Canta e cammina.. l'Amore è tutto! Sant'Agostino

Felici in Dio

 

“Dio ama ognuno di noi come se ci fosse solo uno di noi.”

 

Sant'Agostino 

 

 

 

Mi dà speranza un Signore che mi assicura: il tuo desiderio di amore è già amore. Il tuo desiderio di preghiera è già preghiera. Il tuo desiderio di incontrarmi è già incontro

 

Tu non mi cercheresti se io non ti avessi già trovato

 

 

Sant'Agostino

Vivi nella Speranza

Signore Dio mio,

mia unica speranza,

esaudiscimi,

perché non cessi di cercarti

vinto dalla fatica,

ma continui a cercare

il tuo volto

continuando ad ardere.

Donami le energie

per cercarti,

Tu che ti sei fatto trovare,

Tu che mi hai dato

sempre più

la speranza di trovarti

 

                                                           Sant'Agostino

 

 

 

 

Tutta la nostra Speranza

 

Sant'Agostino

 

Vivi frattanto nella speranza. La speranza che si vede non è speranza; ma se speriamo ciò che non vediamo è per mezzo della pazienza che noi l’aspettiamo (cf. Rom 8, 24-25).

 

Spera in Dio. Perché spera? Perché ancora potrò dar lode a Lui. Come lo loderai? Salvezza del mio volto, Dio mio. La salvezza non mi può venire da me stesso; questo dirò, questo confesserò: Salvezza del mio volto, Dio mio. Infatti, temendo quelle cose che in qualche modo ha conosciuto, le esamina di nuovo perché non si insinui il nemico, e ancora, dice, non sono salvo da ogni parte. Avendo infatti le primizie dello Spirito, gemiamo in noi stessi aspettando l’adozione e la redenzione del nostro corpo (cf. Rom 8, 23). Perfezionata in noi quella salvezza, saremo nella casa di Dio e vivremo senza fine e senza fine loderemo colui al quale è detto: Beati coloro che abitano nella tua casa, nei secoli dei secoli ti loderanno (Sal 83, 5). Questo non è ancora accaduto, perché non è ancora venuta quella salvezza che è promessa; ma lodo il mio Dio nella speranza e gli dico: Salvezza del mio volto, Dio mio. Perché nella speranza già siamo salvati; ma la speranza che si vede non è speranza. Persevera dunque per giungere alla salvezza; persevera finché la salvezza non verrà. Ascolta il tuo stesso Dio che ti parla dal tuo intimo: spera nel Signore, comportati da uomo, e si conforti il tuo cuore, e spera nel Signore (Sal 26, 14); perché chi avrà perseverato fino alla fine, costui sarà salvo (Mt 10, 24; 24, 13). Orbene perché sei triste, anima mia, e perché mi turbi? Spera in Dio perché ancora potrò dar lode a Lui. Questa è la mia lode: Salvezza del mio volto, Dio mio.

 

DAL "COMMENTO AL VANGELO DI S. GIOVANNI" DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO (In Io. Ev. tr. 49, 1.2.3)

 

Se hai peccato, pentiti e il Signore ti risusciterà e ti restituirà alla Chiesa

Fra tutti i miracoli compiuti da nostro Signore Gesù Cristo, quello della risurrezione di Lazzaro è forse il più strepitoso. Ma se consideriamo chi è colui che lo ha compiuto, la nostra gioia dovrà essere ancora più grande della meraviglia. Risuscitò un uomo colui che fece l’uomo; egli infatti è l’Unigenito del Padre, per mezzo del quale, come sapete, furono fatte tutte le cose. Ora, se per mezzo di lui furono fatte le cose, fa meraviglia che per mezzo di lui sia risuscitato uno, quando ogni giorno tanti nascono per mezzo di lui? È cosa più grande creare gli uomini che risuscitarli. Tuttavia egli si degnò creare e risuscitare: creare tutti e risuscitarne alcuni.

 

Apprendiamo dal Vangelo che tre sono i morti risuscitati dal Signore e ciò non senza un significato. Sì, perché le opere del Signore non sono soltanto dei fatti, ma anche dei segni. E se sono dei segni, oltre ad essere mirabili, devono pur significare qualcosa; e trovare il significato di questi fatti è alquanto più impegnativo che leggerli o ascoltarli.

 

Se dunque il Signore, per sua grande grazia e misericordia, risuscita le anime affinché non si muoia in eterno, ben possiamo supporre che quei tre che egli risuscitò nei loro corpi significano e adombrano la risurrezione delle anime, che si ottiene mediante la fede. Risuscitò la figlia del capo della sinagoga, che si trovava ancora in casa (cf. Mc 5, 41-42); risuscitò il giovane figlio della vedova, che era già stato portato fuori della città (cf. Lc 7 14-15); risuscitò Lazzaro, che era stato sepolto da quattro giorni. Esamini ciascuno la sua anima: se pecca muore, giacché il peccato è la morte dell’anima. A volte si pecca solo col pensiero: ti sei compiaciuto di ciò che è male, hai acconsentito, hai peccato; il consenso ti ha ucciso; però la morte è solo dentro di te, perché il cattivo pensiero non si è ancora tradotto in azione. Il Signore, per indicare che egli risuscita tal sorta di anime, risuscitò quella fanciulla che ancora non era stata portata fuori, ma giaceva morta in casa, a significare il peccato occulto. Se però non soltanto hai ceduto col pensiero al male, ma lo hai anche tradotto in opere, è come se il morto fosse uscito dalla porta; ormai sei fuori e sei un morto portato alla sepoltura. Il Signore tuttavia risuscitò anche quel giovane e lo restituì a sua madre vedova. Se hai peccato, pentiti! e il Signore ti risusciterà e ti restituirà alla Chiesa, che è la tua madre. Il terzo morto è Lazzaro. Siamo di fronte al caso più grave, che è l’abitudine perversa. Una cosa infatti è peccare, un’altra è contrarre l’abitudine al peccato. Chi pecca, ma subito si emenda, subito riprende a vivere; perché non è ancora prigioniero dell’abitudine, non è ancora sepolto. Chi invece pecca abitualmente, è già sepolto e ben si può dire che già emette fetore, nel senso che la cattiva fama che si è fatta comincia a diffondersi come un pestifero odore. Così sono coloro che ormai sono abituati a tutto e persi dietro ogni scelleratezza. Inutile dire a uno di costoro: non fare così! Come fa a sentirti chi è come sepolto sotto terra, corrotto, oppresso dal peso dell’abitudine? Né tuttavia la potenza di Cristo è incapace di risuscitare anche uno ridotto così. Abbiamo conosciuto, abbiamo visto e ogni giorno vediamo uomini che, cambiate le loro pessime abitudini, vivono meglio di altri che li rimproveravano. Tu, ad esempio, avevi molto da ridire sulla condotta del tale: ebbene, guarda la sorella stessa di Lazzaro (ammesso che sia lei la peccatrice che unse i piedi del Signore, e glieli asciugò con i suoi capelli dopo averglieli lavati con le sue lacrime); la sua risurrezione è più prodigiosa di quella del fratello, perché è stata liberata dal grave peso dei suoi cattivi costumi inveterati. Era infatti una famosa peccatrice e di lei il Signore disse: Le sono rimessi molti peccati, perché ha amato molto (Lc 7, 47). Abbiamo visto e conosciamo molti di questi peccatori: nessuno disperi, nessuno presuma di sé. È male disperare ed è male presumere di sé. Non disperare e scegli dove poter collocare la tua speranza.

 

 

 

 

 

DAL "COMMENTO AL VANGELO DI S. GIOVANNI" DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO (In Io. Ev. tr. 49, 2)

 

Ogni uomo che crede, risorge

Abbiamo ascoltato il Vangelo che racconta come Lazzaro riebbe la vita, pieni di ammirazione come se quello spettacolo meraviglioso si svolgesse davanti ai nostri occhi. Se però rivolgiamo la nostra attenzione ad opere di Cristo più meravigliose di questa ci rendiamo conto che ogni uomo che crede risorge; se poi riuscissimo a comprendere l’altro genere di morte molto più detestabile, (quello cioè spirituale), vedremmo come ognuno che pecca muore. Se non che tutti temono la morte del corpo, pochi quella dell’anima. Tutti si preoccupano per la morte del corpo, che prima o poi dovrà venire, e fanno di tutto per scongiurarla. L’uomo destinato a morire si dà tanto da fare per evitare la morte, mentre non altrettanto si sforza di evitare il peccato l’uomo che pure è chiamato a vivere in eterno. Eppure quanto fa per non morire, lo fa inutilmente: al più ottiene di ritardare la morte, non di evitarla. Se invece si impegna a non peccare, non si affaticherà e vivrà in eterno. Oh, se riuscissimo a spingere gli uomini, e noi stessi insieme con loro, ad amare la vita che dura in eterno almeno nella misura che gli uomini amano la vita che fugge! Che cosa non fa uno di fronte al pericolo della morte? Quanti, sotto la minaccia che pendeva sul loro capo, hanno preferito perdere tutto pur di salvare la vita! Chi infatti non lo farebbe per non essere colpito? E magari, dopo aver perduto tutto, qualcuno ci ha rimesso anche la vita. Chi pur di continuare a vivere, non sarebbe pronto a perdere il necessario per vivere, preferendo una vita mendicante ad una morte anticipata? Se si dice a uno: se non vuoi morire devi navigare, esiterà forse a farlo? Se a uno si dice: se non vuoi morire devi lavorare, si lascerà forse prendere dalla pigrizia? Dio ci comanda cose meno pesanti per farci vivere in eterno e noi siamo negligenti nell’obbedire. Dio non ti dice: getta via tutto ciò che possiedi per vivere poco tempo tirando avanti stentatamente; ti dice: dona i tuoi beni ai poveri se vuoi vivere eternamente nella sicurezza e nella pace. Coloro che amano la vita terrena, che essi non possiedono né quando vogliono né finché vogliono, sono un continuo rimprovero per noi; e noi non ci rimproveriamo a vicenda per essere tanto pigri, tanto tiepidi nel procurarci la vita eterna, che avremo se vorremo e che non perderemo quando l’avremo. Invece questa morte che temiamo, anche se non vogliamo, ci colpirà.

 

 

 

 

DAL "COMMENTO AL VANGELO DI S. GIOVANNI" DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO (In Io. Ev. tr. 22, 6-8)

 

Risorgi nel tuo cuore: credi e confessa!

Compi fin d’ora il passaggio dalla morte alla vita. Quale è la tua vita? È la fede: Il giusto vive della fede (Ab 2, 4; Rm 1, 17). Che dire allora degli infedeli? Essi sono morti. A siffatti morti apparteneva, quanto al corpo, quel tale di cui il Signore disse: Lascia i morti seppellire i morti (Mt 8, 22). In questa vita, quindi, vi sono dei morti e dei vivi, anche se apparentemente tutti sono vivi. Chi sono i morti? Quelli che non credono. Chi sono i vivi? Quelli che credono. Cosa dice ai morti l’Apostolo? Svegliati, tu che dormi. Ma dirai: parla di sonno, non di morte. Ascolta come prosegue: Svegliati tu che dormi e risorgi dalla morte. E come se il morto chiedesse: e dove andrò? l’Apostolo continua: E Cristo ti illuminerà (Ef 5, 14). Quando, credendo in Cristo, sei da lui illuminato, tu passi dalla morte alla vita: permani nella vita alla quale sei passato e non incorrerai nel giudizio.

 

Così spiega il Signore, aggiungendo: In verità, in verità vi dico. Affinché non intendessimo le sue parole: è passato dalla morte alla vita, come riferite alla risurrezione futura, e volendo mostrare come nel credente si compia questo passaggio e che questo passaggio dalla morte alla vita è il passaggio dall’infedeltà alla fede, dall’iniquità alla giustizia, dalla superbia all’umiltà, dall’odio alla carità, egli con solennità dichiara: In verità, in verità vi dico: viene l’ora, ed è questa ... Poteva essere più esplicito? In questo modo ci ha già chiarito il suo pensiero, che cioè si compie adesso il passaggio al quale Cristo ci esorta. Viene l’ora. Quale ora?... ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l’avranno ascoltata vivranno (Gv 5, 25). Si è già parlato di questi morti. Credete voi, miei fratelli, che in mezzo a questa folla che mi ascolta non ci siano di questi morti? Quelli che credono e operano in conformità alla vera fede, sono vivi e non morti; ma quelli che non credono, o credono alla maniera dei demoni, che cioè tremano di paura e vivono male (cf. Gc 2, 19), che confessano il Figlio di Dio e sono privi di carità, sono piuttosto da considerarsi morti. E certamente l’ora di cui parla il Signore è tuttora presente: non è una delle dodici ore del giorno. Da quando egli parlò fino al tempo presente, e sino alla fine del mondo, quest’ora è in corso. È l’ora di cui parla Giovanni nella sua epistola: Figlioli, è iniziata l’ultima ora (1Gv 2, 18). È questa l’ora, è adesso. Chi vive, viva; chi era morto, risorga; ascolti, chi giaceva morto, la voce del Figlio di Dio, si alzi e viva. Il Signore lanciò un grido verso il sepolcro di Lazzaro e colui che era morto da quattro giorni, risuscitò. Colui che già si decomponeva, uscì fuori all’aria libera; era sepolto sotto una grossa pietra, la voce del Signore penetrò la durezza della pietra; ma il tuo cuore è così duro che quella voce divina non è ancora riuscita a spezzarlo. Risorgi nel tuo cuore, esci fuori dal tuo sepolcro. Perché quando stavi morto nel tuo cuore, giacevi come in un sepolcro ed eri come schiacciato sotto il peso della cattiva abitudine. Risorgi e vieni fuori! Che significa: Risorgi e vieni fuori? Credi e confessa. Colui che crede risorge e colui che confessa esce fuori. Perché diciamo che colui che confessa viene fuori? Perché prima della professione di fede, era occulto; ma dopo la professione di fede, viene fuori dalle tenebre alla luce.

