Cuori pensanti: scrittori, teologi, musicisti, artisti..

 

La mia voce matura!

 

Contemplativi del quotidiano

 

Uno speciale percorso...attraverso lo sguardo di donne e uomini cogliendo la grazia che ha illuminato la loro esistenza facendone ragione di vita, dono per gli altri e una proposta di vita per tutti noi! 

 

 

 

 

Il Poeta raccoglie i dolori e sorrisi e mette assieme tutti i suoi giorni in una mano tesa per donare, in una mano che assolve perché vede il cuore di Dio. I fiori del Poeta sbocciano per vivere molto a lungo per le vie della grazia.

 

 

Alda Merini

 

 

 

"Cari poeti, so che avete fame di significato, e per questo riflettete anche su come la fede interroga la vita. Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no. È un significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti.

 

Questo è il vostro lavoro di poeti: dare vita, dare corpo, dare parola a tutto ciò che l’essere umano vive, sente, sogna, soffre, creando armonia e bellezza. È un lavoro che può anche aiutarci a comprendere meglio Dio come grande «poeta» dell’umanità. Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando anche di imparare dalla critica. Ma comunque non smettete di essere originali, creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi."

 

 Papa Francesco

 

 

«L’autentica bellezza schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano»

 

Papa Benedetto XVI

 

 

 

 

 

Perché dovrei desiderare di vedere Dio meglio di quanto non lo veda oggi?

Vedo qualcosa di Dio in ogni ora delle ventiquattro, in ogni momento di esse,

nei volti di uomini e donne vedo Dio, e nel mio volto riflesso allo specchio,

trovo lettere inviate da Dio per le strade, ognuna firmata col nome d’Iddio,

e le lascio dove si trovano, perché so che, ovunque mi rechi,

altre puntuali verranno, per sempre e per sempre.

 

 

W.Whitman

 


Gilbert Keith Chesterton...profeta gioioso della fede

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Chesterton_ Il profeta gioioso di cui il
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Gilbert Chesterton un faro nel cammino di fede

 

 

 

 

Il 28 dicembre 2024 Papa Francesco nel Pensiero del giorno trasmesso in onda dalla BBC ha parlato di gentilezza, umiltà e gratitudine e quindi ha citato G.K. Chesterton — non era la prima volta — questo grande scrittore britannico, ha detto, molto stimato dal poeta argentino Borges, il quale nel finale della sua Autobiografia ci ricorda saggiamente di prendere i fatti della vita con gratitudine e non con scontatezza.

 

In due parole il Papa ha colto l’essenza dell’opera del poeta inglese, il grande nemico appunto della scontatezza. Una parola inusuale ma che dice e mette in guardia da quello che forse è il pericolo peggiore per l’uomo di ogni tempo e latitudine, quell’atteggiamento di sentirsi “in credito” nei confronti della vita e impedisce così di aprirsi allo stupore e, infine, alla gratitudine. Proprio nel finale della sua Autobiografia, che uscì postuma nel 1936 dopo la morte dell’autore, Chesterton conclude affermando che «L’esistenza è ancora una cosa molto strana e stupefacente per me e le do il benvenuto come se fosse uno straniero (…). Sento di essere stato approvato nel mio desiderio di capire il miracolo di essere vivi (...). Ho detto che questa religione un po’ grossolana e primitiva della gratitudine non mi ha preservato dall’ingratitudine, dal peggiore dei peccati». Un’affermazione che chiude il cerchio visto che all’inizio del libro aveva dichiarato: «Questo fu il mio primo problema, quello di indurre gli uomini a capire la meraviglia e lo splendore dell’essere vivi».

 

Non a caso il suo miglior romanzo è intitolato Manalive (in italiano: Le avventure di un uomo vivo) in cui il protagonista, Innocent Smith, cioè l’uomo comune colto nella sua innocenza, attraversa il mondo di chi lo accoglie con scontatezza e, con il suo candore eccentrico e con azioni che appaiono scandalose, getta lo scompiglio rivelando che si tratta di un mondo già morto, infilzato come una farfalla dall’entomologo le cui spille sono le abitudini, le convenzioni, le rigidità mentali. Da questo rigor mortis Innocent e Gilbert, uomini vivi, sono venuti a scuotere gli uomini, con leggerezza, allegria, humour e umiltà (tra loro fratelli) e un grande gusto per il paradosso.

 

Chi ha colto tutta la portata della rivoluzione chestertoniana è appunto Borges, come ha sottolineato il Papa, il quale riflettendo sull’essenza della poesia dice che essa consiste nel saper cogliere le cose della vita in quanto “strane”. Cioè libere dalla scontatezza e splendenti nel sole della gratuità e della libertà. La poesia come gratitudine di fronte a un dono. Questo combacia con il “benvenuto” che Chesterton dà all’esistenza “come fosse uno straniero”. Spesso solo lo straniero, che viene a inquietarci nel nostro torpore, apprezza quelle bellezze che noi “del luogo” abbiamo sotto gli occhi e quindi non vediamo più.

 

 

Eppure di quella bellezza ne abbiamo nostalgia, cerchiamo una casa per il nostro desiderio. Per chiudere questa lunga rassegna che nel 150esimo anniversario dalla nascita abbiamo voluto dedicargli, forse è allora giusto citare questi due versi composti in occasione del Natale, quando lo Straniero è venuto a visitare il nostro piccolo, meraviglioso, mondo: «Un bambino in una misera stalla, / con le bestie a scaldarlo ruminando; / solo là, dove Lui fu senza un tetto, / tu ed io siamo a casa».


 

Dio si fa carico del male a favore di tutti gli uomini

 

 

 

Platania, Marzia Curatore, Leonardi, Enrico Fonte

 

Nella sofferenza di Dio stesso entrato nella Storia, nella carne e nel sangue, uomo tra gli uomini, è riassunta potentemente tutta l'opera del male; nella vittoria finale del Cristo risorto il male del mondo è misteriosamente sconfitto.

https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2690142

Davanti alla realtà irrevocabile del male (irrevocabile perché liberamente scelta dall'uomo creato libero, cui Dio ha affidato la Sua Creazione) la scelta di Dio è stata quella di assumerlo Egli stesso, di farsene carico a favore di tutti gli uomini. Questa è la salvezza: il ricapitolarsi in Cristo di tutta la creazione affinché attraverso l'obbedienza perfetta essa fosse condotta ad una nuova perfezione, che non rinnega né tralascia il male occorso, ma lo assume e lo attraversa, lo capovolge trasformandolo nel suo contrario. Nella sofferenza di Dio stesso entrato nella Storia, nella carne e nel sangue, uomo tra gli uomini, è riassunta potentemente tutta l'opera del male; nella vittoria finale del Cristo risorto il male del mondo è misteriosamente sconfitto.

Nessuna sofferenza e nessuna imperfezione è lasciata fuori da questo supremo mistero; nessuna teoria o visione profetica ha mai potuto offrire ciò che il cristianesimo annuncia. Il cristianesimo non si illude di cancellare il male dando agli uomini delle istruzioni: se la loro stessa natura è stata deviata, come potranno seguirle?

Esso non si oppone al male con un muro di consigli e di prescrizioni: gli ha invece spalancato le porte, ha lasciato che mordesse la carne stessa di Dio, lo ha lasciato aggredire la consistenza stessa dell'Essere, e poi con un improvviso e subitaneo rovesciamento ben degno di una tale guerra ha trasformato la sconfitta stessa in vittoria, trionfando definitivamente. E' incredibile che una simile avventura sia sentita dagli uomini come qualcosa di obsoleto e noioso

 

Quando il mondo si commosse e il sole oscillò nel cielo, non fu al momento della crocifissione ma al grido dall'alto della croce: il grido che confessò che Dio era abbandonato da Dio. Ed ora lasciate che i rivoluzionari scelgano un credo fra tutti i credi e un dio fra tutti gli dei del mondo, pesando con la massima cura tutti gli dei dal ritorno inevitabile e dall'inalterabile potere. Essi non ne troveranno un altro che sia stato in rivolta anche lui. Anzi (il tema si fa sempre più difficile per essere trattato in termini umani) lasciate che gli atei stessi si scelgano un dio. Essi non troveranno che una divinità che abbia manifestato il suo isolamento; non troveranno che una religione in cui Dio sia apparso per un istante ateo. (GKC, Ortodossia, pag. 189)

 

Il significato che Cristo rivela è il significato della storia. La morte di Cristo si pone come l’evento centrale e determinante della storia cosmica che inizia con la Creazione e ha il suo primo drammatico evento nella Caduta. La Caduta rende ragione della morte e della sofferenza incancellabili dalla storia, così come della debolezza umana, debolezza morale quanto intellettuale. La Redenzione svela che esse sono conseguenze di un atto libero e perciò irrevocabile. L'opera della Redenzione è il libero atto di Dio fatto uomo che sconfigge la morte a favore degli uomini, non abolendola, ma attraversandola. Dio stesso assume la umana debolezza su di sé; morte e sofferenza raggiungono il loro culmine sublime nella sofferenza e morte in croce del Dio fatto uomo; e in virtù di questo rovesciamento dell'immenso creatore nella piccola creatura, anche la morte e la sofferenza stessa sono rovesciate nel loro contrario. Non sono abolite, ma rovesciate. Cristo è quel centro di gravità che opera l'inaudito rovesciamento


G.K. Chesterton: 150 anni dopo è un Uomo Vivo

 

Gulisano Paolo

 

 

Il 29 maggio del 1874 nasceva a Londra Gilbert Keith Chesterton, geniale autore di saggi, biografie, romanzi e poemi. Fu uno dei grandi interpreti del genere Mystery, con il personaggio ineguagliabile del prete detective, ma fu anche giornalista di razza, protagonista assoluto della scena culturale inglese della prima metà del Novecento.

 

Sono passati centocinquant’anni dalla sua nascita, ma Chesterton è più attuale che mai, con la sua difesa della ragionevolezza, con quell’uso magistrale del paradosso che sempre lo caratterizzò. Un paradosso mai fine sè stesso, non un gioco intellettuale, ma un metodo per risvegliare la mente e la coscienza.

 

Chesterton difese la bellezza della Fede, dell’annuncio della Salvezza che è una persona: Gesù Cristo. E lo fece con passione, con decisione, con simpatia, perfino. Morto a soli sessantadue anni nel 1936, fu veramente un “Uomo Vivo” – come dice il titolo di un suo celebre romanzo. Un cristiano controcorrente. E per questo dopo tanti anni è ancora attuale: perché il conflitto tra la Chiesa e il Mondo sta assumendo – negli ultimi tempi – dimensioni drammatiche.

 

I primi anni

Quando Chesterton nacque, Londra era la più grande, popolosa e importante città del mondo: il cuore e la mente della civiltà Occidentale e dell’ordine da lei stabilito.

 

L’adolescenza di Chesterton corrisponde agli anni disperati e crepuscolari del simbolismo e del decadentismo. L’opera di Chesterton è una sorta di medicina per l’anima, anzi, più precisamente può essere definita un antidoto. Lo stesso scrittore aveva in realtà usato la metafora dell’antidoto per indicare l’effetto sul mondo della santità: il santo ha lo scopo di essere segno di contraddizione e di restituire sanità mentale a un mondo impazzito.

 

Ancora ogni generazione cerca per istinto il suo santo – aveva detto –, ed egli è non ciò che la gente vuole, ma piuttosto colui del quale la gente ha bisogno… Da ciò il paradosso della storia che ciascuna generazione è convertita dal santo che la contraddice maggiormente.

 

 

Serenità e speranza

 

Il modo con cui Chesterton riuscì a contraddire la generazione del suo tempo è stato quello dell’essere felice. Una felicità autentica, che per essere tale non prescinde affatto dal dolore, dalla fatica e dalle lacrime.

 

La lettura di Chesterton, in sigla GKC, sia che si tratti dei romanzi che dei saggi, lascia sempre nel lettore una grande serenità e un sentimento di speranza che scaturisce non certo da una visione della vita irenistica e mondanamente ottimistica, che è in realtà quanto di più lontano dal pensiero di Chesterton, che denuncia dettagliatamente tutte le aberrazioni della modernità, ma dalla cristiana, virile fortezza dell’esperienza religiosa.

 

La proposta di Chesterton è quella di prendere sul serio la realtà nella sua integrità, a cominciare dalla realtà interiore dell’uomo e di adoperare fiduciosamente l’intelletto – ovvero il buon senso-nella sua originale sanità, purificato da ogni incrostazione ideologica.

 

Una fede viva

 

Raramente capita di leggere delle pagine in cui si parla di fede, di conversione, di dottrina, tanto chiare e incisive quanto prive di ogni eccesso sentimentalistico e moralistico. Ciò deriva dall’attenta lettura della realtà di Chesterton, il quale sa che la conseguenza più deleteria della scristianizzazione non è stato il pur gravissimo smarrimento etico, ma lo smarrimento della ragione, sintetizzabile in questo suo giudizio: «Il mondo moderno ha subìto un tracollo mentale, molto più consistente del tracollo morale».

 

Di fronte a questo scenario Chesterton sceglie il cattolicesimo e afferma che esistono almeno diecimila ragioni per giustificare questa scelta, tutte valide e fondatissime ma riconducibili a un’unica ragione: che il cattolicesimo è vero, la responsabilità e il compito della Chiesa consistono dunque in questo: nel coraggio di credere, in primo luogo, e quindi di segnalare le strade che conducono al nulla o alla distruzione, a un muro cieco o a un pregiudizio. «La Chiesa – dice Chesterton – difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori».

 

Il successo di padre Brown

 

L’opera critica di Chesterton – i libri su Dickens, Browing, Stevenson, Blake e il pittore Watts – non è meno incantevole che penetrante; i suoi romanzi, scritti all’inizio del secolo, uniscono il mistico al fantastico, ma la sua fama attuale si deve soprattutto a quelle che si potrebbero chiamare le “Gesta di Padre Brown”.

 

Chesterton non era un filosofo, o un teologo, ma portava i lettori alla riflessione attraverso le sue storie. E tra le storie che più ci tenne a raccontare c’erano i gialli, i polizieschi. Dei racconti polizieschi difese le ragioni in un suo saggio, The Defendant (Il difensore):

 

Non è vero che il volgo preferisce la letteratura mediocre alle opere di gran pregio, né che ama i racconti polizieschi perché sono letteratura di infimo grado. (..) Bisogna riconoscere che numerosi racconti polizieschi traboccano di crimini eccezionali, proprio come un dramma di Shakespeare. (..) Non solo il racconto poliziesco è una forma d’arte perfettamente legittima, ma presenta certi vantaggi ben definiti e reali come strumento del benessere pubblico.

 

E ancora: «Il primo pregio fondamentale del racconto poliziesco consiste nel fatto che rappresenta il più antico, nonché l’unico genere di letteratura popolare in cui sia espressa una qualche consapevolezza della poesia della vita moderna».

 

E del genere poliziesco

 

Chi è l’investigatore? L’investigatore è il moderno eroe che vive la sua Iliade nei meandri delle strade della città. Era inevitabile che sorgesse una letteratura popolare che tenesse conto delle possibilità romantiche offerte dalla città moderna. I racconti polizieschi possono essere sobri e confortanti come le ballate di Robin Hood.

