Se smarrite la fiducia, cercate i «meravigliatori», coloro che fanno miracoli e vi rigenerano perché vi fanno sentire voluti come figli, appartenenti. Chi sono? Quelli che per amore fanno e quelli che fanno per amore.
Alessandro D'Avenia
Soltanto la santità rende possibile la vita, ma la santità è un miracolo che può compiere Dio solo.
La presenza di Dio nei santi è fonte di sicurezza anche per noi. Se non ci fossero i santi, noi potremmo certo credere, ma la nostra fede sarebbe come un appello a un Dio che rimane in silenzio, a un Dio che ci può promettere tutto, ma che non pare abbia mantenuto la sua parola. Di qui il senso di angoscia che potrebbe prenderci, se la nostra vita di amore ci legasse unicamente a Dio e non ci legasse anche a tutta un’umanità glorificata in Lui e per Lui.
Divo Barsotti
https://www.raiplay.it/video/2017/06/FILM-Biagio-78c46925-cad8-4e78-b7f3-1add5f9633b2.html
“Coraggio, umanità!”
“Carissima e amata umanità: coraggio, non perdiamo la preziosa speranza di un mondo migliore e più giusto. Sento nel cuore, grazie al buon Dio, di incoraggiare questa sofferente società e ogni essere vivente, ogni uomo ed ogni donna di questa terra, aiutiamoci gli uni con gli altri per ricostruire insieme la pace e la vera speranza”.
Fratel Biagio Conte
Fratel Biagio, pellegrinaggio infinito. «Il suo sorriso è con noi»
Alla Cittadella di Palermo in cui riposa il missionario laico morto il 12 gennaio, arrivano in tanti.
Fratel Biagio Conte è ancora qui dopo sua scomparsa causata da un male inesorabile, il 12 gennaio scorso. Il missionario laico che ha dedicato un’intera vita ai poveri è presente nell’amore delle persone che si inerpicano lungo la salita della “Cittadella del povero e della speranza” in via Decollati, a Palermo, nella chiesa in cui riposa. Arrivano in tanti, si accostano alla tomba incastonata nel muro, pregano, sfiorano l’immagine dell’uomo sorridente, con il proverbiale saio, e mandano baci. Il posto di Biagio è caratterizzato da una lastra di marmo verde, con un mosaico, dono di Giovanni Leonardo Damigella di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, che l’ha realizzata con i giovani della cooperativa “Pietrangolare”.
Biagio è qui, nell’affetto e nelle parole dell’arcivescovo, monsignor Corrado Lorefice, alla vigilia del Festino di Santa Rosalia, la Santuzza che salvò la città dalla peste. «Pino Puglisi e Biagio Conte, come Rosalia – ha detto - sono scesi in campo per questo, perché testimoni di un Dio che scende in campo». Il carro trionfale del corteo viene assemblato qui, alla Cittadella, nel segno di una integrazione con chi non ha nulla, ma spera in tutto.
Nell’imminenza dello scoccare dei sei mesi, ci sono preghiere, bisbigli e benedizioni. La tomba è vegliata dai “fratelli” che hanno punteggiato una bellissima storia. Dice Agostino, seduto a pochi metri da quel sorriso: «Biagio era davvero un fratello per me. Stava malissimo e seppe che io ero ricoverato in ospedale con la polmonite. Mi telefonò per chiedermi come stavo». Sono tutti racconti di una vicinanza che nemmeno la morte ha cancellato. Don Pino Vitrano ha camminato per una esistenza intera con il missionario laico, adesso è lui a reggere l’opera di solidarietà e ha indossato il saio verde che è la bandiera gentile di una scommessa vinta. «Lo sento accanto a me – dice don Pino –. Come quando hai bisogno di una presenza e l’avverti subito. Noi non spendevamo molti discorsi, ci intendevamo perfettamente. Andavamo insieme verso una direzione. Sono tanti i segni provvidenziali che ci legano a Fratel Biagio, non solo materialmente, pure nelle persone che il Signore ci ha donato. Di lui mi ha sempre colpito il coraggio di testimoniare il Vangelo davanti a tutti. Ci ha insegnato che dobbiamo ricambiare il male con il bene ed è qui, con noi».
Francesco Russo, il medico della Missione dei poveri, conobbe l’uomo con il saio, nell’occasione di una visita all’Università: «Conservo il bigliettino che distribuì in facoltà – racconta –. Come dimenticarlo? C’era scritto: “Ciao, sono un pellegrino, ma soprattutto sono un discepolo di Gesù che ha da compiere una grande missione. Ognuno di noi deve compiere una grande missione, ogni professione deve svolgere un lavoro per il bene di tutti”».
La malattia è stata una prova durissima. «Non potrò mai dimenticare nemmeno il momento in cui il tumore si rivelò con una diagnosi che mise in ginocchio tutti. Io sono un medico, capivo la gravità della situazione. Abbiamo lottato e sperato e, sì, Biagio è qui, vicino a noi».
Don Maurizio Francoforte è il parroco di San Gaetano, a Brancaccio, la chiesa del Beato Puglisi. Anche lui è immerso in una battaglia contro lo stesso male del pellegrino di Palermo, protagonista di viaggi e lunghe settimane di meditazione. «Non mi sento orfano di Biagio – dice -. Anzi, lui è con me. Continuo a godere di quell’amicizia e di quella comunione che non mi fa percepire il vuoto. Ogni tanto, vado a pregare sulla sua tomba e avverto il rumore del suo sorriso. Chiacchieriamo insieme».
«Abbiamo parlato tanto in ospedale – racconta don Maurizio – e, nonostante tutto, con leggerezza, gioia e ironia, mentre affrontavamo la sofferenza e la cure. Sono stato malissimo. Ho pregato. Una notte, ho sognato Biagio e don Pino Puglisi. Le cose, per me, da allora, sono migliorate».
Nella Cittadella di via Decollati, in una domenica di luglio, qualcuno si spinge fino al confine, segnato da un grande crocifisso che abbraccia il cielo di Palermo. Ecco la stanza che ha visto la sofferenza e gli ultimi istanti di fratel Biagio. Un vivido profumo di fiori sale dal giardino che circonda il luogo e si aggiunge a una commozione profonda. Biagio Conte non è mai andato via.
Biagio Conte nasce il 16 settembre 1963 in una famiglia benestante di Palermo e da ragazzo vive negli agi e nella spensieratezza tipica di molti giovani della sua generazione, cresciuti nel benessere della società consumista. Ma quando Biagio ha vent’anni, nel 1983, Palermo è una città infernale: il sangue degli innocenti (e dei colpevoli), nella guerra scatenata dalla mafia di Riina contro lo Stato, scorre nelle strade, in una spirale di violenza che non sembra avere mai fine. Le ingiustizie a cui assiste ogni giorno, il vuoto esistenziale, l’assenza di valori, fanno precipitare Biagio in una crisi di coscienza sempre più acuta. Si chiude in sè stesso. Passa i giorni nella sua stanza, in preda a una forma estrema di malessere di cui non riesce ad afferrare il senso.
Fratel Biagio Conte in cammino in uno dei suoi pellegrinaggi solitari, che lo hanno portato anche al Parlamento Europeo a Bruxelles
A 26 anni lascia tutto ciò che ha e va nei boschi
“Ho incominciato – scriverà poi Biagio – a cercare la verità, la vera libertà e la vera pace”. E l’istinto della vita alla fine ha il sopravvento. Il 5 maggio 1990, a 26 anni, decide di distaccarsi “dal mondo materialistico e consumistico”: “Stanco della vita mondana che conducevo – racconterà poi - ho sentito nel cuore di lasciare tutto e tutti; me ne andai via dalla casa paterna, con l’intenzione di non tornare più nella città di Palermo, perché questa città e società mi avevano tanto ferito e deluso”. Dà via tutto ciò che possiede, e con i soli abiti che indossa, si lascia la città alle spalle e si rifugia nella natura. Per più di un anno vaga per i boschi e per le montagne della Sicilia vivendo da eremita, cibandosi di bacche e erbe. Così ritrova la libertà dai bisogni materiali, e impara che si può vivere con niente, che la vera essenza della vita non è possedere ricchezze, non è accumulare e consumare beni, ma vivere in armonia con la natura, che è comunque una dura lotta per la sopravvivenza.
Fratel Biagio: ricomincio il mio cammino di pace per l’Europa
L’incontro col pastore e l’innamoramento per San Francesco
Poi, un giorno, incontra un pastore che gli affida il suo gregge e gli regala un cane. Nelle lunghe giornate passate da solo a pascolare le pecore, nelle notti stellate, quando infuria la tempesta e quando spunta il sole, Biagio impara a guardare verso il cielo e a cercare Dio. Il figlio del pastore gli regala il libro di Hermann Hesse sulla vita di San Francesco. Per lui è come un’illuminazione: “Cominciai a sentire sempre più che Gesù, quell’uomo giusto che ha donato la vita per noi - scriverà poi fratel Biagio - mi portava con lui per fare una esperienza che successivamente avrebbe stravolto tutta la mia vita. Nel silenzio e nella meditazione mi sentivo sempre più libero e pieno di pace, non avevo nulla con me, eppure era come se avessi tutto”. Un giorno, smarrito tra le montagne in mezzo alla neve, rischia di morire assiderato. Viene soccorso dal pastore che lo porta nell’eremo di San Bernardo a Corleone, dove vive una comunità di frati che praticano le regole francescane delle origini. Qui conosce fra Paolo, che gli parla di San Francesco e delle motivazioni che l’hanno portato a vivere in povertà, umiltà e preghiera.
Ad Assisi la scelta: dedicare la vita ai più poveri
Decide così di compiere un viaggio, a piedi, fino ad Assisi, e lungo il cammino incontra barboni, zingari, carcerati ed emarginati di ogni genere. Un’umanità dolente che lo avvicina a Francesco e ai suoi insegnamenti, e gli fa scoprire l’amore per gli altri: per chi soffre e ha bisogno di aiuto. “Pian piano – raccontava ancora il missionario laico - cominciai a capire il progetto “Missione”: dedicare la mia vita per i più poveri dei poveri”. Sulla tomba del Poverello di Assisi, pensa prima di andare in Africa o in India, “ed invece mi sento riportare nella città dove non volevo più tornare - scriverà poi - Gesù ha voluto che la Missione nascesse proprio nelle strade di Palermo”.
Fratel Biagio si fa migrante in Europa: “No a intolleranza e discriminazioni"
Ritorna nella sua città, tre anni dopo la sua partenza, e si ferma alla Stazione ferroviaria, dove si raccolgono i senzatetto. Vive con loro, li aiuta, li lava, mendica per loro un pezzo di pane e un pasto caldo. “Li ho chiamati fratelli e sorelle – racconta - senza farli sentire inferiori o diversi da noi tutti. Fu un’esperienza forte e cominciai a chiedere aiuto a tutti – prosegue - e andai pure alla Curia di Palermo dal cardinale Pappalardo, il quale capì quel giovane e decise di venire alla stazione per celebrare una messa insieme a tutti i fratelli ultimi sotto i portici della stazione; è stato un momento indimenticabile che mi incoraggiò molto e soprattutto aprì gli occhi della città sui tanti fratelli poveri che vivevano per strada, non considerati da nessuno, come se fossero scarto e rifiuto”.
La nascita della “Missione di Speranza e Carità”
Ma i barboni sono sempre di più: a Palermo, in quegli anni, alle vecchie povertà si aggiungono i migranti dall’Africa, e la stazione non basta più ad accoglierli tutti. Così Biagio occupa un vecchio edificio abbandonato e lo trasforma nella sede della sua comunità dei poveri senza tetto e dimora. Nasce così, nel 1993, la “Missione di Speranza e Carità”: un “progetto di Dio sconvolgente – lo definisce fratel Biagio - che a distanza di quasi trent'anni dal suo nascere ha coinvolto e continua a coinvolgere uomini e donne di ogni ceto sociale, anche capaci di cambiare radicalmente il loro modo di vivere per diventare missionari e missionarie della Speranza e della Carità, per operare nei luoghi di emarginazione delle grandi metropoli''.
Il viaggio a Lourdes
Gli anni in sedia a rotelle e la guarigione a Lourdes
Negli anni successivi Biagio Conte, che pratica molte volte lo sciopero della fame, in una grotta da eremita, e fa lunghi pellegrinaggi a piedi, per scuotere una società che definisce indifferente, “che si è costruita i suoi idoli e ha smarrito i suoi valori”, ha spesso problemi di salute. Finisce anche per anni su una sedia a rotelle, a causa di alcune vertebre schiacciate dalle fatiche alle quali sottopone il suo fisico gracile. Ma il 16 gennaio 2014 la sua comunità rende noto che fratel Biagio, già dall’estate precedente ha ripreso a camminare grazie a una guarigione tuttora scientificamente inspiegabile, avvenuta dopo un bagno nelle acque di Lourdes.
La Missione fondata da Biagio Conte oggi è composta da tre strutture: la comunità “Missione di Speranza e Carità”; l’“Accoglienza Femminile” e “La Cittadella del Povero e della Speranza”. Tutte unite dalla “Casa di Preghiera per tutti i Popoli”, la cappella all’interno della Missione, nella quale si trova una grande barca di cartone, a simboleggiare il viaggio di quanti lasciano la loro terra alla ricerca di un futuro migliore. Complessivamente assiste circa 600 persone in dieci centri in Sicilia: l’accoglienza viene offerta fino a quando chi è stato ospitato non trova una propria sistemazione abitativa. Ognuna delle tre comunità palermitane è dotata di una cucina e di una sala mensa dove vengono distribuiti tre pasti al giorno. Molti dei generi alimentari utilizzati vengono donati da associazioni, singoli cittadini, scuole, supermercati, ditte alimentari, mentre alimenti freschi, come frutta e verdura necessari per un pasto completo, devono essere comprati.
Le tante iniziative per i più poveri di Palermo e della Sicilia
La Missione offre poi assistenza medica e legale, oltre alla mediazione culturale, e si accompagna i disabili che desiderano partecipare alla Messa o a fare passeggiate, organizza corsi di alfabetizzazione. Grazie all’opera di volontariato di artigiani e liberi professionisti, agli ospiti della Missione viene offerta la possibilità di imparare un mestiere per affrontare il ritorno nella società e l'integrazione. L’assistenza della Missione di fratel Biagio è rivolta anche a tante famiglie indigenti che abitano nei quartieri più poveri di Palermo. Oggi sono più di 300 le famiglie che ricevono aiuti, in particolare beni di prima necessità, o, dove ci sono neonati, latte pediatrico e omogeneizzati. E non manca la missione notturna: dal 1 novembre al 31 maggio, ogni sera, un camper, con 7 volontari, gira per la città per incontrare le persone emarginate e offrire loro una bevanda calda e assistenza.
Pace a tutti i costi, contro ogni guerra
di Luigi Bettazzi
Quando giunsi al concilio, all’inizio del secondo periodo (fui ordinato vescovo il 4 ottobre 1963), trovai i vescovi pensosi per la morte di Papa Giovanni XXIII e l’inizio del pontificato di Papa Paolo VI, ma anche per il messaggio lasciato da Papa Giovanni con la sua lettera enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963). Era stato quasi il suo testamento (neanche due mesi prima della morte!), suggeritogli dall’essere stato provvidenzialmente strumento di pace tra gli Stati Uniti e la Russia nella tensione per la “crisi di Cuba”. Fidel Castro aveva respinto il tentativo di invasione di esuli cubani protetti dagli Usa e aveva chiesto aiuto alla Russia, che stava inviando missili, provocando la minaccia di Kennedy di bombardare Cuba. Le due potenze non volevano la guerra, ma non potevano evitarla, e l’appello pubblico di Papa Giovanni (concordato con loro) aveva permesso alle due potenze di fermarsi senza “perdere la faccia”.
L’enciclica di Papa Giovanni non solo parlava della pace — fondata sulla verità, la giustizia, l’amore, la libertà, nelle convivenze personali e nei rapporti tra gli esseri umani e i poteri pubblici, sia all’interno delle singole comunità politiche come tra queste fra di loro — ma, parlando delle necessità di un progressivo disarmo, giungeva ad affermare (n. 67): «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». La traduzione sfumava il latino «alienum a ratione» che vuol dire esattamente «è una follia», come va ripetendo Papa Francesco.
La novità era altresì che il Papa non si rivolgeva solo ai cattolici, bensì «a tutti gli uomini di buona volontà». I vescovi del concilio decisero allora di raccogliere spunti di idee circa le qualità positive dell’umanità in un documento veramente “pastorale”, come Papa Giovanni aveva voluto il concilio (non tanto “dogmatico”, che definisce dogmi, verità, scomunicando quanti non li accettano, ma appunto “pastorale”, impegnato ad aiutare i fedeli ad accogliere quelle verità e a viverle). Nacque così la costituzione pastorale Gaudium et spes (doppiamente “conciliare”, perché non prevista ma nata in concilio), essa pure rivolta «indistintamente a tutti gli uomini». Essa infatti non contrappone i cristiani a tutti gli altri esseri umani, ma a tutti illustra i veri valori umani, richiamando i primi a viverli compiutamente nella luce e per la forza della Rivelazione. Lo enuncia l’inizio stesso della costituzione: «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo... ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti».
Tra questi “valori”, nel capitolo su «la vita della comunità politica», emerge quello della pace, che «non è semplice assenza della guerra, ne può ridursi al solo rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti, né è effetto di dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera della giustizia» (n. 78); e poiché essa «nasce dall’amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo... tutti i cristiani sono pressantemente chiamati a praticare la verità nell’amore e ad unirsi a tutti gli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla dal cielo e attuarla» (ivi).
La costituzione passa poi a considerare l’inumanità della guerra, con crescenti devastazioni derivate dal «progresso delle armi scientifiche» (n. 80). Ne derivava lo stimolo ad una considerazione sulla liceità stessa della guerra; e v’era chi voleva (ad esempio l’arcivescovo di Parigi, cardinale Feltin, e quello di Utrecht, cardinale Alfrink, che seppi poi essere l’uno il presidente in carica di Pax Christi internazionale e l’altro il suo primo successore) la condanna netta in forza della Rivelazione («non uccidere»). Ma c’era una forte, diffusa resistenza, in particolare dei vescovi americani (gli Usa erano allora impegnati in Vietnam nella guerra contro i comunisti), i quali scongiuravano: «non pugnalate alle spalle i nostri giovani, che in Estremo Oriente stanno difendendo la civiltà cristiana!». S’è giunti però alla condanna della “guerra totale” (allora era indicata come abc, cioè Atomica, Biologica, Chimica), come ormai sono tutte le guerre, ed è l’unica condanna di tutto il concilio pastorale: «ogni atto di guerra, che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città e di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione dev’essere condannato» (n. 80). Le parole sono chiare, tanto che alcuni moralisti erano giunti a dichiarare che il cristiano non potrebbe fare il soldato se non facendo obiezione di coscienza, almeno implicita, alla “guerra totale”.
La costituzione continua condannando la corsa agli armamenti che è «una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri», perché «mentre si spendono enormi ricchezze per la preparazione di armi sempre nuove, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del tempo presente» (81): e si sollecitano interventi globali e decisi, soprattutto dell’Onu (che è frenata dai “veti” delle cinque Nazioni che hanno vinto la seconda Guerra mondiale).
È necessario che si giunga davvero ad una sincera volontà di “pace a tutti i costi”, contro la tradizionale mentalità che solo la violenza della difesa possa fermare la violenza dell’offesa: ma, se la guerra è una follia, lo è anche la guerra cosiddetta di difesa.
Allora, si devono accettare passivamente anche le oppressioni e le ingiustizie? No, si deve invece escogitare come reagire in modo non violento. Gesù ha dato l’insegnamento e l’esempio della nonviolenza, della mitezza, e dobbiamo credere che la croce porta sempre con sé anche la risurrezione. Ce ne ha offerto l’esempio anche il Mahatma Gandhi, che diceva di averlo appreso pure dal Vangelo, confessando poi che non si era mai fatto cristiano vedendo quanto poco i cristiani lo mettessero in pratica in questo ambito.
Ripensiamo allora a Papa Giovanni, riprendiamo in mano il concilio e ascoltiamo Papa Francesco, per compiere seriamente un cammino di pace.
La testimonianza
di Enzo Bianchi
Il Vescovo Luigi Bettazzi è sempre stato un grande amico, mio personale e della comunità di Bose. Negli anni ’60, quando ero solo a Bose, e in seguito, quando la fraternità nascente era vista negativamente per la presenza di cristiani cattolici, protestanti e ortodossi, lui veniva a trovarmi: partecipava alla nostra preghiera e accoglieva l’invito alla nostra tavola, consolandoci e confermandoci nella fede e nella vocazione monastica. Negli anni successivi mi coinvolse in molte iniziative ecclesiali facendomi partecipare come relatore ai tre sinodi diocesani e ad altre assemblee pastorali.
È poi sempre tornato con regolarità a Bose, di solito il 15 agosto, festa di Maria Assunta, e in occasione degli incontri e dei convegni ecumenici. Quando è avvenuto l’allontanamento da Bose di me, di altri due fratelli e di una sorella ha cercato la riconciliazione tra noi e la comunità recandosi anche a Bose e incontrando il priore allora in carica e l’economo, senza trovare una porta aperta dall’altra parte. È venuto anche più volte a Torino a pranzo da me mostrandomi sempre amicizia fedele e fraternità ecclesiale.
Ieri, alla notizia che era giunta la sua ultima ora, mi sono recato da lui, al suo letto di morte. Era lucido, gli occhi ancora aperti e subito mi ha mostrato la sua gioia stringendomi la mano. C’era anche il Vescovo di Biella, mons. Farinella. Bettazzi ha preso le sue mani, le ha incrociate con le mie e ha evocato la riconciliazione: voleva che il Vescovo facesse di tutto per la riconciliazione tra la comunità e i fratelli allontanati. Poi si è segnato con il segno della croce. Abbiamo pregato il Padre Nostro, il Magnificat e il Vescovo ha letto le Beatitudini. È anche intervenuto il Vescovo di Ivrea, mons. Cerrato.