 

Viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno. Come potranno vivere? In virtù della vita stessa. Di quale vita? Di Cristo? Come si dimostra che vivranno in virtù della vita che è Cristo? Io sono - egli dice - la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). Vuoi tu camminare? Io sono la via. Vuoi evitare l’errore? Io sono la verità. Vuoi sfuggire alla morte? Io sono la vita. Questo ti dice il tuo Salvatore: Non hai dove andare se non vieni a me e non c’è via per cui tu possa camminare se io non sono la tua via.

 

 

 

 

 

DAI "DISCORSI"DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO  (Serm. 150, 8.9-8.10)

 

Cristo è la beatitudine e la via alla beatitudine

Tu desideravi la fortezza; di’: Signore, mia forza (Sal 45, 2). Desideravi la vita felice; di’: Beato l’uomo che tu istruisci, Signore (Sal 93, 12). Beato infatti il popolo la cui felicità non è il piacere carnale, non è la virtù propria, ma: Beato il popolo il cui Dio è il Signore (Sal 143, 15). Questa è la patria della beatitudine che tutti vogliono; ma non tutti la desiderano con rettitudine. Noi, invece, non intendiamo aprirci, per così dire, con artificio, nel nostro cuore, una via verso tale patria e approntare sentieri che portano all’errore; di lì viene anche la via.

 

Dunque l’uomo felice vuole altro che non essere ingannato, non morire, non soffrire? E che desidera? Avere più fame e mangiare di più? Perché, se è meglio non aver fame? Nessuno è felice se non chi vive in eterno senza alcun timore, senza alcun inganno. Infatti l’anima detesta d’essere ingannata. […] Perciò, in quella patria, ci sarà la verità, non si troverà mai l’inganno e l’errore. Ma ci sarà la verità e non ci sarà il pianto; poiché ci sarà e l’autentico ridere e il godere della verità, perché ci sarà la vita. Infatti se ci sarà dolore, non ci sarà la vita; poiché neppure va chiamata vita un perpetuo, inestinguibile tormento […] ma chiamò vita quella che è felice ed eterna. In conseguenza, quel ricco domandava al Signore: Che devo fare di buono per ottenere la vita eterna? Ma il Signore chiamava veramente vita eterna solo la vita felice; poiché gli empi avranno la vita eterna, ma non la vita felice, in quanto piena di tormenti. Così quello disse: Signore, che devo fare di buono per ottenere la vita eterna? Il Signore gli parlò dei comandamenti. Quello, di rimando: Ho osservato tutte queste cose. Ma [il Signore], nel parlare dei comandamenti, come si espresse? Se vuoi giungere alla vita (Mt 19, 16-17). Non gli disse: "felice", perché una vita piena di miserie non va chiamata vita. Non gli aggiunse: "eterna", perché neppure va chiamata vita quando c’è il timore della morte. Quindi, quanto alla vita, che è degna di questo nome, così che si chiami vita, non si tratta che della vita felice; e non è felice se non è eterna. Questa vogliono tutti, questa vogliamo tutti: la verità e la vita; ma per dove si giunge ad un possesso di così grande valore, ad una così grande felicità? I filosofi si costruirono vie di errore; alcuni dissero: Per di qua; altri: Non per di qua ma per di là. Si tenne nascosta a loro la via, perché Dio resiste ai superbi. Sarebbe nascosta anche a noi se non fosse venuta a noi. Per questo il Signore: Io - disse - sono la via. Pigro viandante, non volevi giungere alla via; è venuta a te la via. Cercavi per dove andare: Io sono la via. Cercavi dove giungere: Io sono la verità e la vita (Gv 14, 6). Non finirai nell’errore se andrai a lui per mezzo di lui. Questa è la dottrina dei Cristiani.

 

 

DALLE "ESPOSIZIONI SUI SALMI" DI SANT’AGOSTINO VESCOVO (En. in Ps. 62, 6)

 

La promessa della resurrezione della carne

Come alla nostra anima è promessa la beatitudine, così alla carne nostra è promessa la resurrezione. Sì, la resurrezione della carne ci è stata promessa. Ascoltate e imparate; e tenete a mente quale sia la speranza dei cristiani e per qual motivo noi siamo diventati cristiani. Non siamo infatti cristiani per cercare la felicità terrena che molti possiedono, anche i delinquenti e gli scellerati. Per un’altra felicità noi siamo cristiani: per una felicità che otterremo quando sarà finita completamente la vicenda di questo mondo. Ebbene, sì, ci è promessa la resurrezione della carne: e il significato di tale resurrezione promessaci è che questa carne che ora noi portiamo alla fine risorgerà. Non vi sembri incredibile. Se Dio ci ha creati, quando non eravamo, non potrà ricomporre una carne che già esisteva? Non vi sembri dunque incredibile, anche se vedete imputridire i morti, anche se li vedete ridotti a polvere e cenere; anche se un cadavere viene bruciato, oppure se i cani lo dilaniano, non per questo dovrete credere che esso non risorgerà. Tutti i corpi che, per essersi o disgregati o marciti, sono divenuti minutissime particelle, per Dio sono integri. Ritornano infatti in quegli elementi del mondo donde dapprima erano venuti quando l’uomo venne creato. Noi non vediamo tali elementi primordiali; Dio tuttavia, nella maniera che egli conosce, li rintraccerà, così come, prima che noi fossimo, ci ha formati conforme alla sua sapienza. Orbene, la resurrezione della carne che ci è promessa è tale che, pur risorgendo con la stessa carne che ora portiamo, la carne però non avrà più quella corruttibilità che ora possiede. Ora infatti, fragili e corruttibili come siamo, se non mangiassimo ci sentiremmo stanchi e avremmo fame; se non bevessimo, verremmo meno e avremmo sete. Se rimaniamo svegli per molto tempo, ci stanchiamo e dobbiamo dormire; e quando siamo stanchi di dormire ci svegliamo. Se mangiamo e beviamo troppo, anche se mangiamo e beviamo per ristorarci, questo esagerato protrarsi della refezione diviene causa di debolezza. Se stiamo molto tempo in piedi, ci stanchiamo e ci dobbiamo mettere seduti; ma anche di stare troppo a lungo seduti ci stanchiamo e dobbiamo alzarci. Osservate inoltre come per la nostra carne non si dia alcuna stabilità. L’infanzia se ne vola passando nella fanciullezza; tu cerchi l’infanzia ed essa non c’è più, perché già al suo posto c’è la fanciullezza. Ma questa in un attimo vola nell’adolescenza; cerchi la fanciullezza e non la trovi. L’adolescente diventa giovane; cerchi l’adolescente e non c’è più. Il giovane diventa vecchio; cerchi il giovane e non c’è. Il vecchio muore: cerchi il vecchio e non lo trovi più. La nostra vita, nelle sue varie età, non si arresta; e dovunque c’è fatica, dovunque stanchezza, dovunque deterioramento. Mirando però alla speranza della resurrezione che Dio ci ha promessa, in tutte queste fasi del nostro decadere noi abbiamo sete di quella incorruttibilità; e così la nostra carne ha sete di Dio in molte maniere. In molti modi ci si stanca, e in molti modi si ha sete di quella incorruttibilità che non conosce stanchezza.

 

 

 

 

DAI "DISCORSI"DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO  (Serm. 211/A)

 

La promessa della resurrezione della carne

Il Signore nostro Gesù Cristo con la sua passione ha dato un significato alle fatiche e alle tribolazioni della vita del tempo presente; con la sua risurrezione ci ha garantito la vita eterna e beata del tempo futuro. Sopportiamo pertanto gli inconvenienti della vita presente e speriamo nei beni futuri. In questo periodo [di Quaresima] viviamo i nostri giorni - che simboleggiano le fatiche del tempo presente - nei digiuni e nell’osservanza quaresimale non risparmiando la nostra vita; il periodo che verrà poi simboleggia il tempo futuro. Ancora non ci siamo; infatti ho detto "simboleggia" e non "sarà". Fino alla Passione dunque è tempo di penitenza, dopo la risurrezione sarà tempo di lode.

 

In quella vita eterna infatti, nel regno di Dio, la nostra occupazione sarà questa: vedere, amare, lodare. Che cosa faremo lì? Delle azioni che si compiono in questo mondo alcune sono imposte dalla necessità, altre sono delittuose. Quali sono le azioni imposte dalla necessità? Seminare, arare, piantare vigneti, navigare, macinare, cuocere, tessere e altre azioni simili, ugualmente necessarie. Ma anche le nostre opere buone rientrano tra le azioni necessarie. Spezzare il pane all’affamato: tu non lo fai per necessità, ma ne ha bisogno colui al quale spezzi il pane. Accogliere il viandante, vestire l’ignudo, riscattare il prigioniero, visitare l’ammalato, consigliare il dubbioso, liberare l’oppresso: tutte queste azioni rientrano nell’elemosina. Sono azioni necessarie. Quali sono le azioni delittuose? Rubare, depredare, ubriacarsi, giocare a dadi, esigere interessi: ma chi può contare tutti i possibili delitti? Nel regno celeste invece non ci saranno azioni necessarie da compiere, perché non ci sarà alcuna miseria, e non ci saranno azioni delittuose perché nessuno darà fastidio all’altro. Dove non c’è miseria non ci sono azioni da compiere per venire incontro alla necessità; dove non c’è cattiveria non ci sono azioni delittuose. Che cosa dovrai fare infatti per poter mangiare, quando nessuno ha fame? Come potrai compiere le stesse opere di misericordia? A chi spezzerai il pane se nessuno ne avrà bisogno? Quale malato visiterai se lì la salute non verrà mai meno? Quale morto seppellirai se l’immortalità non finirà mai? Verranno meno dunque le azioni fatte per necessità. Per quanto riguarda invece le azioni delittuose, se le avrai fatte in questa vita non perverrai alla vita eterna. Ditemi allora: che cosa faremo lì? Dormiremo? In questa vita infatti quando non si sa che cosa fare si va a letto. Ma lì non ci sarà sonno, perché non ci sarà alcuna stanchezza. Non faremo azioni imposte dalla necessità. Non dormiremo. Ma che cosa faremo? Nessuno abbia timore di annoiarsi, nessuno creda che anche lì ci sarà noia. Forse ora ti annoi a star bene? Ogni cosa in questa vita alla fine stanca; la salute però non stanca mai. Se la salute non ti stanca, ti stancherà l’immortalità? Che cosa faremo dunque? Canteremo Amen e Alleluia. Qui infatti facciamo certe cose, lì ne faremo altre. Non dico: di giorno e di notte, ma: nel giorno senza fine. Faremo ciò che ora fanno le potenze dei cieli, i serafini; senza stancarsi dicono: Santo, santo, santo il Signore Dio degli eserciti (Is 6, 3); lo dicono senza annoiarsi. Si stanca forse ora il pulsare delle tue vene? Finché vivi la tua vena pulsa; tu fai una cosa e facendola ti stanchi, ti riposi un poco e ritorni alla tua opera, ma la tua vena non si stanca. Come la tua vena non si stanca nel lavorare per la tua salute, così la tua lingua e il tuo cuore non si stancheranno nella lode di Dio, quando sarai immortale. Ascoltate una testimonianza sulla occupazione che avrete. Ma che significa "sull’occupazione che avrete"? Questa occupazione sarà un riposo. In che cosa consisterà questa occupazione riposante? Nel lodare il Signore. Ascoltate dunque la testimonianza: beati coloro che abitano nella tua casa. Il Salmo dice così: beati coloro che abitano nella tua casa. E come se chiedessimo: Perché beati? Avranno molto oro? Ma coloro che hanno molto oro sono molto infelici. Beati costoro che abitano nella tua casa. Perché dunque beati? Questa è la loro beatitudine: Ti loderanno nei secoli eterni (Sal 84, 5).

 

 

 

 

 

DALLE "ESPOSIZIONI SUI SALMI" DI SANT’AGOSTINO VESCOVO (En. in Ps. 41, 10-12)

 

 

 

 

Ascolta questo concetto. Non sperare in te, ma nel tuo Dio. Infatti, se speri in te, la tua anima si preoccupa per te; perché non è ancora sicura di te stesso. Ebbene poiché l’anima mia si è turbata per me, che mi resta se non l’umiltà, in modo che l’anima non presuma troppo di se stessa? Che le resta, se non che si faccia piccolissima, che si umili, se vuol meritare di essere esaltata? Non attribuisca nessun merito a se stessa, in modo che sia attribuito tutto a Colui dal quale è vantaggioso tutto attenderci.

Tu eri dentro di me, e io fuori.

 

E là ti cercavo.

 

Sant'Agostino

 

C’è una favola che Agostino ha inventato quando era giovane per descrivere gli ostacoli che aveva incontrato nella sua ricerca della verità. Questa favola racconta di Filocalia (amore della bellezza) e di Filosofia (amore della sapienza) che Agostino immagina come due sorelle che volano nel cielo alla ricerca dell’oggetto del loro desiderio. Filocalia resta però intrappolata nel viscum libidinis, cioè rimane intrappolata nella bellezza delle cose sensibili, che le impediscono di continuare a volare. Filocalia è addirittura deformata dalle cose a cui si è incollata. Solo Filosofia riuscirà a liberarla e a portarla al di là di un’attrazione superficiale delle cose del mondo.

 

 

Chissà qual è il nostro vero nome! Chissà cosa cerchiamo veramente. Forse siamo rimasti anche noi intrappolati nella nostra ricerca, forse non riusciamo più a muoverci e abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a riprendere il nostro volo.

 

 

Questo passo del Vangelo di Giovanni ci parla di persone che cercano. Si mettono in cammino perché c’è qualcosa che le attrae nella persona di Gesù. Non sanno ancora con precisione di cosa si tratti, ma intanto si sono messe in cammino.

Tu abiti nella nostra vita 

 

Sant'Agostino

 

Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d'ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'amplesso dell'uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov'è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio ( 10, 6, 8).

 

La felicità

Come ti cerco, dunque Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te (10, 20, 29).

 

La vera felicità

Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che si confessa a te, lontano il pensiero che qualsiasi godimento possa rendermi felice. C'è un godimento che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore, e il loro godimento sei tu stesso. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te, e fuori di questa non ve n'è altra. Chi crede ve ne sia un'altra, persegue un altro godimento, non il vero. Tuttavia da una certa immagine di godimento la loro volontà non si distoglie (10, 22, 32).