 

Il romanzo poliziesco sottrae all’oblio il fatto che la civiltà stessa è la più sensazionale delle trasgressioni e la più romantica delle sommosse. «Trattando delle vigili sentinelle che difendono gli avamposti della società, esso tende a rammentarci che viviamo in un accampamento militare, in conflitto con un mondo caotico, e che i malfattori, figli del caos, non sono altro che traditori entro le mura della città».

 

Per Chesterton il romanzo poliziesco ci offre uno spaccato realistico della vita umana, e si basa sul fatto che «la moralità è il più oscuro e ardito dei complotti».

 

Scrivere per convertirsi

 

Gran parte della sua fama mondiale venne a Gilbert Keith Chesterton proprio da uno di questi personaggi, inizialmente solo una delle diverse figure di investigatore a cui pensava. Si trattava di un piccolo prete dalla faccia tonda, umile, dimesso, ma dalla mente pronta, straordinariamente acuta, in grado di gareggiare con i più abili poliziotti e delinquenti non in astuzia, ma in intelligenza.

 

Un prete cattolico, personaggio che appare per la prima volta in un racconto del 1910, diversi anni prima quindi della sua conversione. Chesterton per primo fu stupito del successo di questo personaggio, e si trovò quasi obbligato a dargli continuità.

 

Imparò ad amare e ad apprezzare il Cattolicesimo prima che nei suoi contenuti dottrinari, per quelle qualità di umiltà, semplicità e intelligenza che pose nel personaggio del prete investigatore.

 

In Padre Brown non c’è mai compiacimento dei propri successi: c’è il dolore per tutto il male che c’è nel mondo, un dolore sereno mitigato dalle tre virtù cardinali che egli incarna con semplicità: la fede, che non viene mai meno e che egli comunica e trasmette con naturalezza; la speranza, che anima la sua attività di prete e investigatore, con l’intenzione di salvare il peccatore, se non di impedire il peccato; la carità, ovvero l’amore, la capacità di offrire il perdono di Dio, il desiderio di vedere non la morte (o la punizione) del colpevole, ma la sua conversione.

 

La Distribust League

 

Tra le varie attività cui GKC si dedicò – diceva che diffidava di chiunque si occupasse di una cosa sola – ci fu anche l’economia e la politica.

 

Nel 1925 decise di rialzare dalla polvere la vecchia bandiera del giornalismo coraggioso che era stata levata in alto da suo fratello Cecil, e insieme a Belloc, Padre McNabb e altri amici fondò un nuovo settimanale da battaglia. Dopo diverse discussioni, si scelse un nome piuttosto singolare per la nuova testata: “G.K’s Weekly”, ovvero “il settimanale di GK”, le iniziali di Gilbert Keith; la decisione impegnava direttamente e personalmente l’autorevolezza e la responsabilità del suo direttore, Chesterton, ma rappresentava le idee di un gruppo destinato a raccogliere moltissimi consensi. Tale gruppo, un anno dopo, fondò un movimento politico, la Distributist League, la Lega Distributista.

 

Il Distributismo – si proponeva un ritorno alle forme di civiltà e ai principi basilari della società popolare medievale che trovavano la loro estrinsecazione nelle gilde e nei terreni comuni, oltre che in un rigoglioso localismo, e cioè un ritorno del popolo a una vita autonoma, alla diretta amministrazione dei propri interessi, affidati negli Stati moderni al controllo degli apparati statali o delle oligarchie economiche. Il motto coniato da Chesterton per il movimento fu: «La libertà attraverso la distribuzione della proprietà».

 

Un progetto utopico

 

Circoli distributisti vennero aperti in numerose città di Inghilterra e anche in Scozia, presso l’Università di Glasgow, trovando subito un notevole riscontro tra gli studenti. Il Distributismo possedeva tutte le caratteristiche per suscitare l’interesse di chi viveva in una fase di depressione economica, di delusione seguita a una guerra che ci si era illusi sarebbe stata l’ultima e aveva invece lasciato tante ferite aperte.

 

Era un movimento fuori degli schemi partitici, dei quali Belloc aveva direttamente sperimentato tutta l’incoerenza e la corruzione, che si proponeva di combattere i mali della modernità affidandosi non a modelli non più proponibili, ma riscoprendo le strutture sociali ed economiche di un concretissimo Medioevo, rilette alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa. Propugnando la teoria economica del «piccolo è bello», il Distributismo era non solo anti-imperialista e localista, ma riprendeva anche i temi della difesa della terra e del ritorno ad essa.

 

«La Chiesa ringiovanisce mentre il mondo invecchia», Così aveva scritto Chesterton in un suo saggio, constatando che il Cristianesimo è una pazzia che sana mentre tutto il mondo impazzisce. Ciò che rende sempre giovane e attraente la Fede è il fatto che Cristo ci ha dato un modo più ragionevole di vivere, più lucido ed equilibrato nei suoi giudizi, più sano nei suoi istinti, più lieto e sereno di fronte al destino e alla morte.

 

La morte

 

Nel giugno del 1936 Chesterton si ammalò gravemente, e morì.

 

Appresa la notizia della scomparsa del grande scrittore, papa Pio XI mandò, per mezzo del Segretario di Stato Cardinale Eugenio Pacelli, un telegramma di cordoglio, in cui si piangeva la perdita di «un devoto figlio della Santa Chiesa, difensore ricco di doni della Fede cattolica. Era la seconda volta nella storia che un pontefice attribuiva a un inglese la qualifica di “difensore della fede”.

 

 

Forse la Segreteria di Stato non si era accorta dell’ironico accostamento, che avrebbe fatto esplodere Gilbert in una delle sue proverbiali risate: l’altro inglese era stato Enrico VIII, l’uomo che aveva inferto alla Chiesa in Inghilterra la più grave e profonda ferita. Fu l’ultimo paradosso di GKC.


Fratel Arturo Paoli..."Camminando s'apre cammino"

Caro fratel Arturo

 

 Mariano Borgognoni

 

A 10 ANNI DALLA MORTE DI ARTURO PAOLI

 

Sono ormai due anni dall’ultima volta che ho portato un fiore sulla tua tomba, in fondo al tratturo che conduce al minuscolo cimitero di San Martino in Vignale. Con esso ho voluto recarti i saluti della comunità dei nostri lettori che hanno goduto della tua presenza di mezzo secolo nella vita della rivista; il primo articolo sul numero 17 del 1967! Come sai Rocca ha voluto e vorrebbe continuare ad essere una sorta di bussola per orientare pensieri e cammini evangelici in questo mondo e in questa società che, da quando te ne sei andato, non ha certo frenato l’erosione di quei valori umani e cristiani per i quali non hai mai cessato di combattere con parole, opere e senza omissioni. Col tuo linguaggio che arrivava dritto alla testa e al cuore di quelli che ti ascoltavano per convinzione o per contrapposizione. Anche tu non le hai mandate a dire, nemmeno alla tua Chiesa, alle sue fragilità, ai suoi tradimenti. Infine sei stato fortunato ad incontrare Francesco, un papa che ha saputo riconoscere la tua testimonianza, quella di Mazzolari, quella di Milani. Speriamo che questo cammino tra i feriti della Chiesa e del mondo possa continuare. Speriamo. Tu ricordalo all’Amico.

 

Caro Arturo, rammento con nostalgia (non è una malattia quando non impedisce ma aiuta a guardare al futuro) i momenti d’incontro, a Spello, in Cittadella, a Trevi, a casa mia o di qualche amico comune, la tua straordinaria capacità di fare spazio, di dire le parole essenziali, soprattutto di ascoltare e raccontare storie di vita e di volti, esperienze di accoglienza, di fraternità, di solidarietà, di lotta per rendere il mondo più giusto e la Chiesa più cristiana.  Sempre contemplazione e strada, contemplattivi, come amate dire voi della famiglia di frere Charles. Non due modi di essere cristiani ma sur la route dell’unità di preghiera e impegno sociale, di adorazione e lavoro manuale e intellettuale costante, di sequela del Signore e fedeltà alla terra. Servire il tempo senza esserne asserviti. Seguire il Signore servendo i più poveri. Tu l’hai fatto con gioia e senza risparmio da piccolo fratello, ad ogni latitudine, da Lucca al deserto, all’Argentina, al Venezuela, al Brasile, a tanti luoghi del nostro Paese, nel lungo percorso della tua vita centenaria spesa fino all’ultimo. E spesa sin dall’inizio collaborando da giovane prete lucchese con il Comitato di liberazione nazionale, contribuendo, con altri confratelli, a salvare la vita a centinaia di ebrei. Con emozione ho scorso il tuo nome scritto sul muro d’onore al Giardino dei Giusti dello Yad Vaschem a Gerusalemme. Ti ho visto felice e sorridente quando, avendo onorato l’Italia, svergognata dalle leggi razziali del fascismo, il 25 aprile 2006, ricevesti dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la Medaglia d’oro al valore civile.

 

L’ultima tua rubrica rocchigiana, dal 2009 al 2013, si denominava “amorizzare il mondo”, sentivi molto tua questa espressione di Teilhard de Chardin, amouriser le monde, un proposito evangelico ma per te anche un progetto politico nel senso alto che la politica può avere se si propone di essere “la più alta forma di carità” (Paolo VI). Sappiamo quante repliche della storia smentiscono questa utopia eppure il messaggio che ci hai lasciato è il dovere e la passione della perseveranza, la pazienza dell’attesa nel senso di farci carico delle nostre responsabilità e di saper aspettare che i frutti maturino. Il compito è quello che hai detto in un titolo di Rocca: schiodare Cristo dalla croce. Riscoprirne la divinità nell’umanità, organizzare la speranza a partire dal far diventare testata d’angolo la pietra scartata. Mettere lì la punta del compasso per disegnare una circonferenza sociale che ci renda più giusti e quindi più felici.

 

Caro Arturo come non vedere che questo è un cammino difficile, le guerre di ieri e di oggi, le nuove potentissime gerarchie sociali che mettono insieme tecnologie, soldi e politica come avevi ben intuito mettendoci in guardia, sulla scorta del tuo amato Levinas, da disumanizzanti derive tecnocratiche che nascondono i volti sotto una coltre di cifre inappellabili e sacre, le disuguaglianze crescenti nel nome di una libertà senza vincoli etici e sociali, la demolizione progressiva di ciò che è comune nel conformismo dell’individuo-massa, ci parlano di una ybris quasi invincibile negli umani ; eppure tu continui a indicarci l’Amico (eri davvero un mistico con gli occhi aperti) come pienezza di umanità secondo il sogno di Dio. Un’alternativa alle logiche oppressive, distruttive, ingiuste; gabbie d’oro piene di solitudine e tristezza, anche per coloro che le costruiscono. Ricordo che una volta sulle colline di Spello parlammo, perché eri un uomo di profonda curiosità culturale, della rilettura del mito di Ulisse da parte di Adorno e Horkheimer: quest’uomo dominante che, affinché si potesse resistere al canto delle sirene, non solo rende sordi i suoi servi ma è costretto lui stesso a farsi legare. In ogni caso e malgrado tutto ti immaginerei adesso, nella fragilità del tuo corpo, a far risuonare in modo potente la tua voce profetica che, ad un tempo, denuncia la profondità del male, personale e sociale e annuncia la possibilità e l’urgenza di costruire soggetti e percorsi di liberazione.

 

 

Ancora oggi ci diresti di mantenerci aperti allo “spirito buono”, come lo chiamava Sorella Maria, (ricordi? L’amica del padre di tutti gli “eretici” ancora confinato nella damnatio memoriae: Buonaiuti), che ci aiuti a cogliere nella nostra lingua, nella nostra cultura, nel nostro contesto vitale i segni dei tempi, a liberare le relazioni umane dallo sfruttamento, dalla sopraffazione, dalla volontà di potenza e di possesso e ci impegni a riaprire cammini di fraternità. In fondo l’umanità non ha mai abbandonato, con mille errori e tragedie, il sogno di una cosa. Per i cristiani vivere qui e ora almeno uno scampolo della logica del Regno, nell’attesa della sua venuta che restituisca anche agli sventurati di ogni tempo dignità e pienezza. Lo sappiamo, caro fratel Arturo che, anche dentro i luoghi, perfino i migliori, della vita cristiana e laica è complicato vivere la concordia nella diversità, la capacità di ascolto reciproco e di risanamento delle ferite: spesso anzi corruptio optimi pessima (non c’è niente di peggio che la corruzione del meglio). Per questo abbiamo bisogno di donne e uomini che, come te, abbiano la forza mite e tenace di ridirci ogni volta che è possibile percorrere un’altra strada. Che è possibile essere insieme anime aperte, persino grandi, e piccoli fratelli, piccole sorelle, seminatori di futuro.


Il Vangelo secondo fratel Arturo

 

Massimiliano Castellani

   

 