Poi Giuliana è tornata per bagnargli le labbra con acqua mentre io gli tenevo la mano nella mia. A un certo punto ho pregato dal rito della morte: “Parti anima cristiana nel nome del Padre che ti ha creata, nel nome del Figlio che ti ha redenta, nel nome dello Spirito santo che ti ha santificata”. Il Vescovo Luigi si è ancora segnato con il segno della croce, poi è entrato in un sonno profondo e nel giorno del Signore, nell’ora della resurrezione di Cristo, ha fatto il suo transito da questo mondo al Padre.
Diciamo solo un grazie al Signore che ci ha dato un tale testimone: per noi è stato colui che ci ha confermato nella fede, consolato nelle prove, amico dei poveri e degli ultimi.
Bettazzi, vescovo sui passi del Concilio. Voleva una Chiesa «serva e povera»
Filippo Rizzi
Un padre conciliare che ha sempre visto nel Vaticano II «più pastorale che dogmatico», il compimento di molti dei suoi “sogni” giovanili e il migliore strumento di annuncio della fede ai lontani. Ma anche un’assemblea che per i suoi contenuti e intenti programmatici ha ancora molto da dire con il suo «già e non ancora» al futuro della Chiesa.
Si può condensare in questa immagine il rapporto con il Concilio del vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, morto alla soglia dei 100 anni (era nato il 23 novembre 1923) la scorsa domenica mattina ad Albiano di Ivrea. Con Bettazzi, come è stato scritto in questi giorni, scompare l’ultimo padre conciliare italiano (era il vescovo ausiliare del carismatico cardinale di Bologna Giacomo Lercaro): partecipò a 40 anni alla seconda sessione nel 1963 e solo il 4 ottobre di quello stesso anno fu consacrato presule nella Basilica di San Petronio a Bologna.
Gli ultimi superstiti tra i pastori di quella storica assise (composte da circa 2.500 vescovi) voluta da Giovanni XXIII e conclusa da Paolo VI sono oramai solo quattro: il messicano José de Jesús Sahagún de la Parra, 101 anni (1° gennaio 1922) e ultimo testimone della sessione di apertura nell’11 ottobre 1962; Victorinus Youn Kong-hi, della Corea del Sud, 98 anni (8 novembre 1924); l’indiano Alphonsus Matthias, 95 anni (22 giugno 1928); e il cardinale nigeriano Francis Arinze, 90 anni (1° novembre 1932).
Ma Bettazzi è stato, fino a domenica scorsa, soprattutto l’ultimo testimone della firma del “Patto delle Catacombe” il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Vaticano II, l’8 dicembre dello stesso anno. A quello storico incontro avvenuto alle Catacombe di Domitilla a Roma, dopo una solenne celebrazione eucaristica, erano presenti figure carismatiche come Hélder Pessoa Câmara e José Maria Pires.
Successivamente, al Patto aderirono molti altri padri conciliari dei diversi continenti che condividevano la sfida di una «vita di povertà» e il desiderio di una Chiesa «serva e povera», come aveva suggerito Giovanni XXIII.
«L’impegno, denominato “il Patto delle Catacombe”, fu poi firmato da centinaia di vescovi e fu affidato a Lercaro, che lo portò a Paolo VI – ha raccontato lo stesso Bettazzi alcuni anni fa - insieme al risultato delle sue consultazioni che, fra l’altro, suggerivano la soppressione dell’esercito pontificio e un distacco dai legami tradizionali con l’aristocrazia romana, mentre indicavano, come primo indice di povertà, nel mondo attuale, la trasparenza dei bilanci».
È significativo ancora oggi tornare con la mente al primo intervento di Bettazzi sulla «collegialità episcopale» nell’Aula di San Pietro durante la seconda sessione del Vaticano II nel 1963. L’intervento di Bettazzi fu salutato con stima e vivo apprezzamento e per questo annotato nei suoi diari (Quaderni del Concilio, Jaca Book, 2009) da un teologo del rango di Henri de Lubac.
E fu lo stesso giovane ausiliare di Lercaro a rievocare il senso del suo contributo: «Preparato dal centro bolognese di don Giuseppe Dossetti e dal professor Giuseppe Alberigo, voleva dimostrare che la collegialità era nella prassi della Chiesa romana; il cardinale Giacomo Lercaro, per cui era stato preparato, per vari motivi, non era stato in grado di farlo. Lo rielaborai e lo esposi in assemblea concludendo che la parola “collegio” contestata da alcuni, perché presso i romani indicava un’assemblea di uguali, era invece usata nella liturgia di san Mattia, inserito nel “collegio degli apostoli”».
Bettazzi ha lasciato la sua “impronta” indiretta su testi conciliari come il documento sui laici Apostolicam Actuositatem e la Costituzione pastorale sul mondo contemporaneo la Gaudium et spes. Quest’ultimo testo rappresentò per il giovane presule un’autentica bussola di orientamento per la sua futura vita di pastore nel post-Concilio soprattutto durante il suo lungo governo della diocesi di Ivrea dal 1966 al 1999 e per i suoi 17 anni alla guida di Pax Christi (1968-1985).
È giusto ricordare che Bettazzi fu uno dei motori, a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965, per l’avvio della causa di canonizzazione del “suo” papa Giovanni XXIII. A testimoniarlo sono le annotazioni del grande teologo domenicano francese Yves Marie Congar nel volume da poco ripubblicato dalla San Paolo Diari del Concilio, 1960-1966.
Come certamente singolare è stata la sua amicizia intrattenuta con il venerabile il vescovo don Tonino Bello. «Lo indicai – raccontò a chi scrive – come mio successore per la sua attenzione ai poveri e agli ultimi alla guida di Pax Christi al cardinale presidente della Cei di allora, Anastasio Alberto Ballestrero. E la proposta fu accettata».
Un rapporto di stima e di confronto soprattutto teologico fu quello che Bettazzi intrattenne con il cardinale Giacomo Biffi, conosciuto a Parigi nel lontano 1951, di cui rammentava spesso l’«esemplare omelia» tenuta ai funerali di don Giuseppe Dossetti a Bologna nel 1996. «Pur nelle diversità di vedute ecclesiali – confidava – ci siamo voluti bene e gradì molto la mia ultima visita prima della sua morte nel 2015. Ci salutammo e benedicemmo da amici».
Un ultimo spezzone significativo e originale della lunga vita di Bettazzi, originario di Treviso, ma da sempre figlio della Chiesa di Bologna, era il poter presiedere, ogni anno, finché le forze l’hanno sostenuto, la Messa ogni 4 agosto («Quasi sempre la prima Eucaristia mattutina», raccontano i frati predicatori) nella Basilica patriarcale di San Domenico.
Qui infatti venne ordinato prete il 4 agosto 1946 dall’allora cardinale di Bologna, Giovanni Battista Rocca di Corneliano. E qui tornò per i suoi 75 anni di Messa nel 2021 con l’attuale cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. «Il mio essere qui a Bologna ogni anno – amava ripetere – è per ringraziare il Signore di essere sacerdote per sempre».
Per occuparsi degli altri, l’amore è base fragile. Occorre il sentimento di giustizia, un'empatia per le vicende umane, sentire sulla pelle le ferite degli altri che impedisce l’indifferenza, il giudizio, il pregiudizio, frutti velenosi dell'ignoranza
Don Luigi Ciotti
Don Ciotti si racconta ai ragazzi
«Ci rivediamo. Tornerò a trovarvi». «Vieni a pranzo. Facciamo il pollo con le patatine». «Guardate che cucino anche io». «Sì, sì, cuciniamo insieme». Si chiude così, come tra vecchi amici, l’incontro tra don Luigi Ciotti e i ragazzi che seguono a Foggia il progetto “Dispersione” di Enac Puglia, l’ente formativo delle suore Canossiane, finanziato dalla Regione. Ragazzi “a rischio”, vengono dalla complicata area garganica, storie di marginalità, disagio, abbandono scolastico, alcuni segnalati dai servizi sociali per precedenti penali o perché borderline o con situazioni familiari difficili. Il progetto, residenziale a Foggia, scuola e formazione professionale, prevede anche un percorso sulla legalità, coordinato da Federica Bianchi, referente di Libera Foggia. «Lei mi ha parlato di voi in modo meraviglioso», esordisce don Luigi coi ragazzi. Ma loro sono sospettosi. «Ho visto su Google chi sei», gli dicono. Si aspettano una “lezione” sulla legalità.
O forse una ramanzina perché pochi giorni prima hanno rotto una porta. Squa- con freddezza quel sacerdote che chiede di dargli del tu. Poi, via via, le difese si abbassano e diventa un colloquio tra pari. Don Luigi si mette al loro livello. Non da saccente maestro che viene a spiegare la legalità. Racconta la sua storia di bambino emigrato a Torino. Poi di 17enne che sceglie di impegnarsi per gli ultimi, per gli scartati. Come loro. Chiede cosa facciano. «Il pizzaiolo », «il cameriere», «la pasticcera ». «Complimenti», dice don Luigi e poi rivolgendosi a suor Filomena aggiunge: «Sto scoprendo la meraviglia di questo vostro dono». «Lo facciamo per questi ragazzi, che più sono disgraziati e più sono preferiti », risponde la suora. Poi don Luigi entra nel tema ma a modo suo. «Legalità è una parola che ci hanno rubato, che usano anche quelli che non la praticano». «Siamo il paese di Arlecchino», commenta secco un ragazzo. Il ghiaccio si è sciolto. Don Luigi racconta.
Il diploma da radiotecnico. L’incontro col barbone che lo spinge a occuparsi dei ragazzi che si riempivano di alcool e psicofarmaci. E l’attenzione sale. «Allora non c’erano comunità. Abbiamo cominciato dalla strada. Il nostro impegno nasceva dalla concretezza, dai bisogni reali». E continua il parallelo. «Allora ho capito che il lavoro è fondamentale, è occasione di vita. Oggi abbiamo una cooperativa che raccoglie rifiuti e dà lavoro a 250 persone. Dare occasione come fate voi qua». Ma è il tema droga che attira più l’attenzione. «Allora si finiva in carcere o in ospedale psichiatrico. Noi abbiamo cominciato a operare sulla strada». I ragazzi ascoltano attenti e reagiscono. «Ma allora ci si distruggeva...». E don Luigi volta pagina. «Però bisogna raccontare le cose positive». Così fa codrano noscere «don Tonino Bello innamorato di Dio e degli ultimi, che lottava per loro». Ormai si guardano negli occhi, lo scambio è totale. «Mi fa piacere avervi scoperto. Che vi accolgono, vi accompagnano. Mi dà una gioia immensa. Voi siete protagonisti». Ma un ragazzo replica: «Io no. Nella vita potevo fare di meglio». «Coraggio. Ognuno di noi ha fatto errori. Pensa che sono stato espulso in prima elementare». «E io bocciato in terza».
Don Luigi ricorda quegli anni lontani. «A Torino vivevamo in una baracca. Eravamo giudicati. Eravamo i poveri». E arriva all’episodio di quando lanciò il calamaio contro la maestra che lo aveva apostrofato dicendo «che cosa vuoi tu piccolo montanaro ». «Ti consideravano diverso, ti sentivi diverso». «Se l’avessero fatta a me, mio padre sarebbe venuto a scuola e l’avrebbe appesa a un albero », commenta un ragazzo. «Mia madre mi fece capire che alla violenza verbale non si risponde con la violenza», risponde il sacerdote, però ricorda anche come i genitori dei compagni dicessero ai figli «guai se ti vedo con lui. Ero il compagno cattivo. Ho dovuto cambiare scuola». «Lo stesso che è accaduto a me perché fumavo. Non potevamo uscire insieme. Le famiglie non volevano». L’incontro finisce con la promessa di rivedersi. E quando don Luigi si allontana i ragazzi chiedono a Federica. «È sotto scorta? Come vive? Gli vogliamo chiedere se ha paura»
Antonio Maria Mira domenica 21 nov 2021
La storia di Libera
Un pomeriggio del 14 dicembre 1994, le agenzie di stampa lanciano in rete la notizia: «Nasce Libera, cartello di associazioni contro le mafie». L’idea, annunciata da don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, raccoglie l’adesione di trecento tra gruppi e associazioni.
Spiccano, tra gli altri, l’Arci, le Acli, Legambiente, la Fuci, il Gruppo Abele, la Cgil. Ciascuna associazione con storia e identità proprie e diverse, ma accumulate dalla consapevolezza che opporsi alle mafie è un compito politico, sociale, culturale ed etico che riguarda l’intera società civile. Don Ciotti non si limita ad annunciare la nascita di Libera, ma lancia anche una petizione popolare per raccogliere un milione di firme per destinare a uso sociale i beni confiscati ai mafiosi e ai corrotti. Un’iniziativa che fa discutere e attira sulla neonata associazione l’attenzione del mondo politico e sociale. Libera nasce così con un percorso chiaro, delineato. Intanto nei mesi successivi proseguono gli incontri e le riunioni per delineare il profilo dell’associazione, un percorso costituente che porterà – il 25 marzo 1995 – alla approvazione dello statuto di Libera e alla sua nascita ufficiale, presso la sede della Cgil di Roma, in via dei Frentani. Don Ciotti viene nominato presidente nazionale.
1993
Primo numero della rivista Narcomafie, edita dal Gruppo Abele
1994
Si svolge a Roma la conferenza stampa della neonata Associazione Libera con don Luigi Ciotti e i Presidenti delle principali Associazioni Nazionali. Viene lanciata la petizione con raccolta firme per chiedere l’utilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie
I edizione Carovana nazionale antimafia, con ARCI
1995
Il 25 marzo si costituisce formalmente Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie
I Campo di formazione antimafia a Manduria (Ta)
1996
La proposta di legge di iniziativa popolare, promossa da Libera, con più di un milione di firme raccolte, viene approvata in Parlamento e diventa la Legge 109/96 - Disposizione in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati e confiscati
I Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie a Roma
Nasce Avviso Pubblico, Enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie
1997
Bruxelles, audizione pubblica di Libera al Parlamento Europeo, nell’ambito della Risoluzione sul piano d’azione contro la criminalità organizzata che viene poi adottata a novembre
1998
Nasce LaviaLibera, periodico semestrale di Libera, diretto da Gianmario Missaglia, già presidente Uisp
1999
Viene sottoscritto un protocollo d’intesa tra Libera e il Ministero della Pubblica Istruzione sui temi dell’educazione alla legalità
2000
Libera partecipa alla I Conferenza mondiale dell’ONU contro la criminalità organizzata a Palermo
2001
Nasce con bando pubblico in Sicilia la prima Cooperativa Libera Terra, dedicata a Placido Rizzotto
2002
Si tiene a Torino “Strada facendo”, il primo appuntamento sulle politiche sociali in collaborazione con CNCA e Gruppo Abele
Macramè è il piano di comunicazione rivolto ai giovani sui temi dei diritti, della cittadinanza e della legalità promosso da Libera e Gruppo Abele nelle scuole italiane
2003
La “Corsa per la pace e i diritti”, promossa da Libera, attraversa 25 città italiane e anche alcune città straniere come Buenos Aires, Kabul, Baghdad, Grand Bassan in Costa d’Avorio
2004
Primo Campus Albachiara a Montecatini Terme (PT), promosso dal Gruppo Abele e Libera
2005
Viene assegnato a Libera il palazzo confiscato alla banda della Magliana in via IV novembre a Roma che diventa la sede nazionale dell'associazione
Torino, sottoscritta la prima convenzione tra Libera e un’università italiana per due master riguardanti la criminalità mafiosa
Partono in Sicilia e Calabria “I campi della legalità – Progetto Libera Terra” i primi campi di volontariato e di formazione sui terreni confiscati organizzati da Libera e Legambiente
2006
Nasce l’Agenzia Cooperare con Libera Terra
“Libero Cinema in Libera Terra”, progetto per allestire luoghi di proiezione e visione collettiva di cinema sui terreni confiscati alle mafie
I edizione Concorso-premio Regoliamoci, in collaborazione con il MIUR
I edizione di Contromafie, gli Stati generali dell’Antimafia a Roma
2007
Prima edizione di “Abitare i margini”, programma di formazione rivolto agli insegnanti sull’educazione alla cittadinanza, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione
Nasce la Fondazione Libera Informazione
2008
Nasce il Consorzio Libera Terra Mediterraneo
2009
In seguito a una modifica allo Statuto, Libera può costituirsi parte civile nei processi di mafia
II edizione di Contromafie, gli Stati generali dell’Antimafia a Roma
2010
Nasce la rete ALAS - America Latina Alternativa Social
Lancio della campagna “Corrotti” e raccolta di firme per la confisca e il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai corrotti
A Reggio Calabria nasce la prima rete solidale contro il pizzo, ReggioLiberaReggio
2011
Prende avvio il progetto “Libera la Natura” in collaborazione con il Gruppo Sportivo del Corpo Forestale dello Stato
A Rizziconi (Rc) la Nazionale Italiana di calcio allenata da Cesare Prandelli gioca sul campetto confiscato alla 'ndrangheta
Nasce il Premio Giornalistico Roberto Morrione, dedicato alla memoria e all'impegno civile e professionale del giornalista Rai, fondatore di Rainews24 e di Libera Informazione
2012
“Amunì”, il progetto promosso da Libera insieme al Dipartimento per la giustizia minorile
2013
Libera lancia tre importanti campagne: “Illuminiamo la salute”, “Io riattivo il lavoro” e “Miseria ladra”
2014
Trentadue anni dopo la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni ai mafiosi in Italia, arriva l'approvazione da parte del Parlamento europeo della Direttiva (UE) 25/02/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato nell'Unione europea
Roma, conferenza nazionale “Le mafie restituiscono il maltolto. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati per la legalità, lo sviluppo sostenibile e la coesione territoriale”
Papa Francesco incontra i familiari vittime di mafia nella chiesa di San Gregorio VII a Roma
III edizione di Contromafie, gli Stati generali dell’Antimafia a Roma
2015
• Venti liberi: vent'anni Libera
• Città del Messico ospita la prima assemblea di ALAS (America Latina Alternativa Social), la rete internazionale di associazioni e organizzazioni latinoamericane che ha l’obiettivo di contrastare la criminalità organizzata e la corruzione
• Libera promuove la conferenza stampa con Alex Schwazer e Sandro Donati per la presentazione del progetto per il ritorno dell’atleta, a squalifica conclusa, all’attività agonistica
2016
• Appuntamento Nazionale dei giovani di Libera a Cecina (Li)
• Roma viene firmato il protocollo tra l’Arma dei Carabinieri e Libera per una cultura antimafia.
• Viene firmata La Carta di Fondi, sottoscritta, nel monastero benedettino olivetano San Magno di Fondi da sacerdoti, religiosi e religiose che collaborano con Libera. Impegna i firmatari in azioni contro le mafie e corruzione, contro le ingiustizie sociali e le ecomafie
2017
• Locri (Rc), il presidente della Repubblica Sergio Mattarella incontra i familiari vittime di mafia, in occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie
• Nasce Numeri Pari, una rete di associazioni per il contrasto alla disuguaglianza sociale per una società più equa fondata sulla giustizia sociale e ambientale
• Nasce Vivi un archivio multimediale, aperto e accessibile a tutti, dove sono raccolte tutte le storie delle vittime innocenti delle mafie di cui abbiamo notizia
• Con la ricerca sociale sulla percezione delle mafie e corruzione nel paese, prende il via la campagna Liberaidee un viaggio per conoscere, allargare la rete, rinnovare l’impegno civile contro le mafie e la corruzione
• Nasce il nuovo sito di Libera
2018
• Si svolge a Roma la IV edizione di Contromafiecorruzione, gli Stati Generali dell'antimafia
• Viene firmato a Roma il Protocollo Liberi di Scegliere che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso
• VII Appuntamento dei giovani di Libera a Trappeto (PA)
• Al via Linea Libera, il servizio telefonico, gratuito e riservato, per chi vuole segnalare o denunciare condotte corruttive o di stampo mafioso
• Si svolge la giornata di mobilitazione #magliettarossa per #fermare l'emorragia di umanità
• Viene presentato a Roma il rapporto Liberaidee, sulla percezione e la presenza di mafie e corruzione nel nostro Paese
2019
• Apre alla Certosa1515 di Avigliana (To) la Scuola Casacomune Laudatosi’Laudatoqui, ispirata ai principi espressi nell’enciclica di Papa Francesco.
• Si svolge a Venezia l’Assemblea nazionale dei familiari delle vittime innocenti delle mafie della rete di Libera.
• Si svolge a Padova, in contemporanea in migliaia di luoghi d’Italia, dell’Europa, dell’America Latina e Africa la XXIV° Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
• Nasce Lavialibera | Pensieri nuovi | parole diverse, il nuovo progetto editoriale fondato da Libera e Gruppo Abele.
• Roma, viene firmato il primo protocollo tra il Coni e Libera per favorire e accrescere la funzione dello sport come strumento di educazione e aggregazione.
• Nasce CHANCE, Civil Hub Against orgaNised Crime in Europe - la rete sociale costituita in Europa grazie all’impegno delle tante realtà ed associazioni unite alla volontà di costruire con Libera percorsi di giustizia sociale.