 

Dio, di te mi ricordo...

Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla tua ricerca, Signore; e fuori di questa non ti ho trovato. Nulla di te ho trovato, dal giorno in cui ti conobbi, che non sia stato un ricordo; perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona; e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. E' questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà (10, 24, 35).

 

Tu abiti nella mia memoria

Ma dove dimori nella mia memoria, Signore, dove vi dimori? Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei edificato? Hai concesso alla mia memoria l'onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando. Cercandoti col ricordo, ho superato le zone della mia memoria che possiedono anche le bestie, poiché non ti trovavo là, fra immagini di cose corporee. Passai alle zone ove ho depositato i sentimenti del mio spirito, ma neppure li ti trovai. Entrai nella sede che il mio spirito stesso possiede nella mia memoria, perché lo spirito ricorda anche se medesimo, ma neppure là tu eri, poiché, come non sei immagine corporea né sentimento di spirito vivo, quale gioia, tristezza, desiderio, timore, ricordo, oblio e ogni altro, così non sei neppure lo spirito stesso, essendo il Signore e Dio dello spirito, e mutandosi tutte queste cose, mentre tu rimari immutabile al di sopra di tutte le cose. E ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti conobbi! Perché cercare in quale luogo vi abiti? come se colà vi fossero luoghi. Vi abiti certamente, poiché io ti ricordo dal giorno in cui ti conobbi, e ti trovo nella memoria ogni volta che mi ricordo di te (10, 25, 36).

 

Dove ti trovai?

Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v'è spazio dovunque: a allontaniamo, ci avviciniamo, e non v'è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma volere piuttosto ciò che da te ode (10, 26, 37).

 

Tardi ti amai...

Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace (10, 27, 38)

 

La vera vita

Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te. Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo pieno di te, sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere, contrastano le afflizioni, di cui dovrei gioire, e non so da quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. Ahimè, Signore, abbi pietà di me! Ahimè! Vedi che non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato: tu sei misericordioso, io sono misero. Non è, forse, la vita umana sulla terra una prova? Chi vorrebbe fastidi e difficoltà? Il tuo comando è di sopportarne il peso, non di amarli. Nessuno ama ciò che sopporta, anche se ama di sopportare; può godere di sopportare, tuttavia preferisce non avere nulla da sopportare.

 

Nelle avversità desidero il benessere, nel benessere temo le avversità. Esiste uno stato intermedio fra questi due, ove la vita umana non sia una prova? Esecrabili le prosperità del mondo, una e due volte esecrabili per il timore dell'avversità e la contaminazione della gioia. Esecrabili le avversità del mondo, una e due volte esecrabili per il desiderio della prosperità e l'asprezza dell'avversità medesima e il pericolo che spezzi la nostra sopportazione. La vita umana sulla terra non è dunque una prova ininterrotta? (10, 28, 39).

 

Da' ciò che comandi

Ogni mia speranza è posta nell'immensa grandezza della tua misericordia. Da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Ci comandi la continenza e qualcuno disse: "Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono". La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell'unità, che abbiamo lasciato disperdendoci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami. Comandi la continenza. Ebbene, da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi (10, 29, 40).

 

Fortificami, affinché io sia potente

Ricordati, Signore, che siamo polvere, e con la polvere hai creato l'uomo, e si era perduto e fu ritrovato. Neppure l'Apostolo trovò in sé il suo potere, essendo polvere anch'egli, ma il tuo soffio gli ispirò le parole che tanto amo, quando disse: Tutto posso in colui che mi fortifica. Fortificami, affinché io sia potente; da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Quest'uomo riconosce i doni ricevuti, e, se si gloria, si gloria nel Signore; da un altro udii chiedere questa grazia: "Toglimi la concupiscenza del ventre". Ne risulta, santo Dio mio, che è un dono tuo, se facciamo ciò che ordini di fare (10, 31, 45).

 

Liberami da ogni tentazione

Tu, Padre buono, mi insegnasti che "tutto è puro per i puri", ma fa "male un uomo a mangiare con scandalo degli altri"; che ogni tua creatura è buona, e non si deve "respingere nulla di ciò che si prende rendendo grazie"; che "non è l'alimento a raccomandarci a Dio"; che "nessuno ci deve giudicare dal cibo o dalla bevanda che prendiamo", e "chi mangia non deve disprezzare chi non mangia, come chi non mangia non deve giudicare chi mangia". Ora lo so, e ti siano rese grazie e lodi, Dio mio, mio maestro, per aver bussato alle mie orecchie e illuminato la mia intelligenza. Liberami da ogni tentazione. Io non temo l'impurità delle vivande, temo l'impurità del desiderio (10, 31, 46).

 

O luce!

O Luce, che vedeva Tobia quando, questi occhi chiusi, insegnava al figlio la via della vita e lo precedeva col piede della carità senza mai perdersi; che vedeva Isacco con i lumi della carne sommersi e velati dalla vecchiaia, quando meritò non già di benedire i figli riconoscendoli, ma di riconoscerli benedicendoli; che vedeva Giacobbe quando, privato anch'egli della vista dalla grande età, spinse i raggi del suo cuore illuminato sulle generazioni del popolo futuro prefigurate nei suoi figlioli, e impose sui nipoti avuti da Giuseppe le mani arcanamente incrociate, non come il loro padre cercava di correggerlo esternamente, ma come lui distingueva internamente. Questa è la Luce, è l'unica Luce, è un'unica cosa coloro che la vedono e l'amano.

 

Viceversa questa luce corporale di cui stavo parlando insaporisce la vita ai ciechi amanti del secolo con una dolcezza suadente, ma pericolosa. Quando invece hanno imparato a lodarti anche per essa, Dio creatore di tutto, l'attirano nel tuo inno anziché farsi catturare da lei nel loro sonno. Così vorrei essere. Resisto alle seduzioni degli occhi nel timore che i miei piedi, con cui procedo sulla tua via, rimangano impigliati, e sollevo verso di te i miei occhi invisibili, affinché tu strappi dal laccio i miei piedi, come fai continuamente, poiché vi si lasciano allacciare. Tu non cessi di strapparli di là, mentre io ad ogni passo son fermo nelle tagliole sparse dovunque, perché tu non dormirai né sonnecchierai, custode d'Israele (10, 34, 52).

 

Sii tu la nostra gloria

Ma noi, Signore, siamo, ecco, il tuo piccolo gregge. Tienici dunque, stendi le tue ali, e ci rifugeremo sotto di esse. Sii tu la nostra gloria. Ci si ami per te, e in noi sia temuta la tua parola (10, 36, 59).

 

Signore, rivelami il mio animo

Ma ecco che in te, Verità, vedo come le lodi che mi si tributano non debbano scuotermi per me stesso, ma per il bene del prossimo. Se io sia già da tanto, non lo so. Qui conosco me stesso meno di come conosco te. Ti scongiuro, Dio mio, di rivelarmi anche il mio animo, affinché possa confessare ai miei fratelli, da cui aspetto preghiere, le ferite che vi scoprirò. M'interrogherò di nuovo, con maggiore diligenza: se nelle lodi che mi vengono tributate è l'interesse del prossimo a scuotermi, perché mi scuote meno un biasimo ingiusto rivolto ad altri che a me? perché sono più sensibile al morso dell'offesa scagliata contro di me, che contro altri, e ugualmente a torto, davanti a me? Ignoro anche questo? Non rimane che una risposta: io m'inganno da solo e non rispetto la verità davanti a te nel mio cuore e con la mia lingua. Allontana da me una simile follia, Signore, affinché la mia bocca non sia per me l'olio del peccatore per ungere il mio capo (10, 37,

 

O verità, vieni!

O Verità, quando non mi accompagnasti nel cammino, insegnandomi le cose da evitare e quelle da cercare, mentre ti esponevo per quanto potevo le mie modeste vedute e ti chiedevo consiglio? Percorsi con i sensi fin dove potei il mondo fuori di me, esaminai la vita mia, del mio corpo, e gli stessi miei sensi. Di lì entrai nei recessi della mia memoria, vastità molteplici colme in modi mirabili d'innumerevoli dovizie, li considerai sbigottito, né avrei potuto distinguervi nulla senza il tuo aiuto; e trovai che nessuna di queste cose eri tu. E neppure questa scoperta fu mia. Perlustrai ogni cosa, tentai di distinguerle, di valutarle ognuna secondo il proprio valore, quelle che ricevevo trasmesse dai sensi e interrogavo, come quelle che percepivo essendo fuse con me stesso. Investigai e classificai gli organi stessi che me le trasmettevano: infine entrai nei vasti depositi della memoria e rivoltai a lungo alcuni oggetti, lasciai altri sepolti e altri portai ana luce. Ma nemmeno la mia persona, impegnata in questo lavorio, o meglio, la stessa mia forza con cui lavoravo non erano te. Tu sei la luce permanente, che consultavo sull'esistenza, la natura, il valore di tutte le cose. Udivo i tuoi insegnamenti e i tuoi comandamenti. Spesso faccio questo, è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi della stretta delle occupazioni. Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te, non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te. Soltanto 1~ si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di mio si stacca da te. Talvolta m'introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita. Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell'abitudine. Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice ( 10, 40, 65).

 

Tu sei la Verità

Perciò considerai le mie debolezze peccaminose sotto le tre forme della concupiscenza e invocai per la mia salvezza l'intervento della tua destra. Vidi, pur col cuore ferito, il tuo splendore e, abbagliato, dissi: "Chi può giungervi?". Fui proiettato lontano dalla vista dei tuoi occhi. Tu sei la verità che regna su tutto, io nella mia avidità non volevo perderti, ma volevo possedere insieme a te la menzogna, come nessuno vuole raccontare il falso al punto d'ignorare egli stesso quale sia il vero. Così ti persi, poiché tu non accetti di essere posseduto insieme alla menzogna (10, 41, 66).

 

Quanto amasti noi!

Quanto amasti noi, Padre buono, che non risparmiasti il tuo unico Figlio, consegnandolo agli empi per noi! Quanto amasti noi, per i quali egli, non giudicando una usurpazione la sua uguaglianza con te, si fece suddito fino a morire in croce, lui, l'unico a essere libero fra i morti, avendo il potere di deporre la sua vita e avendo il potere di riprenderla, vittorioso e vittima per noi al tuo cospetto, e vittorioso in quanto vittima; sacerdote e sacrificio per noi al tuo cospetto, e sacerdote in quanto sacrificio; che ci rese, da servi, tuoi figli nascendo da te e servendo a noi! A ragione è salda la mia speranza in lui che guarirai tutte le mie debolezze grazie a Chi siede alla tua destra e intercede per noi presso di te. Senza di lui dispererei. Le mie debolezze sono molte e grandi, sono molte, e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che il tuo Verbo fosse lontano dal contatto dell'uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e non avesse abitato fra noi (10, 43, 69).

 

Signore, che io viva per te!

Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu me lo impedisti, confortandomi con queste parole: "Cristo morì per tutti affinché i viventi non vivano più per se stessi, ma per Chi morì per loro". Ecco, Signore, lancio in te la mia pena, per vivere; contemplerò le meraviglie della tua legge. Tu sai la mia inesperienza e la mia infermità, ammaestrami e guariscimi. Il tuo unigenito, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza, mi riscattò col suo sangue. Gli orgogliosi non mi calunnino, se penso al mio riscatto, lo mangio, lo bevo e lo distribuisco; se, povero, desidero saziarmi di lui insieme a quanti se ne nutrono e saziano. Loderanno il Signore coloro che lo cercano (10, 43, 70).

 

Confesso le mie miserie e le tue misericordie

Ignori forse, Signore, per essere tua l'eternità, ciò che ti dico, o vedi per il tempo ciò che avviene nel tempo? Perché dunque ti faccio un racconto particolareggiato di tanti avvenimenti? Non certo perché tu li apprenda da me. Piuttosto eccito in me e in chi li leggerà l'amore verso la tua persona. Tutti dovremo dire: "E' grande il Signore e ben degno di lode". Già lo dissi e lo dirò di nuovo: per amore del tuo amore m'induco a tanto. Noi preghiamo, certo; però la Verità dice: "Il Padre vostro sa cosa vi occorre prima ancora che glielo domandiate". Confessandoti dunque le nostre miserie e le tue misericordie su di noi, noi manifestiamo i nostri sentimenti verso di te, affinché tu possa completare la nostra liberazione già da te iniziata: affinché noi cessiamo di essere infelici in noi e ci rallegriamo in te che ci chiamasti a essere poveri nello spirito, e miti e piangenti, e affamati e assetati di giustizia, e misericordiosi e mondi in cuore, e pacifici. Ecco dunque ch'io ti narrai molti fatti, come potei e volli. Il primo a volere che mi confessassi a te, Signore Dio mio, poiché sei buono, poiché la tua misericordia è eterna, fosti tu (11, 1, 1).

 

Dammi ciò che amo!

Signore Dio mio, presta ascolto alla mia preghiera: la tua misericordia esaudisca il mio desiderio, che non arde per me solo, ma vuole anche servire alla mia carità per i fratelli. Tu vedi nel mio cuore che è così. Lascia che ti offra in sacrificio il servizio del mio pensiero e della mia parola, e prestami la materia della mia offerta a te. Sono misero e povero, tu ricco per tutti coloro che ti invocano, tu senza affanni, che ti affanni per noi. Recidi tutt'intorno alle mie labbra, dentro e fuori, ogni temerità e ogni menzogna. Siano le tue Scritture le mie caste delizie; ch'io non m'inganni su di esse, né inganni gli altri con esse. Signore, guarda e abbi pietà. Signore Dio mio, luce dei ciechi e virtù dei deboli, e tosto luce dei veggenti e virtù dei forti; volgi la tua attenzione sulla mia anima e ascolta chi grida dall'abisso. Se non fossero presenti anche nell'abisso le tue orecchie, dove ci volgeremo? a che grideremo?