Che sia un giorno di quiete, nella tempesta quotidiana dalla quale tutti noi proviamo a sopravvivere, lo si capisce salendo i tornanti, incorniciati dal verde argentato degli uliveti, che da Lucca conducono a Pieve Santo Stefano. È qui, nella chiesa con annessa canonica messagli a disposizione dall’arcivescovo Italo Castellani, che dopo mezzo secolo, passato ad attraversare il deserto e in soccorso degli ultimi, è voluto tornare fratel Arturo Paoli. Ad aprire la porta della casa è Paola, mamma di due figli e «Vado a preparare il pranzo». Seduta al lungo tavolo, accanto a colui che sembra un magnifico ulivo nodoso e secolare – fratel Arturo domani compie 100 anni –, sta Benedetta, universitaria alle prese con la tesi sul cantautorato di Carmen Consoli e un impiego da commessa al supermercato per sbarcare il lunario. Benedetta è una dei giovani degli "incontri del martedì", quelli dedicati alla lettura e al commento del Vangelo guidati dal sacerdote e piccolo fratello della Congregazione fondata da Charles de Foucauld. Fratel Arturo finisce di leggere con voce attoriale una lettera appena recapitata: «È dello psicanalista Luigi Zoja… Anche io, sa, scrivo solo lettere di mio pugno», poi alza lo sguardo e ci tiene a precisare: «L’idea di un gruppo che si ritrovasse a leggere e a commentare il Vangelo me l’ha data un libro geniale, La prima generazione incredula di don Armando Matteo. Trovo che sia un approccio assolutamente straordinario per loro…». "Loro" sono i ragazzi, proprio come quelli che qui in questo momento sono alle prese con il Vangelo di Matteo. Si incontrano alla sera dopo la scuola o il lavoro e vanno avanti fino a notte fonda, quando fratel Arturo si ritira nella sua cameretta per salutare il nuovo giorno. «Alle 4 sono sul mio letto che aspetto l’aurora, senza di me il sole non se la sente mica di sorgere», sorride divertito e si fa scuro solo quando il ricordo lo riporta a quelle «brevi ore di un pomeriggio d’inverno del 1920», quando a Lucca, in piazza San Michele, vide le "camicie nere" fasciste sparare e uccidere due uomini che assistevano a un comizio socialista. Un trauma, come la morte della giovane amata e poi quella della madre che lo condussero al sacerdozio, «anche se non riuscivo a pensarmi parroco». È diventato un prete spesso "scomodo", che ha cercato di conciliare impegno politico e testimonianza di fede concreta. Dinanzi alla banalità del male, rispose con l’impegno totale, adempiendo alla richiesta dell’allora arcivescovo di Lucca, Antonio Torrini, che a lui e altri tre giovani sacerdoti disse: «Dedicatevi a tutti i perseguitati della terra». In quel periodo della seconda guerra, che definisce «straordinario», riuscì a mettere in salvo centinaia di ebrei, pagando con il carcere. Il 6 agosto, giorno in cui venne liberato da un anonimo tenente tedesco, ancora oggi lo commemora con una Messa. Nella sua memoria sono scolpiti i nomi dei tanti salvati che ne hanno fatto un "Giusto fra le nazioni", a cominciare dallo scrittore ebreo e tedesco, Ludwig Greve, che della scampata deportazione racconta nel libro dedicato a fratel Arturo, Un amico a Lucca. Ricordi d’infanzia e d’esilio. «Ludwig veniva da Cuneo, dopo che suo padre e la sorella erano spariti nel nulla… Appena arrivato, a muso duro mi disse: "Non crederà mica di convertirmi?". Tre giorni dopo, vivendo assieme a noi, rideva di quello che aveva detto. Si salvò vestendosi da prete. Le sue figlie, che ha fatto battezzare in Germania, quando passano per l’Italia non mancano mai di venirmi a trovare». E anche oggi è giorno di visite. Dal Brasile sono atterrati tre amici, parte di quelle comunità di base che fratel Paoli contribuì a creare tra i campesinos e gli affamati dell’America Latina, «dove ho visto realizzato il Concilio Vaticano II. Qui da noi invece, molto spesso li abbiamo dimenticati... Laggiù è ancora accesa la scintilla della sana "ribellione" cristiana. E quella l’ho toccata con mano nelle favelas brasiliane, nel popolo d’Argentina e del Venezuela». Parla come ha vissuto, condividendo speranze e drammi, come quelli dei desaparecidos argentini e subendo anche lui la violenza dei generali che lo cacciarono. «Oggi la forza rivoluzionaria positiva di quei popoli, vorrei ritrovarla nei nostri giovani, ma si sono spenti…». Fissa negli occhi Benedetta che prova a difendersi e a difendere la sua generazione: «Ma Arturo, anche questo modo diverso di vivere il Vangelo con leggerezza e al tempo stesso in maniera estremamente profonda, come ci hai insegnato tu, per noi rappresenta già una piccola rivoluzione…». Fratel Arturo annuisce. Comprende le ragioni dei giovani di un Occidente svuotato e annichilito, e mostra un piccolo libro. "L’anno scorso ho scritto questo pamphlet, La rinascita dell’Italia, in cui denuncio il fatto che non si può tacere delle gravi responsabilità della politica, delle ruberie compiute dai dragoni di una classe dirigente che pare non tenga in nessun conto la povertà crescente del nostro popolo. La deriva politica però, è lo specchio di quella morale... Non si sono mai viste, come oggi, tante "unioni" così frettolose e che altrettanto velocemente poi si sciolgono. L’incapacità di amare è il grande male dell’uomo».Ragionamenti "scomodi" anche per chi potrebbe pensare che la sua "rivoluzione" sia un po’ relativista e a buon mercato. Si rifà all’insegnamento di Teilhard de Chardin, fratel Arturo. «Dobbiamo "amorizzare" il mondo», dice mentre accarezza l’immaginetta del suo Charles de Foucauld («il 1° dicembre - ricorda - è il giorno della sua morte»), in cui sta scritta la massima: «Jamais avoir peur», mai dobbiamo avere paura. «Già, non dobbiamo temere neppure il "vuoto"». Fratel Arturo lentamente si alza e chiede con permesso se può andare a riposarsi un po’ nella sua stanza. Riappare dopo una mezz’ora e confessa: «Ho imparato da Beethoven che durante la giornata è necessario fare delle piccole soste di sonno... Il mio tempo è pieno di letture. Testi religiosi certo, ma anche tanta letteratura, a cominciare dai miei amati sudamericani, a cominciare da Jorge Amado. Il fatto di scrivere (Aragno ha appena ripubblicato il suo Dialogo della libertà e di venire considerato un intellettuale all’inizio è stato un ostacolo per entrare nella Congregazione dei Piccoli Fratelli. Da loro ho appreso tanto e più vado avanti e più mi convinco che il cristianesimo va ricercato nell’opera del contadino. Come dice il mio amico Ivo, piccolo fratello nella comunità di Spello: "Degno di Cristo, è chi affonda le mani tutti i giorni nella terra madre"». Nell’orto fuori dalla canonica, le mani nella terra le affonda Camillo, 84 anni - uno degli "ex ragazzi" di fratel Arturo - assieme al giovane Valentin, il figlio di Paola che dice raggiante: «Coltivano di tutto, in casa abbiamo pomodori grandi come cocomeri». Benedetta apparecchia la tavola, Paola serve la pasta. Sono tutte volontarie, come «quell’angelo della Piera che appare e scompare, in silenzio», dice fratel Arturo che non ha mai voluto una perpetua «perché anche la migliore con il tempo diventa un triste sottoprete. Molto meglio affidarsi alla Provvidenza». È quella che spinge tanti a salire fin quassù in questa oasi di San Martino in Vignale, per parlare e ascoltare la sua voce che incanta con le omelie della domenica. «Per me sono una ferita aperta. Dopo ogni omelia fatico a riprendermi. E non è perché ora porto un secolo sulle mie povere spalle, ma accade da quando il Cristo, il mio Amico, ha cominciato a parlarmi. E tutto questo è iniziato tanto tempo fa…».


Uno scritto giovanile racconta il salvataggio degli ebrei

 

Arturo Paoli

 

 

 

Nel settembre 1943 gli oblati di Lucca vennero a conoscere il signor Giorgio Nissim di Pisa, delegato della Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei), il quale li pregò di aiutarlo nella sua attività a favore dei correligionari perseguitati dalle leggi razziali. Con la benedizione e l’incoraggiamento di monsignor arcivescovo, che mise a disposizione anche dei mezzi pecuniari, subito gli Oblati iniziarono la loro opera di assistenza. Un primo gruppo di 18 persone furono portate da Livorno, delle quali 5 furono ricoverate presso l’Istituto dei Poveri Vecchi (Monte San Quirico) e 13 furono avviate a Formentale, in una casa che l’animo caritatevole dei padri Certosini aveva messo a disposizione, dopo che tutte furono ristorate presso le suore di santa Dorotea e le suore Barbantini. Un secondo gruppo di 30 persone, composto in più parte di donne anziane e ammalate o deboli, furono ricoverate presso le suore di Santa Zita, presso le quali furono poi collocate anche altre donne.Molte altre famiglie furono sistemate in case private, sia in città come in campagna, approfittando in molti casi dell’ospitalità dei parroci, che occultavano nelle proprie canoniche questi perseguitati fino a che non fosse stato trovato un rifugio maggiormente sicuro. Il contatto e il collegamento dei parroci con gli Oblati, per questa opera di ospitalità e di assistenza, passò sopra ogni pericolo e ogni difficoltà, mostrando praticamente la grandezza della carità cristiana. La casa degli Oblati restò sempre per tutti gli israeliti di passaggio a Lucca come punto di ritrovo, di conforto e di smistamento. Da un calcolo sommario degli israeliti che sono passati per Lucca, il loro numero non deve essere inferiore agli 800.Permanentemente trovarono asilo nella casa degli Oblati tre giovani israeliti, che altrove non potevano trovare posto perché più compromettenti. Rimase anche nella casa il signor Nissim, che fu sempre in stretto collegamento con gli Oblati sia quando si recava a Genova, Firenze, Pisa, Livorno o altre minori località, per prendervi le persone che maggiormente si trovavano in pericolo, come per la distribuzione dei fondi che aveva prelevato a Genova, coi quali nella città e provincia gli Oblati e il signor Nissim davano sussidi a tutti gli israeliti bisognosi. Ma non solo un sussidio mensile o altra assistenza in denaro veniva dato agli israeliti, ma pure venivano riforniti di indumenti e di generi alimentari, come di carte annonarie quando era possibile esserne riforniti e di tessere di riconoscimento sotto altro nome. Era infatti nella casa degli Oblati che il detto signor Nissim aveva impiantato un ufficio per la preparazione dei documenti necessari all’occultamento, con tutta l’attrezzatura di timbri e stampati procurati clandestinamente ed era un sacerdote degli Oblati che lo aiutava nel delicato lavoro.Degli israeliti occultati dagli Oblati nessuno è stato catturato dai tedeschi, nonostante che qualcuno abbia corso serio pericolo nei rastrellamenti degli ultimi giorni di dominazione, sia in città come nella campagna. Fatti degni di particolare menzione sono: 1) L’assistenza prestata a una giovane signora estera, che vicina a essere madre fu ricoverata presso le suore Barbantini, le quali poco tempo innanzi avevano corso serio pericolo in una minuziosa perquisizione fatta loro nei locali della clinica. Quella signora poté dare alla luce una bambina e non fu denunciata all’ufficio anagrafe; 2) l’assistenza a una signora scesa con il figlio dai monti di Cuneo, dove si era rifugiata fuggendo dalla Francia, e che arrivò gravemente ferita a una spalla e a un braccio per uno scontro tra partigiani e soldati tedeschi, e fu necessario sottoporla per due volte ad atto chirurgico. Anche le suore Mantellate e Passioniste, con l’obbedienza di monsignor arcivescovo accolsero israeliti nei loro monasteri e furono generose di assistenza morale e materiale. Né può essere dimenticata l’assistenza prestata dai medici Enea Melosi, Frediano Francesconi, professor Tronci ostetrico, in ogni caso ad essi presentato, come non può essere dimenticata l’assistenza prestata dalla baronessa Elza di Sardagna agli israeliti, la quale si tenne in contatto con gli Oblati fino a che non fu uccisa dalle Ss tedesche. Dal mese di gennaio 1944 si raccoglieva periodicamente a Lucca nella casa degli Oblati del Volto Santo il Comitato di liberazione nazionale, che teneva le sue adunanze nei locali della casa. Questo è avvenuto fino a pochi giorni avanti la liberazione della città, perché a causa di lettere anonime intercettate alludenti a tali adunanze e facenti i nomi delle persone più in vista che vi prendevano parte, fu conveniente interrompere le adunanze stesse anche perché i membri del Comitato, essendo ricercati, si erano messi in salvo in luoghi sicuri, mentre l’opera dei sacerdoti Oblati veniva in dette lettere classificata come contraria alla repubblica fascista e all’esercito tedesco. Ma la casa degli Oblati restò ancora come luogo di ritrovo ai membri del Comitato e come punto di arrivo e di partenza per le notizie interessanti la liberazione della città. Trovarono inoltre asilo nella nostra casa 22 giovani, in maggior parte membri di bande di patrioti, scesi in città dietro ordini del Comitato, per prepararsi all’azione, qualora ce ne fosse stato bisogno, nella liberazione della città.


Madeleine Delbrel... profeta del quotidiano

Madeleine è una di quelle grandi donne che riuniscono in sé la fedeltà di Maria Maddalena, l’audacia di Paolo, la generosità del buon samaritano, la fede e l’entusiasmo per Gesù e in Gesù di tanti personaggi del Vangelo. Molte delle sue proposte di vita cristiana in mezzo al mondo,  soprattutto nei luoghi della periferia geografica ed esistenziale.

 

Diego Fares


 

 Una Chiesa più amabile e amorevole

 

Diego Fares

 

Madeleine e papa Francesco

 

Francesco ha confessato che in gioventù non aveva conosciuto bene la vita e gli scritti di Madeleine, ma è rimasto impressionato da quella «gran donna» per «come si inseriva nelle borgate più povere»[8].

 

Possiamo ricordare due episodi di Francesco in cui viene menzionata la venerabile. Nel febbraio 2015 papa Francesco e gli altri membri della Curia romana si sono ritrovati ad Ariccia, nella Casa Divin Maestro dei religiosi paolini, per gli Esercizi Spirituali. Il ritiro quaresimale era dedicato alla vicenda del profeta Elia; ma «insieme ad Elia, c’è stata anche una “compagna” di viaggio per gli esercizi della curia. Sul programma preparato per l’occasione dalla Prefettura della Casa pontificia, accanto all’immagine di un’icona raffigurante il profeta e il suo carro di fuoco, c’è un breve scritto della mistica francese Madeleine Delbrêl. “La vera solitudine”, si legge tra l’altro, “non è l’assenza degli uomini, è la presenza di Dio” e, ancora, “non c’è solitudine senza silenzio. Il silenzio: talvolta è tacere, sempre è ascoltare”»[9].

 

Il Papa inoltre ha citato espressamente Madeleine nell’udienza ai sacerdoti della diocesi di Créteil, invitandoli a rivolgersi alla sua intercessione: «Chiedete con insistenza allo Spirito Santo di guidarvi e illuminarvi: Egli vi aiuti, nell’esercizio del vostro ministero, a rendere la Chiesa di Gesù Cristo amabile e amorevole, secondo la bella espressione della venerabile Madeleine Delbrêl[10]. Con questa forza che viene dall’alto, sarete spinti ad uscire per farvi ogni giorno più vicini a tutti, in particolare a quanti sono feriti, emarginati, esclusi»[11].

 

Madeleine Delbrêl è una delle sante della porta accanto di cui il Papa  ha parlato sempre: una donna che ha scelto di spendere la vita nei sobborghi poveri, marxisti e atei di Ivry. È la donna che, per sentire la voce di Dio, non va nel deserto sabbioso, ma in mezzo alle folle, per la strada, nella metropolitana, nei quartieri più poveri; ci va con la disposizione a essere sorella di tutti e a servire tutti ascoltando ciascuno, a imparare a sentire la voce di Dio che parla sempre attraverso i più piccoli e più abbandonati.

 

Scrivere di Madeleine Delbrêl significa un continuo disfare la strada percorsa verso la letteratura per ricongiungersi alla strada che porta verso il Vangelo. Nella faticosa opera di correzione che ha contrassegnato i suoi scritti si nota come il proposito di Madeleine non sia di carattere letterario, ma piuttosto quello di eliminare tutto ciò che possa togliere la parola a Dio. Meditando sul silenzio, lei farà notare che il silenzio è attivo: ascolto attivo di Dio. Né i rumori normali né le parole normali della vita lo impediscono. A precluderlo è l’atteggiamento di chi con le proprie parole toglie la parola a Dio. Un Dio che sa parlare attraverso i più piccoli. Il 15 marzo 1956 Madeleine dichiara che non ha scritto per il piacere di farlo: si è sforzata in tutti i modi di «evitare di cadere, un giorno o l’altro, nella “letteratura”, il che mi parrebbe il peggiore dei mali»[12]. Perciò, quando scrive, dice di non voler fare un lavoro di sintesi, ma, piuttosto, lasciare che si costituisca – seguendo la vita – un dossier su diversi aspetti della questione.