2020
• Esce il primo numero de "Lavialibera, pensieri nuovi parole diverse", il nuovo progetto editoriale fondato da Libera e Gruppo Abele Roma
• A Piazza Montecitorio Presidio dei familiari delle vittime innocenti delle mafie e presentazione del manifesto “Diritti Vivi”
• Presentazione del Dossier “La Tempesta Perfetta, le mani della criminalità sulla pandemia”
2021
• In occasione dei 25 anni dalla Legge 109, Libera pubblica un dossier e un Almanacco sul riutilizzo sociale Beni confiscati alle mafie
• Si svolge a Roma la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie
• In Calabria, a Capo Rizzuto si svolge il Raduno Nazionale dei Giovani
• Luigi Ciotti viene confermato presidente di Libera durante l'Assemblea nazionale che si svolge a Roma
2022
• Libera presenta il dossier “La tempesta perfetta 2022. La variante Criminalità”. Tutti i numeri del contagio criminale nei due anni di pandemia
• Si svolge a Napoli la XXVII edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
• Si tiene a Roma, “ExtraLibera: le giornate di contromafie e corruzione”
• In Campania, a Paestum si svolge il Raduno Nazionale dei Giovani di Libera dedicato alla memoria di Mario Paciolla, il cooperante Onu morto in Colombia il 15 luglio 2020.
• Si tiene a Palermo CROSS la manifestazione organizzata da Libera che ha visto più di 50 relatori italiani e stranieri fare il punto sullo stato della lotta alle mafie e alla corruzione a livello locale, nazionale e internazionale.
2023
• Si svolge a Milano la XXVIII edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
• Prima assemblea in Costa d'Avorio di Place (la rete promossa da Libera in Africa alla presenza delle oltre 40 realtà provenienti da 16 Paesi del Continente Africano.
• Papa Francesco incontra in Vaticano, don Luigi Ciotti e una nutrita rappresentanza di donne provenineti da contesti mafiosi che hanno deciso di cambiare vita.
• "Una Chance per l'Europa”. La rete europea Chance presenta presso il Parlamento Europeo il Manifesto politico con 12 proposte politiche in vista delle elezioni parlamentari del 2024
• Libera presenta il Dossier “Diario di Bordo. Storie, dati e meccanismi delle proiezioni criminali nei porti italiani”
Luigi Ciotti nasce il 10 settembre 1945 a Pieve di Cadore (Belluno) e si stabilisce con la famiglia a Torino nel 1950. Nel 1965, insieme ad alcuni amici, promuove un gruppo di impegno giovanile che prenderà in seguito il nome di Gruppo Abele. Fra le sue prime attività, un progetto educativo negli istituti di pena minorili e la nascita di alcune comunità per adolescenti alternative al carcere.
Terminati gli studi presso il seminario di Rivoli (TO), nel novembre del 1972 Luigi Ciotti viene ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, che come parrocchia gli affida la strada[1], luogo – specifica – non di insegnamento ma di apprendimento e incontro con le domande e i bisogni più profondi della gente. Proprio sulla strada, nel 1973, il Gruppo inaugura il “Centro Droga”, un luogo di accoglienza e ascolto per i primi giovani con problemi di tossicodipendenza. È un’esperienza allora unica in Italia, cui seguirà l’apertura di alcune comunità. In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale – con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada” – e, in senso lato, “politico” – con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685 – per costruire diritti e giustizia sociale. Il Gruppo Abele non si occupa solo di droga, ma sviluppa proposte per affrontare il disagio sociale nel modo più ampio possibile. Dai servizi a bassa soglia alle comunità, dagli spazi di ascolto all’attenzione per le varie forme di dipendenza – nuove droghe, alcool, gioco d’azzardo, “consumi” in senso lato – dall’aiuto alle vittime di tratta e alle donne prostituite – con l’unità di strada, il numero verde, il supporto legale – alle iniziative per l’integrazione delle persone migranti, come l’“educativa di strada” per gli adolescenti stranieri. E ancora attività di ricerca, una biblioteca, riviste tematiche, e percorsi educativi rivolti a giovani, operatori sociali e famiglie; come pure l’attività di mediazione dei conflitti e sostegno alle vittime di reato. Infine, un consorzio di cooperative sociali per dare lavoro a persone con percorsi difficili, eredità delle botteghe e dei laboratori professionali aperti già negli anni settanta.
A partire dal 1979 il Gruppo si apre anche alla cooperazione internazionale, con un primo progetto in Vietnam, cui ne seguiranno altri in Sud America e Costa d’Avorio, quest’ultimo tuttora in corso.
Convinto che solo il “noi” possa essere protagonista di un vero cambiamento sociale, nel 1982 don Ciotti contribuisce alla nascita del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (CNCA), presiedendolo per dieci anni, e nel 1986 partecipa alla fondazione della Lega italiana per la lotta contro l’AIDS (LILA) per la difesa dei diritti delle persone sieropositive, della quale pure sarà presidente.
Negli anni novanta l’impegno di don Ciotti si allarga al contrasto alla criminalità organizzata. Dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio dell’estate del 1992, fonda il mensile Narcomafie – di cui sarà a lungo direttore – e nel 1995 il coordinamento di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, oggi punto di riferimento per oltre 1.600 realtà nazionali e internazionali (fra cui diverse sigle del mondo dell’associazionismo, della scuola, della cooperazione e del sindacato). Nel 1996 Libera promuove la raccolta di oltre un milione di firme per l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati, e nel 2010 una seconda grande campagna nazionale contro la corruzione. Obiettivo di Libera è alimentare quel cambiamento etico, sociale, culturale necessario per spezzare alla radice i fenomeni mafiosi e ogni forma d’ingiustizia, illegalità e malaffare. A questo servono i percorsi educativi in collaborazione con 4.500 scuole e numerose facoltà universitarie; le cooperative sociali sui beni confiscati con i loro prodotti dal gusto di legalità e responsabilità; il sostegno concreto ai familiari delle vittime e la mobilitazione annuale del 21 marzo, “Giornata della memoria e dell’impegno”; l’investimento sulla ricerca e l’informazione, attraverso l’Osservatorio “LiberaInformazione”; l’attenzione alla dimensione internazionale, con la rete di Flare – freedom, legality and rights in Europe.
Dalla parte degli ultimi. Dona gioia ai piccoli. E anche tu potrai gioire
Maurizio Patriciello
La nostra vita è unica e irripetibile. Farsi prossimi di chi è più indifeso e a rischio di essere scartato riempie la vita come nient'altro. E la vita che ci chiede più protezione è quella nascente
Don Maurizio Patriciello con due bambini della sua parrocchia di Caivano
Don Maurizio Patriciello con due bambini della sua parrocchia di Caivano
Maggio 2020, siamo in piena pandemia. Invitato a partecipare a una trasmissione televisiva, mi reco alla sede Rai di Napoli. Ho il permesso di viaggiare. Per la strada realizzo di essere terribilmente solo. Tutt’intorno il vuoto, il silenzio, il deserto. Come un bambino in preda al panico, piango. Procedo lentamente, guardo i palazzi muti, incolori, inespressivi. Ho paura per i miei cari, per l’Italia, per l’umanità. Penso alle stupide e feroci lotte fratricide per essere più ricchi, agli inutili e costosissimi orologi d’oro, ai conti in banca e le pellicce ad ammuffire negli armadi. In questo scenario desolante, tutto mi appare insignificante. Penso agli esseri umani. A te, a me, alla mia mamma, al tuo figliolo; al nostro vicino di casa, ai colleghi di lavoro, ai miei amici aggrediti dal Covid. Penso all’essere umano. Quando il sole si spegnerà - perché un giorno si spegnerà - le stelle nemmeno se ne accorgeranno.
Il nostro peggior nemico, contro cui non dobbiamo mai stancarci di lottare, è l’abitudine. Quello stato d’animo, cioè, che riesce a non farci meravigliare più di niente. E tutto colora di grigio, tutto fa apparire vecchio, scontato. Proviamo a pensare se, per un qualsiasi motivo, per i prossimi decenni, non dovesse nascere più un solo bambino. Che accadrebbe? Quando l’umanità andrebbe assottigliandosi, le case rimarrebbero disabitate, le industrie chiuderebbero i battenti; quando trovare un idraulico, un pizzaiolo, un dentista, un panettiere, un netturbino sarebbe un’impresa colossale; quando non ci sarebbe più un bambino da accarezzare, una badante ad accudirci, di certo cadremmo nello sconforto più totale. Fantasia? Non ci farebbe male esercitare un po’ di fantasia. E, in fondo, non ci vuole molto.
Basta fermarci, ovunque ci troviamo, pensare a noi stessi, al nostro futuro, alle persone che amiamo e dalle quali non sappiamo fare a meno. Basta riflettere sulla nostra vita e la vita di chi, come noi, ama e si aggrappa alla vita. Basterebbe poco per farci inorridire di fronte allo scempio che l’uomo fa di tanti esseri umani innocenti e indifesi.
Ho celebrato la Messa di Natale alla facoltà di scienze infermieristiche di Napoli, nell’ospedale dove anch’io ho studiato per svolgere quella professione benedetta. Ho incontrato tanti giovani pieni di entusiasmo e di buona volontà. «C’è un solo modo per svolgere al meglio la nostra professione. Ed è tanto facile trovarlo. Accudite e curate sempre l’ammalato come se fosse la persona che amate di più nella vita...», ho detto loro. Facile. Se chi, al caldo della sua dimora, protetto dal proprio esercito, sta pensando alle bombe da lanciare sul nemico questa sera - il nemico? Chi è il nemico? Perché è diventato mio nemico? - provasse a immaginare che quei disumani ordigni andrebbero a dilaniargli i figli, i genitori e la donna che ama, ci penserebbe su duecentomila volte prima di dare il diabolico ordine. «Non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te».
Non è solo un comando divino cui obbedire, ma la più elementare forma della ragione umana. Non fargli male, potresti avere bisogno di lui e non lo troverai; non fargli male, perché poi farà del male a te; non fargli male perché, pur ridotta al minimo, c’è in te una vocina che, quando meno te lo aspetti, si farà sentire. Non credere che il volto di quei bambini straziati cadranno in oblio. Non succederà. Non è mai successo. Quelle faccine pallide e terrorizzate diverranno, durante le tue notti insonni, un incubo al quale non potrai sfuggire. E ti tormenteranno. Si confonderanno col volto del tuo nipotino, quando, davanti al caminetto acceso, ti si accoccola tra le braccia per essere accarezzato. E ti porrà domande alle quali non potrai rispondere se non facendo ricorso alla menzogna. Ma, soprattutto, si ripresenteranno con le loro faccine spente nelle ore solenni che precedono il tuo trapasso. Per la mia professione prima e la mia vocazione dopo, ho avuto modo di assistere centinaia di persone che si appressavano a lasciare questo mondo. Non ho visto mai nessuno, dico nessuno, soddisfatto per il male fatto. Gli ultimi pensieri delle donne che avevano ceduto alla tentazione di abortire è stato per quel figlio che non fecero nascere.
Ricordo quando, in carcere, incontrai Vincenzo, un assassino, ormai anziano. Quante lacrime. Quanti rimpianti. Quanti rimorsi. Che desiderio di poter ritornare indietro. « Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore», implora il salmista. Preghiera che recito anch’io, ogni giorno, a tutte le ore del giorno. Per non illudermi - inutilmente, pericolosamente - e rischiare di aver camminato invano. Dopo tante esperienze vissute, tante confessioni rese, tanti libri letti, osservazioni e studi fatti, dovremmo aver imparato a non cadere nella menzogna che la felicità, che tutti cerchiamo, abiti nell’esercitare più potere, possedere più vestiti da indossare, più case da abitare, più ori da sfoggiare. O nel moltiplicare a dismisura i piaceri che, per loro natura, hanno vita breve e che, se vissuti male, potrebbero trasformarsi nel loro esatto contrario. Pensiamo ai piaceri della buona tavola, a quelli dell’alcol, delle droghe, o ai piaceri sessuali. L’uomo è una meraviglia che per essere goduta appieno deve sapersi stupire e dei suoi simili. Ho visto Napoli deserta: era orribile. L’ho rivista nei giorni di Natale, piena di vita e di schiamazzi: era uno spettacolo. Solo l’uomo rende felice l’uomo. Lavora, impegnati, soffri per la vita e troverai la vita.
Fatti compagno del tuo prossimo e non rimarrai mai solo. Coccola, dona gioia ai bambini più poveri e umiliati e sarai a tua volta accudito e coccolato. No, non sono, e non saranno mai, le cose e il potere a riempirci il cuore, ma l’amore. «Dio è amore», afferma san Giovanni. Il che vuol dire che solo amando avremo fatto centro. Viceversa, tutto ciò che va contro l’amore: la diffidenza, l’indifferenza, la violenza, il rancore, l’odio, la sopraffazione, la prepotenza, l’invidia, la gelosia, ci scaraventa lontani da Dio, e quindi da noi stessi e dalla verità della nostra breve permanenza in questo mondo. Questa nostra vita è unica, stupenda, irripetibile, preziosa allo stesso modo di quella dei bambini che scalciano nel grembo delle mamme; come quella dei bambini dilaniati dalle bombe di queste stupide, ottuse e disastrose guerre cui, inorriditi, siamo costretti ad assistere in questi mesi.
Il racconto. C'è Dio nelle lacrime di Loredana per la sua Prima Comunione
Maurizio Patriciello
Dio parla. Quante volte lo abbiamo detto, quante volte ci abbiamo creduto davvero? Dio continua a parlare. Lo fa, però, seguendo uno stile collaudato nei secoli con tanti suoi amici, a bassa voce, con discrezione, non volendo interferire nelle nostre scelte. Aveva argione Blaise Pascal: «Dio ha messo nel mondo abbastanza luce per chi vuole credere, ma anche lasciato abbastanza ombre per chi non vuole credere». Dio vuole essere amato, ma l'amore non si impone, si dona, si sceglie, si accoglie. Tutto ciò che alla persona amata è lecito mettere in pratica, è l'antica arte della seduzione. Sedurre, farsi bella, interessante, coinvolgente, per attrarre, liberamente, l’altro a sé.
Giugno, da noi, mese delle Prime Comunioni. Momenti inenarrabili da salvaguardare, difendere dal consumismo, dalla superficialità. Eucarestia, mistero che si fa toccare. I bambini capiscono. Arrivano in chiesa di buon mattino, emozionatissimi, vestiti di bianco, con il giglio profumato in mano. Cercano sguardi, abbracci, vogliono essere rassicurati. Nei mesi trascorsi, insieme, catechisti, genitori, suore, parroci, abbiamo tentato di donare loro quello che, senza merito alcuno, ricevemmo. Certo, si può fare meglio; basta volerlo, crederci. Ben vengano le feste e i regali; i filmini, le bomboniere e il pranzo al ristorante. Tutto concorre al bene quando le cose sono fatte bene. Tutto, però, è da considerare una semplice cornice di fronte alla vera opera d'arte: l'incontro tra Gesù nascosto nel pane e i bambini di cui è gelosissimo. Per questo - e solo per questo - genitori e nonni fanno festa. Nessuno si permette di giudicare la fede di nessuno, importante, però, è lasciare spazio allo Spirito che soffia, seguendo itinerari sempre originali. Perciò occorre farsi attenti, responsabili. Domenica scorsa, anche nella nostra parrocchia, arrivano i bambini per la Prima Comunione. Insieme - come sempre - facciamo l'omelia. Qualche adulto chiacchierone viene educatamente richiamato. I veri protagonisti della celebrazione sono Gesù e i bambini. Noi adulti siamo invitati a prendere parte alla loro gioia. Lasciamogli il tempo e lo spazio necessari. Mettiamoci in ascolto. Impariamo.
Oggi, oltre a dare, siamo chiamati a ricevere. Momento culminate. Dopo la consacrazione, uno alla volta, i bambini, salgono i gradini dell'altare. Silenzio profondo. Occhi del povero prete in quelli del bambino. Sorriso rassicurante. Poi, ad alta voce: «Il corpo di Cristo». E l'intera comunità risponde con un solenne «Amen». Eccoli inginocchiati ai piedi del Tabernacolo. Li raggiungo. Un breve dialogo a bassa voce, protetti dall'altare. Dagli occhi di una bambina, grosse lacrime sgorgano incessanti. Le asciugo. So che stanno per essere raccolte negli otri del paradiso. «Loredana, sei contenta?», «Si, tanto». Loredana non singhiozza, semplicemente piange. Che cosa stia accadendo in quel cuoricino non lo saprà mai nessuno, forse nemmeno la stessa Loredana. Aguzzo lo sguardo, spalanco le orecchie. Dio parla, mi conviene ascoltare. Prego. Così: «Fa, Signore, che anch'io possa piangere ogni qualvolta che mi accingo a celebrare la Messa. Fa che possa essere sempre pronto ad asciugarle, le lacrime, ma mai - mai! - a provocarle. Soprattutto nei più piccoli, negli indifesi, nei poveri».
Fine della Messa. Una dolcezza immensa si respira per la chiesa. Poi la sorpresa, qualcuno m'invia una foto “rubata” mentre Loredana piange. Troppo bella. Che le lacrime di questa bambina possano convertire il cuore mio e quello di tanti credenti dalla fede un po’ appannata. Che possano contribuire a spegnere i micidiali fuochi dell'odio, delle gelosie, degli orgogli personali e nazionali all'origine di ogni guerra e discordia.
Vado avanti con gratitudine
Don Patriciello: «Festeggio il mio compleanno... e un anno sotto scorta»
È passato un anno. Era la notte tra l’11 e il 12 marzo quando una bomba carta fu fatta esplodere davanti al cancello della mia parrocchia, a Caivano. Un messaggio dei camorristi per dire al parroco: «Taci. Non impelagarti in cose che non ti riguardano». Non era la prima volta. «In questo quartiere - mi disse una volta un “capo” con fare minaccioso, dopo avermi fatto “sequestrare” e portare al suo cospetto - non devi mai fare riferimento alle forze dell’ordine, per qualsiasi cosa vieni a casa mia».
Chiedere al boss di tutelare la tua persona? Nemmeno a pensarlo. Un quartiere come il mio, definito “una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa” non può essere considerato un quartiere qualsiasi. Non lo è. Tutti, in particolare i bambini, gli adolescenti, i giovani, debbono sapere da che parte stanno il parroco e la comunità parrocchiale. La demarcazione con la camorra, soprattutto quella ammantata di falso e ipocrita devozionismo, deve essere netta. Senza ambiguità. La camorra vive della e nella menzogna più assoluta. È nemica giurata dell’evangelico “si si, no no”. Ai camorristi piace addirittura fare il bene. Hai bisogno di un prestito? Tuo figlio, tuo marito, in carcere, non possono permettersi l’avvocato? Non riesci a mettere il piatto a tavola o mandare i bambini a scuola? Eccoli che arrivano. Si fanno avanti. Ti aiutano.
Durante i mesi più bui della pandemia, improvvisarono addirittura una sorta di “Caritas”. Ovviamente, gli interessi da pagare dopo sono esorbitanti. Non tanto in denaro, quanto in sottomissione. Per meglio controllare il territorio. Il povero deve diventare funzionale al sistema. Deve tacere o parlare a comando. La sua casa deve essere sempre a disponibile per occultare un involucro, una valigia, una somma di denaro, una pistola, con tutti i rischi che ne seguono. Soprattutto, devono fornire la manovalanza necessaria, i figli, perché la macchina maledetta continui a funzionare. Il povero viene comprato e venduto come se fosse merce. Più è nella necessità meglio è.
Il parroco, invece? Come deve essere il parroco? Misericordioso, buono, comprensivo, generoso, sottomesso. Soprattutto deve rimanere muto nei confronti della stampa e degli inquirenti. Deve stare zitto. Non il silenzio orante del credente, ma quello omertoso del don Abbondio. Glielo ricordano in tanti modi. Se, però, è testardo e si ostina a non capire, loro calcano la mano. Come? Si inizia con le solite intimidazioni, si prosegue con le offese, le calunnie, le minacce; poi, seppure a malincuore, fanno il salto di qualità. Fanno esplodere una bomba carta alle porte della chiesa. Non in una data qualsiasi, ma la notte del suo compleanno. Dettaglio importante. Don Pino Puglisi viene ucciso la sera in cui compie 56 anni. Don Peppino Diana, la mattina del suo onomastico. Lui capisce, la paura prende il sopravvento, e tira i remi in barca. Questo il loro programma.
E, invece, non succede. Lo Stato si fa avanti e mette il parroco sotto scorta. La vita del povero prete, ancora una volta, viene stravolta. Gli sembra di stare dentro un sogno. I primi tempi sono stati duri. Poi ci si abitua. I poliziotti che si prendono cura di te, hanno un nome, un volto, una famiglia. Lentamente diventano tuoi amici, tuoi fratelli. Imparare a vivere in simbiosi. Scrivo anche per ringraziarli. Fare la scorta a un prete è diverso dal farla a un magistrato, a un imprenditore, a un giornalista. Farla a un parroco lo è ancora di più. Occorre avere tatto, pazienza, comprensione, delicatezza verso il luogo sacro e i credenti che lo frequentano. Ai miei “angeli custodi”, queste qualità non mancano. Ringrazio i loro superiori. Un pensiero, carico di affetto e di preghiera, va al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e a papa Francesco, che, in più occasioni, mi hanno espresso solidarietà e stima.
Un anno è passato. Un anno sotto scorta. Un anno in compagnia di persone che per me rischiano la vita. Le prime che vedo la mattina, le ultime cui stringo la mano la sera. A questi uomini invisibili, discreti, e ai loro colleghi sparsi per l’Italia, che permettono il sereno svolgimento del lavoro e della missione di chi è minacciato dalla malavita, va la nostra gratitudine.
"Dio dell’impossibile, se mi metti nel cuore questa spinta io ti dico sì, ma tu mettimi nella condizione."
Chiara Amirante: si può risorgere da ogni disagio
La risposta alla disperazione con un percorso di riscatto: «Dico il mio grazie a Dio per tutti coloro che sono stati nella morte e sono risorti spiritualmente».