 

Tuo è il giorno e tua la notte, al tuo cenno trasvolano gli istanti. Concedimene un tratto per le mie meditazioni sui segreti della tua legge, non chiuderla a chi bussa. Non senza uno scopo, certo, facesti scrivere tante pagine di fitto mistero; né mancano, quelle foreste, dei loro cervi, che vi si rifugiano e ristorano, vi spaziano e pascolano, vi si adagiano e ruminano. O Signore, compi la tua opera in me, rivelandomele. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce una voluttà superiore a tutte le altre. Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. Ti confesserò quanto scoprirò nei tuoi libri. Oh, udire la voce della tua lode, abbeverarsi di te, contemplare le meraviglie della tua legge fin dall'inizio, quando creasti il cielo e la terra, e fino al regno eterno con te nella tua santa città (11, 2, 3).

 

Signore, apri i recessi delle tue parole

Signore, abbi pietà di me ed esaudisci il mio desiderio. Non credo sia desiderio di cose terrene, di oro e argento e pietre preziose, o di vesti fastose, o di onori e potere, o di piaceri carnali, o di beni necessari al corpo durante il nostro pellegrinaggio in questa vita. Tutte queste cose ci vengono date in aggiunta, se cerchiamo il tuo regno e la tua giustizia. Vedi, Dio mio, ove s'ispira il mio desiderio. Gli empi mi hanno descritto le loro voluttà, difformi però dalla tua legge, Signore, e a questa s'ispira il mio desiderio. Vedi, Padre, guarda e vedi e approva, e piaccia agli occhi della tua misericordia che io trovi favore presso di te, affinché si aprano i recessi delle tue parole, a cui busso. Ti scongiuro per il Signore nostro Gesù Cristo, figlio tuo, eroe della tua destra, figlio dell'uomo, che stabilisti per te mediatore fra te e noi, per mezzo del quale ci cercasti mentre non ti cercavamo, e ci cercasti affinché ti cercassimo; il tuo Verbo, con cui creasti l'universo, e in esso me pure; il tuo Unigenito, per mezzo del quale chiamasti all'adozione il popolo dei credenti, e fra esso me pure. Per lui ti scongiuro, che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te; in cui sono ascosi tutti i tesori della sapienza e della scienza. Questi tesori appunto cerco nei tuoi libri. Mosè ne scrisse, egli stesso lo afferma, lo afferma la Verità (11, 2, 4).

 

Dammi ciò che amo!

Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi. Lascia che vi penetri e s'illuminino al lume della tua misericordia, Signore. Chi interpellare su questi argomenti, a chi confessare la mia ignoranza più vantaggiosamente che a te, cui non è sgradito il mio studio ardente, impetuoso delle tue Scritture? Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Dammi, o Padre, che davvero sai dare ai tuoi figli doni buoni; dammi, poiché mi sono proposto di conoscere e mi attende un lavoro faticos, finché tu mi schiuda la porta. Per Cristo ti supplico, in nome di quel santo dei santi nessuno mi disturbi. Anch'io ho creduto, perciò anche parlo. Questa è la mia speranza, per questa vivo: di contemplare le delizie del Signore (11, 22, 28).

 

Nel piccolo il grande

O Dio, concedi agli uomini di scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà (11, 23, 29).

 

Dio mio, non mento!

Ecco, Dio mio, davanti a te che non mento: quale la mia parola, tale il mio cuore. Tu, Signore Dio mio, illuminando la mia lucerna illuminerai le mie tenebre (11, 25, 32).

 

Insisti, spirito mio

Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto, egli ci fece, e non noi. Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità (11, 27, 34).

 

Signore, padre mio eterno!

Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l'Uno. Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso, non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste. Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue delizie, che non vengono né passano. Ora i miei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l'ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te (11, 29, 39).

 

Signore, quale abisso il tuo segreto!

Signore Dio mio, quale abisso il tuo profondo segreto, e come me ne hanno gettato lontano le conseguenze dei miei peccati! Guarisci i miei occhi, e parteciperò alla gioia della tua luce. Certo, se esistesse uno spirito di scienza e prescienza così potente da conoscere tutto il passato e il futuro come io una canzone delle più conosciute, susciterebbe, questo spirito, meraviglia e quasi sacro terrore, poiché nulla gli sfuggirebbe sia delle età già concluse, sia di quelle che rimangono: come a me che canto non sfugge sia la parte della canzone già passata dopo l'esordio, sia quella che resta fino alla fine.

 

 

Lontana invece l'idea che, creatore dell'universo, creatore delle anime e dei corpi, tu così conosci tutto il futuro e il passato! Tu assai, assai più mirabilmente e assai più misteriosamente. A chi canta o ascolta una canzone conosciuta, l'attesa delle note future e il ricordo delle passate modifica il sentimento e tende il senso. Nulla di simile accade a te, immutabilmente eterno, ossia davvero eterno creatore delle menti. Come conoscesti in principio il cielo e la terra senza modificazione della tua conoscenza, così creasti in principio il cielo e la terra senza tensione della tua attività. Chi lo capisce ti confessi, e anche chi non lo capisce ti confessi. Oh, quanto sei elevato! Eppure quanti si abbassano in cuore sono la tua casa. Tu infatti sollevi gli abbattuti, e non cadono quanti hanno in te la loro elevatezza (11, 31, 41).

Nulla si può fare senza di Lui 

 

Sant'Agostino

 

Non dice: senza di me potete far poco, ma dice: "non potete far nulla". Non poco o molto, ma nulla si può fare senza di lui.

 

 Gesù ha detto che egli è la vite, i suoi discepoli i tralci e il Padre l'agricoltore: su questo ci siamo già intrattenuti, come abbiamo potuto. In questa lettura, continuando a parlare di sé come vite e dei suoi tralci, cioè dei discepoli, il Signore dice: Rimanete in me e io rimarrò in voi (Gv 15, 4). Essi però sono in lui non allo stesso modo in cui egli è in loro. L'una e l'altra presenza non giova a lui, ma a loro. Sì, perché i tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Così, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite.

 

[Chi non è in Cristo, non è cristiano.]

 

2. Il Signore prosegue: Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me (Gv 15, 4). Questo grande elogio della grazia, o miei fratelli, istruisce gli umili, chiude la bocca ai superbi. Replichino ora, se ne hanno il coraggio, coloro che ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf. Rm 10, 3). Replichino i presuntuosi e quanti ritengono di non aver bisogno di Dio per compiere le opere buone. Non si oppongono forse a questa verità, da uomini corrotti di mente come sono, riprovati circa la fede (cf. 2 Tim 3, 8), coloro che rispondendo a sproposito dicono: Lo dobbiamo a Dio se siamo uomini, ma lo dobbiamo a noi stessi se siamo giusti? Che dite, o illusi, voi che non siete gli assertori ma i demolitori del libero arbitrio, che, per una ridicola presunzione, dall'alto del vostro orgoglio lo precipitate nell'abisso più profondo? Voi andate dicendo che l'uomo può compiere la giustizia da se stesso: questa è la vetta del vostro orgoglio. Se non che la Verità vi smentisce, dicendo: Il tralcio non può portar frutto da se stesso, ma solo se resta nella vite. Vi arrampicate sui dirupi senza avere dove fissare il piede, e vi gonfiate con parole vuote. Queste sono ciance della vostra presunzione. Ma ascoltate ciò che vi attende e inorridite, se vi rimane un briciolo di senno. Chi si illude di poter da sé portare frutto, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo, non è cristiano. Ecco l'abisso in cui siete precipitati.

 

3. Ma con attenzione ancora maggiore considerate ciò che aggiunge e afferma la Verità: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l'agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio. Siccome però senza la grazia è impossibile la vita, in potere del libero arbitrio non rimane che la morte. Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Gv 15, 6). I tralci della vite infatti tanto sono preziosi se restano uniti alla vite, altrettanto sono spregevoli se vengono recisi. Come il Signore fa rilevare per bocca del profeta Ezechiele, i tralci recisi dalla vite non possono essere né utili all'agricoltore, né usati dal falegname in alcuna opera (cf. Ez 15, 5). Il tralcio deve scegliere tra una cosa e l'altra: o la vite o il fuoco: se non rimane unito alla vite sarà gettato nel fuoco. Quindi, se non vuol essere gettato nel fuoco, deve rimanere unito alla vite.

 

 

4. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Gv 15, 7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l'avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole. Di sicuro fa parte delle sue parole l'orazione che egli ci ha insegnato e nella quale diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6, 9). Non allontaniamoci, nelle nostre richieste, dalle parole e dai sentimenti di questa orazione, e qualunque cosa chiederemo egli ce la concederà. Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Sal 102, 18). Molti, infatti, li conservano nella memoria per disprezzarli, per deriderli e combatterli. Non si può dire che dimorano le parole di Cristo in costoro, che sono, sì, in contatto con esse, ma senza aderirvi. Esse, perciò, non recheranno loro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di loro. E poiché quelle parole sono in loro, ma essi non le custodiscono, le posseggono soltanto per esserne giudicati e condannati.

 

 

Coltivare la vita spirituale

 

Agostino ha parlato a lungo di questo argomento e in particolare delle relazioni tra contemplazione ed azione. Non poteva essere diversamente: era un uomo immerso nell'azione, ma che portava nel cuore il desiderio bruciante della contemplazione. Nella vita aveva raggiunto, anche se non senza profonde tensioni 1, una sintesi tra l'una e l'altra; altrettanto fece nella dottrina. L'espressione più efficacemente riassuntiva è un testo della Città di Dio, dove l'opposizione tra vita contemplativa e apostolato viene risolta attraverso l'amore della verità e le esigenze dell'amore con la mediazione del godimento della verità. Eccolo con le sue stesse parole: " L'amore della verità cerca la quiete della contemplazione, l'esigenza dell'amore accetta le occupazioni dell'apostolato. Se nessuno c'impone questo fardello, dobbiamo attendere alla ricerca e all'acquisto della verità; ma se ci è imposto, dobbiamo accettarlo per dovere della carità. Però, neppure in questo caso bisogna abbandonare il godimento della verità, perché non avvenga che, sottrattaci questa dolcezza, si resti oppressi da quella esigenza " 2. Mi sembra di vedere in queste parole, scrivevo altrove, tre grandi principi, che si potrebbero enunciare così: il primato della vita contemplativa; la necessità di accettare la vita attiva, cioè il servizio della Chiesa, quando il bisogno lo richieda; l'obbligo di conservare, anche nelle fatiche della vita attiva, il gusto degli esercizi propri della vita contemplativa 3.

 

Dei tre principi, a noi qui interessa soprattutto il primo. Mi fermerò su di esso.

 

1) Primato della contemplazione

 

Agostino ne parla spesso e con profonda convinzione. In particolare a proposito di Lia e Rachele, amate ambedue da Giacobbe, ma la prima in grazia della seconda 4; di Marta e Maria, le due sorelle di Lazzaro, che rappresentano due generi di vita, attivo e contemplativo, ambedue buoni e lodevoli, ma il secondo migliore del primo 5; di Pietro e Giovanni, dei quali uno simboleggia la vita presente, l'altro la vita futura 6. Ecco alcuni testi. " Rachele rappresenta la speranza della contemplazione eterna di Dio, speranza che già racchiude in sé un'intelligenza certa e dilettevole della verità... Nessuno dunque, una volta liberato dalla grazia della remissione dei suoi peccati, si volge alle opere della giustizia se non per giungere alla quiete della contemplazione della parola che ci svela il Principio, cioè Dio: si ama quindi il servizio per amore di Rachele, non di Lia. Chi infatti potrebbe amare il peso di questo servizio e le inquietudini che esso comporta, chi potrebbe cioè amare quella vita per se stessa? ". Per questo " moltissimi, di acuta intelligenza, anelano allo studio e, benché capaci di governare, evitano tuttavia ogni attività a motivo delle sue preoccupazioni che provocano scompiglio, e si dedicano con tutto l'animo alla ricerca della verità " 7.

 

" (Le opere di misericordia) nascono da un bisogno contingente, la dolcezza della contemplazione nasce dall'amore... Ti potrebbe essere sottratto il peso del bisogno, mentre è eterna la dolcezza della verità. A Maria non sarà tolto quanto ha scelto; non solo, ma le sarà aumentato in questa vita e reso perfetto nell'altra, giammai tolto " 8. E ancora: " Di che cosa si dilettava Maria? Di che cosa si nutriva, che cosa beveva il suo avidissimo cuore? La giustizia, la verità. Si dilettava della verità, accoglieva la verità: vi era protesa, vi anelava; famelica, se ne nutriva; assetata, ne beveva: ne era ristorata, e la verità non diminuiva... Il vero godimento del cuore umano è nella luce della verità, nella sovrabbondanza della sapienza: non c'è piacere che possa paragonarsi in qualche modo (tanto meno poi essere maggiore) a questo godimento del cuore umano, purché il cuore sia giusto, sia santo " 9.

 

Il discorso agostiniano sul primato della contemplazione si riduce: a) al primato dell'amore della verità, che è il primato dell'amore di Dio vivo e vero; b) all'eternità della vita contemplativa a differenza di quella attiva, che dura solo in questa vita, dove ci sono i miseri che hanno bisogno di misericordia; c) all'altezza dei doni che l'accompagnano: è infatti legata al dono della sapienza, che il più alto dei doni dello Spirito Santo, e alla beatitudine della pace, la più alta tra le beatitudini.

 

Inutile dire che il vescovo d'Ippona, pur difendendo il primato della vita contemplativa, insiste sull'accettazione degli impegni della vita attiva quando i bisogni della Chiesa lo richiedono, cioè sulle esigenze dell'amore. Per questo, con felice intuizione e profonda originalità, insegna, attraverso la parola e l'esempio, a mettere insieme le scelte del monachesimo (preghiera e lavoro 10) e quelle del sacerdozio 11. Ma non è questo l'argomento che dobbiamo trattare qui.

 

Fa parte invece del nostro argomento mettere in rilievo che tra l'amore della verità o vita contemplativa e le esigenze dell'amore, o vita attiva, media, come si è accennato, il godimento della verità che fa parte della prima essendo il presupposto di essa, cioè il desiderio costante e la brama insoddisfatta di dedicarsi alle opere proprie della vita contemplativa.