 

Se Madeleine vivesse oggi, potremmo dire che ciascuna esortazione apostolica ed enciclica del Papa si sarebbe attagliata a meraviglia al suo carisma e alle sue aspirazioni. A questo proposito, don Luciano Luppi afferma: «Nel leggere oggi la Evangelii gaudium di Papa Francesco o Fratelli tutti alla luce di molti passi delle opere della Delbrêl, si registra una sorprendente consonanza tra i due. Eppure sono passati decenni da allora. Perché? Le motivazioni potrebbero essere molteplici. Papa Francesco e Madeleine Delbrêl hanno in comune diverse cose: la vicinanza agli insegnamenti spirituali di san Francesco e sant’Ignazio; una lettura del Vangelo non astratta o spiritualistica, ma preoccupata di aderire profondamente alla concretezza del Vangelo come a quella della vita; la volontà di lasciarsi interpellare dal dolore dei poveri, scegliendo di condividerne la marginalità e piccolezza; la viva coscienza del Vangelo come di una notizia sorprendente e decisiva, di cui il cristiano non può non sentirsi in debito verso tutti»[13].

 

Una Chiesa che «si edifica»

 

Un fatto singolare nella vita di Madeleine aiuta a comprendere la sua concezione della Chiesa. Nel 1952 lei fece un viaggio lampo a Roma, per andare a pregare sulla tomba di Pietro. Aveva manifestato alle compagne il bisogno di pregare per la Mission de France. Era convinta che ai preti operai stesse venendo meno il fondamento della preghiera e aveva sentito la necessità di compiere un pellegrinaggio a Roma, di andare a pregare sulla tomba di san Pietro. Lo faceva per chiedere che non andasse perduta la grazia dell’apostolato che era stata data alla Francia, e che invece essa si mantenesse nell’unità e venisse riconosciuta e rafforzata dalla Chiesa. Tuttavia, qualcuno le fece presente che poteva essere costoso recarsi a Roma soltanto per pregare poche ore in San Pietro.

 

In quella stessa settimana un’amica sudamericana di Madeleine, che aveva fatto visita alla comunità, non essendo riuscita ad acquistare dei fiori che avrebbe voluto donare alla comunità, comprò un biglietto della lotteria. Lo lasciò sul tavolo e nessuno vi fece caso, finché non si scoprì che si trattava di un biglietto vincente. E che valeva proprio la somma necessaria per il viaggio di Madeleine! Sicché lei viaggiò per due giorni e due notti, passò 12 ore quasi ininterrotte in preghiera rivolta a san Pietro – à cœur perdu… et à perdre cœur, «con il cuore in mano… e inizialmente perdendo il mio cuore» – e infine fece ritorno in patria. E nel corso di queste ore avventurose non sospettava che un certo Jean Guéguen la stesse aspettando alla Stazione Termini, quel 6 maggio 1952, con un invito a una udienza di Pio XII.

 

Nella prefazione alla sua biografia di Madeleine, Guéguen racconta che nel marzo 1952 un’amica di Madeleine, conosciuta di passaggio a Roma, gli aveva scritto chiedendogli di accogliere Madeleine che sarebbe arrivata nella Città eterna. Guéguen andò a prenderla alla Stazione, ma poiché non fu in grado di riconoscerla, non si incontrarono[14]. Tornato a casa, Jean mise l’invito all’udienza papale in una busta e la inviò a Madeleine all’indirizzo di Ivry. Quando la destinataria lo ricevette, scrisse una lettera al Papa per chiedergli scusa, e così ebbe inizio l’amicizia con Jean Guéguen[15]. L’anno dopo egli l’aiutò a ottenere un colloquio con il Pontefice. Possiamo leggere questa vicenda come un esempio della distanza temporale che c’è tra ciò che lo Spirito opera nel cuore di un umile membro del popolo fedele di Dio e quello che compie nell’apparato ufficiale della Chiesa gerarchica. L’aspetto interessante non è la distanza, ma il buono spirito con cui la vive la diretta interessata. Nel libro Noi delle strade Madeleine narra che era andata a Roma per pregare e non per chiedere «lumi», ma alcune cose le si erano imposte con la forza di una missione[16]. La prima era che Gesù aveva tanto parlato della potenza dello Spirito Santo e della sua attività riguardo alla Chiesa da dire che l’avrebbe edificata su Pietro, il quale sarebbe diventato come una pietra. «Pietro: una pietra a cui è stato chiesto di amare». «È pensiero del Cristo che la Chiesa non sia soltanto qualcosa di vivente, ma qualcosa di edificato»[17].

 

Questa rivelazione, che le si impone con chiarezza, riguardo alla volontà di Cristo che la Chiesa non debba essere soltanto viva ma anche «edificata», risuona in tutte le dimensioni e le azioni della vita di Madeleine. Ne mettiamo in evidenza quattro. Anzitutto, per costruire la Chiesa è necessario «fare posto a Dio». Non necessariamente un posto grande: basta lasciargli aprire una breccia, da cui egli possa entrare nella nostra vita. Secondo: per costruire la Chiesa ci si deve collocare. Non da qualsiasi parte e nemmeno in tutto lo spazio, ma proprio là dove lo Spirito ha aperto la breccia. A volte abbiamo confuso lo spirito di andare a tutti i popoli con la conquista del mondo intero, mentre di fatto ci sono posti in cui bisogna rimanere e altri dove dobbiamo scuotere la polvere dai nostri sandali, almeno finché non arriverà il momento favorevole. In terzo luogo, per costruire la Chiesa bisogna andare in profondità, e questo va fatto con la preghiera e con la conversione. Infine, per costruire la Chiesa occorre includere tutti.

 

La breccia: consentire a Dio di farsi spazio

 

Per costruire la Chiesa, occorre permettere al Signore di farsi spazio. Anni dopo Madeleine ricorda: «“A vent’anni fui letteralmente ‘abbagliata da Dio’; ciò che avevo trovato in Lui non l’avevo trovato in nient’altro. È l’abate Lorenzo che, per me, ha fatto esplodere il Vangelo… Esso è diventato non soltanto il libro del Signore vivente, ma il libro del Signore da vivere”»[18].

 

Madeleine scopre un Signore che sta dalla parte della vita. Un Dio che non respinge la danza, la poesia, la musica, la letteratura, il teatro, la filosofia ecc. Adesso che vede la vita in questo modo, ogni minuto acquista un’importanza unica. Grazie all’abate Lorenzo, Dio abbagliò Madeleine, e il Vangelo si fece strada nella sua vita non come una luce calata dall’alto nell’oscurità di un bosco, ma come una luce che «scoppia», come un’onda luminosa che si propaga da dentro a fuori. Così Madeleine concepirà la missione del cristiano come quella di dare vita e salute a chi non le ha mai avute o non le ha più. Lei afferma: «Ma se anche i cristiani devono ricevere la Grazia in se stessi, pregare e soffrire affinché la evangelizzazione del mondo sia efficace, affinché i peccatori siano salvati, questo non può dispensarli dall’essere, ciascuno sulla sua frontiera con il non credente con il quale confina = breccia per il Vangelo»[19].

 

Il fatto di ricevere la grazia in sé è in tensione con l’essere breccia affinché la grazia arrivi agli altri. Non si tratta soltanto di «venire» illuminati dal Vangelo, ma, al tempo stesso, di essere «breccia» per far passare questa luce agli altri. E non soltanto si deve farla passare, ma bisogna anche discernere dove essa già opera: «Discernere in ogni persona ciò che è luce, anche frammentaria, anche distorta. Essere coscienti del fatto che è difficile strappare la zizzania senza strappare il buon grano. Cercare di mettere in ogni persona sempre più buon grano senza occuparsi della zizzania. Rispettare ciascuno: non sporcare il suo ideale a causa delle sue disillusioni o dei suoi rancori. Non combattere il male ma seminare un po’ di vita dove esso si trova, giacché il male è assenza di bene»[20].

 

Situarsi

 

Per costruire la Chiesa, occorre situarsi. Madeleine è stata una donna situata, che ha trovato il suo posto nel mondo e vi ha messo le radici, ha dato frutto. Il luogo è in relazione non soltanto con la costruzione, ma anche con le cose superflue che vanno messe da parte affinché la vita cresca in ciò che è essenziale. Si va a vivere nei quartieri poveri, perché la Parola va annunciata in quello spazio di prossimità e di vicinanza.

 

Si resta comunque stupiti da come questa sua decisione sia guidata da un’idea semplice e tradizionale: quella del male come assenza di bene. La sua decisione si concretizza nell’andare a vivere là dove, più che esserci il male, c’è assenza di bene. Senza preoccuparsi della zizzania, si va a seminare un poco di bene e di vita dove ce n’è bisogno. Non si tratta di andare a strappare via la zizzania, ma di seminar(si) come un po’ di grano buono. L’esatto contrario dell’allontanarsi dal mondo e andare nel deserto per vivere lì la propria santità. Per Madeleine, il luogo dove Dio ama stare è in mezzo agli uomini. Lei si trasforma quindi nella donna che continuamente mette la sua vita come lievito nella massa. Madeleine si colloca in mezzo al suo popolo per far posto a Dio con l’azione e con la parola.

 

L’azione con cui Madeleine fa posto all’operare di Dio si richiama allo stile delle beatitudini. In «Beati i miti» lei afferma: «Per compiere la tua opera sulla terra tu non hai bisogno delle nostre azioni sensazionali, ma d’un certo volume di sottomissione, d’un certo grado di arrendevolezza, d’un certo peso di cieco abbandono, situato non importa dove tra la folla degli uomini. E se in un sol cuore si trovassero congiunti tutto questo peso di abbandono, questa sottomissione e questa arrendevolezza, l’aspetto del mondo cambierebbe, certamente. Perché questo solo cuore ti aprirebbe la strada, diventerebbe la breccia per la tua invasione, il punto debole dove cederebbe la rivolta universale»[21]. L’invasione di cui parla Madeleine ricorda ciò che dice papa Francesco sul «traboccamento della Misericordia»: «Si tratta di discernere il punto concreto – di apertura, di fragilità, di abbassamento – che permette i traboccamenti di Dio. Quando diciamo “punto concreto”, ci riferiamo al fatto che il traboccamento può avvenire sia per un intervento al momento giusto, sia per un cambiamento di tono, o forse per un gesto di abbassamento e/o di avvicinamento all’altro, che sbilancia ciò che bloccava la relazione vitale»[22].

 

Andare in profondità

 

Per costruire la Chiesa è necessario andare in profondità. A partire dal 1933, quando si stabilisce a Ivry, Madeleine passa dall’idea di una «missione in estensione», che implica partenze verso luoghi lontani, sradicamento e nuove fondazioni, a quella che lei chiama una «missione in profondità»[23]. Lo spiega, meglio che in qualsiasi altro scritto, in un breve ritratto di santa Teresina del Bambino Gesù: «Forse Teresa di Lisieux, patrona di tutte le missioni, fu designata a vivere all’inizio di questo secolo un destino in cui il tempo era ridotto al minimo, gli atti ricondotti al minuscolo, l’eroismo indiscernibile agli occhi che lo vedono, la missione limitata a qualche metro quadrato: e ciò perché ci insegnasse che certe efficacie sfuggono alle misure dell’orologio, che la visibilità degli atti non sempre li recupera, che alle missioni in estensione stavano per aggiungersi quelle in densità al fondo delle anime umane, in profondità, là dove lo spirito dell’uomo interroga il mondo e oscilla tra il mistero di un Dio che lo vuole piccolo e spoglio e il mistero del mondo che lo vuole possente e grande. Prova a sé sola che consolidare un impegno missionario presso al marxismo non è un puntello, un rinforzo artificiale, ma una ripresa di forze vitali nel luogo stesso dove si vuole minare la fede»[24].

 

In un discorso rivolto alle sue compagne di comunità nel 1956[25], Madeleine presenta alcune riflessioni molto belle e pratiche su come sfruttare i momenti in cui Gesù ci si fa vicino per far posto a Dio nel nostro cuore. Il discorso è sulla preghiera, perché è nella preghiera che Gesù si avvicina a noi, ed è lì che maturano l’apertura del Regno e la nostra capacità di entrarci. Madeleine affronta un problema molto attuale: non abbiamo né tempi né spazi adeguati per pregare. Non li abbiamo quali ce li immaginiamo quando pensiamo come dovrebbero essere un luogo o un tempo di preghiera, ovvero secondo un’immagine un po’ idealizzata della vita contemplativa. Madeleine ci mostra che la preghiera è un incontro con il Dio vivo: quando preghiamo, «incontriamo il Cristo vivo»[26]. E per le persone vive ci sono sempre tempo e spazio, anche se non corrispondono a quelli ideali (e se non ci sono, si possono creare).

 

Qui Madeleine fa una considerazione molto interessante su una vicinanza che, se non avviene «orizzontalmente», può sempre aver luogo «con primati di profondità»[27]. Ricorda che nei tempi antichi, per procurarsi calore, bisognava bruciare legna o estrarre carbone, e questo richiedeva che si lavorassero grandi estensioni di territorio. Oggi si «trivella» un pozzo petrolifero e si ottiene un combustibile ancora migliore. In sostanza, è il desiderio di calore e di energia che muove a cercare i mezzi per farlo al meglio. Nella preghiera avviene lo stesso: è il desiderio di Gesù – del suo calore e della sua energia vitale – che crea spazi di preghiera e fa sì che si scorgano momenti maturi ovunque ci si trovi.

 

Ecco cosa dice Madeleine sugli spazi e sui tempi per pregare: «Il ritiro nel deserto può consistere in cinque fermate di metrò alla fine di un giorno in cui avevamo “trivellato” un pozzo [approfondendo il nostro desiderio di Gesù] verso questi minimi istanti. Per contro, il deserto stesso può essere senza “ritiro”, se abbiamo aspettato di esserci per desiderare l’incontro col Signore. Le nostre andate e i nostri ritorni – e non soltanto quelli reali che si fanno da un luogo a un altro luogo, i momenti in cui siamo costretti ad attendere – sia per pagare a una cassa o perché si renda libero il telefono o perché si faccia del posto in un autobus, sono momenti di preghiera preparati per noi nella misura in cui noi siamo preparati per essi. Averli sprecati perché non vi eravamo pronti, può essere stimato per ciò che è: un peccato veniale. Ma se un giorno, col Signore, non si tratterà più di peccato ma d’amore, forse prenderemo coscienza di essere state delle ridicole amanti»[28]. «Ridicole amanti»! Madeleine coglie l’essenziale e lo esprime al meglio. Chi ama impara presto dai propri errori senza bisogno che qualcun altro glieli rinfacci.