«Sono stata una bambina vivace e impegnativa, di quelle che bombardano i genitori di “perché?” e non si accontentano di risposte preconfezionate... Ma ho avuto la grazia di nascere da due genitori che si erano convertiti da poco, quindi nel momento della massima scoperta di questa grande notizia che troppo spesso si dà per scontata. Mi è andata bene». Ed è tuttora impegnativa, Chiara Amirante, 52 anni, ogni definizione le va stretta: laureata in scienze politiche alla Sapienza di Roma, autrice di bestseller e personaggio televisivo, soprattutto fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti, nata 25 anni fa nei meandri della Stazione Termini per salvare 27 ragazzi dai loro inferni personali e oggi divenuta la casa spirituale di 700mila testimoni di luce nei cinque continenti. Lei sarà anche premiata alla Festa di Avvenire a Lerici, il 31 luglio.
Chiara, un quarto di secolo di Nuovi Orizzonti è un giro di boa non indifferente. Come lo sta vivendo?
Venticinque anni ti portano a riguardare indietro e contemplare con stupore quello che Dio ha operato. In realtà ogni giorno faccio questo esercizio di ringraziare il Padre, ma certamente farlo tutto insieme per i 25 anni mi ha colmato il cuore di commozione. Ho ripensato a quei primi giorni in cui, da ragazza, mi sono immersa nell’inferno della strada, tra tanti fratelli sofferenti, nella droga, nella disperazione, nell’abbandono dopo il carcere, nella prostituzione, e poi a quanti di loro sono passati dalla morte alla vita. Nel 1994 cominciavamo con la prima piccola comunità, in una villetta familiare mandata senza preavviso dalla Provvidenza, i materassi sparsi ovunque. Da quei 27 su cui nessuno avrebbe scommesso, vero popolo della notte, è poi fiorito questo popolo di “cavalieri della luce”, testimoni della risurrezione nelle stesse strade in cui prima vivevano di espedienti. Il giorno di Pentecoste a Frosinone eravamo in tremila a festeggiare questo anniversario, una folla di persone, ciascuno un miracolo. Ho visto le lacrime di tanti mentre a 82 ragazzi consegnavo quella piccola croce simbolo dell’essere consacrati come “Piccoli della gioia”, sapevo che quasi tutti i presenti erano stati nella morte ed erano risorti spiritualmente, e da lì è salito il nostro grazie a Dio di questa grande famiglia che sempre più ci chiama a essere testimoni di gioia per chi ha perso la speranza.
Lei è una consacrata, ma Nuovi Orizzonti è una realtà che ha molti volti ed esperienze diverse. Che cosa vi accomuna?
Per lo più noi abbiamo una consacrazione laicale, ci sono anche “Piccoli della gioia” sposati, sposi chiamati al servizio del Padre anche nel lavoro quotidiano, oppure nelle missioni, ovunque, le “Famiglie di Nazareth” che vivono una dedizione totale a Dio, aperte all’accoglienza. È questa la nostra caratteristica specifica, anche se poi abbiamo pure sacerdoti, religiosi e religiose: la consacrazione come “Piccoli della gioia” è per tutti gli stati di vita. Credo che sia un segno dei tempi se lo Spirito Santo sta mandando tanti carismi e chiama i laici là dove sono. Riflette ciò che già il Concilio chiariva, e cioè che la santità è una chiamata per tutti, non è qualcosa che possiamo delegare a sacerdoti e religiosi. Oggi soprattutto, in un mondo spesso radicato in «strutture di peccato », come le chiamava Giovanni Paolo II, c’è un’urgenza assoluta di sposi santi, di santi immersi nel mondo del lavoro, di professionisti santi, capaci di rinnovare la società da dentro. Va detto però che come Chiesa siamo un po’ indietro nel riconoscere il contributo che ciascun laico può portare: colpa di quel clericalismo duro a morire di cui parla papa Francesco. Il sacerdozio è un dono immenso, ma poi siamo tutti corpo di Cristo.
Quei genitori che lei da bambina bombardava di domande hanno fatto in tempo a vedere il suo cammino?
Poverini, sì. Sentirsi dire da una figlia che va a vivere in strada non è facile. Avevo sentito la chiamata a lasciare tutto per andare a vivere in strada con la mia nuova famiglia, ero anche guarita all’improvviso da una malattia incurabile... In una giornata di spiritualità, quando erano sotto l’azione dello Spirito Santo, ho detto loro che avrei lasciato la casa e il lavoro per seguire Gesù nei bassifondi della città... Per la grande stima che avevano di me mi hanno dato la loro benedizione, sapevano che se facevo delle pazzie era perché Dio me le metteva nel cuore, essendo io molto razionale. Ma poi papà ha cercato di farmi ragionare, diceva che per una ragazza era troppo pericoloso. Mamma ha capito subito che era una chiamata e niente mi avrebbe distolto, ma lui ha vacillato, «Se vuoi diventare santa fallo lontano da me, perché non posso morire di crepacuore », mi ha detto. Ma Dio non si lascia mai vincere in generosità e proprio il giorno in cui dovevo trasferirmi in strada con la mia nuova famiglia di disperati è arrivata dalla Provvidenza la prima struttura per iniziare l’accoglienza residenziale. Mamma e papà sono poi venuti a vivere nove giorni di ritiro spirituale con i 27 arrivati tutti da esperienze estreme...
Che cosa proponeva a questi ragazzi?
Di fare un’esperienza di risurrezione. «Non importa se credete che Gesù è figlio di Dio – dicevo loro –meditate almeno le parole di questo grande uomo che mi hanno portato a rischiare la vita per voi». Meditavamo la promessa di Gesù, che se chiediamo al Padre lo Spirito Santo egli ce lo dona: avevano i cuori tanto spezzati che nessun percorso umano avrebbe potuto trasformare i loro cuori di pietra in cuori di carne. Il nono giorno era la festa del Battesimo di Gesù. La maggior parte di loro non aveva mai pregato, ognuno ha chiesto lo Spirito in modo molto semplice, balbettando qualche parola. Non piangevano da quando erano bambini, ci siamo trovati tutti in lacrime e in quella cappellina siamo rimasti fino a sera, nessuno riusciva ad allontanarsi. Mio papà, vedendo questi lupi trasformarsi in angeli, si è tranquillizzato, innamorato di ciò che Dio stava operando non ci ha più lasciati.
Tra tanti salvati, è andata incontro a sconfitte?
Non credo nelle sconfitte. Quando Gesù ha vissuto il più grande fallimento, ha ottenuto la più grande vittoria per l’umanità. Dio è morto, ma da quella morte è avvenuto il miracolo dei miracoli. C’è nella nostra vita la terribile possibilità di dire “no” all’amore di Dio, il che è la tragedia della nostra esistenza ma anche la forza del libero arbitrio. La cosa bella è che ogni “no” può sempre ritornare a essere un “sì”. Poi è vero che quando perdi per strada qualcuno lì per lì ti arriva la spada nel cuore, ma per la mia lunga esperienza so che, se Dio ha seminato il suo amore in un cuore, quel cuore resta segnato e il più delle volte prima o poi ritorna. Certo, c’è sempre un Pietro che rinnega o un Giuda che tradisce, ma se un tempo mi scoraggiavo e soffrivo, ora è più forte la certezza che le tenebre non prevarranno.
A volte si sente sola?
Da 25 anni porto la croce terribile di raccogliere il grido lancinante dei fratelli, e non si arriva a tutti. Nonostante il Papa chieda di uscire nelle periferie esistenziali, l’indifferenza è ancora un grave peccato di omissione da parte di troppi. Ci sono poi tanti che attaccano il Papa: come si può avere la presunzione, da cattolici, di saperne più del Pontefice? Il Divisore è abile...
Come si spiega la presenza di tanti attori, cantanti, vip, attratti da Nuovi Orizzonti, da Nek a Bocelli a molti altri?
Me lo chiedo spesso. Certo nel mondo dello spettacolo c’è grande sete di spiritualità, di uscire dalle apparenze per trovare rapporti veri. Vedere in Nuovi Orizzonti le realtà di ragazzi rinnovati dal Vangelo, toccare con mano i miracoli di tante risurrezioni interiori, riaccende in loro una nostalgia. Il mondo ci propone una gioia patinata. Quando vedono la luce negli occhi dei nostri ragazzi, dicono: «La voglio anch’io questa luce, se ce l’ha fatta lui allora posso anch’io ». E da personaggi tornano a sentirsi persone.
L’AVVENTURA DI NUOVI ORIZZONTI
INIZIA NEL ’91 QUANDO CHIARA AMIRANTE DECIDE DI RECARSI DI NOTTE ALLA STAZIONE TERMINI PER INCONTRARE TANTI GIOVANI IN SITUAZIONI DI GRAVE DISAGIO CHE HANNO FATTO DELLA STRADA LA LORO "CASA".
«Quando ho iniziato a percorrere i ‘deserti’ della nostra splendida Roma e ad entrare in punta di piedi nelle dolorosissime storie del ‘popolo della notte’ – afferma Chiara – non immaginavo davvero di incontrare un popolo così sterminato di disperati, di persone sole, di emarginati, di mendicanti di amore, sfregiati nella profondità del cuore dall’indifferenza, dall’abbandono, dalla violenza, vittime dei terribili tentacoli di piovre infernali.
Missioni di Strada
Quanti giovani splendidi, assetati di amore, ridotti, dalle seduzioni del mondo e dalle terribili sferzate della vita, a creature dallo sguardo di ghiaccio e dal cuore di pietra. Quanti ragazzi nel pieno della loro giovinezza attanagliati da una nausea sottile, da un vuoto esistenziale terribile, da un’angoscia mortale! Quanti giovani distrutti, ingannati, defraudati della loro innocenza. Quanti fratelli disperati con le lacrime agli occhi mi hanno abbracciato chiedendomi: “Ti prego, Chiara, portami via da questo inferno!”… e che dolore nel non riuscire a trovare un posto dove portarli».
Mi sentivo troppo piccola fragile impotente dinanzi al grido lancinante del popolo della notte… Poi un raggio di luce, una certezza: L’Amore è più forte, l’amore vince. L’Amore fa miracoli perché Dio è Amore!
Mi è venuta cosi l’idea di una comunità di accoglienza dove proporre un cammino di conoscenza di sé, di guarigione del cuore e di rigenerazione psico-spirituale”.
Nel marzo del ’94 Chiara apre a Trigoria (Roma) la prima comunità di accoglienza Nuovi Orizzonti, dove centinaia di giovani, provenienti da esperienze estreme, iniziano a ricostruire se stessi attraverso il programma terapeutico riabilitativo da lei ideato.
La risposta dei ragazzi accolti è fin dal primo momento davvero sorprendente ed entusiasmante.
Nel maggio del ’97 si apre a Piglio, in provincia di Frosinone, una Comunità di formazione e di accoglienza che diverrà la sede centrale di Nuovi Orizzonti.
Dal 1998 si moltiplicano le iniziative di solidarietà, le comunità di accoglienza, i centri di formazione e di reinserimento, i progetti sociali e le iniziative di promozione umana, i progetti in paesi in via di sviluppo.
In breve tempo la comunità si trasforma in una vera e propria ‘factory dell’amore’, un colosso della solidarietà e dell’accoglienza. Infatti, gli stessi ragazzi accolti, dopo un periodo trascorso in Comunità, sentono l’urgenza di impegnarsi in prima persona in azioni di solidarietà a sostegno di chi è in grave difficoltà.
Alla fine degli anni ’90, la Comunità Nuovi Orizzonti sperimenta nella città di Roma una nuova metodologia pastorale di evangelizzazione di strada che si presenta particolarmente efficace: sono le cosiddette ‘missioni di strada’.
A contatto con tanti giovani nelle varie situazioni di disagio, Chiara va anche elaborando un percorso pedagogico riabilitativo per quanti si rivolgono a lei e all’Associazione per liberarsi dalla dipendenza, per uscire da diversi tunnel infernali e per riscoprire la gioia di vivere la vita in pienezza. Vivere il vangelo nella quotidianità ‘alla lettera’ rimane il centro dell’esperienza di vita, ma attorno ad esso si colloca un cammino di conoscenza di sé e guarigione del cuore (l’Arte d’amare) che diventa la peculiarità della sua proposta anche nel mondo delle comunità di recupero.
Chiara, nella Pasqua del 2006, di ritorno dalla terra santa, lancia una nuova proposta: I Cavalieri della Luce. In pochi anni in più di 500.000 aderiscono a questo impegno: testimoniare la gioia di Cristo Risorto a chi è più disperato, provare a vivere il vangelo alla lettera per rinnovare il mondo con la rivoluzione dell’Amore! I Cavalieri della Luce, pur essendo sparsi in diversi paesi, restano uniti tramite l’iniziativa della parola di luce pubblicata quotidianamente sulla pagina pubblica facebook di Chiara Amirante: l’impegno di vivere insieme una frase del vangelo del giorno.
Cresce l’impegno anche nel portare messaggi di speranza a chi l’ha persa tramite i media e i new-media.
Chiara Amirante con dei Bambini nella Cittadella di Fortaleza (Brasile)
Udienza papa Benedetto XVI - Cavalieri della Luce
In questi anni la Comunità Nuovi Orizzonti ha visto migliaia di giovani, provenienti da esperienze estreme o in cerca di senso per la loro vita, ricostruire se stessi alla luce dell’amore e passare dalla ‘morte’ alla vita. Da quella prima casetta a Trigoria, con materassi sparsi per terra, si è arrivati alla realizzazione di circa 1000 equipe di servizi, numerosi Centri e Opere in Italia e all’estero e la realizzazione delle Cittadelle Cielo, piccoli villaggi di accoglienza e formazione dove si vuole vivere la legge dell’amore, il ‘come in cielo così in terra’.
Un’incredibile impresa, un vero miracolo che non avrebbe potuto realizzarsi senza l’aiuto di Dio, di centinaia di volontari e di tantissimi amici. Nuovi Orizzonti è stata approvata anche dalla Santa Sede, come Associazione privata internazionale di fedeli, l’8 dicembre del 2010.
"Il Dio delle periferie è il Dio della domanda, della casa sul marciapiede, delle famiglie distrutte. È insieme il dio della tragedia e della dolcezza. Dio, diventando Cristo, ha scelto la “periferia”, il deserto, la grotta, la strada, la barca, il profumo della prostituta.
Anzi, per dirla più vera e meno teologica, Cristo è la periferia, è la strada. Non è il tempio e nemmeno va al tempio. Si accontenta di essere parola, e non basilica. Frequenta la gente che lo ascolta per strada, che lo incontra di notte: la vedova, il cambiavalute, la pecorella smarrita, il figliol prodigo, il giovane ricco, la vedova di Nain, i pescatori.
Il Vangelo è il libro della periferia; insegna come evitare le affabulazioni dei farisei, le ipocrisie dei dottori della legge. Per citare Daniel Pennac, “Cristo ha evitato la confisca della parola”. E per non correre rischi, l’ha addirittura incarnata, l’ha mangiata trasformando la parola in ciascuno di noi.
La sua missione si concentra sulla cosa più semplice, l’unica creativa: liberare le persone, liberando la loro parola. Ha seminato la parola e, da lì, ne è uscito il pane che genererà la “notizia nuova”.
Con un “fiat” Dio ha fatto il mondo; Cristo, diventando Verbo, l’ha rifatto. La Creazione del mondo e la notte di Natale si equivalgono. Allora, con una parola, Dio è diventato il Signore. Ora, con una parola, è diventato il povero.
Non solo Cristo è diventato parola, ma ha voluto che la parola più forte e dolce insieme, la possedessero i miti: l’arma dei miti. La parola più potente, quella che perfora le tenebre, non viene dall’alto, ma emana, sbalorditiva, dalla terra e dal camminare tenace degli ultimi.
La parola più intensa diventa pace. Ha come vincenti i fuggitivi e promana dai dodici camminanti della nuova carovana evangelica; da quella carovana che incominciò chiamandosi Exodus, e che continua chiamandosi “Popolo”.
Dobbiamo cercare un Dio e un uomo nuovi, credibili, capaci di sedurci, di rapinare i nostri sentimenti sepolti dalle ceneri dei templi… moderni. Il Dio nuovo, non facciamolo passare dalla teologia, dalla catechesi, dall’etica… ma dalla periferia.
Il Dio delle periferie non solo è uomo tra gli uomini, ma è anche POESIA, cantico, pellegrino."
Don Mazzi
Don Mazzi parla più al cuore che al cervello: «La fede non ti cerca, non è ragione. Bisogna lasciare uno spazio a ciò che non si capisce. Per me è speranza, quella di poter incontrare il Padre e il padre che non conobbi».
Spiega così i pilastri del suo impegno: «Innanzitutto il rispetto degli altri, il perdersi per ritrovarsi di nuovo insieme e vivere e lavorare nel presente per vedere il passato e interpretare il futuro».
Poi una lezione di vita, interiore e sociale: «Dico ai miei ragazzi: a volte piangere è più efficace che ridere, anche perché il colore rosso del dolore è lo stesso dell’amore, che deve vincere su ogni cosa. Gli uomini, quelli veri, come ci ha detto papa Francesco, sono quelli che sanno parlare e non fare chiacchiere. Servono meno regole, meno controlli e più autenticità e lavoro interiore».
Sull’educazione: «Bisogna dire anche dei no, ma nessuna persona va pensata o trattata come fosse “scartino”. Nel Vangelo non esistono peccatori».
DON ANTONIO MAZZI: I RAGAZZI VANNO ASCOLTATI CON IL CUORE
Quest’uomo ha qualcosa di magnetico. Devono essere quegli occhi chiari, due luci azzurre che sembrano scrutarti, frugarti qualcosa dentro, mentre sei lì che piuttosto aspetteresti una sua risposta. Forse sono stati la sua arma, per quanto forse non sia la parola giusta, un’arma affiata in anni e anni di esperienza, per guarire le ferite dei ragazzi che tentava di salvare. Forse li ha usati, quegli occhi, per agganciare, dal basso della sua minuta statura, la verità di quelli che si trovava di fronte, interle nostre parole sgrammaticate, scarabocchiate, ma oneste, che vengono dopo aver letto e riletto le piccole via crucis di questo nostro mondo». Per dire che «non tutto è tragedia», e fare qualcosa affinché non si cada nella tentazione di «allargare troppo gli spazi tenebrosi».
Don Antonio, perché un libro sugli adolescenti? «La gente pensa che i ragazzi di oggi siano peggiori di quelli di una volta. Io volevo raccontare invece come anche tra le righe più macabre si aprano piccoli spiragli inaspettati. Il cettarne il dolore, provare a guarirlo. Prima i ventenni tossici, presi per i capelli al parco Lambro con l’ago ancora infilato in vena, poi i giovani più complessi e fragili di oggi, affascinati dalle nuove droghe e deragliati in brutti reati.
Le storie che ha raccolto, le confessioni e le notti in bianco, sono così tante che è incredibile che all’età di 93 anni sia ancora qui, capace di intrappolarti nel suo sguardo e di spostarti qualcosa dentro quando parla. Perché il carisma che emana non viene solo dal suo sguardo ma anche e soprattutto bene è sempre maggiore del male». Ma è vero che i giovani di oggi sono peggio? «Sono solo più fragili. Se sono aggressivi, se fanno cose sbagliate, è perché dentro mancano le fondamenta». Come fa un uomo di 93 anni a capire gli adolescenti di oggi? «Non lo so se li capisco o se quello che penso di capire è solo quello che sento io. Però una cosa la vedo». Che cosa? «I ragazzi di una volta erano pieni di cattiveria. Era una cattiveria che gli veniva dall’uso della sostanza, che gli ammazzava tutto quello che avevano dentro.
Quelli di adesso invece hanno dentro ancora tutto. E se si fidano, si aprono». E quando si fidano? «Quando li ascolti. Io lo dico sempre agli operatori: lasciamoli parlare. Non saltiamo loro addosso con le nostre domande: cosa hai fatto? Perché lo hai fatto?». Però qualcosa va anche detta. Che cosa? «Il punto è avere il coraggio di non avere in testa delle risposte predalle cose che dice. E da come lo fa. Don Antonio Mazzi, fondatore e presidente della comunità di recupero Exodus di Milano, ha appena pubblicato per le Edizioni San Paolo il libro Se grandina a primavera. Amare e educare gli adolescenti (e noi stessi) in un tempo di crisi. Un saggio, scorrevole e diretto, che raccoglie gli articoli che ha scritto negli anni su Famiglia Cristiana: «Di tutto quel lavoro», dice, «ho scelto i pezzi che parlavano di adolescenza».
Una specie di diario «per anime che vogliono cambiare almeno qualcosa, fatto con le nostre parole sgrammaticate, scarabocchiate, ma oneste, che vengono dopo aver letto e riletto le piccole via crucis di questo nostro mondo». Per dire che «non tutto è tragedia», e fare qualcosa affinché non si cada nella tentazione di «allargare troppo gli spazi tenebrosi».
Don Antonio, perché un libro sugli adolescenti? «La gente pensa che i ragazzi di oggi siano peggiori di quelli di una volta. Io volevo raccontare invece come anche tra le righe più macabre si aprano piccoli spiragli inaspettati. Il bene è sempre maggiore del male».
Ma è vero che i giovani di oggi sono peggio? «Sono solo più fragili. Se sono aggressivi, se fanno cose sbagliate, è perché dentro mancano le fondamenta».
Come fa un uomo di 93 anni a capire gli adolescenti di oggi? «Non lo so se li capisco o se quello che penso di capire è solo quello che sento io. Però una cosa la vedo».
Che cosa? «I ragazzi di una volta erano pieni di cattiveria.
Era una cattiveria che gli veniva dall’uso della sostanza, che gli ammazzava tutto quello che avevano dentro. Quelli di adesso invece hanno dentro ancora tutto. E se si fidano, si aprono».
E quando si fidano? «Quando li ascolti. Io lo dico sempre agli operatori: lasciamoli parlare. Non saltiamo loro addosso con le nostre domande: cosa hai fatto? Perché lo hai fatto?».