 

Su questo tema Agostino ha toni ed accenti di commovente pietà. L'uomo di Dio " cerchi la gioia del silenzio, predichi solo secondo il bisogno...; godiamo dei beni interiori, negli esteriori sia la necessità non la volontà a guidarci " 12.

 

Parlando al popolo delle fatiche dell'apostolato e delle dolcezze della contemplazione, dice riferendosi a quest'ultima: " Nessuno più di me amerebbe una vita così sicura e tranquilla: niente di meglio, niente di più dolce che scrutare il divino tesoro lontano dai rumori del mondo; è cosa dolce e buona. Invece predicare, rimproverare, correggere, edificare, attendere ai bisogni di ciascuno è un gran peso, un gran carico, una grande fatica. Chi non rifuggirà da questa fatica? Ma mi spaventa il Vangelo " 13. Davvero lo atterriva il Vangelo. Esso gli comandava di pascere il gregge di Cristo, il che é, sì, un compito di amore (" Pascere il gregge del Signore è un impegno di amore " 14) ma un amore che impedisce di soddisfare come si vorrebbe un altro amore. Per questo comando del Vangelo, Agostino era restato 15 e restava sulla breccia, ma le sue preferenze erano ben altre: " Chiamo Cristo a testimonio delle mie parole, che per quanto riguarda il mio comodo preferirei molto più lavorare con le mie mani ogni giorno ad ore determinate, come si fa nei monasteri bene governati, ed avere poi le altre ore libere per leggere e pregare o per studiare la Scrittura, anziché soffrire il tormento e le perplessità delle questioni altrui, nelle quali pur bisogna intervenire o per dirimerle col giudizio o per finirle col proprio intervento... Ma - continua rassegnato - siamo servi della Chiesa e servi soprattutto dei membri più deboli di essa " 16.

 

In questa brama insoddisfatta della vita contemplativa pura c'è la testimonianza più bella dell'animo profondamente mistico del vescovo d'Ippona. Vediamo quali siano, nel suo pensiero, i momenti salienti di questa vita quando giunga, per quanto può giungere quaggiù, al suo apice. Sono essenzialmente tre: un'ascesa, un'intuizione, una "ricaduta". Ad essi si aggiunge il discorso sui frutti della contemplazione, che sono molti e preziosi.

 

2) Ascesa verso la contemplazione

 

È lunga e faticosa, perché suppone le dure fatiche della purificazione, delle quali è il premio " altissimo e segretissimo " 17.

 

Ho detto purificazione: il termine è filosofico, ma il contenuto evangelico. Agostino la ricollega alla beatitudine dei puri di cuore, e sentenzia: " Tutta la nostra opera in questa vita consiste nel purificare l'occhio del cuore allo scopo di vedere Dio " 18. Essa comprende quella assidua opera ascetica che serve non a mortificare ma a riordinare l'amore. " Nessuno vi dice: Non amate. Non sia mai! sareste pigri, morti, detestabili, miseri se non amate. Amate, ma state attenti a che cosa amate " 19.

 

Riordinare dunque l'amore, riportando ordine e pace dentro di noi: a tale scopo sono necessarie le opere dell'ascetismo cristiano, nelle quali occorre insistere in particolare nei primi passi della vita spirituale. Soprattutto sono necessarie, per elevarsi progressivamente verso la contemplazione, quelle opere che Agostino chiama le "delizie" delle anime consacrate, e cioè: " la lettura - che vuol dire studio, meditazione, ascolto della voce di Dio, dialogo con Dio -, l'orazione, la salmodia, i buoni pensieri, l'impegno in opere di bene, l'attesa della vita futura, l'elevazione del cuore " 20. Programma ascetico-mistico nel quale si muovono appunto le persone che sono più in alto nella vita dello spirito.

 

Da queste opere nasce il silenzio, quel prezioso silenzio interiore, che è per Agostino - e non solo per lui - la condizione indispensabile per il colloquio con Dio e per la contemplazione innamorata della bellezza divina. " La nostra anima ha bisogno di solitudine. Se l'anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa: per vedere Dio è necessario il silenzio " 21. Per questo egli chiede appassionatamente a Dio questo silenzio: " Liberami, o mio Dio - scrive nella preghiera con cui chiude il suo De Trinitate -, liberami dalla moltitudine di parole di cui soffro nell'interno della mia anima... Infatti non tace il pensiero anche quando tace la lingua " 22.

 

Frutto di questo silenzio, non vuoto ma pieno, è quello di raccogliere tutte le potenze del nostro spirito in Dio. Ancora un testo agostiniano: " Che cosa facciamo quando ci sforziamo di essere sapienti se non raccogliere, per così dire, con la maggiore alacrità possibile, tutta la nostra anima in ciò che tocchiamo con la mente, e metterla lì e fissarcela stabilmente, di maniera che non goda più del suo bene privato con il quale si è avvinta alle cose transitorie, ma, spogliatasi di tutti gli affetti temporali e spaziali, afferri l'Essere ch'è uno ed è sempre lo stesso? " 23.

 

3) La contemplazione

 

Se l'ascesa è lunga e faticosa, la contemplazione invece, nel suo grado più alto, è rapida e folgorante, simile a un baleno, un battito del cuore, un'intuizione momentanea. Agostino la nota ogni volta che ne parla. " E pervenne (la mente) all'Essere stesso in un impeto di trepida visione " 24. " La cogliemmo un poco (la fonte della sapienza), con tutto l'impeto del cuore, e sospirammo " 25. " Allietati da una ineffabile dolcezza interiore, abbiamo potuto scorgere con l'occhio della mente qualcosa d'immutabile, anche se per un momento solo e di sfuggita " 26. " Una visione da non poterla sopportare lungamente " 27.

 

Ma pur nella sua momentaneità, essa è insieme " conoscenza e dilezione dell'Essere eterno e immutabile, Dio " 28. Una conoscenza non nozionale, dunque, ma sperimentale, cioè conoscenza amorosa e, pur nella sua oscurità, piena di luce. Nella contemplazione, quale Agostino la descrive, vi sono due elementi: la conoscenza e l'amore; importa infatti un "conoscere le cose divine" e insieme "toccarle" con la punta del cuore, un "raggiungerle", un "raccogliere" in esse tutte le proprie facoltà e il proprio essere.

 

Del resto è difficile esprimere a parole questa sublime esperienza. Anche chi l'ha avuta la esprime con difficoltà. Agostino non ha saputo dirci nulla di meglio, e ha detto stupendamente che talvolta il Signore lo introduceva in un sentimento interiore affatto sconosciuto, che se fosse cresciuto un poco sì da esser pieno, questa vita non sarebbe stata più questa vita 29. Si avrebbe torto però d'interpretare questa dottrina come una visione immediata di Dio. Agostino lo esclude. La vita contemplativa, scrive, è vissuta qui in terra nella fede, e solo " pochissimi (la vivono) in una qualche visione della verità immutabile, come in uno specchio, in maniera confusa, imperfettamente " 30. Né dai testi si può dedurre che egli stesso, Agostino, abbia qualche volta usufruito del privilegio della visione immediata di Dio 31.

 

4) La "ricaduta"

 

Dopo la rapida esperienza contemplativa che fa gustare, per un istante, qualcosa che non è di questa vita, il ritorno alle occupazioni abituali è sentito come una discesa, una "ricaduta" verso le cose che, in comparazione del bene gustato, non si amano più ma si sopportano in vista di quello. Agostino lo nota ogni volta che tocca l'argomento o narrando le sue esperienze personali o parlando al popolo.

 

" Non fui capace di fissarvi lo sguardo ", dice della prima esperienza che finì in un insuccesso. " Quando, rintuzzata la mia debolezza, tornai fra gli oggetti consueti, non riportavo con me che un ricordo amoroso e il rimpianto, per così dire, dei profumi di una vivanda che non potevo ancora gustare " 32.

 

La narrazione della celebre estasi di Ostia si conclude con queste meste parole: " ...E ridiscendemmo allo strepito delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine " 33; quella delle sue non infrequenti esperienze mistiche con parole diverse e identiche: " Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell'abitudine " 34.

 

Di questa esperienza di ascesa, di intuizione e di "ricaduta", il vescovo d'Ippona parla anche al popolo (si veda, per esempio, lo splendido commento a quelle parole Dov'è il tuo Dio? 35), e la conclusione è sempre la stessa: il rammarico di tornare alla vita di quaggiù che scorre nel tempo ed è tormentata di tanti affanni, per cui ci si accorge di essere non tra quelli che " sopportano la morte " ma tra quelli che " sopportano la vita " 36; " ...Come per un contatto spirituale raggiunse quella luce immutabile, ma non poté, a causa della debolezza dello sguardo, sopportarne lo splendore, e ricadde, per così dire, nella sua malattia e nel suo languore; si paragonò ad essa e si accorse che l'occhio della mente non era ancora adatto a contemplare la luce della sapienza " 37.

 

5) I frutti

 

Il nostro dottore non ha mancato di mettere in rilievo i frutti preziosi e ricchissimi che derivano dall'esperienza mistica, anche se passeggera e momentanea. Li descrive nella Grandezza dell'anima, opera del neofita, ma d'un neofita già molto avanti nelle vie dello spirito: poco prima aveva avuto, insieme a sua madre, l'indimenticabile e sublime esperienza dell'estasi di Ostia.

 

Come questi frutti operassero nella sua vita l'ho accennato sopra. Qui un accenno all'aspetto più generale e teorico. Tra questi frutti, ho scritto altrove 38, ci sono in primo luogo quelli spirituali, come la chiara percezione della vanità delle cose terrene, le quali, se " considerate in se stesse sono ammirabili e belle ", invece " comparate ai beni eterni, sono come se non fossero ". Ma vi sono anche i frutti di ordine intellettuale, quelli che acuiscono lo sguardo della mente e potenziano la scienza teologica: " Riconosceremo allora quanto siano vere le verità che crediamo e quanto sapientemente e salutarmente in seno alla madre Chiesa siamo stati nutriti " con il latte della fede.

 

Vale la pena, terminando, citare un passo di quest'opera giovanile: esso esprime, meglio di ogni altro, il dischiudersi di una grande vita tutta dedita alle speculazioni del pensiero, agli impegni dell'apostolato e alle esperienze della mistica.

 

 

" Vedremo anche i tanti mutamenti e le vicissitudini della natura corporea che ubbidisce alle leggi divine, per cui la stessa resurrezione, che alcuni credono languidamente e altri non credono affatto, la riterremo per certa non meno dello spuntar del giorno dopo ogni tramonto. Così pure non baderemo a coloro che irridono l'incarnazione del Figlio di Dio e la sua nascita da una vergine e gli altri miracoli della storia della salvezza; come non badiamo a quei fanciulli, che, avendo visto un pittore dipingere copiando un quadro, s'immaginano che l'uomo non possa dipingere se non guardando un'altra pittura. Il diletto che si prova nella contemplazione della verità è così grande, così puro, così sincero, e dà tanta certezza della verità, che chi lo prova ritiene di non aver mai saputo le cose che prima credeva di sapere; e perché l'anima possa aderire integralmente alla Verità totale, non teme più la morte... che prima temeva, anzi la desiderava come un sommo acquisto " 

Il CENTRO DELLA VITA SPIRITUALE

 

 

Uno dei meriti, e non l'ultimo, del vescovo d'Ippona è quello di aver ricondotto tutte le virtù al tema eterno dell'amore. È celebre la sua definizione delle virtù: " La virtù è l'amore ordinato " 1. Ha fatto, poi, dell'amore il centro focale della vita dello spirito, mettendone in rilievo le molteplici potenzialità che investono e dirigono tutta l'attività umana.

 

Chi volesse avere un'idea di questa centralità dovrebbe studiare l'ampio panorama agostiniano che ha il suo punto d'irradiazione nella carità. Eccone un saggio.

 

La carità di Dio e del prossimo è il contenuto di tutte le Scritture 2, la sintesi della filosofia 3, il fine della teologia 4, l'anima della pedagogia 5, il segreto della politica 6, l'essenza e la misura della perfezione cristiana 7, la somma di ogni virtù 8, l'ispirazione della grazia 9, il dono da cui derivano tutti i doni dello Spirito Santo 10, la regola che distingue le opere buone da quelle cattive 11, la realtà con la quale nessuno può esser cattivo 12, il bene in cui si possiedono tutti i beni e senza il quale gli altri non giovano a nulla (" Abbi la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò che potrai avere " 13), la caparra o il principio della vita eterna 14. È in questo contesto che si deve intendere il celebre aforisma agostiniano: " Ama e fa' ciò che vuoi " 15.

 

Della carità Agostino ha messo in rilievo l'inesauribile dinamismo, l'intransigente radicalità, il totale disinteresse, la forza progressiva dell'assimilazione, l'inseparabile compagnia dell'umiltà e in ultimo, ma non meno importante, la soprannaturalità. Ecco un altro panorama vastissimo, soffermarci sul quale in dettaglio è qui impossibile.

 

1) Dinamismo

 

Continuando quindi per accenni, si può dire che sul dinamismo della carità, che qui in terra non può essere mai piena, il vescovo d'Ippona ha scritto un libro apposito - Perfezione della giustizia dell'uomo - e ha sostenuto una lunga controversia con i pelagiani intorno all'impeccantia, affermata da Pelagio, negata da lui. Perciò qui in terra l'uomo giusto sarà sempre iustus et peccator, non perché non gli siano stati rimessi i peccati o perché commetta peccato operando il bene, ma perché non sarà mai libero da imperfezioni, debolezze, trasgressioni veniali, mai in ogni caso avrà la pienezza dell'amore. Questa ci viene comandata - " Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore " -, ma non come perfezione che dobbiamo possedere, bensì come mèta a cui dobbiamo tendere.

 

Nasce da qui l'inesauribile movimento della carità che non può, non deve mai arrestarsi. Da qui l'esortazione di Agostino al suo popolo: " Aggiungi sempre, cammina sempre, progredisci sempre: non ti fermare nella strada, non tornare indietro, non deviare... è meglio uno zoppo nella strada che un corridore fuori strada " 16.

