tutta la nostra occupazione sarà la lode di Dio. E cosa loderemo se non ciò che ameremo? E null'altro ameremo se non ciò che vedremo. Vedremo la verità, e questa verità sarà Dio stesso, di cui canteremo la lode. Lassù troveremo ciò di cui oggi abbiamo cantato: troveremo l'Amen, cioè Quel che è vero, e l'Alleluia, cioè: Lodate il Signore.”

 

 

 

 

 

 

O Signore, va’ in aiuto a quei discepoli! Spezza loro il pane perché ti riconoscano. Se tu non li riconduci sono perduti. (Sermo 236/A, 3)

 

 

 


Perle di saggezza!

 

 

 

Sant'Agostino

 

 

Pondus meum amor meus, eo feror quocumque feror.

 

Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. (Confess. 13, 9, 10)

 

 

 

Quis autem veraciter laudat, nisi qui sinceriter amat?

Chi mai loda veramente, se non chi ama sinceramente? (Ep. 140, 18, 45)

 

 

Pedes tui, caritas tua est.

I tuoi piedi sono il tuo amore. (En. in ps. 33, d. 2, 10)

 

 

 

 

 

Dic animae meae: salus tua ego sum. Sic dic, ut audiam. Ecce aures cordis mei ante te, Domine; aperi eas et dic animae meae: salus tua ego sum.

Dì all'anima mia: Io sono la tua salvezza (Ps 34, 3). Dillo, che io l'oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, o Signore. Aprile, e dì all'anima mia: Io sono la tua salvezza. (Confess. 1, 5, 5)

 

 

Doce ergo me suavitatem inspirando caritatem ... Doce me disciplinam donando patientiam, doce me scientiam illuminando intelligentiam.

Insegnami la dolcezza ispirandomi la carità, insegnami la disciplina dandomi la pazienza e insegnami la scienza illuminandomi la mente. (En. in ps. 118, 17, 4)

 

 

 

Amor, qui semper ardes et numquam extingueris, caritas, Deus meus, accende me!

O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami! (Confess. 10, 29, 40)

 

Da quod amo: amo enim. Et hoc tu dedisti. Ne dona tua deseras, nec herbam tuam spernas sitientem.

Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. (Confess. 11, 2, 3)

 

 

Ama et propinquabit; ama et habitabit.

Ama ed egli si avvicinerà, ama ed egli abiterà in te. (Serm. 21, 2)

 

Da mihi amantem et sentit quod dico.

Dammi un innamorato e capirà quello che dico. (De cons. Evang. 26, 4)

 

 

 

Ogni amore o ascende o discende; dipende dal desiderio: se è buono ci innalziamo a Dio, se è cattivo precipitiamo nell'abisso... (En. in ps. 122, 1)

 

Ibi vacabimus et videbimus, videbimus et amabimus, amabimus et laudabimus.

(Nella città celeste) Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. (De civ. Dei 22, 30. 5)

 

Domine Deus, pacem da nobis - omnia enim praestitisti nobis - pacem quietis, pacem sabbati, pacem sine vespera.

Signore Dio, poiché tutto è tuo, donaci la pace, la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto. (Confess. 13, 35, 50)

 

I

In concordia Christi omnes una anima sumus.

Nell'unione dell'amore di Cristo siamo tutti una sola anima. (En. in ps. 62, 5)

 

Non est extra nos: in ipsius membris sumus, sub uno capite regimur, uno spiritu omnes vivimus, unam patriam omnes desideramus.

Non è fuori di noi. Siamo nelle sue membra, siamo retti tutti sotto un solo capo, viviamo di un solo spirito tutti e desideriamo tutti una sola patria. (En. in ps. 64, 7)

 

Nonne vides quia perdidisti quod non dedisti?

Non ti accorgi che hai perso quello che non hai donato? (En. in ps. 36, 3, 8)

 

Non stat ergo aetas nostra: ubique fatigatio est, ubique lassitudo, ubique corruptio.

La nostra vita, nelle sue varie età, non s'arresta; e dovunque c'è fatica, dovunque stanchezza, dovunque deterioramento. (En. in ps. 62, 6)

 

In isto deserto, quam multipliciter laborat, tam multipliciter sitit; quam multipliciter fatigatur, tam multipliciter sitit illam infatigabilem incorruptionem.

In questo deserto, siccome in molti modi si soffre, così in molti modi si ha sete. In molti modi ci si stanca, e in molti modi si ha sete di quella incorruttibilità che non conosce stanchezza. (En. in ps. 62, 6)

 

Et diligendo fit et ipse membrum, et fit per dilectionem in compage corporis Christi, et erit unus Christus amans se ipsum.

E amando, anch'egli diventa un membro e per mezzo dell'amore viene ad appartenere all'unità del Corpo di Cristo; e sarà un solo Cristo che ama se stesso. (In Io. Ep. tr. 10, 3)

 

 

Ipsum verum non videbis nisi in philosophiam totus intraveris.

Non potrai vedere la verità se non ti immergerai completamente nella filosofia. (Contra Acad. 2, 3, 8)

 

Hoc esse philosophari, amare Deum cuius natura sit incorporalis.

Esercitare la filosofia è amare Dio la cui natura è incorporea. (De civ. Dei 8, 8)

 

Causa contitutae universitatis, et lux percipiendae veritatis et fons bibendae felicitatis.

La sorgente della costituzione del tutto, la luce della verità che siamo chiamati a raggiungere e la fonte della felicità che siamo chiamati a bere. (De civ. Dei 8, 10, 2)