 

La vicinanza o lontananza dal Regno, nella visione del mondo della Delbrêl, è questione di amore. Chi è innamorato custodisce e accresce tutto il giorno il desiderio di incontrare la persona amata, e non perde l’opportunità di un incontro, anche se sarà breve. D’altra parte, se si tratta di un incontro casuale, in cui c’è pochissimo tempo, lo sfrutta nel modo migliore, e ne ricava una gioia più grande che se esso fosse pianificato e avesse tutto il tempo del mondo. Continua Madeleine: «Ci vorrebbe una moltitudine di paragoni per far comprendere che nel Vangelo non è il tempo ciò che conta di più. Fra persone che si amano, il tempo per dirselo è stato talvolta brevissimo. Ciascuno è forse dovuto ripartire per il suo lavoro o per un altro dovere: questo lavoro e questo dovere non saranno stati altro che l’eco di poche parole dette in pochi minuti. Se abbiamo perduto qualcuno che amavamo e ne ritroviamo una lettera, delle note che ci dicono un po’ della sua vita, ci sembra di avere trovato un tesoro. E il nostro spirito ne diventa veramente pieno come se fosse un tesoro. E se per caso queste note riguardassero ciò che quella persona pensava di noi, pensava per noi, desiderava che noi facessimo, esse diventerebbero il nostro pensiero dominante. […] Il Vangelo è un po’ tutto questo per noi o, almeno, dev’esserlo. Se lo vogliamo studiare dal punto di vista storico o critico, il Vangelo ci richiederà del tempo. Se vogliamo approfondire ciò che nella dottrina della Chiesa si riferisce a certi passi del Vangelo, anche questo ci richiederà un certo tempo. Ma se nel Vangelo cerchiamo – il che non c’impedisce di cercare il resto – qualcosa del Signore vivo che ancora ignoriamo: la sua parola, il suo pensiero, il suo modo di fare, ciò che vuole da noi; insomma, più lui stesso, questo lui stesso che noi cerchiamo dovunque egli ci dice di essere e che non troviamo mai quanto vorremmo, non è di tempo che avremo bisogno. O più esattamente: è di tutto il nostro tempo che in un certo senso avremo bisogno. Infatti, vivere non esige tempo: si vive tutto il tempo, e il Vangelo – qualunque cosa significhi per noi – deve essere prima di tutto vita. Per compiere la loro opera di vita in noi, le parole del Vangelo che abbiamo letto, che abbiamo pregato, che abbiamo forse studiato, bisogna portarle in noi il tempo che gli è proprio, perché la luce che gli è propria ci illumini e vivifichi»[29].

 

Includere

 

Per Madeleine, un modello attuale di inclusione è Charles de Foucauld. «Per questi uomini [come de Foucauld] l’amore di Gesù Cristo conduce all’amore di tutti i fratelli […]. Non attende risultati. Non si turba del proprio completo fallimento. Conserva la sua pace anche quando, dopo aver vissuta tutta una vita nel deserto, il suo solo bilancio è l’incerta conversione di un Africano e d’una vecchietta. Egli ama per amare. Perché Dio è amore. Perché Dio è in lui. Perché amando “sino alla fine” tutti i fratelli egli imita, per quanto è possibile, il suo Signore»[30]. «Signore, fa’ che tutti gli uomini giungano al cielo» è la prima preghiera che Charles si propone di insegnare ai catecumeni che non avrà mai[31]. Per Madeleine, de Foucauld ha risuscitato per noi «la figura fraterna a tutti di Gesù in Palestina, mentre accoglieva nel suo cuore, a seconda delle strade, gli operai e i dotti, gli ebrei e gli stranieri, i malati e i fanciulli, così semplice da essere leggibile a tutti. Egli ci insegna che, accanto ad apostolati necessari in cui l’apostolo deve rivestirsi dell’ambiente da evangelizzare e quasi sposarlo, esiste un altro apostolato che esige una semplificazione di tutto l’essere, un rifiuto di tutto ciò che si è acquisito anteriormente, di tutto il nostro io sociale: una povertà vertiginosa. Questa specie di povertà evangelica e apostolica rende totalmente agili per raggiungere su qualsiasi terreno qualsiasi nostro fratello, senza che alcun bagaglio innato o acquisito ci impedisca di correre verso di lui. Accanto all’apostolato specializzato, egli pone l’istanza di farsi tutto a tutti»[32].

 

 

Nella sua «liturgia senza ufficio», Madeleine prega, in una notte tra il 1949 e il 1950, nella quale va con le compagne in un caffè e osserva tante persone che «son qui soltanto per non essere altrove»: «Dilataci il cuore, perché vi stiano tutti; incidili in questo cuore, perché vi rimangano scritti per sempre»[33]. Per edificare la Chiesa bisogna includere tutti. La presenza di tutti è il desiderio fondamentale, quotidiano, e a dare la misura e le strutture dell’edificazione sarà l’impegno per rendere reale tale inclusione di tutti, uno a uno. L’«uno a uno» è un universale concreto: è dove trabocca la misericordia di Dio.

 

La Civiltà Cattolica


Perché è il tempo di Madeleine Delbrêl

 

di Sergio Di Benedetto

 

In questi ultimi tempi Madeleine Delbrêl (1904-1964) sta vivendo una quanto mai opportuna e giusta riscoperta. Così, ad esempio, Francesco in più occasioni ha parlato di questa donna dal «cuore continuamente in uscita» (8 novembre 2023), fino a chiudere il suo rilevante “saluto” al Sinodo 2024 proprio citando la «mistica delle periferie» e alcuni splendidi versi del suo Ballo dell’obbedienza (1949). Così, allo stesso modo, durante gli esercizi spirituali alla Curia romana padre Pasolini ha ricordato il fondamentale Noi delle strade (1969), un testo da leggere e meditare con costanza, tanto inesauribile è la ricchezza di spunti che la poetessa di Ivry, assistente sociale e testimone, seppe condensare nei testi lì raccolti. Ma gli esempi sono molti, a volerli ripercorrere tutti.

 

È, questo, il tempo di Madeleine Delbrêl: la rinnovata attenzione per la sua persona, per le sue opere e soprattutto per i suoi scritti dicono che è il momento in cui si sta ritornando a questa grande figura del cristianesimo del Novecento, la cui testimonianza appare ancora oggi luminosa e feconda, capace di ispirare il nostro essere cristiani qui e ora. È una figura generativa, che semina largamente nelle vite di quanti gli si accostano e che permette di orientarsi con maggior sicurezza nelle pieghe di questo XXI secolo.

 

Così, ho provato a mettere a fuoco dieci motivi per cui oggi Madeleine Delbrêl ha una attualità straordinaria.

 

(1) Periferie: ella scelse di vivere nella periferia operaia di Parigi, a Ivry, in un quartiere ad alta densità di ateismo. Non fu donna del centro; non fu donna delle luci e degli spazi di potere. La sua ‘opzione per le periferie’ fu un movimento verso l’esterno, verso i dimenticati e gli esclusi, verso coloro che erano considerarti nemici, nella periferia di una grande metropoli. Come non pensare alla spinta verso le periferie del cristianesimo del XXI secolo, alla ricerca di un Dio che lì già è presente?

 

(2) Dialogo: tutto il trentennio passato a Ivry fu per Madeleine una decisiva «lezione spirituale» (Ambiente ateo, circostanza favorevole alla nostra conversione personale, 1964), poiché nel dialogo con l’ateismo comunista ella trovò ragioni di vicinanza e non di conflitto, motivi di condivisione e non di esclusione. Ivry fu per Madeleine l’ora di una nuova conversione, dopo quella del 1924: «Pur essendo io una convertita, ho trovato in quell’ambiente non credente condizioni favorevoli a una nuova conversione a una fede più autentica, più vera, più sana» (Tempo d’oggi, tempo della nostra fede, 1961), nella convinzione che «la vera vita di fede tiene e si sviluppa in ambiente ateo» (Ambiente ateo). Oggi, in un contesto di estremo post-cristianesimo o a-cristianesimo, quale lezione ci giunge da uno sguardo e un’azione dentro il mondo post-secolare e non fuori, accanto, contro!

 

(3) Quotidianità: il luogo dell’esperienza cristiana e dell’evangelizzazione è la via, l’ufficio, la fabbrica, il tram, la metropolitana. Madeleine lo ripete continuamente: è nello svolgersi dei giorni che si incontra Dio e si incontrano i fratelli; lì, nel «martirio delle pazienze» si sperimenta la fedeltà a un amore ricevuto. I cristiani, che sono «quelli della via» (At 9,2), diventano i compagni di vita, poiché siamo «noi delle strade».

 

(4) Libertà: sorprende per l’epoca in cui Madeleine visse la sua grande libertà di pensiero e di azione; ella fu capace di critica e di osservazioni pungenti (Il popolo di Parigi va al funerale di suo padre, 1949, sull’esclusione degli umili dai funerali del cardinal Suhard; In merito a una decisione romana, 1959, riguardo alla fine dell’esperienza dei preti operai). Obbedienza nei fondamentali, libertà in ciò che non è essenziale, in ciò che è modalità di annuncio e di servizio, osando vie nuove: questi sono ancora stimoli per l’oggi: «La fede che Dio ci dà nel 1964 è una fede per il 1964. Essa non ha lo scopo di far durare ciò che fa per questo o quel tempo e che è passato con lui. La fede è fatta perché l’amore eterno di Dio sia rivelato a tutti gli uomini» (Ambiente ateo).

 

(5) Profezia: vi è una profezia di tenore biblico in Madeleine Delbrêl: ella fu in grado di intuire strade nuove, senza rinunciare a una denuncia del male presente – sociale, economico, morale –. Seppe tracciare sentieri di vita cristiana che avrebbero poi conosciuto sviluppo e avrebbero generato vita (si pensi alla scelta di vivere in una comunità di donne senza consacrazione); tratteggiò uno stile di cristianesimo (cordiale, amico, vicino, non militante) che oggi sappiamo essere la postura con cui vivere evangelicamente. Leggere i suoi scritti riserva la sorpresa di una lettura dei suoi tempi che sembrano, in realtà, lettura dei nostri tempi.

 

(6) Mistica: colpisce il radicamento in Dio di Madeleine. La sua vita di preghiera fu intensa, profonda, fedele. Davvero si ha l’impressione di una donna immersa nel mistero di Dio e, quindi, immersa nel mistero dell’uomo. Le due cose sono unite, non in contrapposizione; c’è un gradiente di silenzio mistico in Madeleine che diviene rivelazione del Mistero: «La rivelazione essenziale del Vangelo è la presenza dominante ed invadente di Dio. È una chiamata ad incontrare Dio, e Dio non si incontra che nella solitudine» (Chi mi segue non cammina nelle tenebre, 1948)

 

(7) Poesia: comunicare concetti e idee, esperienze e vissuti nel linguaggio fine ed evocativo della poesia: così fece Madeleine, mistica e poetessa originale. Testi come Noi delle strade, La passione delle pazienze, Il ballo dell’obbedienza sono commenti e interpretazioni evangeliche, secondo la cadenza della poesia. In un’epoca di dominio di scienza e tecnica, quale grazia poter sostare e gustare il gratuito della poesia, che offre scarti e disorientamenti buoni e costruttivi!

 

(8) Giustizia: Madeleine visse realmente il mistero dell’incarnazione, in un servizio perseverante e umile ai poveri. Come assistente sociale e come cristiana convinta seppe indicare le ‘strutture di peccato’ della società moderna, seppe denunciare l’ingiustizia, seppe anche rimproverare l’ipocrisia dei cristiani: «Un mondo ateo non nasce a fianco di comunità cristiane senza che queste siano colpevoli, almeno, di egoismo cieco» (Il rischio della sottomissione, 1954). Ma su tutto fece prevalere la bontà più che l’odio, l’amore più che la violenza, senza sconti di responsabilità, senza nascondere o chiudere gli occhi. In un XXI secolo di disuguaglianze crescenti, come non prestare ascolto alle sue parole e non seguire il suo esempio?

 

(9) Donna: Madeleine fu una donna consapevole della propria dimensione femminile, cosciente della sua dignità ecclesiale, lontana da clericalismi e subordinazioni. Donna nel mondo, donna nella chiesa, attiva, partecipe, insofferente verso la marginalità ecclesiale delle donne: non è anche questo un seme di futuro, un messaggio per l’oggi?

 

(10) Leggerezza: vi sono un’ironia e un umorismo insoliti nelle parole di Madeleine. Nelle sue parole non si trovano mai pesantezza, verbosità, paura, aggressività, ma sempre pennelleggia con leggerezza, con simpatia quanto va scrivendo. Madeleine è la donna del sorriso, non del broncio: l’umorismo come antidoto alla fatica del vivere e come via evangelica: «Poiché io penso che tu forse ne hai abbastanza / della gente che sempre parla di servirti col piglio del condottiero, / di conoscerti con aria da professore, / di raggiungerti con regole sportive, / di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato» (Il ballo dell’obbedienza). Ai cristiani che vivono nel terrore della fine della cristianità, a quanti sentono il desiderio di proselitismi accigliati, agli apocalittici ecclesiali… a noi tutti, quanto fa bene accompagnare la vita di fede con un po’ di sana e libera leggerezza?

 

Ecco, dieci motivi (ma altri se ne potrebbero aggiungere) per dire che questo è il tempo opportuno per conoscere e far proprio il messaggio umile di Madeleine Delbrêl.

 

 

(Mi sia lecito una nota personale: girando con uno spettacolo dedicato a Madeleine Delbrêl mi sorprende il numero di persone che nutre un sincero affetto per questa donna del secolo scorso, traendo da lei ispirazione, in tutti i contesti – di provincia, cittadini, in Italia come all’estero –. E mi stupisco nel vedere anche persone giovani, rare negli ambienti ecclesiali, farsi incuriosire da ciò che Madeleine ha ancora oggi da dire e da dare al nostro cristianesimo contemporaneo).


Ernesto Balducci..l'uomo del dialogo

E’ necessario un mutamento culturale… Il passaggio da una civiltà che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso sviluppo ad una civiltà dell’apertura dell’uomo all’uomo… della collaborazione… della solidarietà… (Se vuoi la pace prepara la pace, atti del convegno nazionale di Testimonianze 1981)

 

 

 

Accettando la propria finitezza… L’uomo trova il primo senso di sé nel trascendere se stesso per mettersi al servizio dell’umanità… Dalla consapevolezza della necessità di questa transizione nasce il nuovo umanesimo… Il tratto essenziale del nuovo umanesimo è la fede nell’uomo e precisamente la fede nella possibilità di abbandonare l’età delle guerre… La fede dell’uomo non è dunque una virtù mistica, è una virtù razionale, vorrei dire laica… (L’uomo planetario)

 

Così si prefigura un pacifismo di nuovo tipo… la pace… Non va pesata sulla fede religiosa(o altra)… Ma su ciò che negli uomini è comune, sulla loro natura razionale, la cui voce è la coscienza.… (Se vuoi la pace prepara la pace, atti del convegno nazionale di Testimonianze 1981)

L’etica si rivela per quello che è, la vera religione naturale… con la quale dovranno misurarsi le cosiddette religioni positive… L’organo della nuova religione naturale, destinata ad accomunare gli uomini di ogni credenza è, per usare una bella espressione di Gandhi, la “piccola silenziosa voce della coscienza”. La voce della coscienza è la voce dell’uomo nascosto che abita, come principio di unificazione trascendente, dentro la molteplicità dell’uomo edito, con le sue morali, le sue religioni, le sue ideologie.