 

Inutile dire che questo dinamismo si fonda sulla natura stessa dell'amore, che è essenzialmente tensione, moto, peso; un peso - è nota la celebre metafora agostiniana -, che trascina lo spirito verso il luogo del suo riposo e si non placa finché non l'abbia trovato: " Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto " 17.

 

2) Radicalità

 

La carità dunque, possiamo dire con Dante, è " la sete natural che mai non sazia " 18. Una prerogativa, questa, su cui Agostino insiste molto. Si può dire giustamente che egli sia il filosofo e il teologo dell'" inquieto è il nostro cuore " 19. Ma questa prerogativa sembra contraddire ad un'altra che pur si trova negli scritti agostiniani: la totalità o radicalità. Dice infatti: " Tutto ti esige Colui che ti fece " 20. Dio infatti non esige solo l'azione ma anche l'intenzione, non solo la lode della bocca ma anche, anzi prima di tutto, quella del cuore, non solo l'ossequio dell'intelletto per mezzo della fede ma anche quello della volontà per mezzo dell'obbedienza. Dio è tutto per l'uomo: causa dell'essere, luce del conoscere, fonte dell'amore; l'uomo dunque deve tutto se stesso a Dio: l'essere, la conoscenza, l'amore. Nessuna fibra del cuore può restar fuori da questa esigenza divina.

 

Ma qui, come si vede, la totalità è diversa da quella di cui si diceva prima: non è la totalità intensiva, che nessuno può raggiungere qui in terra, ma quella estensiva, che deve abbracciare tutto l'uomo, ogni sua attività, ogni suo pensiero, pena di venir meno alla legge universale della carità. Perché lo spazio che non occupa la carità lo occupa la cupidigia, l'egoismo, l'amore "privato", che è l'amore perverso di sé e degli altri.

 

Da questa esigenza della carità nasce l'opposizione tra l'amore di sé e l'amore di Dio, sulla quale Agostino fonda, come è noto, la città del mondo e la città di Dio 21.

 

Questa opposizione viene espressa appunto con i termini di cupidigia e di carità, i cui regni sono tanto contrari che se uno si dilata l'altro si restringe. Occorre dunque diminuire il regno della cupidigia perché si dilati quello della carità. " Nutrimento della carità è la diminuzione della cupidigia, la perfezione assenza della cupidigia " 22. Ma la cupidigia sparirà quando la carità avrà raccolto in unità e ordinato verso Dio tutti i moti del cuore, prendendo perciò il dominio di tutto l'uomo.

 

3) Disinteresse

 

Terza prerogativa della carità è il totale disinteresse. Amare Dio gratuitamente: questa la tesi di fondo dell'agostinismo spirituale. Ragione: " Ciò che non si ama per se stesso, non si ama " 23. Ma quest'amore non esclude il desiderio del premio quando questo non sia altro che Dio. Amare Dio gratuitamente vuol dire non desiderare da Dio se non Dio stesso o, come dice Agostino, " sperare Dio da Dio " 24. E altrove: " Dio sia amato e lodato gratuitamente. Che significa "gratuitamente"? Significa amarlo e lodarlo per se stesso, non per qualcosa di estraneo a Lui " 25.

 

Questo desiderio di possedere Dio è tanto importante che il vescovo d'Ippona lo pone come fondamento e come segno dell'autentico amore di lui. Fa, più volte, al suo popolo questo ragionamento: Poni che Dio ti dica: Vuoi vivere sempre? vivrai; vuoi essere libero da ogni male? lo sarai; vuoi godere tutti i piaceri? li godrai; ma ad una condizione: non vedrai mai la mia faccia. Se accetti questa proposta, vuol dire che non c'è in te l'amore di Dio; se invece rispondi subito: "No, Signore, via tutto quello che mi prometti, dammi te stesso, perché te solo io cerco", vuol dire che la scintilla dell'amore divino nel tuo cuore è accesa 26.

 

Questa nozione dell'amore gratuito, che non esclude ma include il desiderio di Dio, porta Agostino a distinguere accuratamente il timore "servile" dal timore "casto". Il primo, se esclude la volontà di peccare, è "buono e utile" perché prepara il posto alla carità, ma solo il secondo è inseparabile da essa e cresce con essa; solo esso è compagno dell'amore vero, cioè "gratuito" 27. " Fratelli - esclama il vescovo parlando al popolo -, amiamo Dio con cuore puro e casto. Non è certo il cuore di chi onora Dio in vista della ricompensa ". E, quasi a fugare la possibilità di false interpretazioni di queste parole, continua: " Come? Non avremo la ricompensa per aver servito Dio? Certamente l'avremo, ma sarà lo stesso Dio che serviamo " 28.

 

4) Forza di assimilazione

 

Un'altra prerogativa della carità, sulla quale Agostino opportunamente insiste, è la forza d'assimilazione con l'oggetto amato. Prima di tutto ne stabilisce il principio: quello che qualifica moralmente l'uomo non è ciò che conosce, ma ciò che ama. Perciò " ognuno è tale qual è il suo amore ". E ne tira le conseguenze. Continua infatti: " Ami la terra? sarai terra. Ami Dio? Che dirò, sarai Dio? Non oso dirlo da me, ascoltiamo le Scritture: Ho detto: Siete dèi e figli dell'Altissimo, tutti " 29.

 

Questo principio deriva dalla natura stessa dell'amore, che è apertura verso l'altro, movimento - Agostino, abbiamo visto, parla di peso -, che non si quieta se non nell'assimilazione, assimilazione dell'amante con la persona amata; assimilazione che vuol dire fusione o perdita di identità, ma - Agostino è sempre preciso nelle sue idee metafisiche e teologiche - perfetta unione per cui i due, pur restando due, diventano uno. Da questo principio nascono conseguenze luminose come questa: amando Dio si diventa partecipi delle perfezioni di Dio, dell'eternità, della bontà, della bellezza. " Aderendo al Creatore, che è eterno, anche noi, per necessaria conseguenza, diventiamo eterni " 30. Perciò " stando in terra, sei già in cielo, se ami Dio " 31. L'amore infatti non è il pegno ma la caparra della vita eterna 32. Avevano ragione gli scolastici di tradurre questa dottrina agostiniana nell'effato: l'anima è più presente nella cosa che ama che corpo che anima. Del resto egli stesso aveva detto: " Amando abitiamo col cuore " nella casa che amiamo 33.

 

Altra conseguenza di questo principio è la dottrina della deificazione, cara ai Padri greci. Anche Agostino la conobbe e la propose come termine ed apice della giustificazione, se non nella controversia pelagiana, dove l'argomento in discussione era un altro, certamente nella predicazione al popolo. In questa ricorre spesso, come si sa, a formule lapidarie perché la verità s'imprima meglio nella mente degli ascoltatori. Eccone una: " Dio vuol farti Dio, non per natura come Colui che ha generato, ma per suo dono e adozione " 34. E insiste su questa necessaria distinzione: " Gli uomini sono dèi non per essenza, ma per partecipazione di quell'unico e vero Dio " 35. Ora la partecipazione avviene attraverso l'amore che lo Spirito Santo diffonde nei nostri cuori. La deificazione infatti sarà completa dopo la resurrezione dei corpi quando " tutto l'uomo deificato aderirà - appunto con l'amore - alla verità perpetua ed immutabile " 36.

 

Inutile dire che il fondamento di tutto è l'incarnazione del Verbo di cui Agostino esprime lo scopo con questi brevi parole che riassumono una grande dottrina: " Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio ". Ed ancora nello stesso luogo: " Perché l'uomo mangiasse (con l'amore) il pane degli angeli, il Signore degli angeli si è fatto uomo " 37.

 

Sublime dottrina, questa, che meriterebbe un più ampio approfondimento; qui invece occorre continuare a recensire rapidamente le prerogative di questo mirabile centro della vita spirituale. Un'altra di esse è l'umiltà.

 

5) L'umiltà compagna inseparabile della carità

 

Parlando dell'umiltà non ci si allontana dal tema della carità, perché l'una è inseparabile dall'altra, anzi si può dire che ne è l'altra faccia: " Dov'è l'umiltà, ivi è la carità " 38. Infatti l'umiltà è il fondamento su cui si costruisce l'edificio della carità 39, l'unica via da percorrere per giungere a possederla 40, la casa dove essa stabilisce la sua dimora 41. Per riempirsi della carità, occorre svuotarsi della superbia, che è, per definizione, disordinato amore di sé.

 

Non fa meraviglia dunque che al celebre binomio, amore di sé e amore di Dio - su cui Agostino, come è noto, pone il fondamento delle due città -, egli equipari l'altro: orgoglio e umiltà 42. Effettivamente, chi non riconosce Dio come creatore da cui gli viene ogni bene - l'uomo non ha di suo che il limite, e perciò l'errore e il peccato 43 -, o non confessa la gratuità della grazia che salva o non guarda a Cristo che offre se stesso come modello d'umiltà, non può avere la carità nel cuore. Ora questi motivi - metafisico, teologico, cristologico - sono quelli appunto che costituiscono la ragione dell'umiltà, che Agostino non si stanca di approfondire, d'illustrare e di raccomandare. Per lui l'umiltà s'identifica con la sapienza 44 e la sapienza a sua volta con la carità; consiste infatti nella conoscenza e nel possesso del sommo bene 45.

 

Agostino è stato chiamato giustamente il dottore dell'umiltà com'è il dottore della carità, ma è il dottore dell'una e dell'altra perché è il dottore della grazia. Infatti al panorama abbozzato sopra mancherebbe un elemento essenziale se non si dicesse che la carità è il grande dono di Dio.

 

6) La carità dono di Dio

 

Non si tratta di esporre qui la dottrina agostiniana della grazia che si sa quanto sia ampia e profonda. Basta dire solamente che la carità, centro della vita spirituale, non si pone sul piano naturale ma, essenzialmente, sul piano soprannaturale, su cui si pone tutta la mistica cristiana. Agostino lo intuì e lo ridisse con chiarezza e fermezza, tanto da ridurre a questo punto tutta la controversia pelagiana. Ecco le sue forti parole: " Da dove negli uomini la carità di Dio e del prossimo se non da Dio stesso? Poiché se essa proviene non da Dio ma dagli uomini, hanno partita vinta i pelagiani, se invece proviene da Dio abbiamo vinto i pelagiani " 46.

 

Non dunque uno sforzo umano, ma prima di tutto un dono divino; non un'ascesa con le nostre forze verso Dio, ma prima di tutto la nozione di Dio che afferra l'uomo e lo trae nella sfera del divino; in una parola, non l'erôs greco ma l'agapê cristiana. Non già che l'agapê non sia un'ascesa verso Dio o non costituisca il compimento del più profondo desiderio dello spirito umano, che è stato fatto per Dio e non ha posa finché non si riposi in Dio 47, ma essa suppone la consapevolezza che noi possiamo salire verso Dio perché Dio è disceso verso di noi, perché lo Spirito Santo diffonde il suo dono nei nostri cuori. Parlando della trascendenza divina, Agostino pone sulla bocca di Dio queste parole: " Scendo io, giacché tu non puoi salire: io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe " 48.

 

Il testo dell'Apostolo (Rom 5, 5) - " l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato " - costituisce il motivo dominante dell'insegnamento agostiniano: ad esso Agostino riconduce la nozione stessa della grazia adiuvante che altro non è se non " ispirazione della carità con cui con santo amore facciamo quel che sappiamo di dover fare " 49.

 

 

Questo doveva essere, se pure sommariamente, ricordato perché risultasse chiara la collocazione che Agostino dà alle ascensioni mistiche. Parlandone, egli fa mostra di essere un acuto psicologo ma anche, e soprattutto, di essere un teologo illuminato e sicuro: il teologo della grazia. Doveva essere ricordato, poi, per capire il posto che occupa la preghiera nella dottrina (e nella vita) del vescovo d'Ippona; un posto che è pari solo a quello della grazia che implora e della quale esprime i frutti. Essa è il luogo dove si attinge la forza per amare, il mezzo e l'esercizio della vita spirituale. Non ci resta che parlarne brevemente.


Festa di Sant'Agostino 28 agosto 2023

Pubblicazione Pellegrinaggio Ostia Antica 24 aprile 2023

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Presenza viva del Verbo

Sandro Botticelli Visione di Sant’Agostino del fanciullo, Predella - Pala di San Barnaba 1487 - tempera su tavola - 268x280 cm - Firenze, Uffizi.

Secondo la leggenda un giorno Sant’Agostino, mentre si trovava meditabondo lungo il mare, ebbe la visione di Gesù bambino. L’episodio è noto e, benché non si sia trovato riscontro storico nelle fonti agostiniane, ha avuto molta fortuna nell’iconografia sul Santo d’Ippona. La leggenda compare, sotto forma di exemplum, nel XIII secolo in uno scritto Cesare d'Heisterbach dove protagonista era una vedova. L’attribuzione dell’episodio a Sant’Agostino reca la data 1263 e si fonda su alcune basi: una lettera apocrifa a Cirillo dove Agostino ricorderebbe una rivelazione divina con queste parole: Augustine, Augustine, quid quaeris ? Putasne brevi immittere vasculo mare totum? Cioè: «Agostino, Agostino che cosa cerchi? Pensi forse di poter mettere nella tua nave tutto il mare?» E un altro testo apocrifo dove San Girolamo discute con Sant’Agostino sulla capacità umana di comprendere il mistero divino.

 

La fortuna dell’episodio attesta la sua profonda verità. Quando l’uomo si attarda a scandagliare misteri che non gli competono naufraga e annega nello stesso mare che vorrebbe solcare.

 

Una delle opere più belle, che illustra il fatto, è contenuta nella predella della Pala di San Barnaba di Sandro Botticelli (agli Uffizi di Firenze). Sant’Agostino, vestendo i panni episcopali, i panni cioè di colui che, avendo raggiunto la pienezza del sacerdozio può, ex cattedra, educare alla fede, sta sul lungo mare. Quale mare, è impossibile dirlo. Alcuni ritengono possa essere Civitavecchia ma, in tal caso, i paramenti da vescovo indossati dal Santo costituirebbero un anacronismo, poiché quando Agostino si trova a Roma non è né prete, né vescovo. Per altri si tratta del mare di Ippona e ciò giustificherebbe la tenuta del Santo. Questa, del resto, pare la corrente di pensiero seguita da Botticelli.