Però qualcosa va anche detta. Che cosa? «Il punto è avere il coraggio di non avere in testa delle risposte prefissate. Bisogna ascoltare le loro, di domande. E per farlo, bisogna restare umili: l’educatore è sullo stesso piano del ragazzo che ha davanti».
Lei ha cominciato a lavorare coi giovani più di 40 anni fa. Com’è cambiato lei da allora? «I ragazzi dell’ultimo periodo mi hanno reso più umile. Ho meno voglia di vincere. Devo accettare che a volte perdo».
Quando si vince? «Quando un ragazzo va via e l’hai convinto».
Intende: l’hai convinto a fare del bene? «No. Intendo: l’ho convinto a volersi bene.
Perché il loro problema è questo: sono pieni di quei tatuaggi, quelle scritte sul corpo, tutte frasi fatte, ma dentro poche certezze».
C’è qualcosa che non ha mai capito dei ragazzi? «Più che capirli noi, dovremmo aiutare loro a capire sé stessi».
E loro si capiscono? Lo capiscono quello che stanno vivendo, quello che hanno fatto? «A volte qui arrivano ragazzi che hanno fatto cose così brutte che io ho quasi paura che capiscano davvero. Ne ho paura per la loro salute mentale. E quasi, mi ritrovo a sperare che non ci arrivino mai».
Come si relazionano con lei? Che atteggiamento hanno? «I primi anni mi minacciavano. L’eroina li lasciava orfani di loro stessi e loro si difendevano con l’offesa. Questi invece non ti offendono. Urlano un po’ di più, usano parole forti, ma dentro sono fragili». In comunità è passata quella ragazza che all’epoca uccise madre e fratellino, e ora avete quel ragazzo che ha ucciso suo padre.
«Quel ragazzo che ha ammazzato il padre, per esempio, ha paura ad andare in metropolitana. Dice che vuole studiare Teologia ma ha paura di andare all’Università da solo». Quando lei è solo, che pensieri fa? «Che sono stato fortunato a fare questo lavoro. E non perché ho ragionato più degli altri ma perché ho colto le occasioni che mi sono arrivate dalla vita».
Ha cominciato facendo il preside in una scuola vicino al parco Lambro ed è stato lì che si è accorto di cosa stava facendo l’eroina ai ragazzi.
«Pensi che neanche ci volevo venire a Milano. Se avessi seguito la testa non sarei qui».
Ha paura di morire? «Ho paura di soffrire. Di fare una morte sofferente. Ma è un pensiero umano. E non voglio far soffrire chi ho intorno. Però il Padreterno fino ad adesso è stato bravo: ho avuto degli incidenti in macchina, minac [1]ce di morte nel parco, un infarto... e sono ancora qui».
Perché si è dedicato così tanto ai ragazzi? «Ho perso il papà che avevo 15 mesi e l’ho vissuta sempre come un’ingiustizia. E se sono diventato prete è stato per la grande mancanza che avevo di una figura paterna. Sono diventato io padre degli altri».
Se non avesse fatto questo, cosa avrebbe voluto fare? «Il musicista. Avrei fatto il conservatorio e suonato l’organo».
Qual è la figura religiosa che le piace di più? San Francesco d’Assisi. Da adolescente era un bel furbo, era un tipo sveglio, si godeva la vita, la sera aveva il suo giro ed era persino il capo. Però ha saputo vivere la fede alla sua maniera: ha vissuto amando».
Che cosa la fa arrabbiare? «La Chiesa di oggi. Certi preti, che sono impiegati dell’impero ecclesia stico e non discepoli di un uomo che amava la strada. Perché Cristo è l’uomo della strada, non delle basiliche. Il Papa lo dice: “Abbiate il coraggio di spalancare le porte e andate per strada”. E a me invece sembra che oggi siamo tornati nel tempio di Gerusalemme, quel tempio che Cristo ha tanto combattuto»
L'abbraccio più grande. Nadia Toffa e la fede: così imparò a vivere per saper morire
Don Maurizio Patriciello
«Voglio imparare. Il tempo stringe e io debbo imparare. Imparare a vivere per saper poi morire». Nella vita non sempre ci rendiamo conto dell’importanza del dover imparare a vivere. Si vive e basta. Un fatto scontato, istintivo, naturale. E questo è grande errore. Sono passati pochi giorni dalla morte di Nadia Toffa, la giornalista e conduttrice tv bresciana, che ha scosso l’Italia. In tanti ci siamo chiesti il perché. Qualcuno, grossolanamente, ha liquidato la faccenda parlando di una sorta di reazione emotiva. Le emozioni hanno la loro importanza, non c’è dubbio, ma da sole dicono ben poco.
La parabola di Nadia Toffa – discendente secondo una logica solo umana; ascendente secondo la logica di Dio – inizia da lontano, da quando per le prime volte la vedemmo affacciarsi sullo schermo. Una ragazza bella, slanciata, cocciuta, intraprendente. Schietta, brava, coraggiosa. I più giovani si specchiavano in lei, magari con un pizzico di benevola invidia. I più anziani la consideravano alla stregua di una figlia da proteggere. Una giovane destinata al successo, Nadia. Simpatica, brava, coinvolgente. Sarebbe arrivata lontano. Una mattina, come un fulmine a ciel sereno, in un albergo di Trieste, perse i sensi. Sarebbe stata lei stessa, mesi dopo, a confessare di avere il cancro. I telespettatori rimasero sconcertati.
Cancro, parrucca, chemio, sono parole da esorcizzare, lei invece ne parlava con serenità. Era finta, calcolata, per chissà quali scopi quella serenità, o faceva sul serio quella giovane giornalista? No, Nadia, non stava barando, non era capace di barare. In lei si specchiarono migliaia di ammalati di cancro, i loro parenti, i loro amici. E ancora una volta, Nadia accettò di diventare la portavoce dei malati. Un popolo al quale non sempre i cosiddetti sani assicurano la giusta comprensione e i diritti cui hanno diritto.
Nadia capì che le veniva chiesto molto perché molto le era stato dato. Accolse come una sorta di "vocazione" il male che l’affliggeva e dal quale fece di tutto per guarire. Intanto, però, da quel male si lasciava ammaestrare. Nulla doveva andare perduto. Dalla sofferenza imparava. E le giornate, quando il dolore le dava tregua, le sembrarono più lunghe, le sere più dolci, il cielo più azzurro, gli amici più cari. Imparò che tutto viene da Dio. E gridò al mondo la sua fede. «Dio non è cattivo, credetemi, Dio non è cattivo». Nadia, inchiodata in un letto di dolore, stava evangelizzando il dolore.
Con Dio iniziò a dialogare e litigare, come sapeva fare lei, cocciuta, ma mai cattiva. E comprese che la preghiera, da noi cristiani tante volte trascurata quando la vita ci sorride, era un "abbraccio". L’abbraccio caldo e rassicurante di Dio alla sua creatura. E volle comunicare ai fratelli in umanità la scoperta fatta. Imparava a vivere, Nadia. O, meglio, andava perfezionando la lezione iniziata tanti anni prima. Imparò ad amare la vita anche nei giorni del dolore. Capì che la Nadia di un tempo andava sfiorendo, non sarebbe tornata più. Ma non ne fece un dramma.
Con lei ho avuto un rapporto limpido, onesto, discreto, che si è andato intensificando negli ultimi mesi. «Continuo la chemio e non mollo. Sorrido e accetto tutto quello che Dio ha disegnato per me. Porto nostro Signore nel cuore e vedremo cosa deciderà per me. Porgo la mia anima vicino al suo immenso cuore. Grazie di esistere, padre. Le voglio bene».
Per gli auguri di Natale, le scrissi: «Nasconditi, Nadia sempre cara, come un uccellino, nelle fenditure della Roccia. La tempesta, il freddo, la neve, il gelo, le raffiche di vento, nulla potranno contro la Roccia che ti ripara. Lasciati cullare come un bambino sul seno della mamma. Non opporre resistenza. Dio è più grande del nostro povero cuore. Ti ama. Sei sua. Gli appartieni. Ti brama. In questa certezza, riposa». Poche ore dopo, la brillante giornalista, chiamandomi per la prima volta col solo nome di battesimo, rispondeva: «Grazie, Maurizio. Mi metterò al riparo tra le sue braccia. Io non ho paura per me ma per la mia cara mamma».
Papa Paolo VI, bresciano come lei, ci disse che «il mondo, oggi, non ha bisogno di maestri ma di testimoni». Nadia Toffa lo è stata. Per questo l’Italia intera ha pianto la sua morte e continua a volerle bene.
“Per ragioni che hanno a che vedere con l’impegno della mia vita, questa è una guerra civile che lacera la mia anima. Vorrei fare qualcosa per fermarla… Ma non voglio vivere una vita che sia altro da un dono radicale”
Paolo Dall'Oglio
Padre Paolo Dall’Oglio: un messaggio che vive
Cade oggi il compleanno del gesuita, sequestrato in Siria nel 2013. Nell’occasione, la sua famiglia torna a chiedere verità verso di lui e verso migliaia di persone rapite e di cui da tempo non si sa più nulla
Benedetta Capelli
Sessantasei anni, gli ultimi sette dei quali lontano dalla famiglia, dalla sua comunità di Deir Mar Musa, il monastero fatto rinascere in Siria e divenuto espressione della cultura della convivenza, del dialogo e della riconciliazione. Oggi è il compleanno di padre Paolo Dall’Oglio, scomparso a Raqqa nel luglio 2013. “Sette anni lunghi e dolorosi – scrive la sorella Francesca in un messaggio - anche se sempre accompagnati dalla consapevolezza che Paolo si sentiva chiamato ad una missione che sentiva profondamente dentro di sé”. Missione che aveva ben definito nel suo libro “Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana”:
“Per ragioni che hanno a che vedere con l’impegno della mia vita, questa è una guerra civile che lacera la mia anima. Vorrei fare qualcosa per fermarla… Ma non voglio vivere una vita che sia altro da un dono radicale”
Sete di verità
E’ in questa occasione che la famiglia di padre Paolo intende ribadire l’importanza della verità nella vicenda del gesuita e per la sorte di “migliaia di siriani scomparsi perché arrestati, sequestrati o peggio, uccisi”. Una domanda di verità all’Italia e alla comunità internazionale che è un diritto per chi chiede risposte e un dovere da assolvere. Solo nella verità, infatti, si possono “innestare i semi dell’armonia”, “gettare le basi per una futura pacificazione”, “guarire tutte le ferite che in questi nove anni di conflitto si sono aperte”.
Padre Dall'Oglio: 7 anni di silenzio tra dolore e speranza
“Riportare a casa – scrive Francesca Dall’Oglio - chi è ancora segregato e dare sepoltura a chi è stato ucciso, offrire finalmente sollievo alle famiglie che da anni aspettano, è un dovere che chiama in causa anche i Paesi occidentali”. Solo nella comprensione di quanto accaduto si può continuare a camminare sulla strada della speranza che viene, oggi, anche dalle recenti liberazioni di Silvia Romano, Padre Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, “tutte persone – evidenzia la sorella di padre Paolo - su cui le speranze cominciavano a indebolirsi”.
Ed è con questo tipo di ottimismo che si rinnova l'appello a non lasciare intentata nessuna strada. Sarebbe il più bel regalo che si potrebbe fare a Paolo e al suo impegno per l'armonia su questa terra.
Paolo Dall'Oglio, maestro di umanità
«Prendersi cura di una persona di qualsiasi classe sociale, simpatia o pesantezza, aveva la precedenza su tutto, perfino sull’appuntamento della preghiera. Paolo aveva davvero a cuore le persone, che considerava sacre perché espressione diretta di Dio». Padre Jihad Youssef, 47 anni, è il superiore della comunità monastica di Deir Mar Musa al-Habashi (monastero di San Mosè l’Abissino) in Siria, fondata nel 1991 da padre Paolo Dall’Oglio.
Al gesuita, di cui non si hanno notizie dal 29 luglio 2013, quando venne rapito da un gruppo di estremisti islamici vicino ad al-Qāida, è legato in maniera indissolubile: «In me, Paolo, tu vivi», scrive nella toccante prefazione al libro Paolo Dall’Oglio. Il mio testamento, appena pubblicato dal Centro Ambrosiano. «In noi, tua comunità, tuoi amici, sei vivo. Uno come te, Paolo, non può morire. Anche se fossi morto nel corpo, rimani vivo in Dio».
L’INCONTRO CON DIO
La vita di padre Youssef è stata del tutto trasformata dall’incontro con la comunità di Mar Musa. Siriano, originario della Chiesa maronita, da ragazzo Jihad fa parte dei giovani del gruppo di preghiera Equipes Notre Dame.
«A 19 anni siamo stati a Mar Musa trascorrendo lì una notte in un ambiente primitivo, non c’era nemmeno l’elettricità. Abbiamo celebrato Messa e il Signore mi ha pescato: il mio cuore non è più tornato a casa», ricorda. «Dopo qualche mese sono stato nuovamente a Mar Musa e ho confidato a padre Paolo il desiderio di diventare monaco.
Siamo rimasti d’accordo che prima avrei portato a termine gli studi». Il tempo di concludere il corso di laurea in Scienze motorie e Jihad, violino e zaino in spalla, è di nuovo a Mar Musa: «Volevo fare il ragazzo di mondo, tutto muscoli e musica, ma a casa non ero più in pace: sono tornato al monastero il giorno dopo la laurea». Accolto a Mar Musa nel 1999, nel 2008 diventa sacerdote. Studia poi Sacra Scrittura al Pontificio istituto biblico di Roma e consegue il dottorato in Teologia biblica alla Gregoriana.
LA VITA COMUNITARIA
Gli anni con padre Paolo lo formano come uomo e come cristiano. E se la comunità di Mar Musa è consacrata al dialogo islamo-cristiano, padre Youssef non ha remore nell’ammettere che «la vita comunitaria è in sé la sfida più grande, più grande anche del dialogo interreligioso»:
«La comunità è la fornace che ci purifica dai nostri limiti e iniquità, è il posto dove nascono le difficoltà e in cui germoglia l’armonia. Paolo non desiderava l’obbedienza cieca quanto il confronto, non aveva segreti e capitava che ci riprendesse davanti a tutti. La trasparenza nelle relazioni era per lui la via per non accumulare nel cuore amarezza e rammarico. Credeva poi fermamente nell’uguaglianza fra tutti: uomini e donne, grandi e piccoli, forti e deboli, intellettuali e no, superiori e novizi».
L’esperienza comunitaria – prosegue il monaco – è scuola di vita: «Essere superiore costa fatica e chiede tanta disponibilità, d’altra parte non siamo stati battezzati per riposare ma per servire. Il nostro desiderio è rimanere a Mar Musa fino alla seconda venuta di Cristo, portando avanti ciò che il Signore ha seminato nei nostri cuori, lavorando sulla nostra vita spirituale in comunità. Il combustibile è la grazia del Battesimo, che ci dà la forza di sopportare una vita gomito a gomito con persone diverse da noi».
PADRE PAOLO, UNO SPIRITO LIBERO E PROFONDO
Nato a Roma nel 1954, padre Paolo Dall’Oglio entra nella Compagnia di Gesù a 21 anni. Dopo trent’anni in Siria al lavoro per il dialogo interreligioso, nel 2012 è espulso dal Paese per le sue posizioni contro il regime. L’anno successivo rientra due volte in Siria impegnandosi nelle trattative per la liberazione di alcuni ostaggi fra cui due vescovi, uno siro-ortodosso, l’altro greco-ortodosso. Di lui non si hanno più notizie dal rapimento, il 29 luglio 2013 a Raqqa. Lo scorso ottobre la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine sul sequestro per l’impossibilità di accertarne la sorte dal punto di vista giudiziario. «Uno sguardo non fondamentalista, ma lieve, pieno di quella speranza che non delude perché riposa in Dio. Sempre aperto al sorriso»: così papa Francesco parla di lui nella prefazione a Paolo Dall’Oglio. Il mio testamento (Centro Ambrosiano), ricordandolo come uno «spirito libero» con «grande profondità di visione».
IL LASCITO DI PADRE PAOLO
Oggi la comunità di Mar Musa, che si trova a circa 80 chilometri a nord di Damasco, è composta da otto monaci, «nove con Paolo»: «Quattro monache, tre monaci e un novizio. Siamo cinque siriani, una libanese, una tedesca e uno svizzero». Fino allo scorso marzo ne faceva parte anche padre Jacques Mourad, co-fondatore della comunità, da marzo arcivescovo di Homs, Hama e Nebek.
«Noi monaci e monache abbiamo lasciato tutto per seguire Dio, ogni giorno ci chiediamo come fare per camminare verso un discepolato vero. Non bisogna aggrapparsi a piani immodificabili ma, data la velocità dei cambiamenti, rimodulabili ogni anno», spiega Youssef. «Andiamo avanti cercando di essere aperti alla grazia dello Spirito, cercando di capire che forma prenderà la fratellanza islamo-cristiana e cercando di innescarla, ad esempio, con progetti per i giovani e l’ambiente».
A Mar Musa la giornata comincia con il caffè delle 7. «Prima ciascuno prega, legge o medita. Poi alle 7.30 recitiamo le Lodi e ci intratteniamo per un’ora di catechismo», racconta ancora Youssef. Ed è proprio in questi momenti di catechesi che, fra il novembre 2011 e il giugno 2012, padre Paolo commentò la Regola di Mar Musa.
Le riflessioni di allora oggi sono raccolte nel già citato Il mio testamento. «In quelle conferenze Paolo desiderava consegnare a noi, e alla Chiesa, l’essenza del suo pensiero. Ci intrattenevamo per un paio d’ore: gli argomenti erano tanti, legati ai tre voti di povertà, castità e obbedienza, e al nostro carisma. A riprendere in mano Il mio testamento, emerge come al centro di tutto ci sia la relazione con Dio e come l’uomo avanzi nella maturazione dell’amore per Dio e per il prossimo.
Si riflette sul dialogo islamo-cristiano, la sacralità dell’ospite, e si affronta anche la questione antropologica: dalla sessualità alla relazione uomo-donna, dall’omosessualità alle questioni di genere, che in tante società non si vivono in modo sereno e sono un tabù anche per la Chiesa».
LA SPERANZA OLTRE LA GUERRA
Sono passati dieci anni da quando di padre Paolo si sono perse le tracce. Da allora la situazione in Siria non è certo migliorata, anzi. Nel Paese, squassato da più di dieci anni di guerra civile e dalla violenza cieca del regime di Bashar al-Assad, nonché dall’ultima disgrazia del terremoto dello scorso febbraio, le Nazioni unite stimano in oltre 15 milioni le persone che necessitano di aiuti umanitari, su un totale di 22 milioni abitanti.
«Il popolo è angosciato e depresso» commenta Youssef. «Non puoi pensare ad altro se non al pane e alla scuola dei ragazzi. Nel cuore umano la speranza c’è ancora, resiste perché siamo un popolo vivo e creativo, ma l’incertezza rende la vita un sopravvivere». Nonostante tutto, padre Youssef è un uomo sereno: «Paolo mi ha insegnato che il Signore viene prima di tutto e non c’è che un solo Signore. A tenere alta la speranza è Dio, l’immagine di Dio in noi. Non trovo altra giustificazione a questa nostra resistenza».
di Laura Bellomi
DUE LIBRI L’ATTUALITÀ DI PADRE DALL’OGLIO
Nel decimo anniversario del rapimento di padre Paolo Dall’Oglio sono stati pubblicati due libri utili per conoscere meglio la sua figura e la sua storia. Il libro Il mio testamento, a cui accenniamo nell’intervista con padre Jihad Youssef, è pubblicato dal Centro Ambrosiano con la prefazione di papa Francesco. Si tratta di un vero e proprio testamento spirituale, da cui emergono chiari i temi più cari a Dall’Oglio.Verrà presentato il 29 luglio alla chiesa di Sant’Ignazio a Roma alla presenza, tra gli altri, proprio di padre Youssef. Una mano sola non applaude di Riccardo Cristiano è invece il testo pubblicato da Àncora. Come da sottotitolo, ripercorre la storia di padre Paolo Dall’Oglio letta nell’oggi. Viene presentato il 24 luglio alle 18.30 alla Biblioteca europea di Roma alla presenza – tra gli altri – di Francesca e Immacolata Dall’Oglio, sorelle di padre Paolo, e di Jacques Mourad, arcivescovo di Homs e cofondatore della comunità di Mar Musa.
“Chi riconosce l’appartenenza alla famiglia umana, come fa a non aprire le porte?
Poi io, come cristiano, come faccio a non essere accogliente?
E io ti accolgo come sei"
Don Gallo
Don Gallo a dieci anni dalla morte: «Continuiamo le sue battaglie»
Il prete di strada scomparso nel 2013 non è stato dimenticato. I suoi valori di accoglienza e solidarietà vivono nonostante il vento politico contrario nella Comunità di San Benedetto da lui fondata. E che continua a essere meta del pellegrinaggio di politici e intellettuali
di Massimiliano Salvo
Nella trattoria A’ Lanterna, a Genova, è ancora tutto identico: il chiasso, l’odore di fritto, le foto di vip alle pareti. E le citazioni: Don Gallo di qua, Don Gallo di là. Perché fu proprio il prete di strada, all’inizio degli anni ’80, a immaginarsi in queste tre stanze qualcosa di impensabile per l’epoca: un ristorante gestito da persone con problemi di dipendenza. «E oggi eccoci qui», dicono gli eredi del progetto, una ciurma un po’ incasinata tra i fornelli e la sala. Maura, capello bianco, da dietro al bancone allunga il dito: «Don Gallo si sedeva lì, in quel tavolo ovale».