Nella nostra cultura si è soliti considerare la coscienza come il pronunciamento pratico della ragione, tenendo in ombra la sua vera prerogativa che è di creare, sulla spinta inesauribile del trascendimento, risposte nuove a situazioni nuove

 

 

E. Balducci, La terra del tramonto, pag. 172-174

Il senso del nostro credere

 

 

Ernesto Balducci – da “Il mandorlo e il fuoco” vol. 3^ anno C

 

…La realtà della Resurrezione noi dobbiamo proporla con forza ogni giorno nel nostro cammino. E saremo costretti a farlo nella misura stessa in cui quelli che sono i relitti delle tradizioni religiose, saranno dissolti e noi rimarremo con davanti agli occhi nessun segno sacro della realtà di Gesù e avremo la necessità di riscoprirla nella sua misteriosa presenza. Se vi dicono: Cristo è qui, è là, non ci credete, Egli disse prima di lasciarci. Perché il Cristo si vede ovunque, ma non è in nessun posto in modo limitativo. Ecco allora il problema che oggi mi sollecita, anche per ragioni di esperienze comuni che stiamo vivendo. In un tempo di tale disgregazione in cui non solo la nostra realtà sociologica di credenti sembra abbandonata ormai alla deriva, ma la stessa società tradizionale nei suoi rapporti costitutivi sembra colpita da necrosi, e la ferocia ci invade ed occupa quotidianamente le cronache pubbliche come fatto più importante, in un tempo simile che senso ha parlare di Gesù risorto? È una soddisfazione privata? È un modo con cui – in un tempo di ferocia – ci creiamo il giardino delle idilliache soddisfazioni che ci consentono, almeno la domenica, di assentarci dalla competizione feriale? Che cos’è la nostra fede? Un’isola? un convento? un giardino segregato? Se così fosse saremmo già fuori del mistero del Cristo. Il quale, non ci dimentichiamo, ha vissuto una passione pubblica (è stato ucciso e condannato, come ci ricorda la Scrittura di oggi, pubblicamente, secondo la Legge) ed è risorto dando testimonianza di Sé a coloro che Dio aveva prescelto perché fossero gli araldi del grande evento. Cioè il Gesù della Resurrezione non è un idolo per una setta; i suoi eventi toccano le nervature della storia; sono, di loro natura, pubblici, universali; e perciò il suo mistero si racconta sulle pagine dell’esperienza pubblica e collettiva. La religione (la chiamerò così per quanto il termine perde già di legittimità) che ci lega al Cristo, non è una religione settoriale, che sta accanto alle nostre occupazioni profane, per darci, poi, un complemento che riguarda la vita dell’al di là. La fede in Cristo coinvolge la totalità dei nostri rapporti. Ebbene, come troverò io il modo di vivere questa fede in un tempo come questo? Più volte abbiamo fatto riferimento, nelle nostre riflessioni domenicali, ad alcune emergenze umane sia individuali che collettive, in cui è possibile cogliere – secondo quel nesso che è «il genio del cristianesimo – delle possibilità concrete di verificare la nostra fede cristiana e di proporla. Non già con messaggi altisonanti, non già con riti religiosi collettivi, ma attraverso i tramiti stessi dell’essere uomini; attraverso i modi stessi del nostro partecipare all’opera comune della costruzione di una città meno disumana di questa. Io credo che il primo riflesso di questa fede nel Gesù della Resurrezione, è la passione per la vita, il discernimento delle forze della vita in mezzo alla civiltà della morte. Sempre di più questo compito si fa pressante. […] Il discernimento della vita non è una passione qualsiasi per la difesa della vita ecologica o biologica. Può essere anche questo ma dobbiamo stare attenti a non portare su di noi il peso di un passato in cui eravamo come appiattiti nella logica delle cosi dette leggi naturali, che poi non si sa mai che cosa siano. La passione per la vita è una passione promotrice, una passione che discerne i valori. E intanto mira a rompere quel nodo che strozza la vita a dimensioni collettive: la subordinazione dell’uomo alla logica dell’avere, del possesso, del produrre. È un luogo comune ma i luoghi comuni nascondono spesso una intuizione collettiva. In questo caso la intuizione rende la coscienza impaziente ed a volte furiosa! Nelle stesse ondate giovanili che mettono a soqquadro il nostro ordine, dobbiamo riconoscere con occhio intuitivo, la passione delusa per una società in cui vivere sia possibile. I cristiani invece di fare le loro reiterazioni religiose, le loro retoriche di circostanza, si impegnino in questa costruzione di una società in cui la vita sia al primo posto. È importante che ciascuno di noi, nella diversità delle sue collocazioni, ricerchi, secondo questo criterio, il senso della propria vocazione…

 

 

Ernesto Balducci – da “Il mandorlo e il fuoco” vol. 3^ anno C


 

Ernesto Balducci, un mistico

 

di Lodovico Grassi

 

Sono trascorsi 100 anni dalla nascita di Ernesto Balducci, 30 dalla sua morte. E oggi, come mai, le sue parole di pace, fratellanza, convivenza, integrazione e accoglienza risuonano come fossero state pronunciate in questi giorni, in un’attualità che supera i confini del tempo.

 

Che Balducci sia stato un mistico, confessore della fede cristiana, oltre che indagatore dell’esperienza religiosa universale, è il filo conduttore e la chiave interpretativa imprescindibile per comprendere, pur rifuggendo da ogni interpretazione e riduzione di carattere «spiritualistico», la profonda unità della sua vita e della sua opera.

 

 

Il cristiano del futuro

«Il cristiano del futuro sarà mistico o non sarà». Così più volte l’ultimo Rahner, di cui il Leggere Karl Rahner (1) ripercorre l’itinerario teologico e spirituale vissuto nel segno di questa affermazione.

Ecco, Balducci uomo e cristiano del futuro «L’uomo del futuro o sarà uomo di pace o non sarà» è stato un mistico (2).

E qui si apre il discorso su Balducci confessore della fede, mistico e teologo dell’esperienza mistica, oltre che indagatore a tutto campo dell’esperienza religiosa universale.

Un discorso delicato e difficile, ma imprescindibile e fondamentale per la comprensione della sua vita e della sua opera (3).

Chi gli è stato vicino o lo ha avvicinato – negli spazi della comunicazione liturgica o di quella personale e spirituale – può testimoniare che abitava in lui un fuoco segreto capace di divampare all’esterno (nella predicazione, nella meditazione e nel colloquio, ma anche, con sprazzi improvvisi, nelle conferenze, nei dibattiti e negli scritti d’intervento), per poi tornare a rinchiudersi nella cella del cuore, nel centro della sua persona. Un’esperienza di fede ad alto grado di intensità e di coinvolgimento esistenziale. Per avvertire e discernere questa esperienza – di cui Balducci ha parlato e scritto direttamente rare volte – si presuppone (e in questo senso il discorso è «delicato») il dono della fede; ma (e in questo senso il discorso è «difficile», ma non impossibile) anche una razionalità aperta e non dogmatica – si pensi al Bergson de Les deux sources – può raccoglierne gli indizi e le manifestazioni, perlustrandone la fenomenologia con attenzione e rispetto. In questo senso il «registro antropologico» che Balducci ha applicato a Francesco d’Assisi potrebbe essere, in modo analogico, applicato a Balducci. Non è un caso, né un eccesso di simpatia spirituale, che Benedetto Calati abbia potuto dire, nel contesto di una celebrazione eucaristica, che la vera autobiografia di Balducci è il suo Francesco d’Assisi. Non la parallela «storia di un’anima», ma l’espressione di una sintonia, di un’affinità elettiva, spirituale e profetica, l’affermazione della stessa radice dell’esperienza mistica: la fede nel Dio di Gesù Cristo, nella Parola consegnata alla Scrittura (norma normans), accolta, vissuta e annunciata nello Spirito.

 

 

«Notte oscura» e radicalità della profezia

«… L’indefessa missione di annunciatore della Parola nel contesto dell’eucarestia è stato il filo conduttore della mia vita che non si è mai spezzato» (4).

Con questa «tesi» non si vuole certo operare una impossibile riduzione spiritualistica della complessità, ricchezza e molteplice fecondità di uno straordinario itinerario umano, culturale e politico, ma indicarne la radice, il segreto, la condizione di tenuta, senza di che non si capisce fino in fondo nulla, né delle coraggiose aperture dell’inizio né degli ultimi estremi coinvolgimenti, né della stessa laicità progressivamente conquistata e irremovibilmente proclamata e vissuta.

Quell’itinerarium mentis in hominem che acutamente è stato indicato come chiave interpretativa e specificità della ricerca e dell’azione, della testimonianza pubblica, culturale, teorica e pratica di Balducci, è sotto questo profilo il passaggio attraverso una radicale via «purgativa» senza soluzioni di continuità con una via «illuminativa» ed una via «unitiva» di particolare intensità.

La notte dell’Occidente è anche una «notte oscura», la svolta antropologica ha come premessa non l’appiattimento ma la radicalità della profezia, l’uomo planetario non è il punto d’arrivo o la meta ideale di una transizione storica senza fondamento, la pace non è solo opus justitiae humanae:

«Ci tengo a testimoniare che lo svolgimento del discorso sulla pace viene a coincidere, materialmente, anche se non sempre formalmente, con l’attualizzazione della profezia evangelica. Insomma, sebbene mi trovi, per usare una qualifica ormai desueta, in zona laica, non mi sposto di un capello dal mio asse evangelico. Più che di una transizione alla laicità, come a volte mi è avvenuto di dire, si tratta di una immersione della laicità nella profezia, di una iscrizione della razionalità comune dentro il cerchio di un orizzonte che ha misure ben più vaste di quelle della ragione; è lo stesso orizzonte dell’uomo possibile, su cui batte la stessa luce che, nei momenti di preghiera, illumina il mio occhio contemplativo. La mia è, dunque, per usare l’espressione di un Padre greco, una fuga immobile» (5).

Dagli scritti degli anni 50 e 60 alla theologia crucis e alla teologia negativa presenti anche ne La terra del tramonto, il «filo conduttore» si evolve, innerva scansioni, rotture e discontinuità in senso forte – non necessariamente in direzione di un continuo «superamento» –, ma resta sostanzialmente intatto. Non so se Balducci avesse un «memoriale» come quello di Pascal; ciò di cui sono sicuro è che egli ha vissuto almeno quella stessa esperienza.

 

 

L’esperienza religiosa

Gli scritti del 1954 e del 1962, che sono meno noti, ci parlano di un Balducci statu nascenti e insieme già indagatore maturo dell’esperienza religiosa.

L’esperienza religiosa (6) è il titolo di un volumetto di poco più di 100 pagine, ma densissimo e significativo, in cui Balducci riscrive – salvando la maggior parte del testo e cancellando, per ragioni presumibilmente editoriali, le ricchissime note – un saggio intitolato L’anima e l’esperienza religiosa (7).

In AER Balducci mostra, nelle note e nella bibliografia di riferimento, di essere aggiornato sui principali studi relativi al tema; in ER implicitamente rivela, per la parte aggiunta e anche solo per variazioni di linguaggio o di una sola parola, la maturazione teologica maturata a cavallo tra gli anni 50 e gli anni 60 attraverso la lettura e talvolta la conoscenza personale dei teologi europei più rilevanti e incisivi nella stagione conciliare.

In apparenza rapsodico ed eclettico, Balducci segue una sua linea che lo porta ad assimilare e trasfigurare con un metabolismo veloce ma non arbitrario: è vero che sempre meno ama citare le fonti (per «noncuranza» e malcelata disistima nei confronti dello stile accademico), ma ciò va letto, mi pare, come assunzione in proprio della responsabilità di quello che dice, senza appropriazioni indebite e per rispetto delle originalità a cui la sua indiscutibile originalità si è alimentata ed è divenuta capace di volare da sola (ma sono frequenti in tutto il suo iter di originalissimo «saggista» espliciti riconoscimenti di debito ed espressioni di gratitudine).

Nella sua molteplice attività di oratore famoso e richiesto, di conferenziere, di scrittore, di annunciatore della Parola nel contesto eucaristico, Balducci dispiega i suoi doni eccezionali di intelligenza, di intuizione creativa, di eloquio spontaneo e rigorosissimo (non ha mai, se non costretto, trascurato la preparazione immediata pur avvalendosi di una sempre più vasta preparazione remota) e, soprattutto, il suo carisma di uomo di fede totalmente consegnato a Dio e allo Spirito creatore che soffia quando e dove vuole. Di tutto questo Balducci è stato consapevole, con timore e tremore che la sua aisance in ogni contesto non riusciva sempre a coprire. In questo Balducci è rimasto sostanzialmente fedele ai criteri messi a punto negli anni della formazione a Roma: se il «metodo» allora quasi ossessivamente cercato con ripetuti propositi è ormai diventato elemento del suo vivere, parlare, scrivere, agire, resta la sofferta dialettica tra l’umiltà trepida (e in continua attesa: praestolari cum silentio!) e la consapevolezza di una vocazione eccezionale e di una missione specifica da compiere nel mondo.

In AER e in ER Balducci si pone come studioso e anche, in qualche modo, storico diacronico e sincronico dell’esperienza religiosa universale. Non è, e sa di non esserlo, «neutrale». Anzi, rivendica per il credente una particolare abilitazione a parlare di esperienza religiosa e di mistica.

È bene, a questo punto, lasciargli la parola.

«Il soggettivismo religioso disconosce il dogma ed il comandamento per lo stesso motivo per cui disconosce la struttura razionale della fede. Ogni volta che un gruppo di uomini professa una religione di carattere nettamente determinato, non mancano mai credenze collettive il cui valore formale non è il sentimento di chi le accoglie ma la divina autorità che le impone. E la psicologia più acuta concorda con l’etnologia nel metter in rilievo l’importanza della lettera per lo stesso sviluppo dello spirito religioso, la sua efficacia, vorrei dire maieutica e dinamica. Le pagine di Blondel a tale riguardo sono indimenticabili. Se la religione è amore, essa è piuttosto amore effettivo che amore affettivo, né basta, per essere religiosi, sentire le cose di Dio, ma occorre volerle. Volerle, si capisce, così come il Dio creduto si è degnato di imporre: la sua imposizione per la coscienza religiosa è gaudioso privilegio di cui essa non saprebbe fare a meno» (8).

«Nessuna metafisica può esaudire i voti più segreti che agitano lo spirito umano e da cui essa stessa prende le mosse. (…) Non è forse questo il motivo per cui le dimostrazioni logiche dell’esistenza di Dio non bastano a provocare l’adesione intellettuale, nonostante la loro oggettiva validità? Forse esse presuppongono come preambolo una specie di cognizione immediata ed oscura dell’Assoluto in noi. Nessuna dialettica è capace di persuadere invincibilmente della realtà dello spirituale. In rapporto allo slancio della nostra natura, le argomentazioni metafisiche non sono che linee direttive, trame sottili d’orientamento: solo l’esperienza le può riempire di un contenuto reale, introducendo la persona vivente in contatto con Dio, secondo le norme che la ragione riesce ad anticipare» (9).