L’episodio narra che, mentre Agostino scandagliava con la mente il Mistero della Trinità, vide un bimbo intento a giocare. Dapprima il santo vescovo non comprese l'origine divina di quel Bambino e lo stette ad osservare. Questi, correndo al mare, pescava dell'acqua con una conchiglia per poi, ritornando sulla spiaggia, riempire con essa una buca fatta nella sabbia.

Incuriosito dall'operazione ripetuta più e più volte, Agostino decide di interrogare il bambino: «Che fai?» Alla risposta del fanciullo rimane interdetto: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant'Agostino spiega pazientemente che ciò è impossibile. Il bambino fattosi serio replica: «È impossibile anche a te scandagliare con la piccolezza della tua mente l'immensità del Mistero divino». E detto questo sparì.

Botticelli veste di rosso l'uno e l'altro, indicando così la prossimità degli intenti: entrambi cercavano di circoscrivere un mistero insondabile. Il volto espressivo del Bambin Gesù di Botticelli, lascia intravedere lo sdegno e la sorpresa divina per un uomo fattosi sì ardito.

In fondo l'episodio, non a caso ai nostri giorni quasi dimenticato, si adatta anche alle velleità dell'uomo post-contemporaneo. Il desiderio di indagare, dominandoli, i grandi principi non negoziabili, come la vita, la morte, la dignità della persona e la distinzione orientata alla vita fra uomo e donna, avrà come naturale approdo il naufragio, la sconfitta, l'abbruttimento umano. Così Agostino insegna ancora, in questo pur dubbio episodio, una grande verità che, se osservata, può salvare l'uomo è la città.

 

La salvezza del mondo e della città era nascosta per Sant'Agostino, nella vita monastica, vero luogo dove la filosofia e financo la teologia diventano sapienza di vita. L’esperienza di Cassiciago, che lo portò alla conversione e al Battesimo, maturato anche grazie alle liturgie celebrate dal Vescovo Ambrogio nella città di Milano, plasmò il suo animo a comprendere che la vita monastica del grande Antonio (del quale aveva udito parlare rimanendone affascinato) non doveva essere prerogativa del deserto, ma poteva essere vissuta pienamente anche nella civitas. Le intuizioni avute a Cassiciago si concretizzarono meglio a Tagaste, luogo dove la celebre e discussa Regola Agostiniana prese forma. Ma sarà a Ippona che Agostino, divenuto sacerdote e poi vescovo, avrà modo di unire la vita monastica a quella apostolica dei chierici.

 

Una suggestiva pittura, attribuita a Niccolò di Pietro, raffigura il santo Padre Agostino con i discepoli ed esprime bene quello che fu la sua vita ad Ippona. Anche qui egli veste i panni del vescovo e tiene in mano la Parola circondato dai chierici. Il portale che incornicia il gruppo ricorda quella sorta di grande portale che apre la Regola Agostiniana: il motivo essenziale per cui vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un sol cuore protesi verso Dio.

 

La postura orante di ciascun membro dice la tensione verso Dio, mentre e i visi sereni rivolti al Padre Agostino dicono l’attitudine alla carità. La carità per Agostino era il grande modo di essere presenti. Solo la carità è capace di dilatarsi oltre i confini del Monastero. Solo la carità per il grande dottore della Chiesa, è salvezza della città. Per questo il portale dell’ambito monastico in cui si trovano gli agostiniani si apre generosamente allo sguardo di chi li osserva. L’ascolto di Dio, il pervenire alla sapienza era, per Agostino, a servizio ed edificazione della civitas. Lui che morì povero, ma ricco solo della sua biblioteca, dichiarò spesso di non aver mai scritto nulla per se, ma solo per gli amici e per la ricerca del vero e del Bene a servizio di molti. Non a caso nel Prologo della Città di Dio (scritta mentre era Vescovo) Agostino così si esprime: L’argomento di quest’opera […] l’ho intrapresa dietro tua richiesta per adempiere la promessa che ti ho fatto di difendere la città di Dio contro coloro che feriscono i loro dei e al suo fondatore

 

Il libro, in questo affresco, non a caso allora è al centro del gruppo. Tutto ruota attorno ad esso: un libro che non è certamente lettera morta, ma è segno della Presenza viva del Verbo.

 

Anche l'uomo post contemporaneo, dovrebbe imparare quello che Agostino sedici secoli or sono aveva già capito, l'uomo progredisce, la città si salva solo grazie a una Presenza, a una relazione che, fondata sul Tu eterno, apre agli infiniti tu dell’umanità.


"Te solo amo, Te solo seguo, Te solo cerco" Conversione di Sant'Agostino

In occasione della festa della conversione di Sant'Agostino,il 24 aprile i padri CRIC di Roma hanno organizzato un pellegrinaggio con gli Amici CRIC e l'Associazione Culturale Dom Adriano Grea presso la chiesa di Sant'Aura a Ostia antica dove é morta ed era sepolta Santa Monica, la mamma di Sant'Agostino

CONVERSIONE DI SANT’AGOSTINO – 24 APRILE

 a cura di Padre Rinaldo Guarisco Padre Generale Cric e Presidente Associazione Culturale Dom Adriano Grea

 

PRIMA LETTURA: Romani 13,11-14a

 
            Questo brano fa parte degli ultimi capitoli della lettera ai Romani. Dopo aver spiegato in modo approfondito il rapporto tra la religione ebraica, con il suo attaccamento alla Legge e alle sue tradizioni, e la nuova vita in Cristo, Paolo passa alle conseguenze pratiche, indicando lo stile che il cristiano deve assumere:

-          il culto spirituale, la carità verso i fratelli ma anche verso i nemici, la sottomissione ai poteri civili.

-          I cristiani di Roma quindi non hanno nessuna giustificazione, non possono più "dormire " o rimanere nello stile di vita precedente alla loro conversione.         
 

 11 Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno…

Qualche versetto prima (13,8-10) li ha esortati a osservare la legge della carità, ad avere amore gli uni verso gli altri… La legge della carità riassume in sé tutta la legge mosaica.

-          Quindi i Romani vengono invitati ad amarsi gli uni gli altri, ad avere un atteggiamento di benevolenza.  


12 La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.      

Le immagini della notte e del giorno, della luce e delle tenebre sono riprese dalla liturgia battesimale. La luce è necessaria alla vita dell'uomo. La conversione a Cristo è da sempre rappresentata come un passaggio dal buio alla luce, dalle tenebre della morte e del peccato alla luce della vita.  


13 Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie.    

In questo versetto Paolo scende nei particolari. La condotta del cristiano deve essere onesta,  ricordare che il male fa male, che c'è una dignità  che ci permette di vivere in gioia e pienezza.  Cambiare l'atteggiamento che stride con lo stile cristiano.

Questi versetti sono quelli che hanno fatto convertire definitivamente sant'Agostino.


14 Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo         
Gli interlocutori di Paolo si sono rivestiti delle vesti bianche nel giorno del battesimo, hanno così scelto di vivere secondo una vita nuova. In quella vita devono continuare.  

 

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CONVERSIONE DI AGOSTINO

 

Milano, tarda estate del 386.

Nel libro ottavo delle Confessioni Agostino racconta l’ultima lotta interiore in vista della conversione definitiva, ascoltando le

-          testimonianze di alcuni personaggi che si sono convertiti

-          leggendo la biografia dell’eremita egiziano Antonio e

-          sollecitato già in precedenza dalle omelie del vescovo Ambrogio.

 

Rimorso e vergogna afferrano violentemente Agostino. Esce, seguito da Alipio, nel giardinetto annesso alla casa e lì, sconvolto dalla tempesta interiore,  si apparta sotto un fico, disteso a terra, scoppia in un pianto dirotto.

Quand’ecco dalla casa vicina una voce sottile:

“Prendi e leggi”.

Agostino torna correndo presso Alipio, afferra il testo di San Paolo e vi legge quel versetto della lettera ai Romani ove si invita il cristiano ad abbandonare il disordine della carne per abbracciare Cristo. Una serenità ineffabile si diffonde nel suo cuore.  

-          Nella notte di Pasqua tra il 24-25 aprile del 387, dalle mani del vescovo Ambrogio, riceve il battesimo con Alipio e Adeodato (suo figlio).

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VANGELO: VEDOVA DI NAIM

 IL SUO PIANTO E L’AFFETTO PER LA MORTE DEL FIGLIO

 

AGOSTINO PARLA DI SUA MIA MADRE

 

“La mia salvezza fu concessa alle lacrime sincere

che tutti i giorni mia madre versava” (Sant’Agostino)

* * *

Quando Agostino parla di sua madre sia nelle confessioni che in altri scritti, narra con sincerità non solo le virtù, ma anche quelli che sono o possono sembrare errori o difetti della madre

Comunque per lui è stata una donna mistica.

Agostino fa una rievocazione commovente della figura di Monica. Egli sa di dover tutto a sua madre. Lo dice nella prima delle sue opere: “C’era con noi mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, tutto ciò che ho, tutto ciò che sto vivendo” (De beata).

Le doveva infatti:

-       l’intelligenza che gli brillava nella mente,

-       la passione per la verità che gli bruciava nel cuore,

-       la nobiltà e la fortezza di carattere,

-       l’educazione cristiana,

-       il mantenimento agli studi;

-       ma soprattutto le doveva la riconquista della fede.

Si sentiva doppiamente generato da lei: generato alla vita della terra e a quella del cielo.

Due perciò erano i fatti inseparabilmente presenti nella sua memoria:

-       le lacrime della madre

-       e la sua conversione.

 

Li ricorda ancora, ormai vecchio, in una delle ultime opere: “Ciò che narrai della mia conversione nei libri delle Confessioni, non ricordate che lo narrai in modo da dimostrare che la mia salvezza fu concessa alle lacrime sincere che tutti i giorni mia madre versava?”.

 

Meditiamo
- Sono un cristiano che "dorme", oppure mi sento sempre

coinvolto in un cammino di conversione?

- Vi sono nella mia vita delle zone di tenebra?  

- E quindi, come posso fare per rivestirmi del Cristo risorto

 

e cambiare vita?


L’ESTASI DI OSTIA TIBERINA (durante il ritorno in Africa)

Lettore – Venne il momento di ripartire per l’Africa. Agostino e i suoi famigliari decisero infatti di tornare in patria per meglio servire Dio. In attesa dell’imbarco si fermarono ad Ostia, dove Monica morì. Come non ricordare qui la sua esistenza esemplare? Educata con vigile cura, guarita dal vizio del bere che, adolescente, aveva contratto, da sposa si adoprò con ammirevole pazienza a correggere il carattere intemperante del marito e guadagnarlo a Dio; fu modello e conforto alle amiche, serva di tutti e straordinariamente sollecita nel bene dei figli. A Ostia, pochi giorni prima della sua morte, Agostino stava con lei. Di questo soggiorno Agostino racconta nelle Confessioni l’episodio noto come estasi di Ostia.

Agostino – (Conf. Libro IX, 8.17) “…Presso Ostia Tiberina mia madre morì… Accogli la mia confessione e i miei ringraziamenti, Dio mio, per innumerevoli fatti, che pure taccio. Ma non tralascerò i pensieri che partorisce la mia anima al ricordo di quella tua serva, che mi partorì con la carne a questa vita temporale e col cuore alla vita eterna… All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire da questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, Accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d'uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta. Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d'amore verso l'Essere stesso, percorremmo su tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole e la luna e le stelle brillano sulla terra. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l'esaltazione, l'ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch'esse superammo per attingere la plaga dell'abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno…

Si diceva, dunque: "Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell'acqua e dell'aria, tacessero i cieli, e l'anima stessa si tacesse… e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: "Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece Chi permane eternamente"; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l'orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse… non sarebbe questo l'"entra nel gaudio del tuo Signore"? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati?".

Così dicevo, sebbene in modo e parole diverse. Fu comunque, Signore, tu sai, il giorno in cui avvenne questa conversazione… che mia madre disse:

Monica - "Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me. Cosa faccio ancora qui e perché sono qui, lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c'era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui?" (Conf. IX, 10.23-26).

LA MORTE DI MONICA

Lettore - Monica morì pochi giorni dopo questo colloquio con il figlio, che la pianse amaramente implorando dalla misericordia di Dio la sua salute eterna. Così per lei e per suo marito preghino i lettori.  Agostino così ci racconta gli ultimi istanti della vita della madre. Era l’autunno del 387:

Agostino - “… Entro cinque giorni o non molto più, si mise a letto febbricitante e nel corso della malattia un giorno cadde in deliquio e perdette la conoscenza per qualche tempo. Noi accorremmo, ma in breve riprese i sensi, ci guardò, mio fratello e me, che le stavamo accanto in piedi, e ci domandò, quasi cercando qualcosa:

Monica - "Dov'ero?";

Agostino - Poi, vedendo il nostro afflitto stupore:

Monica - "Seppellirete qui, soggiunse, vostra madre".

Agostino - Io rimasi muto, frenando le lacrime; mio fratello invece pronunziò qualche parola, esprimendo l'augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma in patria, che sarebbe stata migliore fortuna. All'udirlo, col volto divenuto ansioso gli lanciò un'occhiata severa per quei suoi pensieri, poi, fissando lo sguardo su di me, esclamò:

Monica - "Vedi cosa dice",

Agostino - e subito dopo, rivolgendosi a entrambi:

Monica - "Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all'altare del Signore" (Conf. IX, 11.27).

Agostino – Espressa così come poteva a parole la sua volontà, tacque. Il male aggravandosi la fece soffrire… Al nono giorno della sua malattia, nel cinquantaseiesimo della sua vita, trentatreesimo della mia vita, quell’anima credente e pia fu liberata dal corpo. Le chiudevo gli occhi e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino a disseccarlo…

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PREGHIERA A SANTA MONICA

Santa Monica, prega per noi,

affinché possiamo avere la stessa fede incrollabile

e lo stesso amore per Dio che hai avuto tu.