Il 22 maggio saranno dieci anni dalla morte del prete di strada, educatore, attivista, saggista e fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto. «Non una comunità di recupero, ma una comunità di accoglienza», ripete Domenico Chionetti detto “Megu”, che di Don Gallo è stato portavoce ed è da sempre in prima linea nel portare avanti le sue battaglie.
Non è stato semplice: subito dopo la morte del “Gallo” nella stessa Comunità c’era il timore che fosse difficile continuare con lo stesso slancio. E invece l’associazione ha resistito ed è ancora protagonista della vita sociale e politica di Genova, dove il 22 maggio doveva tenersi una giornata di eventi per ricordare il sacerdote, rinviata a luglio dopo la tragedia dell’Emilia Romagna. Hanno aderito Moni Ovadia, Dori Ghezzi, Africa Unite e Walter Massa (presidente nazionale di Arci). A volere la giornata è stata la Comunità, non le istituzioni locali: anche perché rispetto agli ultimi anni della vita di Don Gallo il contesto politico è completamente cambiato.
Dieci anni dopo: la destra dilaga, gli amici rimangono
Quando Don Gallo morì, a 84 anni, Genova e la Liguria erano in mano al centrosinistra mentre oggi il centrodestra del sindaco Marco Bucci e del presidente Giovanni Toti non hanno rivali; a livello nazionale Fratelli d’Italia aveva il 2% e la Lega il 4%, ora governano. La Comunità però è ancora in prima linea nelle lotte per diritti civili e sociali, ed è una tappa simbolica nelle visite genovesi per una certa sinistra politica e culturale. Tanto per dire: il comizio di Elly Schlein, il venerdì sera prima delle primarie del Pd, è stato in piazza Don Gallo, nel “ghetto” di Genova, zona dimenticata popolata da spacciatori e prostitute.
A metà aprile, come tradizione, il segretario della Cgil Maurizio Landini è stato a Campoligure nell’entroterra di Genova, paese natale della famiglia di Don Andrea, dove il prete è sepolto e dove ogni anno la Comunità ricorda la Liberazione. «Don Gallo era cattolico, ma anche partigiano e militante comunista: e non ci vedeva nessuna contraddizione», lo ricorda il suo caro amico Moni Ovadia, attore e scrittore. «Dal punto di vista cristiano era un santo, dal punto di vista ebraico un “giusto”. Si batteva per l’uguaglianza e la giustizia sociale e lo faceva con una passione vibrante». Tra battute e sbuffi di sigaro Don Gallo era un uomo di relazioni, ed è infatti lunga la lista di amici e sostenitori della Comunità: da Vasco Rossi e Ilaria Cucchi a Nicola Fratoianni e Vauro, passando per Vito Mancuso, Dario Vergassola, Fiorella Mannoia, Però Pelù, i Subsonica, Caparezza, Erri De Luca, Dori Ghezzi.
Per rendersi conto degli intrecci del sacerdote basta fare un salto nel suo archivio: tra le decine di agende spicca quella del 2001, anno del G8 di Genova. In quei giorni di manifestazioni gli appuntamenti del Don erano senza sosta: “intervista con Mario Monicelli”, “cena con Manu Chao”, “marcia con Franca Rame”, “intervista a Porta a Porta”. «Don Gallo andò al concerto di Manu Chao, il giorno dopo Manu Chao venne nella nostra sede», ricorda la storica aiutante del sacerdote, Liliana “Lilly” Zaccarelli. «Aveva un assegno per noi. “Serve per dar da mangiare alla gente”, ci disse».
La Comunità oggi
Oggi la Comunità ha una trentina di dipendenti ma non ama dare numeri, memore di quando in passato tutti chiedevano a Don Gallo: «Quanti ne salvate?». E lui piccato rispondeva: «Che importa? Degli altri cosa facciamo, li ammazziamo?», per sottolineare una visione non salvifica, ma di rispetto anche per chi non riusciva a liberarsi dalla dipendenza. L’impegno della Comunità in questo campo è intanto diventato meno rilevante, tanto che delle cinque comunità di un tempo oggi ne sopravvivono tre: dal dilagare dell’eroina negli anni ’70 il mondo delle dipendenze è cambiato: «Ma la vocazione è identica», spiega Marco Malfatto, presidente della Comunità. «Ci occupiamo di persone e di bisogni, di essere umani, luoghi, quartieri».
I bisogni cui risponde la Comunità si sono quindi ampliati: verso le vittime della tratta, delle nuove povertà e del gioco d’azzardo, oppure con l’aiuto ai migranti; ma anche con l’offerta di servizi in zone problematiche, e con la solidarietà in ottica di economia circolare grazie alla raccolta di abiti usati e la lotta agli sprechi del cibo. «La persona resta al centro: ma davvero, non per modo di dire», spiegano Malfatto e “Megu” Chionetti. «La grande eredità di Don Gallo è la sua pedagogia: è importante la scelta, la motivazione di ognuno».
Il fulcro di questo mondo continua a essere la trattoria di fronte al porto, in via Milano 134r, luogo di emancipazione e incontro, laboratorio politico e di riflessione. Dove il cuoco o il cameriere possono essere un richiedente asilo un ex carcerato, e a tutti i commensali è data la stessa importanza: che si tratti di un magistrato, un cantante, un politico, un portuale. «Qui non c’è una classe sociale, non si fanno distinzioni», ripete chi ci lavora, con orgoglio. «Perché questa è A’ Lanterna di Don Gallo. E a tavola, come diceva Don Andrea, siamo tutti uguali».
Don Andrea Gallo
“Un prete che si è scoperto uomo”
Andrea nasce a Genova il 18 Luglio 1928 e viene immediatamente richiamato, fin dall’adolescenza, da Don Bosco e dalla sua dedizione a vivere a tempo pieno “con” gli ultimi, i poveri , gli emarginati, per sviluppare un metodo educativo che ritroveremo simile all’esperienza di Don Milani, lontano da ogni forma di coercizione.
Attratto dalla vita salesiana inizia il noviziato nel 1948 a Varazze, proseguendo poi a Roma il Liceo e gli studi filosofici.
Nel 1953 chiede di partire per le missioni e viene mandato in Brasile a San Paulo dove compie studi teologici: la dittatura che vigeva in Brasile, lo costringe, in un clima per lui insopportabile, a ritornare in Italia l’anno dopo.
Prosegue gli studi ad Ivrea e viene ordinato sacerdote il 1 luglio 1959.
Un anno dopo viene nominato cappellano alla nave scuola della Garaventa, noto riformatorio per minori: in questa esperienza cerca di introdurre una impostazione educativa diversa, dove fiducia e libertà tentavano di prendere il posto di metodi unicamente repressivi; i ragazzi parlavano con entusiasmo di questo prete che permetteva loro di uscire, poter andare al cinema e vivere momenti comuni di piccola autogestione, lontani dall’unico concetto fino allora costruito, cioè quello dell’espiazione della pena.
Tuttavia, i superiori salesiani, dopo tre anni lo rimuovono dall’incarico senza fornirgli spiegazioni e nel ’64 Andrea decide di lasciare la congregazione salesiana chiedendo di entrare nella diocesi genovese: “la congregazione salesiana, dice Andrea, si era istituzionalizzata e mi impediva di vivere pienamente la vocazione sacerdotale”.
Viene inviato a Capraia e nominato cappellano del carcere: due mesi dopo viene destinato in qualità di vice parroco alla chiesa del quartiere Carmine dove rimarrà fino al 1970, anno in cui verrà “trasferito” per ordine del Cardinale Siri.
Nel linguaggio “trasparente” della Curia era un normale avvicendamento di sacerdoti, ma non vi furono dubbi per nessuno: rievocare quel conflitto è molto importante, perché esso proietta molta luce sul significato della predicazione e dell’impegno di Andrea in quegli anni, sulla coerenza comunicativa con cui egli vive le sue scelte di campo “con” gli emarginati e sulle contraddizioni che questa scelta apre nella chiesa locale.
La predicazione di Andrea irritava una parte di fedeli e preoccupava i teologi della Curia, a cominciare dallo stesso Cardinale perché, si diceva, i suoi contenuti “non erano religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti”.
Un’aggravante, per la Curia è che Andrea non si limita a predicare dal pulpito, ma pretende di praticare ciò che dice e invita i fedeli a fare altrettanto: la parrocchia diventa un punto di aggregazione di giovani e adulti, di ogni parte della città, in cerca di amicizia e solidarietà per i più poveri, per gli emarginati che trovano un fondamentale punto di ascolto.
Per la sua chiara collocazione politica, la parrocchia diventa un punto di riferimento per molti militanti della nuova sinistra, cristiani e non.
L’episodio che scatena il provvedimento di espulsione è un incidente verificatosi nel corso di una predica domenicale: lo descrive il settimanale “Sette Giorni” del 12 Luglio 1970, con un articolo intitolato “Per non disturbare la quiete”.
Nel quartiere era stata scoperta una fumeria di hashish e l’episodio aveva suscitato indignazione nell’alta borghesia del quartiere: Andrea, prendendo spunto dal fatto, ricordò nella propria predica che rimanevano diffuse altre droghe, per esempio quelle del linguaggio, grazie alle quali un ragazzo può diventare “inadatto agli studi” se figlio di povera gente, oppure un bombardamento di popolazioni inermi può diventare “azione a difesa della libertà”.
Qualcuno disse che Andrea era oramai sfacciatamente comunista e le accuse si moltiplicarono affermando di aver passato ogni limite: la Curia decide per il suo allontanamento dal Carmine.
Questo provvedimento provoca nella parrocchia e nella città un vigoroso movimento di protesta ma, la Curia, non torna indietro e il “prete scomodo” deve obbedire: rinuncia al posto “offertogli” all’isola di Capraia che lo avrebbe totalmente e definitivamente isolato.
Lasciare materialmente la parrocchia non significa per lui abbandonare l’impegno che ha provocato l’atteggiamento repressivo nei suoi confronti: i suoi ultimi incontri con la popolazione, scesa in piazza per esprimergli solidarietà, sono una decisa riaffermazione di fedeltà ai suoi ideali ed alla sua battaglia “La cosa più importante, diceva, che tutti noi dobbiamo sempre fare nostra è che si continui ad agire perché i poveri contino, abbiano la parola: i poveri, cioè la gente che non conta mai, quella che si può bistrattare e non ascoltare mai.
Ecco, per questo dobbiamo continuare a lavorare!”
Qualche tempo dopo, viene accolto dal parroco della chiesa di San Benedetto, Don Federico Rebora, ed insieme ad un piccolo gruppo nasce la comunità di base, la Comunità di San Benedetto al Porto.
Dopo tanti anni, la nostra porta è sempre aperta!
Il testimone
Lorenzo Milani
Una fede scomoda
Dalla testimonianza di don Renzo Rossi, amico di don Lorenzo Milani fin dagli anni del seminario e per tutta la vita, conosciamo il primo atto della sua vita da priore nell'esilio di Barbiana. La possiamo leggere nel volume Lorenzo Milani, «Perché mi hai chiamato?». Lettere ai sacerdoti, appunti giovanili e ultime parole (San Paolo, Cinisello Balsamo 2013), curato da Michele Gesualdi, uno dei primi ragazzi della scuola di Barbiana e attuale Presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani. Il libro presenta testi inediti (con lettere a don Bensi, don Renzo Rossi, mons. Loris Capovilla, Primo Mazzolari, Barsotti e altri ancora), a cui sono opportunamente affiancati brani già noti ai lettori per favorire la lettura e la comprensione degli inediti. Scrive don Renzo Rossi: «Il giorno dopo il suo arrivo a Barbiana, Lorenzo venne a trovarmi nella canonica di Vicchio e mi chiese di accompagnarlo in Comune perché voleva comprarsi subito la tomba nel piccolo cimitero di Barbiana. Io gli feci in faccia una bella risata! "Quanto sei bischero!". Ma lui mi disse che con quel segno (la tomba) voleva sentirsi legato totalmente, nella vita e nella morte, alla sua nuova gente! La sua scelta "per tutta la vita fu immediata" !» (p. 94). Davanti alla miseria di quella minuscola parrocchia sperduta sul monte Giovi, quasi irraggiungibile all'epoca (6 dicembre 1954), non pochi amici protestarono auspicando un suo rapido trasferimento altrove. Tra questi, oltre alla madre, il giudice Gian Paolo Meucci e don Raffaele Bensi, suo confessore. Proprio dal carteggio con il parroco di San Michelino Visdomini veniamo a sapere la sua reazione, davanti alla proposta di considerare Barbiana come un posto da abbondare al più presto: «La prego dí non parlare più né con me né con altri di questa parrocchia come se fosse un banco di prova provvisorio in attesa di qualcos'altro. La sua lettera mi ha talmente turbato che son stato due o tre giorni a pensare al suicidio. Poi per fortuna le ho dato del bischero e poi l'ho anche perdonato» (p. 21). La lettera è del 29 dicembre, venti giorni dopo il suo arrivo a Barbiana, e ci dà subito l'idea della radicalità e della libertà interiore di don Lorenzo, del suo coraggio nel difenderla dicendo, senza mezze misure, al suo amato amico e confidente don Bensi, che gli è di scandalo, distogliendolo dalla sua missione, dalla sua vocazione. Comprando la tomba nel piccolo camposanto antistante la chiesa, don Lorenzo si confrontava col senso ultimo della sua esistenza dí credente e di sacerdote, agendo coerentemente con quanto aveva scritto, un anno prima, nella traccia della sua omelia per la festa dei morti: «questa vita non è tutto, ma solo un passaggio o un esame» (p. 191). La vita di don Lorenzo si è svolta sotto questo esame, sotto lo sguardo di Dio, e da qui derivano il suo coraggio, la sua radicalità per certi aspetti violenta, la percezione in lui chiara e inequivocabile della abissale differenza che corre tra lo stare sotto lo sguardo degli uomini oppure sotto lo sguardo di Dio. In questo senso, parla di sé come di un «eserciziante perpetuo» o anche come di un «rigido rabbino tradizionalista». Tanto rigoroso con se stesso, quanto capace di dedicarsi instancabilmente agli altri, facendo sua l'espressione di Gesù citata da Paolo e ripresa da Francesco di Assisi, «c'è più gioia nel dare che nel ricevere». Tanto esigente con i suoi allievi e nel rapporto dialettico con i suoi interlocutori o avversari, quanto capace di ammirare la generosità della sua perpetua, Eda, e dei suoi ragazzi nell'assisterlo fino alla fine.
Nella lettera a don Bensi che abbiamo citato, emerge anche con forza il senso, che via via prenderà un contorno sempre più definito, del suo modo di intendere il sacerdozio e la sua missione nella nuova situazione in cui si è venuto a trovare. Si tratta della sua ben nota opposizione contro l'ideologia della ricreazione, su cui tornerà più volte nel tempo con argomentazioni molto stringenti. «Voglio scrivere un libro contro la ricreazione. Lo intitolerò: L'Eresia del secolo. E sarà diretto in parti uguali contro i preti e i comunisti». Vorrebbe predicare gli esercizi spirituali ai diaconi proprio su questo argomento: «Do loro ospitalità quassù per tutta la settimana e li rimando in giù riformati» (p. 20). Circa un anno dopo, vorrebbe parlarne ai teologi, come scrive sempre al suo confessore: «Da anni covo in cuore il segreto desiderio di parlare ai teologi. Naturalmente parlerei della ricreazione e della scuola. Non chiedo di farmi dei seguaci, ma solo di poter turbare per mezz'ora le loro coscienze, seminare un dubbio, una necessità di revisione degli slogans» (p. 25). L'unica ricreazione buona, che don Milani ammette, è quella che ha un carattere educativo e che di fatto ha accolto con entusiasmo nella sua scuola. Vorrebbe, dunque, parlare ai diaconi in formazione e ai teologi professionisti, e mentre rivendica questa attenzione esprime, al contempo, pieno distacco da se stesso e dalle sue prese di posizione. Prenderà sempre le distanze, a più riprese, da chi si fa difensore delle sue idee («qualcuno – scrive – si è buttato accanitamente per difendere le mie affermazioni cui io stesso non credo più da mesi o da anni»), perché non cerca seguaci né tanto-meno di affermare un "metodo don Milani", per così dire, da applicare altrove. Scrive, nel 1956, a don Renzo Rossi: «Sarebbe bello che io potessi assolvere la funzione di serbatoio di pensiero per tutti gli indaffaratissimi preti che non han tempo per pensare a quel che fanno, ma vedo questa cosa assolutamente impossibile e del resto anche immorale per parte loro. Ognuno deve pensare quello che fa e siccome ognuno fa cose diverse e incontra persone diverse, nessuno può valersi, sull'apostolato, del pensiero d'un altro. Così son giunto alla conclusione che sia mia specifica missione non il distribuire pensieri prefabbricati ai preti, ma solo turbarli e farli pensare» (p. 108). Nella dedizione instancabile alla sua missione di "conturbatore di coscienze", non cerca le luci della ribalta o il conforto di un ampio consenso, ma lascia trasparire la verità irresistibile del Vangelo, quella buona notizia che facendosi lievito nella cultura cresce, inevitabilmente, generando una controcultura rispetto agli slogan e alla mentalità più diffusa e accolta acriticamente. Del resto, secondo don Lorenzo, un parroco non deve avere la preoccupazione di "piacere". «Ecco dunque l'unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira basso. Riceffargli ogni giorno la sua vuotezza. La sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza» (Lettera a don Ezio Palombo, del 25 marzo 1955, cit. da N. Fallaci, Vita del prete Lorenzo Milani, Bur, Milano 1993, p. 231).
La sua lotta per una vita coerente e fedele è an- che il suo dramma umano e di sacerdote: come fare un cammino non solitario né eccentrico e arbitrario, se ci si trova isolati e in esilio, di fatto quasi extra ecclesiam? Le sue parole sulla curia fiorentina, e sul crudele esilio in cui è stato relegato, sono durissime e non solo perché espresse senza accomodamenti e con il suo linguaggio diretto e molto toscano (che ancora forse scandalizza qualcuno e che è stato un facile bersaglio dei suoi detrattori, che non sono mai mancati nell'ambiente dei cristiani di facciata). Per don Lorenzo non era possibile una via mediana: aderire alla fede senza aderire alla Chiesa, senza un'obbedienza piena, equivale per lui a farsi una fede su misura, una fede fai-da-te. Ne scrive in proposito con grande chiarezza già nel 1953: «Quelli che scelgono e preferiscono e alla fine si creano la verità da credere si fanno la religione in casa a conto proprio. Sì, vedete, il mondo moderno che ci ha educati alla democrazia e alla fiducia nelle opinioni degli uomini ci ha dato anche questa tendenza di volerci fare su misura anche la fede. [...] Fede è entrare in casa d'altri, non costruirsi la casa. Entrare in una casa che non abbiamo costruita, che non è nostra, che non ci viene donata in proprietà ma in cui è già troppo alto onore di poter entrare. Ospiti del gran re. Non per mutar di posto a qualche mobile che non ci piace, ma per piegarci, accettare di umiliarci e accettare di soffrire qualcosa per amor di lui che tanto ci ha amato. Tutto dunque crederemo o nulla» (pp. 184-185). Al di fuori di questa prospettiva radicale e senza sconti, le parole di don Milani possono sembrare prese di posizione eccentriche o ideologiche o, per qualcuno, opinioni personali. Il priore di Barbiana, invece, sa bene di non aver aderito ad alcun partito, ad alcuna "ditta", ed è disposto a pagare fino in fondo il prezzo della solitudine per la sua coerenza. La fede professata deve, dunque, avere la sua verifica in un'etica vissuta, altrimenti è falsa.
Del resto, scrivendo a don Bensi nel 1965, rivendica di essere una «persona estremamente matura di cui ogni parola è misurata e frutto di anni di meditazione e di silenzio» (p. 65). In quel silenzio, la sua fede è cresciuta, fino a esprimere in poesia la forma della sua sequela senza sconti, del suo paradossale amore per Gesù: «Gesù ti odio / tu non mi dovevi chiamare. / [...] Gesù ti adoro / mi sei restato tu solo / Gesù m'aggrappo / alla tua unica mano / Gesù m'aggrappo / perché non voglio sparire / Ahi! // la tua mano è cosparsa di spine / Accidenti alle spine / della tua corona / Gesù ti odio / maledetta la tua croce / Gesù ti odio / ma non mi lasciare solo / Gesù ti odio / ma tu sai se è amore» (p. 209).
Bernardo Artusi
I CARE!
“L’arte dello scrivere è la religione. Il desiderio di esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo si intuiscono e le fa trovare a noi e agli altri. Per cui essere maestro, essere sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa.”
Don Lorenzo Milani
Gianfranco Ravasi "Don Milani, una voce profetica nel deserto"
Don Milani. Il prete che scuoteva la Chiesa mostra tutta la sua attualità grazie all’amore per la persona umana, soprattutto se emarginata
All’anagrafe fiorentina era stato registrato come Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, nato il 27 maggio 1923 da una famiglia borghese e intellettuale di matrice ebraica. Negli archivi parrocchiali apparirà come battezzato solo dieci anni dopo, successivamente a una lunga parentesi milanese dei genitori, che si erano trasferiti nel capoluogo lombardo nel 1930, ove il figlio avrebbe seguito tutto il cursus scolastico fino all’Accademia di Brera. Lorenzo ritornerà con loro a Firenze nel 1943 e fu là che si aprì il suo percorso spirituale che lo condusse al sacerdozio il 13 luglio 1947.
A questo punto sciogliamo del tutto l’enigma: stiamo parlando di don Lorenzo Milani, relegato dall’incomprensione ecclesiastica nel Mugello, a Barbiana, modesta frazione del comune di Vicchio che diverrà nota proprio per la genialità e la fede di questo prete. Là rimase fino alle soglie della morte, che avverrà a Firenze per grave malattia nel 1967.