In AER e in ER Balducci percorre in lungo e in largo, con dovizia di citazioni nonostante la relativa brevità dei testi, l’esperienza religiosa cristiana e non, quella dei «mistici» e quella dei «comuni» cristiani, enunciando i criteri di discernimento di ogni autentica esperienza della mistica cristiana (10), ribadendo più volte «che la natura e la Grazia, nella loro ideale dimensione, sono l’una radicata nell’altra, in piena e prestabilita armonia» (11), indicando, come cristiano partecipe, in modo imperfetto ma realmente incoativo, della loro esperienza, che nel volto dei mistici «scopriamo il nostro volto futuro, l’anticipazione di un’esperienza che diventerà normale quando avremo deposto il peso ed il limite della nostra mortalità» (12).

 

 

La lezione di Blondel

Il trait d’union più forte di AER e ER con il primissimo Balducci della formazione romana è da rintracciare senz’altro nella lezione del Blondel, soprattutto de L’Azione, a cui il giovane Balducci aderisce con convinzione ed entusiasmo per la sua valenza liberatoria.

Nel suo diario (1943) scrive: «Belle pagine sull’efficacia della pratica sulla volontà (IX 205-210)

a) “l’azione è una parte integrante dell’intuizione, la vivifica e la illumina e avvia la volontà verso i suoi fini, col definirne a poco a poco e con l’attrarne l’ideale”

b) “Mediante l’azione l’intenzione morale s’insinua nelle nostre membra, fa battere il nostro cuore e cola la sua propria vita nelle nostre vene…”

Non credo opportuno soffermarmi qui a sviluppare questi concetti poiché dovrò tra breve considerare su lo stesso argomento altre pagine, sempre del Blondel, di sì meravigliosa novità e bellezza che alla prima lettura non ho saputo tenermi dal saltare di gioia nella mia camera. Una grande luce si è fatta nell’anima mia (5 gennaio 1943)».

In Blondel Balducci trova insieme il capovolgimento delle sue convinzioni intellettuali (gennaio 1943) e la conferma della giustezza delle sue aspirazioni spirituali più profonde: «”La bellezza ha un incanto che va ben oltre e ben al di sopra di chi la sente e di chi ne è rivestito… È un sentimento che per la sua stessa ampiezza e per il suo irradiamento diventa un’angoscia e un mistero; quasi che, in ciò che amiamo, la nostra ammirazione fosse rivolta a un lontano e più possente amore, di cui la bellezza conosciuta sarebbe un puro simbolo inadeguato” (Blondel X 40).

O Cristo Cristo sei tu la misteriosa bellezza cui si volge il mio amore? Non sento forse io una insoddisfazione anche quando ammiro?

Tutto che fa vibrare l’anima mia o Cristo è un riflesso di te Bellezza eterna. Ed è in te che io potrò compiere l’armonica sintesi tra verità-Bellezza e amore (10 gennaio 1943)».

E ancora: «Ed eccomi alle pagine più interessanti del libro del Blondel (X, 265-279).

Quante volte mi ha turbato il pensiero che nella nostra religione il soprannaturale scende nei particolari della vita pratica con segni materiali! Credere che, sotto la determinazione particolare dei dogmi, dei riti, e delle pratiche il trascendente sia immanente senza nulla perdere della sua infinità mi sembra a volte alquanto superstizioso. Ebbene, il Capitolo del B.[londel] Valore della pratica letterale ha dissipato ogni mio turbamento (13 gennaio 1943)».

Aggiungiamo una nota significativa: nell’originale francese del 1893 (Balducci aveva a disposizione nel 1943 solo una traduzione italiana), alla settima pagina del Capitolo citato, e precisamente a p. 411, il titolo corrente suona così: «la lettre vivifiante et libératrice» (espressione che non compare nel testo, ma certamente blondeliana) e costituisce la chiave di lettura di tutto il capitolo e, in qualche modo, dell’intero capolavoro di Blondel (13).

Con questo «sigillo» chiudiamo una riflessione destinata a più sviluppi proprio nell’odierna congiuntura teologica rispetto alla quale la lezione di Balducci, e la sua anagrafe, non è irrilevante.

 

 

La spada in pugno

Un intreccio fecondo, dunque, quello di Balducci, fra l’esperienza (e la teologia) della fede e l’impegno culturale e politico nel mondo, la cui tempestività e la cui valenza profetica si possono misurare a partire non solo da alcuni esempi testuali e fattuali, ma dalla continua attività itinerante di conferenziere e dallo stabile esercizio pastorale nella comunità di residenza (e oltre) e dal 1965 soprattutto nella comunità di Badia Fiesolana.

Balducci uomo della ricerca spregiudicata, del confronto continuo con la quotidianità politica e culturale, dell’impegno per un futuro migliore dell’umanità fino all’utopia dell’uomo planetario, era dunque saldamente radicato in una fede che costituiva per lui il segreto di tutto. Il senso della vita, del suo destino personale e della sua missione nel mondo erano legati a questo nucleo: Balducci non amava esibire la sua fede, piuttosto la occultava, ma anche il non-credente percepiva che dietro quell’intelligenza straordinaria palpitava una adesione a Cristo appassionata e irrinunciabile. Si pensi alle pagine intense in cui Balducci descrive il suo incontro con Mazzolari e l’emozione provata nel servirgli la messa e nel leggere, giovanissimo, un suo libro (Compagno Cristo): «In quel momento – confessa Balducci – sentii che un fuoco cresceva dentro di me e che mi veniva messa in pugno una spada che non mi sarà più lecito riporre nel fodero».

Purtroppo alcuni hanno frainteso l’impegno degli ultimi anni della vita di Balducci, come se si fosse dimenticato della dimensione ecclesiale o addirittura avesse messo in secondo piano la fede in favore di un «piatto umanesimo». La Chiesa era per lui lo spazio vitale, come la sua comunità religiosa; solo che egli la intendeva come eucaristia, in un senso molto più ampio e vitale della struttura puramente giuridica.

 

 

Dalle religioni alla religione

Parlando di sé una volta Balducci confidò: «Sono partito dalla religione e ora vi ritorno dopo un lungo periplo». Il giovane Balducci parte dai testi classici della teologia tradizionale, però, facendo tesoro della lezione di Blondel, comincia a leggerli in maniera diversa. Recupera, ad esempio, quella tensione verso l’assoluto che è insita nella natura umana e che si esprime attraverso la religione. In questa fase fede e religione sono agglutinate. Ci vorrà del tempo prima che incontri Barth e Bonhoeffer, il primo critico radicale della religione, il secondo teso ad esprimere i contenuti e i concetti biblici in modo mondano. Allora la distinzione fede-religione si fa più netta, anche se bisogna ammettere la difficoltà di una fede pubblica che non si esprima in forme in qualche modo religiose. Il Balducci dell’ultimo periodo riscopre la religione scoprendo le religioni. Dove si riscontra questa svolta? Ne fa fede soprattutto L’uomo planetario, in cui pone il cristianesimo come una religione accanto alle altre. In quest’opera Balducci mette sotto inchiesta le religioni e le accusa di non aver superato la «barriera» dello stato di diritto, quella sociale e infine quella della pace. Di fronte al tradimento delle chiese, è stato proprio l’illuminismo a riprendere i valori cristiani fondamentali; eppure l’ispirazione cristiana originaria non si è mai spenta e continua a fermentare sotterraneamente la cultura occidentale.

Balducci critica la modernità non per un pregiudizio antimoderno, ma in nome dei valori giusti che essa ha veicolato. Comunque «il ritorno alla religione» significava per Balducci un mettersi nella condizione esistenziale di un non credente, come uomo accanto ad altri uomini perché nessuno sa se la sua fede è autentica e anche il credente sente l’esigenza di chiedere: «aiuta la mia incredulità».

 

 

Come un testamento spirituale

Altrove (14) ho avuto modo di dire che per me L’uomo planetario è l’opera più matura e più mistica. Anche la conclusione «non sono che un uomo», di cui Balducci non poteva non ricordare l’anagrafe neotestamentaria (Atti 10, 25-26: Pietro che dice al centurione prostrato «Alzati, anch’io sono un uomo»), è un momento di teologia negativa, una conclusione forte che riassume tutto un itinerario. La terra del tramonto scandisce le «figure» storiche del cammino umano ed è opera tragica pur nell’intenzione prolettica evidenziata nel sottotitolo (Saggio sulla transizione). Emerge qui l’epifania dell’Altro. L’Altro, un orizzonte profetico è, insieme a La terra del tramonto, come un testamento spirituale, tra la rivoluzione della memoria e l’istanza della Cosmopoli (Il sogno di una cosa!). Le due ultime opere di Balducci risentono del ritmo più che umano della inesauribile sua disponibilità ad accorrere dovunque fosse chiamato a scrivere articoli e interventi, a parlare e a confortare. È nello stesso tempo di questa eroica produzione che Balducci, invitato, pochi mesi prima della morte, dal suo padre provinciale (e amico fraterno) a fare gli esercizi spirituali, risponde: «Vengo molto volentieri perché la cosa che mi interessa di più ora è la spiritualità».

 

 

L’ultimo Balducci

Ma la vera opera conclusiva di Balducci è la pubblicazione postuma delle ultime omelie (15). In queste omelie, come sempre in Balducci, è presente, non sempre in modo esplicito, il riferimento alla storia e all’attualità. Esse fanno parte del vissuto etico-politico dell’ultimo Balducci, quello degli anni 1989-1991: gli anni del crollo del muro di Berlino e del comunismo; gli anni della prima guerra del Golfo che lo vide coinvolto a più livelli in prima persona e lo vide sperare nel «primo vagito» dell’ONU (speranza dell’uomo di pace, non del pacifista) e patire la sconfitta del «rantolo di morte», dei documenti (e delle strutture di pace) emersi dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e ora galleggianti sulla melma nera della guerra.

La prima omelia, del 1 dicembre 1991 (pp. 13-20) ha come titolo «Il sogno di una cosa». Significativa è la conclusione: «Nell’arco della mia vita questo è il momento più deludente perché sono cadute molte speranze, non importa se mal riposte. A me interessa il sogno dei popoli, delle persone, dei poveri e se quel sogno va deluso la storia è priva di senso, siamo dentro il dominio della menzogna. Ma invece – ecco dove una fede che è insieme teologale e morale mi sorregge – questo sogno non finirà. Ne vedo i segni da ogni parte del mondo, vicino a me lontano da me. Non sono però i segni su cui chiede attenzione l’organizzazione dell’informazione che fa parte della dissipazione pubblica onnipotente (…). Siamo dentro una società che ci spreme nel midollo per far venir fuori bisogni impensabili in quanto essa vive sui nostri bisogni e quindi ci impedisce di prendere contatto con noi stessi (…). Non è vero che siamo progrediti perché il progresso va misurato sul consenso interiore e sulla realizzazione di questo sogno di una cosa che è il regno della giustizia sulla terra, come dice Geremia: “Egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”. No, quel giorno non è venuto, è ancora lontano, dobbiamo stare con la testa alzata per vedere i segni. Ogni attimo è l’attimo in cui squilla il segnale della vicinanza dell’adempimento se abbiamo orecchi da intendere».

La prima omelia dovrebbe essere letta sinotticamente con quella dell’1 gennaio 1992 (pp. 59-67), che ha per titolo «Le speranze ferite». Balducci tentato dal pessimismo? Forse, ma più opportuno evocare l’ottimismo tragico del suo amato Mounier.

L’ultima omelia, quella della Pasqua (del 19 aprile 1992) ha per titolo «Le pietre dei sepolcri». Avviandosi alla conclusione Balducci evoca sorprendentemente il diavolo e cioè la menzogna di cui dobbiamo liberarci: «La logica della crocifissione è capovolta, è diventata logica di dominio. Da questa premessa è stato possibile lo sterminio degli indios, più terribile ancora dei forni crematori. Tutto questo lo dimentichiamo. La nostra fede religiosa si libera dai brutti ricordi, li emargina per vivere nella soddisfazione di sé. Ma così noi non troveremo la fede nella resurrezione (…). Noi sappiamo che significa resurrezione per l’umanità, significa che la gran parte degli uomini esca dal potere del diavolo. Io non voglio dire i nomi del diavolo, ne ho tanti in mente, comunque sono nomi che indicano il calcagno posato sulla testa del povero, la bocca tappata di chi ha verità da dire, la dimenticanza, nell’euforia pubblica, di quelli che non possono partecipare al nostro banchetto, perfino nella società opulenta. Leggevo che nell’Europa del benessere ci sono trenta milioni di poveri sotto il livello minimo della vita. Chi si ricorda di loro? Liberarsi dal diavolo vuol dire liberare anche noi stessi, liberare da questa menzogna; cioè, per ripetere le parole simboliche di Paolo, significa “celebrare questa festa non con il lievito di malizia e di perversità ma con azzimi di sincerità e di verità”. Non voglio dire altro».

 

1 A. Raffelt, H. Verweyen, Leggere Karl Rahner, gdt 301, Queriniana, Brescia 2004, pp. 145-149.

2 Per un orientamento ampio e universale sulla mistica si vedano: voce mistica in Dizionario critico di teologia, a c. di J.-Y. Lacoste – ed. italiana a c. di P. Coda –, Borla – Città Nuova, Roma 2005; voce mistica in Teologia, dizionario a c. di G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2002;

voce mistica in Enciclopedia delle religioni, a c. di A. M. Di Nola, Vallecchi, Firenze 1970-1975.

3 Per questa comprensione si veda il Cerchio che si chiude, intervista autobiografica a c. di L. Martini (d’ora in poi CCSC). Ma del compianto e sempre presente Luciano Martini si veda l’opera La laicità nella profezia. Cultura e fede in Ernesto Balducci, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, assolutamente fondamentale e tuttora unica.

4 E. Balducci, CCSC, op. cit. p. 144

5 E. Balducci, CCSC, p.153.

6 E. Balducci, L’esperienza religiosa, Borla Editore, Torino 1962: d’ora in poi ER.

7 E. Balducci, L’anima e l’esperienza religiosa, pubblicato nel volume collettaneo a cura di M. F. Sciacca, L’anima, Morcelliana, Brescia 1954, d’ora in poi AER.

8 E. Balducci, ER, pp.24-25.

9 E. Balducci, ER, pp. 32-33; in AER, p. 246, Balducci cita Maritain in nota e, nella nota precedente, rinvia sul punto a Tommaso d’Aquino: «L’ultimo passo della nostra conoscenza di Dio è nel conoscere che non lo conosciamo», In Boëtium de Trinitate, I, qu. 4, a. 1.

10 E. Balducci, ER, pp.79-80.

11 Ivi, p.104.

12 E. Balducci, ER, p.104; AER, p.261.

13 M. Blondel, L’action, 1893.

14 Un mistico un po’ particolare, colloquio con L. Grassi a c. di A. Rossi, «L’altrapagina» n. 5, maggio 2002, pp. 23-24.

 

15 E. Balducci, Il tempo di Dio, Ultime omelie (Avvento 1991 – Pasqua 1992), Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Firenze), 1996.