Aiutaci a perseverare nelle sfide della vita

e ad avere fiducia nel piano di Dio per noi.

Possa il tuo esempio ispirarci

ad essere servitori fedeli e devoti di Dio,

e possiamo un giorno unirci a te

nel regno celeste. Amen.

SANT’AGOSTINO

 

Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, una piccola città dell’attuale Algeria, l’odierna Souk Ahras.

 Monica, la madre, era cristiana; il padre, Patrizio, era invece pagano e solo alla fine della vita aderì alla fede cattolica.

Agostino muore nella sua Tagaste circondata dai Vandali il 28 agosto del 430, dopo 40 anni di intensissimo e fecondo servizio episcopale, all’età di 76 anni.

 

Le sue intuizioni filosofiche, letterarie e teologiche ne fanno un genio del cristianesimo e dell'umanità intera. Le sue aspirazioni e la sua esperienza spirituale, trasmesse soprattutto con la sua "Regola", hanno segnato e continuano a segnare il cammino ad una schiera innumerevole di uomini e donne, affascinati dalla sua figura e trascinati dal suo esempio


La luce penetrò il nostro cuore!

Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore

 

Sant'Agostino

 

 

 

Andate in tutto il mondo!

 

 

“Chi fa esperienza di una gioia profonda non è capace di contenerla in sé; anzi, desidera parteciparla ad un numero sempre maggiore di persone, perché è nella condivisione che se ne apprezza la ricchezza. Questo atteggiamento è ancor più vero quando nel nostro cuore conserviamo la buona novella di Cristo. Chi ha conosciuto Cristo, non può trattenere per sé questo dono: egli ne diviene martire, cioè testimone in parole ed opere. Ogni indugio è rimosso: in qualunque spazio e tempo ci troviamo e dinanzi ad una qualsiasi richiesta, siamo chiamati a rendere ragione della fede che è in noi, perché non avvenga che rinnegando Cristo incorriamo nella sventura di essere rinnegati da Lui nel giudizio finale.”

 

Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm. 260/E, 2)

 

 

 

Testimoni della risurrezione

 

 

“Anche voi, dunque, dite: Non possiamo non parlare di ciò che abbiamo udito; non possiamo non evangelizzare Cristo Signore. Ciascuno lo annunzi dovunque gli è possibile, e così è martire. Capita però, a volte, a certi che non debbano subire persecuzioni ma solo una qualche derisione: eppure si spaventano. Un tale, ad esempio, si trova a pranzo in mezzo a pagani, ed eccolo arrossire perché lo chiamano cristiano. Se ha timore d'un commensale, come potrà tenere incalcolate le minacce d'un persecutore? Suvvia dunque! Parlate di Cristo dovunque potete, con chiunque potete, in tutte le maniere che potete. Quello che si esige da voi è la fede, non l'abilità nel parlare. Parli la fede che vi nasce dal cuore, e sarà Cristo a parlare. Se infatti è in voi la fede, abita in voi Cristo. Avete udito il Salmo: Ho creduto e perciò ho anche parlato (Ps 115, 10). Non poteva aver fede e, insieme, restarsene muto. Chi non dona è ingrato verso colui che l'ha colmato di doni. Ciascuno pertanto deve comunicare le cose di cui è stato riempito. Da lui deve scaturire una fonte che sempre versa e mai si dissecca. Scaturirà in lui una fonte d'acqua che zampilla per la vita eterna (Io 4, 14)..Dio volle avere come suoi testimoni gli uomini, affinché a loro volta gli uomini abbiamo come loro testimone Dio stesso. “(In Io Ep. 1, 2)

 

 

 

 

 

 

 

Toccare Cristo con il cuore: questa è fede sincera!

 

 

"Credetelo così e l’avrete toccato, toccatelo in modo da aderire a Lui; aderite in modo da mai separarvene"

 (Sermo 229/L, 2)

 

E adesso, fratelli miei, Gesù è in cielo. Quando era con i suoi discepoli nella sua carne visibile, nella sua sostanza corporale toccabile, fu visto e fu toccato: ma ora che siede alla destra del Padre, chi di noi lo può toccare? E tuttavia guai a noi se con la fede non lo tocchiamo! Tutti lo tocchiamo, se crediamo. Certo, egli è in cielo, certo è lontano, certo non si può immaginare per quali infiniti spazi disti da noi. Ma se credi, lo tocchi. Che dico, lo tocchi? Proprio perché credi, presso di te hai colui nel quale credi. Ma allora, se credere è toccare, anzi se toccare è credere, come si spiega: Non mi toccare, perché non sono ancora salito al Padre mio (Io 20, 17)? Che vuol dire? Perché vai cercando la mia carne se ancora non comprendi la mia divinità? Volete sapere come questa donna lo voleva toccare? Essa stava cercando un morto, non credeva che egli sarebbe risorto. Hanno portato via il mio Signore dal sepolcro (Io 20, 2); e lo piange come uomo. Oh! Toccarlo! Ed egli, vedendola tutta preoccupata nei riguardi della sua condizione di servo e che ancora non sapeva né gustare, né credere, né comprendere quella condizione di Dio per la quale è uguale al Padre, differisce il toccare, perché sia un toccare più completo. Non mi toccare, dice, perché non sono ancora salito al Padre mio. Tu mi tocchi prima che io risalga al Padre e mi credi solo uomo: che ti giova quel che credi? Fammi dunque risalire al Padre. Lassù da dove mai mi sono allontanato, è per te che io salgo, se mi crederai uguale al Padre. Difatti il Signore nostro Gesù Cristo non è disceso dal Padre lasciando il Padre; e anche nel risalire via da noi non si è allontanato da noi. Infatti quando stava per risalire e sedere alla destra del Padre, disse in anticipo ai suoi discepoli: Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo (Mt 28, 20)

Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm. 229/K, 1-2)

 

Ora noi non abbiamo nessuna possibilità di toccare qualche parte del corpo di Cristo, ma abbiamo la possibilità di leggere quello che di Lui si dice. Tutto nelle Scritture parla di Cristo; purché ci siano orecchie ad ascoltare. (In Io. Ep. tr. 2, 1)

 

 

 

La conversione fa germogliare uomini nuovi!

 

 

Dai "Discorsi" di sant’Agostino, vescovo (Serm 236, 2-3)

 

“Imparate ad accogliere gli ospiti, nella cui persona si riconosce Cristo. O che non sapete ancora che, tutte le volte che accogliete un cristiano, accogliete Cristo? Non lo dice forse lui stesso: Ero forestiero e mi avete accolto? E se gli replicheranno: Ma quando, Signore, ti abbiamo visto forestiero, risponderà: Tutte le volte che l'avete fatto a uno dei miei fratelli, fosse anche il più piccolo, l'avete fatto a me (Mt 25, 35. 38. 40). Quando dunque un cristiano accoglie un altro cristiano, è un membro che si pone al servizio di un altro membro, e con questo reca gioia al capo, che ritiene dato a sé ciò che si elargisce a un suo membro. Ebbene, finché siamo quaggiù, si dia il cibo a Cristo che ha fame, si dia da bere a lui assetato, lo si vesta quando è nudo, lo si ospiti quand'è pellegrino, lo si visiti quando è malato. Queste cose comporta l'asperità del cammino. Così dobbiamo vivere nel presente pellegrinaggio durante il quale Cristo è nel bisogno: ha bisogno nei suoi, pur essendo pieno di tutto in sé. Ma colui che nei suoi è bisognoso, mentre in sé abbonda di tutto, convocherà attorno a sé tutti i bisognosi. E vicino a lui non ci sarà più né fame né sete, né nudità né malattia, né migrazioni né stenti né dolore. So che tutti questi bisogni lassù non ci saranno, ma non so cosa ci sarà. Che tutte queste cose non ci saranno l'ho potuto apprendere; quanto invece a quel che troveremo lassù, non c'è stato occhio che l'abbia visto né orecchio che l'abbia udito né cuore d'uomo in cui sia penetrato (1 Cor 2, 9). Lo possiamo amare, lo possiamo desiderare; durante il presente esilio possiamo sospirare il possesso di un tanto bene; ma non possiamo raggiungere col pensiero né spiegare adeguatamente a parole quel che esso sia, o, per lo meno, io non ne sono capace. Cercatevi pure, o fratelli, qualcuno che abbia tale capacità, e, se vi riuscirà di trovarlo, trascinate da lui anche me insieme con voi perché divenga suo discepolo. Quanto a me, so una cosa sola, che cioè Dio - come dice l'Apostolo - ha la potenza di compiere opere che superano la nostra facoltà di chiedere e di comprendere (Eph 3, 20). Egli ci condurrà là dove si realizzeranno le parole scritturali: Beati coloro che abitano nella tua casa! Ti loderanno nei secoli dei secoli (Ps 83, 5). Tutta la nostra occupazione sarà la lode di Dio. E cosa loderemo se non ciò che ameremo? E null'altro ameremo se non ciò che vedremo. Vedremo la verità, e questa verità sarà Dio stesso, di cui canteremo la lode. Lassù troveremo ciò di cui oggi abbiamo cantato: troveremo l'Amen, cioè Quel che è vero, e l'Alleluia, cioè: Lodate il Signore.”

 

 

 

 

 

 

O Signore, va’ in aiuto a quei discepoli! Spezza loro il pane perché ti riconoscano. Se tu non li riconduci sono perduti. (Sermo 236/A, 3)

 

 

 


Perle di saggezza!

 

 

 

Sant'Agostino

 

 

Pondus meum amor meus, eo feror quocumque feror.

 

Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. (Confess. 13, 9, 10)

 

 

 

Quis autem veraciter laudat, nisi qui sinceriter amat?

Chi mai loda veramente, se non chi ama sinceramente? (Ep. 140, 18, 45)

 

 

Pedes tui, caritas tua est.

I tuoi piedi sono il tuo amore. (En. in ps. 33, d. 2, 10)

 

 

 

 

 

Dic animae meae: salus tua ego sum. Sic dic, ut audiam. Ecce aures cordis mei ante te, Domine; aperi eas et dic animae meae: salus tua ego sum.

Dì all'anima mia: Io sono la tua salvezza (Ps 34, 3). Dillo, che io l'oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, o Signore. Aprile, e dì all'anima mia: Io sono la tua salvezza. (Confess. 1, 5, 5)

 

 

Doce ergo me suavitatem inspirando caritatem ... Doce me disciplinam donando patientiam, doce me scientiam illuminando intelligentiam.

Insegnami la dolcezza ispirandomi la carità, insegnami la disciplina dandomi la pazienza e insegnami la scienza illuminandomi la mente. (En. in ps. 118, 17, 4)

 

 

 

Amor, qui semper ardes et numquam extingueris, caritas, Deus meus, accende me!

O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami! (Confess. 10, 29, 40)

 

Da quod amo: amo enim. Et hoc tu dedisti. Ne dona tua deseras, nec herbam tuam spernas sitientem.

Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. (Confess. 11, 2, 3)

 

 

Ama et propinquabit; ama et habitabit.

Ama ed egli si avvicinerà, ama ed egli abiterà in te. (Serm. 21, 2)

 

Da mihi amantem et sentit quod dico.

Dammi un innamorato e capirà quello che dico. (De cons. Evang. 26, 4)

 

 

 

Ogni amore o ascende o discende; dipende dal desiderio: se è buono ci innalziamo a Dio, se è cattivo precipitiamo nell'abisso... (En. in ps. 122, 1)

 

Ibi vacabimus et videbimus, videbimus et amabimus, amabimus et laudabimus.

(Nella città celeste) Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. (De civ. Dei 22, 30. 5)

 

Domine Deus, pacem da nobis - omnia enim praestitisti nobis - pacem quietis, pacem sabbati, pacem sine vespera.

Signore Dio, poiché tutto è tuo, donaci la pace, la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto. (Confess. 13, 35, 50)

 

I

In concordia Christi omnes una anima sumus.

Nell'unione dell'amore di Cristo siamo tutti una sola anima. (En. in ps. 62, 5)

 

Non est extra nos: in ipsius membris sumus, sub uno capite regimur, uno spiritu omnes vivimus, unam patriam omnes desideramus.

Non è fuori di noi. Siamo nelle sue membra, siamo retti tutti sotto un solo capo, viviamo di un solo spirito tutti e desideriamo tutti una sola patria. (En. in ps. 64, 7)

 

Nonne vides quia perdidisti quod non dedisti?

Non ti accorgi che hai perso quello che non hai donato? (En. in ps. 36, 3, 8)

 

Non stat ergo aetas nostra: ubique fatigatio est, ubique lassitudo, ubique corruptio.

La nostra vita, nelle sue varie età, non s'arresta; e dovunque c'è fatica, dovunque stanchezza, dovunque deterioramento. (En. in ps. 62, 6)

 

In isto deserto, quam multipliciter laborat, tam multipliciter sitit; quam multipliciter fatigatur, tam multipliciter sitit illam infatigabilem incorruptionem.

In questo deserto, siccome in molti modi si soffre, così in molti modi si ha sete. In molti modi ci si stanca, e in molti modi si ha sete di quella incorruttibilità che non conosce stanchezza. (En. in ps. 62, 6)

 

Et diligendo fit et ipse membrum, et fit per dilectionem in compage corporis Christi, et erit unus Christus amans se ipsum.

E amando, anch'egli diventa un membro e per mezzo dell'amore viene ad appartenere all'unità del Corpo di Cristo; e sarà un solo Cristo che ama se stesso. (In Io. Ep. tr. 10, 3)

 

 

Ipsum verum non videbis nisi in philosophiam totus intraveris.

Non potrai vedere la verità se non ti immergerai completamente nella filosofia. (Contra Acad. 2, 3, 8)

 

Hoc esse philosophari, amare Deum cuius natura sit incorporalis.

Esercitare la filosofia è amare Dio la cui natura è incorporea. (De civ. Dei 8, 8)

 

Causa contitutae universitatis, et lux percipiendae veritatis et fons bibendae felicitatis.

La sorgente della costituzione del tutto, la luce della verità che siamo chiamati a raggiungere e la fonte della felicità che siamo chiamati a bere. (De civ. Dei 8, 10, 2)