La sua è stata una voce profetica che risuonava nel deserto, scuoteva le coscienze, anticipava i tempi collocandosi nei crocevia più roventi della società attraverso i suoi scritti, a partire dalle Esperienze pastorali del 1958, passando a L’obbedienza non è più una virtù per approdare all’indimenticabile dittico epistolare della Lettera a una professoressa (1967) su un originalissimo progetto educativo e della Lettera ai cappellani militari (1965) sull’obiezione di coscienza che gli costò una condanna per apologia di reato postuma, perché la sentenza fu pronunciata a un anno dalla sua morte avvenuta nel 1967. Sempre fermo e sereno, dichiarava ai suoi accusatori: «Dove è scritto che il prete debba farsi volere bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato».
Ai ragazzi della scuola di Barbiana confessava nel suo testamento: «Ho voluto più bene a voi che a Dio; ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto».
Il suo amore per la persona umana, soprattutto se povera ed emarginata, era totale: «Il cuore dell’uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola», scriveva a quella “professoressa” così rigida nel suo ottuso sapere e inesorabile nel suo giudizio su un’esperienza didattica creativa. Lapidario era don Lorenzo anche nell’ammonire che il «massimo della diseguaglianza è fare parti uguali tra diseguali», convinto com’era che «un atto coerente isolato è la più grande incoerenza» e che «non dobbiamo avere paura di sporcarci le mani.
A che servirà averle pulite se le avremo tenute in tasca?».
La sua fede era appassionata: «Se dicessi che credo in Dio, direi troppo poco perché gli voglio bene.
E volere bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza». Pur incompreso, come si diceva, dalle autorità ecclesiastiche, rimase sempre fedele alla Chiesa. Un suo compagno di seminario che sarebbe poi divenuto proprio arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, anni fa mi confidava che, a quanti chiedevano a don Milani perché non lasciasse una Chiesa così dura verso di lui, rispondeva: «E dove mai troverò chi mi perdona i peccati?», rivelando anche un temperamento da asceta, consapevole della fragilità umana e della necessità del perdono divino.
La sua opera principale a livello di elaborazione della sua esperienza è stata certamente il volume citato Esperienze pastorali, le cui righe sono già stilisticamente di un’essenzialità assoluta e programmatica, come egli stesso affermava in una sua lettera: «Lo stare per mesi su una frase sola togliendo via tutto quello che si può togliere», spogliando la verità da ogni paludamento retorico e dal manto dorato dell’ipocrisia. Infatti, «siamo in un mondo in agonia che Dio forse sta accecando per castigarlo per aver troppo e troppo male usato l’intelletto, oppure di non averne fatto parte agli infelici».
E alla fine il bilancio del suo impegno di pastore e di educatore era stato sorprendente: «Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Alla base, infatti, del suo insegnamento c’era soprattutto la ricerca condotta in comune tra insegnanti e discepoli. Il magister (da magis, più) si trasformava sempre in minister (da minus, meno) che procede spalla a spalla con l’altro. È ciò che avrebbe ribadito una figura lontana da don Lorenzo in tutti i sensi come Roland Barthes quando riconosceva che «vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa, e questo si chiama cercare».
In questo che non è un ritratto ma solo un’evocazione simpatetica di un sacerdote e testimone dalla storia tormentata e gloriosa, nel centenario della sua nascita, è stato naturale lasciare soprattutto a lui la parola, come abbiamo fatto intarsiando il nostro testo con l’eco della sua voce. La conclusione, però, dovrebbe essere affidata a un’immagine del 20 giugno 2017: papa Francesco in piedi, a capo chino e in silenzio, davanti alla tomba di don Milani in quel piccolo e semplice camposanto di campagna. Enzo Biagi aveva scritto: «È sepolto nel cimitero di Barbiana, sperduto e vuoto paese abitato dagli spiriti. Ma don Lorenzo parla ancora».
di GIANFRANCO RAVASI
Sergio Mattarella "Don Milani, battistrada di una cultura nuova"
Rivolgo un saluto a tutti i presenti, che vorrei poter salutare singolarmente (...) Ricordiamo oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani. È stato anzitutto un maestro. Un educatore. Guida per i giovani che sono cresciuti con lui nella scuola popolare di Calenzano prima, e di Barbiana poi.
Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana. Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano fra noi ma, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: fare crescere le persone, fare crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia.
Don Lorenzo avrebbe sorriso di una sua rappresentazione come antimoderno se non medievale, della sua attività. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario. Nella sua inimitabile azione di educatore — e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” — pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale. Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale.
Era stato mandato qui, a Barbiana, in questo borgo tra i boschi del Mugello — con la chiesa, la canonica e poche case intorno — perché i suoi canoni, nella loro radicalità, spiazzavano l’inerzia. La sua fede esigente e rocciosa, il suo parlare poco curiale, i suoi modi, a volte impetuosi, lontani da quelli consueti, destavano apprensione in qualche autorità ecclesiastica.
In tempi lontani dalla globalizzazione e da internet, da qui, da Barbiana — allora senza luce elettrica e senza strade asfaltate — il messaggio di don Milani si è propagato con forza fino a raggiungere ogni angolo d’Italia; e non soltanto dell’Italia. Don Milani, aveva una acuta sensibilità circa il rapporto — che si pretendeva gerarchico — tra centri e periferie.
Come uscire da una condizione di emarginazione? Come sollecitare la curiosità, propulsore di maturità? Come contribuire, da cittadini, al progresso della Repubblica? Il motore primo delle sue idee di giustizia e uguaglianza era proprio la scuola.
La scuola come leva per contrastare le povertà. Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino. La scuola per conoscere. Per imparare, anzitutto, la lingua, per poter usare la parola.
«Il mondo — diceva don Milani — si divide in due categorie: non è che uno sia più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco. Un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole». Si parte con patrimoni diversi. Da questa ansia si coglie il suo grande rispetto per la cultura. La povertà nel linguaggio è veicolo di povertà completa, e genera ulteriori discriminazioni.
La scuola, in un Paese democratico, non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine.
Lettera a una professoressa, scritta con i suoi ragazzi mentre avanzava la malattia — che lo avrebbe portato via a soli 44 anni — è un atto d’accusa, impietoso, di tutto questo. Lettera a una professoressa ha rappresentato una lezione impartita a fronte delle pigrizie del sistema educativo e ha spinto a cambiare, ha contribuito a migliorare la scuola nel mezzo di una profonda trasformazione sociale del Paese.
Ha aiutato a comprendere meglio i doveri delle istituzioni e sollecitato a considerare i doveri verso la comunità. Sempre più gli insegnanti, hanno lavorato con passione per attuare i nuovi principi costituzionali. Perché a questo occorre guardare.
La scuola è di tutti. La scuola deve essere per tutti. Spiegava don Milani, avendo davanti a sé figli di contadini che sembravano inesorabilmente destinati a essere estranei alla vita scolastica: «Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose». Impossibile non cogliere la saggezza di questi pensieri. Era la sua pedagogia della libertà.
Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito. Merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto e per non far perdere all’Italia talenti; preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito. I suoi ragazzi non possedevano le parole. Per questo venivano esclusi. E se non le avessero conquistate, sarebbero rimasti esclusi per sempre.
Guadagnare le parole voleva dire incamminarsi su una strada di liberazione. Ma chiamava anche a far crescere la propria coscienza di cittadino; sentirsi, allo stesso tempo, titolare di diritti e responsabile della comunità in cui si vive. Aveva un senso fortissimo della politica don Lorenzo Milani. Se il Vangelo era il fuoco che lo spingeva ad amare, la Costituzione era il suo vangelo laico. «Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Difficile trovare parole più efficaci. Difficile non riscontrare lo stretto legame del suo insegnamento con la fede che professava: prima di ogni altra cosa, il rispetto e la dignità di ogni persona. Qui si intrecciano il don Milani prete, l’educatore, l’esortatore all’impegno.
L’impegno — educativo, e di crescita — richiede sempre, per essere autentico, coerenza. Spesso sacrificio. Al pari di tanti curati di montagna che hanno badato alle comunità loro affidate, Don Milani non si è sottratto. Era giovane. Chiedeva ai suoi ragazzi di non farsi vincere dalla tentazione della rinuncia, dell’indifferenza.
La scuola di Barbiana durava tutto il giorno. Cercava di infondere la voglia di imparare, la disponibilità a lavorare insieme agli altri. Cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico.
Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere a tacere qualcuno, tanto meno un libro o la sua presentazione. Insomma, invitava a saper discernere. Quel primato della coscienza responsabile, che spinse don Milani a rivolgere una lettera ai cappellani militari, alla quale venne dato il titolo L’obbedienza non è più una virtù e che contribuì ad aprire la strada a una lettura del testo costituzionale in materia di difesa della Patria per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Padre David Maria Turoldo, amico di don Milani, disse di lui che «diventando disobbediente» in realtà obbediva a principi e regole ancora più profonde e vincolanti. Non certo a un capriccio o a una convenienza.
Non c’era integralismo nelle sue parole, piuttosto radicalità evangelica. Sapeva di avere in mano un testimone. Un testimone che doveva passare di mano, a cui poi i suoi ragazzi “aggiungessero” qualcosa.
Un grande italiano che, con la sua lezione, ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva. Il suo “I care” è divenuto un motto universale. Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza. A quella espressione se ne accompagnava un’altra, meno conosciuta. Diceva: «Finché c’è fatica, c’è speranza». La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora. Impegno accompagnato dalla fiducia che illumina il cammino di chi vuole davvero costruire. E a don Lorenzo ha percorso un vero cammino di costruzione. E gli siamo riconoscenti.
di SERGIO MATTARELLA
"Signore, io ho provato che costruire è più bello che distruggere, dare più bel che ricevere, lavorare più appassionante che giocare, sacrificarsi più divertente che divertirsi. Signore Gesù fa che non me ne scordi più"
Don Lorenzo Milani
Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio
Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte
Chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama.
Voler bene al povero è proporsi di metterlo al posto che gli spetta
Don Lorenzo Milani
La lezione di don Lorenzo
Giovanni Meucci
In dialogo con il documentario Barbiana '65. La lezione di don Lorenzo Milani (Italia 2017), del regista Alessandro G.A. D'Alessandro, cinque verbi per raccontare un possibile incontro con don Milani: visitare, leggere, ascoltare, imitare, essere.
Salire a Barbiana
La prima volta che sono salito a Barbiana è stato, forse, più di venti anni fa, insieme ad alcuni membri della mia Comunità, l'amico don Bruno Forte, attuale arcivescovo di Chieti-Vasto e don Renzo Rossi. Ricordo l'accoglienza di Michele Gesualdi, il suo dialogo con don Bruno Forte, riguardo alla paura che don Lorenzo Milani potesse essere trasformato in un "santino" perdendo la propria umanità e quella severità di carattere con cui, in tante agiografie, difficilmente si presentano i santi. Mentre parlavano, osservavo le pareti della Scuola di Barbiana dove tutto era rimasto a quei giorni in cui don Milani, a causa dell'aggravarsi del tumore, aveva dovuto abbandonare i monti del Mugello per concludere la sua esistenza nella casa della madre, in via Masaccio a Firenze. Tutto molto semplice, povero, essenziale, ma pieno di vita, di profezia, di attualità. La piccola piscina, simbolo borghese di ricchezza trasformato in strumento per abbattere le paure dei suoi giovani alunni. Era una giornata di primavera o autunno, non ricordo, però si stava bene fuori e abbiamo potuto concludere la breve visita scendendo verso il piccolo cimitero dove Lorenzo Milani è sepolto. Tornando poi lungo la strada sterrata nel bosco verso la Pieve, in quanto la scorciatoia per risalire era alquanto difficoltosa, avevo incontrato un grosso cane fortunatamente seguito a poca distanza dalla sua padrona. Mi ero, comunque, leggermente spaventato perché ero solo. Ecco la sensazione più forte di quella prima visita: la solitudine, la sofferenza, la paura che la figura di don Milani potesse continuare a essere fraintesa nella sua unicità e irripetibilità anche dopo la morte. Non tanto dalla società civile, dal mondo intellettuale e della cultura, dalle scuole e da educatori e docenti, ma dalla Chiesa, dai cristiani stessi. Segno di una ferita ancora profondamente aperta, quella con una parte dell'ambiente ecclesiale fiorentino, per un sacerdote che aveva semplicemente deciso di attuare e vivere il Vangelo fino in fondo, fino alla passione nell'orto del Getsemani. Obbediente al suo Vescovo in cui vedeva adempiersi la volontà di Dio Padre.
Leggendo il libro di Michele Gesualdi Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, si percepisce proprio una grande sofferenza non tanto per le incomprensioni tra don Milani e i suoi due Vescovi, ma per lo scandalo causato nei giovani del tempo. Anche se questo può sembrare assurdo, Gesualdi esprime la consapevolezza che quell'esilio sia stato un evento di grazia che ha permesso alla vocazione di don Lorenzo di manifestarsi nella sua pienezza. Come testimonia il ricordo di questo sacerdote: «Mi sembra di sentirla ancora la sua voce: "bisogna innamorarsi di tutti quelli che fanno parte della nostra famiglia, di tutto ciò che facciamo e l'amore deve essere un amore carnale. Non esiste un uomo migliore di un altro, non esiste posto al mondo che io possa amare di più. È Dio che mi ha messo qui. Questa certezza è il simbolo di una predilezione sconfinata di cui sono stato oggetto. [...] Non ci sono rimpianti nella mia vita, né nostalgie. I miei superiori io li amo: nessuno può dimostrarmi di essere stato punito o di non aver ubbidito. Della verità non si deve aver paura; un sacerdote non ha nulla da perdere; ovunque vada, troverà sempre qualcuno da amare, non a parole che sarebbe un mostruoso misfatto e una ignobile falsità, ma con i fatti. Amare non significa dare qualcosa, significa dare noi stessi, significa essere e i poveri sono quelli che Dio oggi in particolare, ha gettato sul nostro cammino; essi sono il segno di contraddizione; di fronte a loro bisogna scegliere. Non ci sono vie di mezzo, né possibili compromessi. Non si può vivere senza innamorarsi. La soluzione che io ho trovato è una nelle infinite. Vedi questi bambini io li amo. Essi hanno riempito il mio cuore"» (cfr. M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, pp. 232-233).
Ritirato sul monte è diventato un faro che ha rischiarato la notte indicando la strada per un rinnovamento del modo di vivere il Vangelo e di essere cristiani nell'oggi. Se il seme gettato non muore, non dà frutto. E più veniva ufficialmente isolato, più salivano alla Scuola persone importanti per incontrarlo, giudici, politici, giornalisti, professori, uomini di spettacolo. Più cercavano di nasconderlo più il suo pensiero sí diffondeva tra le persone. La forza della sua azione stava nella scelta di amare i ragazzi di Barbiana, senza cercare visibilità per se stesso, riconoscimenti pubblici o spazi di carriera. Umiliato, offeso, calunniato, per le parole di verità contenute nelle sue lettere e nei suoi scritti, non rispondeva con oltraggi, ma spiegava e rispiegava il senso del suo pensiero. Ed era questo che certamente non piaceva a tanti delatori: la capacità di non cedere all'ira, di obbedire sempre alla Chiesa, di rimanere fedele alla verità nell'oggettività del suo rivelarsi. E quando si esponeva e decideva di scrivere le sue lettere, come Risposta ai Cappellani militari, era a scopo educativo, di esempio per i suoi ragazzi affinché imparassero a rimanere fedeli alla propria coscienza in ogni occasione della vita. A sviluppare il proprio senso critico conservando sempre la libertà interiore ed esteriore. In quei giorni, infatti, sul quotidiano «La Nazione» di Firenze era riportato un documento dei cappellani militari contro l'obiezione di coscienza «in cui si leggeva, fra l'altro questa frase: "Considerano un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà". Così lo racconta Lorenzo nella Lettera ai giudici: "Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un comunicato dei cappellani militari in congedo della regione Toscana. [...] Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi, le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. [...] Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote, e perfino al vescovo che sbaglia. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. E il contrario del motto fascista Me ne frego"» (cfr. Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, a cura di G. Ceccatelli, Edizioni Clichy, Firenze 2015, pp. 64-65).
Fiction, non realtà
I libri con i quali mi sono avvicinato alla sua figura sono stati Lettera a una professoressa prima ed Esperienze pastorali poi. Avevo appena iniziato la Facoltà di Filosofia. Lettera a una professoressa come prima reazione alla negativa esperienza scolastica liceale appena conclusa, Esperienze pastorali per capire cosa mi aveva allontanato dal catechismo e dalla parrocchia poco dopo essere passato a comunione. Non ne ho parlato per molto tempo con nessuno, forse tutto non avevo compreso, ma quelle letture hanno lavorato nella mia mente, ispirando il modo di rapportarmi con le altre persone e la realtà nel suo complesso. Spesso le sue frasi sono diventate degli slogan o si è pensato di riprodurre nelle scuole di oggi la Scuola di Barbiana. Nel 1997, su Raidue, è stata trasmessa la miniserie in due puntate Don Milani. Il Priore di Barbiana, di Andrea e Antonio Frazzi, con Sergio Castellitto e Ilaria Occhini. Film che, in modo semplice e coinvolgente, rendeva bene la figura di don Milani e la sua esperienza a Barbiana. A volte eccedendo un po' nel cliché del sacerdote controcorrente, al di là dagli schemi tradizionali e contestatario, ma senza mai discostarsi troppo dalla storicità dei fatti accaduti.
Nell'ottima interpretazione di un giovane Castelletto traspariva tutta l'ammirazione sua e dei due registi per una vita donata completamente a servizio dei suoi ragazzi. La novità di una pedagogia capace di valorizzare il singolo alunno rispettandone tempi e modi di apprendimento. Senza la fretta di giudicare, valutare, selezionare. Uno studio mai disgiunto dalla concretezza della vita, dal mondo del lavoro, da uno sguardo ampio, cosmopolita: l'apprendimento delle lingue e i viaggi di studio e lavoro all'estero, la lettura dei giornali, l'attualità, la conoscenza del presente e di cosa stava accadendo intorno a loro. il coraggio di stare sempre dalla parte della verità. Ed è una storia che incanta, che rende partecipe il pubblico mettendone in gioco i migliori sentimenti. I rapporti tra Milani e la sua famiglia sono delineati con grande sensibilità. Molto bella e toccante la scena della morte di don Milani con cui si conclude il film. A settembre, l'ho fatto vedere ai miei alunni in preparazione alla gita di inizio anno della nostra scuola a Barbiana, e ho avuto nuovamente conferma della bontà dell'opera dei fratelli Frazzi. Il problema è come fare esperienza di questa bellezza, come calarla nella vita dei giovani che oggi popolano le nostre scuole quando il mondo è completamente cambiato rispetto a quell'Italia di ormai cinquanta anni fa'. Quí la fiction non aiuta in quanto, per sua natura, tende a semplificare le cose, a renderle leggere, a eliminare il peso della storia, della realtà.
Un nume tutelare
«Nei racconti dei ragazzi riferiti dal loro compagno Edoardo Martinelli, [...] si può cogliere direttamente dalla voce degli allievi della scuola di don Milani l'impronta che quell'esperienza ha lasciato nella loro vita. L'impegno a riuscire, contraddicendo un destino già segnato; un po' di quella superbia, che secondo il priore andava coltivata negli umili; ma anche la memoria grata dello stupore per le scoperte, del senso di responsabilità dei più grandi per i progressi dei più piccoli, delle coraggiose e meravigliose avventure dei viaggi all'estero per imparare le lingue, inimmaginabili nelle loro famiglie, perfino della fatica e dei sacrifici necessari per frequentare la scuola, e magari anche dei rimproveri per un momento di pigrizia o di distrazione. Insomma una crescita personale evidente, riconosciuta e probabilmente mai sperata, come racconta Nevio, poi diventato autista di pullman e militante comunista: "della sua lezione mi sono rimasti oggi i ricordi più belli ed emozionanti. Mi è rimasta dentro una carica esplosiva che uso ogni qualvolta c'è bisogno, sperando di farlo nel modo più corretto e incisivo, mi è rimasta dentro la volontà di sentirmi una persona utile ai bisogni dei più deboli; la consapevolezza di non dover esser pecora e di andare anche controcorrente senza tradire quello che dice la mia coscienza, di dire sempre la verità, anche se questo può essere in contrasto con la mia fede politica, con le mie convinzioni sindacali e sociali e con gli interessi della Chiesa della quale mi sento di far parte". O come dice Edoardo, con le parole forse più belle: "L'orgoglio di comprendere il proprio stato, la propria condizione umana, l'ambiente in cui si cresce e in cui si vive, si lavora, si lotta. La consapevolezza di essere uno e inimitabile". Verità, fede, politica, convinzioni, orgoglio, consapevolezza, chi nella vita di ragazzi come questi, si era mai impegnato a fare simili doni?» (Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, pp. 58-60).
Ripeto le ultime parole scritte da Giovanna Ceccatelli, «verità, fede, politica, convinzioni, orgoglio, consapevolezza» perché sono quelle cose che cerco di trasmettere ai ragazzi da quando, tredici anni fa, mi sono ritrovato a insegnare a dei liceali. Riuscire a fare questo credo sia il sogno di ogni professore che voglia essere anche educatore. Umili, vite segnate, poveri, sono le altre parole da cogliere, che probabilmente vanno in netto contrasto con la realtà di oggi, dove i ragazzi sperimentano sempre una forma di abbandono, ma insieme ad abbondanza, disillusione, scetticismo, narcisismo. Allora diventa difficile realizzare le altre parole. Ed è forte il rischio di scivolare nel moralismo colpevolizzando i giovani come se la povertà fosse l'unica strada per accettare la necessità di avere dei maestri. Come se il dialogo potesse crearsi solo tra persone umili, che cercano qualcosa, che prima di ottenere prestazioni desiderano conoscere. Solamente realizzare una scuola senza voti, cattedre e registri, sarebbe un problema, ma bisogna trovare il modo di raggiungere gli stessi obiettivi educativi anche oggi. I giovani attendono sempre qualcuno che li liberi. E, tuttavia, non basta leggere in classe Lettera a una professoressa, perché quell'esperienza torni magicamente a vivere. Così, dopo i primi anni di insegnamento, ho smesso di ricorrere a strane bacchette magiche, ma ho semplicemente preso una foto di don Milani da ragazzo, l'ho incorniciata e appesa in aula come un nume tutelare che ti protegge le spalle, che con il suo esempio indica lo scopo ultimo di fare scuola, un percorso particolare da cui prendere ispirazione.
La voce del maestro
Slogan, sogno, esempio, realtà, essere, sono le cinque tappe del percorso del mio avvicinamento a don Lorenzo Milani. Così, lo scorso 22 novembre, sono andato a vedere Barbiana '65. La lezione di don Lorenzo Milani, il documentario di Alessandro G.A. D'Alessandro (Italia 2017) prodotto da Laura e Silvia Pettini per Felix Film in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà e Fondazione Don Milani. Al Nuovo Cinema di Figline Valdarno, dove ha avuto luogo la proiezione, era presente una delle produttrici, Laura Pettini, che, presentando il documentario, ha ripercorso brevemente la lunga storia della sua genesi partendo dall'occasione che cinquantadue anni fa aveva portato il padre di D'Alessandro a salire a Barbiana. Il regista Angelo D'Alessandro, autore di sceneggiati importanti per la Rai come Zanna Bianca e Ciuffettino, si era recato da don Milani per un'inchiesta sull'obiezione di coscienza. Si era, poi, proposto di fare una lezione di cinema a quei giovani come ne faceva tante ai suoi studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia. In particolare, mostrare ai ragazzi un film di Georg Wilhelm Pabst, La tragedia nella miniera, considerato uno dei principali film pacifisti del tempo. In effetti, appena a Barbiana arrivò la corrente elettrica, una delle prime cose che fece don Milani fu quella di procurarsi un proiettore da 16 millimetri con cui studiare con i ragazzi film d'autore, analizzandone linguaggio e montaggio, fotogramma per fotogramma. Ed effettivamente, come ha ricordato il figlio di D'Alessandro nel comunicato stampa a cura di Laura Pettini per la Felix Film, il film «venne visionato varie volte dal priore e dai ragazzi che alla fine dimostrarono come sí trattasse in realtà di un film mediocre. Mio padre raccontava di come avessero perfettamente ragione: era salito per fare lezione ai ragazzi ma la lezione l'avevano fatta a lui». Nacque, così, un dialogo profondo sui temi della fede, del Vangelo, dei diritti umani, della guerra e della pace, tra il regista e i giovani di don Milani, che lo porterà a tornare più volte a Barbiana. Fino a quando, comprendendo la sua sincera partecipazione all'esperienza della Scuola, sarà lo stesso don Milani a offrirgli la possibilità di riprendere e di girare un documentario sul metodo di Barbiana.
I filmati originali – circa 40 minuti in pellicola bianco e nero, mentre la colonna sonora era stata registrata a parte su nastro magnetico, come si usava in quegli anni – mostrano alcuni momenti fondamentali della Scuola di Barbiana: la scrittura collettiva, la lettura dei giornali, i ragazzi píù grandi che insegnano ai più piccoli, il lavoro manuale svolto dai ragazzi e la partecipazione alla Messa, in cui vediamo don Milani celebrare, ma solo "per finta", per la macchina da presa. Spezzoni di pellicola e riflessioni personali del regista rimasti per lunghi anni separati, fino a quando il figlio, dopo la morte del padre, dopo un lungo lavoro di riflessione e preparazione, non ha trovato l'ispirazione per unirli in una narrazione. Nel tentativo di farsi guidare dalla viva voce di don Milani, che al momento delle riprese stava scrivendo con i suoi ragazzi Lettera ai giudici, per difendersi dalle accuse di apologia di reato nel processo che lo attendeva a Roma, per cogliere il senso ultimo, lo scopo del suo fare scuola. Che, nell'interpretazione di D'Alessandro, è: far diventare i suoi allievi dei cittadini veri, uomini capaci di andare in fondo alle cose, ragionare con la propria testa ed essere "sovrani di se stessi". Attraverso uno studio approfondito, la Costituzione italiana e il Vangelo. Come nei loro interventi durante il documentario hanno cercato di chiarire i tre testimoni chiamati a rappresentare i tre pilastri della Scuola di Barbiana: metodo didattico, Adele Corradi, l'insegnante che ha vissuto l'esperienza di Barbiana con don Lorenzo; Costituzione italiana, Beniamino Deidda, ex Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Firenze e docente volontario fin dalla scuola a Calenzano; Vangelo, don Luigi Ciotti.
Non saprei dire quanto il documentario possa essere efficace per avvicinare, chi ancora non conosce don Milani, alla Scuola di Barbiana, ma è sicuramente un importante punto di partenza per continuare a studiare e ad approfondirne la figura. Sono rimasto colpito dalle immagini iniziali dove i ragazzi, prima in lambretta, poi a piedi, sotto la pioggia, per strade fangose, raggiungevano contenti la loro scuola. Come partecipavano alle lezioni di don Milani e sapevano interloquire con chi andava a trovarli. Mi ha colpito il suono della sua voce, il suo sguardo, il suo modo di essere, ed è stato come rincontrare un vecchio amico. Ed è bello che il documentario si sia concluso con le immagini di papa Francesco che prega sulla tomba di don Milani, perché quella visita del 20 giugno 2017 ha posto fine a un lungo esilio di sofferenza e solitudine, dando al sacerdote fiorentino il posto che merita nella Chiesa del nuovo millennio. Una Chiesa chiamata a ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c'è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. «Non c'è da parlare della eroica storia di don Lorenzo Milani, ma della eroica storia dei poveri, della nobiltà della classe operaia e contadina che mi ha accolto e aperto gli occhi. In questi anni vi ho educato a sentirvi classe, a non dimenticarvi dell'umanità bisognosa e a tenere a bada il vostro egoismo, perché non si tratta di produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente. Il buon cristiano, oggi, non si limita a fare l'elemosina, ma s'impegna a
lottare per rimuovere le cause che tengono i poveri in condizione di sottomissione e miseria» (L. Milani, in M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, cit., p. 208). «Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra [...] fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità» (dal discorso di papa Francesco, in occasione del pellegrinaggio a Barbiana, 20 giugno 2017).
(FEERIA 17/1 n. 51, pp.50-55)
"Abbiamo bisogno di persone che si mettano a servizio delle vocazioni, di persone cioè che siano a servizio dei fratelli, ponendosi accanto a ciascuno per un cammino graduale di discernimento. Persone che a tal fine diano indicazioni, alla luce della Parola di Dio, perché ciascuno capisca qual è la sua vocazione e qual è il servizio che deve rendere".
"Il maggior bene che ciascuno di noi può fare al fratello è aiutarlo a scoprire e poi a seguire la sua vocazione. Cioè a comprendere qual è il progetto che Dio ha su di lui e a realizzarlo".
Ognuno di noi sente dentro di sé una inclinazione, un carisma.
Un progetto che rende ogni uomo unico e irripetibile.
Questa chiamata, questa vocazione è il segno dello Spirito Santo in noi.
Solo ascoltare questa voce può dare senso alla nostra vita.
"Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d'amore.
Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l'invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio".
Padre Pino Puglisi
A testa alta
di Alessandro D'Avenia
«Perché lo avete ucciso?», chiede il magistrato. «Perché si portava i picciriddi (i bambini) cu iddu (con lui)», risponde il sicario che ha sparato il colpo alla nuca. Si tratta del Cacciatore, questo il suo soprannome a Brancaccio. Aveva sparato a padre Pino Puglisi, 3P, come lo chiamavamo noi a scuola, il 15 settembre 1993, 25 anni fa. Stavo per cominciare il quarto anno e lui, uno dei professori della mia scuola, il Liceo Vittorio Emanuele II di Palermo, non sarebbe più entrato in classe. Capo d’accusa: far giocare e studiare, con l’aiuto volontario dei ragazzi di cui era professore di religione, bambini che altrimenti erano preda della strada e di chi su quella strada comandava. Troppo poco?
3P sapeva infatti mescolare i quadrati della scacchiera di Palermo, facendo muovere chi conosceva solo la città di luce verso quella più tenebrosa, e viceversa. I ragazzi di un rinomato liceo classico aprivano gli occhi su strade nuove, perché l’inferno poteva essere girato l’angolo. A cosa serviva la cultura che ricevevamo se restavamo ciechi su ciò che avevamo accanto? Don Pino sapeva che per far rifiorire il quartiere in cui era nato e cresciuto, bisognava ripartire da bambini e ragazzi, anche se, per stare fermi e in silenzio, gli alibi non mancavano. La sua battaglia era tanto semplice quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissimi attraverso il gioco, lo studio, la catechesi, prospettando loro una vita diversa da quella del «picciotto mafioso». La mafia alleva il suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e assicurando il sufficiente benessere materiale, condizioni che riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da cui attinge. Don Pino ne inceppava dall’interno il meccanismo, ripetendo a bambini e ragazzi di andare «a testa alta», perché la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono connaturato al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e non dal Padrino di Cosa Nostra. Per questi motivi lottò per aprire un centro che chiamò «Padre Nostro», dove i ragazzi potevano stare anziché lasciarsi ghermire dalla strada, e si batté per avere la scuola media nel quartiere. Il giorno del suo omicidio era andato per l’ennesima volta nei sordi uffici del Comune a sollecitare i permessi per la scuola, inaugurata solo 7 anni dopo la sua morte.
Nonostante i molti impegni pastorali non smise mai di insegnare religione. Proprio quell’estate, forse temendo qualcosa, aveva chiesto una diminuzione d’orario, ma il preside che teneva a lui quanto i ragazzi, lo aveva convinto a non farlo. Ho conosciuto il suo volto, sempre sorridente anche se provato, da cui non traspariva la lotta impari che stava combattendo silenziosamente. La sua pace veniva dall’unione con Cristo, di cui offriva lo sguardo ad ogni persona, perché riteneva ogni vita unica e necessaria alla multiforme armonia del mondo, e infatti paragonava le singole vite alle tessere dei meravigliosi mosaici del duomo di Monreale. Per questo decisero di ucciderlo, perché scardinava il sistema mafioso da dentro, non con slogan o bei pensieri, ma lavorando accanto alle persone, calpestando le loro strade e dando loro nutrimento per il corpo e lo spirito, così che percepissero la possibilità di un’altra «strada». Per questo lo fecero fuori, erano gli anni di Riina, al quale i Graviano, capi mandamento del quartiere, erano affiliati. 3P era, a suo modo, dal basso, tanto pericoloso quanto Falcone e Borsellino, uccisi un anno prima. «Si portava i picciriddi cu iddu»: portava i bambini, non a lui, ma con lui verso una vita nuova, più piena, più bella, sicuramente meno facile, ma costruttiva, libera, vera. Padre Puglisi era «pericoloso» perché era un vero maestro, apriva la strada, ti prestava il coraggio che non avevi, come i veri padri. E proprio come i veri padri pagò di persona.
Avevo solo 16 anni. Ho provato a raccontare questa storia di tenebra e luce nel romanzo «Ciò che inferno non è», perché ha determinato il mio sguardo su me stesso e sul mondo. Ho sentito entrare dentro di me una vita molto più ampia e non volevo che quel fatto diventasse, con il tempo, l’ennesima, archeologica, commemorazione di una delle tante ferite della mia città, recuperata per l’occasione nelle soffitte della retorica. In molti sentimmo che quel sangue mite e coraggioso raggiungeva cuore e membra come una trasfusione. E così se il professore di lettere mi aveva fatto vedere «che cosa» sarei voluto diventare, un altro, 3P, mi fece vedere «come»: impegnarsi per ogni vita, anche quando c’è poco da sperare o attorno hai un sistema che ti scoraggia, ostacola, deride. Quel giorno ho capito che dovevo bandire dalla mia vita gli alibi: il pessimismo diventò per me una scusa per starsene comodi e la speranza la principale attività della testa, del cuore e delle mani. Grazie a 3P ho imparato che la vita può essere felice solo quando è impegnata per gli altri, il suo umanesimo era integrale, non solo mentale o verbale: affermare la vita altrui, costi quel che costi, perché raggiunga la vera altezza: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». Per questo portava i bambini a guardare il cielo stellato, per trasformare il loro desiderio di vita attraverso la morte, come mostrava la mafia, in desiderio di vita attraverso la vita, come mostrava lui.
A lui mi ispiro per il mio lavoro. L’uomo che sono diventato lo devo alla ferita di quel sedicenne inconsapevole, ingenuo, egoista, che aprì gli occhi su un modo di impegnarsi nella vita che non poteva essere fatto solo di sogni e parole, ma doveva farsi carne. 25 anni dopo voglio ricordare quell’uomo minuto, sembrava che il vento potesse farlo volar via, ma gigantesco nella fede in Dio e quindi nella fede nell’uomo. L’ho constatato incontrando i ragazzi che operano oggi al Centro Padre Nostro, di fronte alla chiesa di San Gaetano. Studenti delle superiori o universitari si impegnano per i bambini come faceva don Pino, come è chiamato a fare ogni maestro, «portarsi i picciriddi cu iddu», non a lui, ma con lui: perché educare è dare a un giovane uomo coraggio verso se stesso e il mondo, ma tale forza educativa si sprigiona solo se io stesso sono impegnato, come posso, a crescere con quell’uomo. Abbiamo bisogno di maestri, il messaggio arriva forte e chiaro da una delle tante lettere sul tema, ricevuta pochi giorni fa: «Mi son sempre sentita sbagliata in classe. Ho avuto paura di occupare un posto nel mio banco e nel mondo, mi sono convinta di non essere abbastanza: abbastanza intelligente, abbastanza creativa, abbastanza bella… Non ho trovato insegnanti innamorati del proprio mestiere e capaci quindi di scovare il tesoro che ogni persona nasconde, ma insoddisfatti della propria condizione e convinti dell’inferiorità delle nuove generazioni. Ho avuto insegnanti che non leggevano una poesia “perché tanto non capireste”. Così mi sono ritrovata, da sola, a cercare parole che mi avrebbero salvato. Ho divorato libri, anche il manuale di letteratura. Cercavo chi mi avrebbe abbracciato anche da epoche lontane, chi mi avrebbe dato la mano e accompagnato nei tempi più bui. Ho trovato chi mi facesse conoscere il mondo, gli altri e me stessa. Da sola. Sto studiando per diventare maestra e ho fatto la mia prima esperienza in quarta elementare. È stata una delle cose più belle che mi siano successe. Ho scoperto con i bambini mondi così profondi che non scorderò mai». Essere maestri è aprire strade e aiutare le persone a sentirsi «abbastanza», scoprendo che in realtà lo sono già: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». 3P da vero maestro non ha mai accampato alibi (in latino «alibi» vuol dire letteralmente essere «altrove») in un quartiere difficilissimo, né a scuola, ma ha creduto in quei giovani contro ogni speranza. Ha amato lì dov’era, con lui nessuno era «sbagliato».
La più bella definizione di maestro che io conosca si trova nell’incontro tra Dante e Brunetto Latini. Il poeta dice al defunto maestro che nella sua mente «è fitta, e or m’accora,/la cara e buona imagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/m’insegnavate come l’uom s’etterna». Ricorda con affetto la figura «paterna», maestro è chi dà la vita, uomo o donna che sia, e gli è grato perché «ad ora a ora», che mi piace pensare in termini di quotidiano orario scolastico, gli insegnava «come l’uom s’etterna», parole che indicano l’immortalità dell’anima, ma in senso più ampio, la ricerca radicale di ogni uomo: attingere a una vita che non si rovina, ma sempre si rinnova, all’altezza del desiderio umano. Brunetto si rammarica: «figliuolo mio… s’io non fossi sì per tempo morto… dato t’avrei a l’opera conforto». Egli avrebbe voluto continuare a prestare servizio, come si dice con lampante verità anche in burocratese scolastico, alla vita dell’allievo. Maestro è chi riconosce «l’opera» che l’altro deve fare e la serve, con la sua vita. Così è stato 3P, padre che ha dato la vita perché altri ne avessero una più degna, vera, felice. L’uomo che sono oggi lo devo a ciò che vidi a 16 anni, una lezione che non dimenticherò, ed è la lezione che ha reso la mia vita bellissima, perché solo i maestri ci liberano dalla paura della vita, ci prestano il coraggio di andare a testa alta lì dove siamo, spazzando via gli alibi, e ci fanno essere «abbastanza», anche se pensiamo di non esserlo mai. Grazie, 3P, il letto oggi lo rifai tu per me
Il segreto di un sorriso: Padre Pino Puglisi
Rideva, don Pino Puglisi, se lo chiamavano prete antimafia. Il parroco di Brancaccio, una delle borgate di Palermo a più alta densità mafiosa, non amava i proclami, si sforzava semplicemente di essere un sacerdote coerente con il Vangelo. Quella coerenza che non cede di fronte ai compromessisu cui spesso si basa la potenza prevaricatrice degli "uomini d’onore".
«Quel prete rompeva le scatole», dirà di lui uno dei componenti del commando di fuoco che lo uccise come un agnello, una sera di settembre, la sera del suo compleanno, di fronte alla porta di casa, mentre dalle finestre aperte entrava l’aria avvolgente dello scirocco.
La sua pastorale dentro la borgata, come ha scritto don Luigi Ciotti nella prefazione della biografia di Mario Lancisi del sacerdote che viene proclamato beato, era considerata "un’interferenza".
Per svolgere appieno la sua missione la Chiesa spesso "interferisce", si frappone tra vittime e carnefici, si inserisce nei disegni dei mafiosi, nei soprusi della politica complice, getta luce nei verminai nascosti nelle zone d’ombra. Don Puglisi, martire in odium fidei, è stato la dimostrazione vivente di quanta paura a Cosa nostra possa fare un’azione sacerdotale svolta fino in fondo: l’educazione, la catechesi dei ragazzi, l’apostolato in parrocchia, l’esempio e il richiamo all’autenticità dei valori del Vangelo.
Il parroco di Brancaccio, costretto a celebrare Messa in un garage perché la chiesa di San Gaetano era rimasta danneggiata dal terremoto, strappava centinaia di bambini alla strada, tradizionale vivaio mafioso.
Promuoveva comitati civici per rendere più vivibile una borgata che non aveva nemmeno un albero e una scuola media. Ricordava ai politici locali il senso autentico del loro mandato. Smontava e irrideva la cultura dell’indifferenza e dell’omertà (con Agostina Ajello aveva creato un "Padre nostro dei mafiosi" per tenere lontano bambini e ragazzi dalla mentalità criminale).
Portava a fare volontariato in un quartiere periferico i ragazzi della buona borghesia del liceo classico Vittorio Emanuele che, come avviene spesso nelle metropoli del Sud, in certe zone non ci avevano mai messo piede. Aveva fondato un centro, intitolato alla preghiera che tanto amava, per fare ripetizione ai bambini poveri, destinati a un futuro di disagio o di asservimentoalla potenza dei boss.
Non a caso il suo assassino, che era della sua stessa borgata, aveva la quinta elementare. E quando gli arrivavano minacce, intimidazioni, avvertimenti, invitava i mafiosi dal pulpito a redimersi.
Non è possibile comprendere fino in fondo la sua santità se non si comprende il suo modello autentico di sacerdozio. La sua luce di santità ora splende su una città difficile come Palermo, e ci ricordache anche nei momenti più cupi,come è stata l’epoca delle stragi, cui il martirio di Puglisi appartiene storicamente, la luce del Vangelo e l’esempio di un modo di vivere autentico non ci abbandonano mai.
«La morte di don Puglisi, così tragica e dolorosa, è la chiave di volta nell'atteggiamento della gente rispetto alla mafia. La verità squarcia il velo dell’ipocrisia: non esistono mafiosi buoni e mafiosi cattivi, ma un cancro da combattere civilmente ed ecclesialmente con la Parola, l’esempio, la testimonianza. Preti che umilmente, ma con fede certa si facciano compagni di viaggio degli uomini, col Vangelo in mano e nel cuore. Proprio come don Puglisi, che è annoverabile tra i profeti. La sua testimonianza, infatti, non dà quiete ed è coraggiosa, ferma, intransigente. Non accetta baratti né compromessi. Puglisi ha detto e fatto contro la mafia parole e azioni pesanti da imitare, proponendosi quale esempio di una vita più degna d’essere vissuta. La sua morte ci sprona a essere cristiani con la testa alta e la schiena dritta. Essa è un seme insuperabile di vitalità, la sfida del futuro della Chiesa siciliana e non solo: la morte di don Puglisi si pone come luminoso esempio di vita sacerdotale. Il suo sangue innocente è stato e dev’essere come una trasfusione nelle coscienze indifferenti, richiamando tutti a un nuovo approccio con il fenomeno mafioso e, quindi, a una decisa ricerca degli strumenti ecclesiali e pastorali più idonei a formare coscienze veramente cristiane (confraternite, comitati per le feste, consigli pastorali e affari economici) che operino evangelicamente: dopo Puglisi nulla può essere più come prima nella valutazione storica e sociologica del fenomeno mafioso dentro e fuori la Chiesa» (mons. Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione).
Qualche riferimento
- Vincenzo Bertolone, Padre Pino Puglisi beato. Profeta e martire, San Paolo 2013
- Augusto Cavadi, Francesco Palazzo, Rosaria Cascio, Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia, Edizioni Di Girolamo, 2013
- Mario Lancisi, Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia, Piemme, 2013
- Alla luce del sole, film diretto da Roberto Faenza, 2005
- Brancaccio, un film di Gianfranco Albano, 2001