Padre Giovanni Vannucci..la libertà del Vangelo

Il sogno di padre Giovanni si può leggere ancora oggi sulla soglia delle Stinche: «In questo piccolo spazio vorrei che ogni uomo si sentisse a casa sua e, libero da costrizioni, potesse raggiungere la conoscenza di se stesso e incamminarsi nella sua strada forte e fiducioso. Vorrei che fosse una sosta di pace, di riflessione per ogni viandante che vi giunge, un posto dove l’ideale diventa realtà e dove la gioia è il frutto spontaneo»

Una tenda vi basti a riparo

dalle bufere e Dio ritorni vagabondo

a camminare sulle strade

a cantare con voi i salmi del deserto

 

Giovanni Vannucci

 

 

Aprirsi all'abbraccio divino

 

 

 

“Tra noi e Cristo c’è uno spazio di silenzio. E allora dobbiamo andare a lui profumandoci di silenzio. Immergendoci in questo silenzio raggiungere Cristo attraverso questo spazio di deserto, di silenzio, di solitudine, che non è terreno: è uno spazio di anima”. (G.V.)

 

 

 

Di fronte al diluvio universale di questa epoca, diluvio di parole e di immagini, è necessario costruirsi un’arca di silenzio per incontrare se stessi, e, nella profondità di sé, aprirsi all’abbraccio divino.

 

 

“Il silenzio è quello spazio in cui il divino non è più invocato, ma presente nel cuore”. La preghiera è l’attività specifica dell’uomo che cerca di comprendere il silenzio, che è aldilà delle cose, dell’uomo, delle parole, dei riti, delle formulazioni dottrinali, e che conferisce un senso e un valore al tutto.

In questo senso  la preghiera costituisce l’attività più vera e incisiva dell’uomo. "Sentitevi, al mattino e alla sera, nell’ora da voi scelta, come creature che salgono verso lo Spirito con atto di perfetto culto. Fate tacere tutte le voci che vengono dalla terra e dal sangue; e compiendo l’atto di totale offerta di voi allo Spirito vi sentirete invasi lentamente da una forza nuova che darà calore e alimento a tutta la vostra vitalità, anche a quella fisica. Insistendo in questo esercizio, lentamente ma infallibilmente, raggiungerete la pacificazione di voi stessi. Rientrando nell’esistenza, guarderete le creature con i sensi purificati, avrete nuove capacità mentali, il vostro giudizio sulle realtà terrene sarà più esatto e più preciso, perché le osserverete dal punto di vista dell’eternità. Sentirete, ad esempio, come la vostra parte irascibile viene gradatamente riordinata, troverete l’elemento positivo di tutte le vostre passioni, e soprattutto incomincerete ad apprendere cosa significa amare”

 

 

 

(Fraternità di Romena, Perché pregare?, Anno XIV n°3/2010)

 

 


 

Padre Giovanni Vannucci

«Vi siete ricordati di aprire il pollaio?». Sono queste le ultime parole di padre Giovanni Vannucci, la mattina del 18 giugno 1984, mentre lo stanno caricando sull’ambulanza a seguito del devastante infarto che lo porterà alla morte. Sembra la frase di una mente confusa, invece sono le parole che forse più di altre rappresentano la vita, il pensiero e la fede di quest’uomo coltissimo (docente di ebraico e Sacra scrittura, lettore assiduo e onnivoro: la sua biblioteca conteneva più di 12 mila volumi) approdato con il tempo alla semplicità dei santi.

 

Con le sue scelte spesso controcorrente e che gli attirarono severi giudizi da parte dell’allora Chiesa istituzionale, precorse di quasi un ventennio lo spirito del Concilio. Uomo della Parola e del silenzio, animo mistico eppure immerso nella vita quotidiana, sacerdote aperto all’incontro con ogni uomo e donna di qualsiasi estrazione, provenienza o credo religioso, a padre Giovanni per anni non fu perdonata la grande libertà di pensiero e di azione che gli aveva donato il Vangelo.

 

Nato a Pistoia il 26 dicembre 1913, secondogenito di una famiglia numerosa, Vannucci decide di entrare, nel 1926, nel convento fiorentino dei Sette Santi Fondatori (Servi di Maria). Dopo gli studi e la professione solenne – il 13 ottobre 1936 –, si dedica all’insegnamento dell’esegesi biblica e della lingua ebraica per dieci anni. Nello stesso periodo frequenta il Pontificio Istituto Biblico e l’Ateneo pontificio «Angelicum».

 

I lunghi studi non lo allontanano però dalla vita concreta. Anzi, in là con gli anni amerà dire ai novizi: «Voi potete conoscere a memoria tutti i manuali di pedagogia, di filosofia e di morale, e magari poi non riuscite a trattare concretamente con gli uomini che vengono a chiedervi un aiuto, un consiglio. Potete avere un bagaglio di nozioni teoriche immense, ma che diventano assolutamente inutili se in voi manca l’attenzione, l’apertura totale alla vita, al mistero dell’esistenza». Per lui, infatti, conoscenza e cultura hanno un unico scopo: aprirsi all’amore. «Bisogna conoscere per amare di più», suole ripetere. Negli studi e nell’insegnamento manterrà sempre «l’animo del cercatore di Dio – scrive Massimo Orlandi nel bel volume Giovanni Vannucci custode della luce, edizioni di Romena –, poco interessato alle speculazioni e alle teologie cerebrali e invece immerso nella Parola, per svelarne il senso simbolico e liberarne la luce». Uno stile che preoccupa non poco i suoi superiori che gli negheranno più volte il permesso di avviare forme comunitarie innovative e originali.

 

Nella ricerca di risposte per il suo animo inquieto, bisognoso di «verità e vita», padre Giovanni approda a Campello, nelle colline umbre. Si tratta di un eremo fondato vent’anni prima da sorella Maria, che vi abita insieme ad altre donne. «Maria – scrive ancora Massimo Orlandi – ha scelto la via dell’eremo non per creare un nuovo Ordine ma, al contrario, per liberare la sua esperienza di religiosa dai limiti imposti da strutture e barriere confessionali».

 

La libertà che respira in questi luoghi sarà decisiva per Vannucci che qui si sente «nascere una seconda volta». «L’eremo – confiderà riferendosi a Campello – è stato uno dei doni più grandi che il Signore mi ha concesso, la terra dove il sogno e la missione del monachesimo trovano un compimento che aiuta a sperare e a vivere». Qui padre Giovanni sperimenta l’ecumenismo «della base», quello semplice, concreto, che lo porterà a dire, avanti con gli anni: «Le religioni sono come i raggi di una ruota: tutti portano verso il centro». A Campello abita, infatti, anche una sorella anglicana e si mantengono contatti con fratelli protestanti e di altre confessioni. Siamo nel 1948, e l’apertura di Maria non può ancora essere compresa: vive pertanto una condizione di emarginazione all’interno della Chiesa, che però non la spegne. Da quelle colline lei tiene rapporti con personaggi del calibro di Gandhi e Albert Schweitzer: «L’eremo ci tiene in comunione con i santi, con i grandi, con i poveri e i derelitti, con le stelle, con i fiori, con l’universo. È come una scala dalla terra verso il cielo» scrive. Lo stile appreso a Campello segnerà padre Giovanni per la vita.

 

Nel frattempo la situazione di Vannucci a Roma si fa sempre più delicata. «Il suo spirito libero e innovatore, l’attenzione profonda ai miti di tutte le religioni – ricorda ancora Orlandi – lo pongono, per le autorità ecclesiastiche, nella zona d’ombra che si avvicina all’eresia».

 

In questo periodo padre Giovanni scriverà: «Soffriamo perché vediamo che tutta la nostra attività non incide nella storia degli uomini. C’è troppa separazione tra monaci e popolo». Mosso da questa convinzione, decide di abbracciare l’esperienza della neonata comunità di Nomadelfia. Fondata da don Zeno Saltini, quest’ultima è socialmente strutturata per poter vivere concretamente il Vangelo: non esiste proprietà privata né denaro e vi è un’apertura totale delle famiglie all’accoglienza di figli in affido. Nel 1950, con altri sei confratelli, Vannucci decide così di trasferirsi in Maremma, dove la comunità ha aperto una sede. «Non è una defezione – appunterà in quel periodo – ma è il portare alle sue estreme conseguenze la nostra vocazione iniziale. Nomadelfia costituisce un esempio vivente di un perfetto accordo della vita umana col Vangelo e del cristiano con la storia del tempo nel quale vive».

 

Anche questa esperienza, però, è destinata in breve a concludersi. Nell’estate del 1951 il Sant’Uffizio obbliga i religiosi a rientrare «sotto l’obbedienza dei superiori». Una ferita profonda, ma che non domerà lo spirito di Vannucci.

 

Rielaborato il dolore, dopo qualche anno è di nuovo in campo. Chiede infatti ai superiori di poter avviare una nuova forma di vita comunitaria: una fraternità dedita alla preghiera e al lavoro, ma aperta all’accoglienza. La scelta ricade sull’eremo di San Pietro alle Stinche, nel Chianti, dove padre Giovanni può ritirarsi, complice anche l’ormai mutato clima ecclesiale post-conciliare (siamo nel 1967).

 

Padre Giovanni trascorrerà alle Stinche il resto della vita. Si rifiuterà sempre di scrivere una regola per la sua comunità: quello che propone è uno stile di vita. L’eremo, nel  suo progetto, non è una via di fuga, ma un luogo in cui posare il capo, scaricare i pesi troppo gravosi, riempirsi gli occhi, la mente e il cuore di bellezza, e ripartire. Chi arriva non deve giustificare la sua presenza, ma solo condividere la semplicità della vita dei fratelli. È la libertà dei figli di Dio.

 

 


Card Martini..Profeta del novecento


All'alba ti cercherò

 

Signore, provoca anche noi!

Passa in mezzo a noi, dovunque siamo,

sia che ci troviamo tra la folla,

sia che ci troviamo nel luogo della preghiera,

sia che ci troviamo nelle realtà della vita quotidiana!

Fa' che non ci sia differenza tra l'una e l'altra,

che non abbiamo a rinnegare nella vita quotidiana

colui che sul monte vogliamo conoscere.

Fa' che ci sia unità tra i diversi momenti della nostra esistenza!

Signore, attraverso la contemplazione di te che risvegliandoti dal sonno e risorto dalla morte mi dai fiducia,

sciogli, ti prego, i miei timori, le mie paure, le mie indecisioni,

i miei blocchi nelle scelte importanti, nelle amicizie, nel perdono, nei rapporti con gli altri,

negli atti di coraggio per manifestare la mia fede.

 

Sciogli i miei blocchi, Signore!

Card Martini


 

Signore, Tu sei la mia lampada,

Ti prego, Signore

di rischiarare la mia lampada che è la

preghiera:

preghiera che fa fatica ad accendersi,

che non è splendente come vorrei.

 

Ti chiedo Signore di rischiararla

e però vorrei con più audacia,

fare mie le parole di Davide: tu sei la mia lampada.

 

Non voglio quindi preoccuparmi troppo

della mia preghiera nella certezza che tu sei

la mia lampada, il sole dalla mia vita.

 

Donaci, o Signore Dio nostro, di capire il mistero della preghiera.

Donami di coltivare la terra con umiltà e

 

semplicità di cuore, a imitazione della Vergine Maria.


Donaci, Signore,

una vera, nuova e più approfondita

conoscenza di te.

Anche attraverso le parole

che non comprendiamo,

fa' che possiamo intuire con l'affetto del cuore

il mistero tuo che è al di là di ogni comprendere.

Fa' che l'esercizio di pazienza della mente,

il percorso spinoso dell'intelligenza

sia il segno di una verità

che non è raggiunta semplicemente

coi canoni della ragione umana,

ma è al di là di tutto

e, proprio per questo, è la luce senza confini,

mistero inaccessibile e insieme nutritivo

per l'esistenza dell'uomo,

per i suoi drammi e le sue apparenti assurdità.

Donaci di conoscere te, di conoscere noi stessi,

di conoscere le sofferenze dell'umanità,

di conoscere le difficoltà

nelle quali si dibattono molti cuori

e di ritornare a una sempre nuova

 

e più vera esperienza di te. Amen.


Carlo Maria Martini: Chiesa e postmodernità

 

Francesco Cosentino 

 

Lo scorso 31 agosto è stato celebrato l’ anniversario della morte del cardinale Carlo Maria Martini. Una memoria che non si spegne, ma continua ad ardere nel cuore della Chiesa proprio come il fuoco di quella Parola di Dio di cui egli fu instancabile studioso, maestro e annunciatore. Sarebbe naturalmente impossibile racchiudere in poche parole la ricchezza di un profilo e di una spiritualità, che hanno fortemente segnato la Chiesa e il cattolicesimo italiani.

 

Affascinato dalla Parola di Dio, vero faro della sua esistenza sacerdotale ed episcopale, egli fu una figura sobria e austera, un comunicatore semplice ma mai banale, e soprattutto un uomo capace di leggere e interpretare la vita, i problemi e gli aspetti della società con un discernimento intelligente, aperto, sereno e lungimirante. Per lui, la fede era il grande rischio della vita e non una passiva consolazione, e ciò lo rese affascinante ed empatico anche agli occhi di molti non credenti, toccati dal suo stile e dalla sua visione.

 

Vorrei soffermarmi, però, su un tema che mi sembra particolarmente attuale, trattato dal cardinale Martini in un articolo pubblicato da Avvenire il 27 luglio 2008 dal titolo “Quale cristianesimo nel mondo postmoderno”.

 

Martini cerca di spostare il baricentro del giudizio dominante dell’ambito ecclesiale e teologico che, purtroppo, ancora oggi, appare piuttosto risentito nei confronti del mondo moderno, facendo emergere tutta la nostra difficoltà a far pace con la perdita di spazio e di rilevanza della fede.

 

Emergono talvolta da più parti, infatti, alcuni rigurgiti polemici, rigidi moralismi, valutazioni negative, atteggiamenti rancorosi e lamentosi e un’apologetica che il grande teologo francese de Lubac definirebbe aggressiva e difensiva.

 

Secondo Martini, invece, ci troviamo in un momento di crisi della fede e in mondo pieno di problemi e di sfide, ma, tuttavia, «non vi è mai stato nella storia della Chiesa un periodo così felice come il nostro». Infatti, continua il cardinale, «la nostra Chiesa conosce la sua più grande diffusione geografica e culturale e si trova sostanzialmente unita nella fede, con l’eccezione dei tradizionalisti di Lefebvre».

 

Non solo: «Nella storia della teologia non vi è mai stato un periodo più ricco di quest’ultimo. Persino nel IV secolo, il periodo dei grandi Padri della Cappadocia della Chiesa orientale e dei grandi Padri della Chiesa occidentale, come san Girolamo, sant’Ambrogio e sant’Agostino, non vi era un’altrettanto grande fioritura teologica. È sufficiente ricordare i nomi di Henri de Lubac e Jean Daniélou, di Yves Congar, Hugo e Karl Rahner, di Hans Urs von Balthasar e del suo maestro Erich Przywara, di Oscar Cullmann, Martin Dibelius, Rudolf Bultmann, Karl Barth e dei grandi teologi americani come Reinhold Niebuhr, per non parlare dei teologi della liberazione (qualunque sia il giudizio che possiamo dare di loro)».

 

Partendo da questa visione positiva, ci si può inoltrare nel complesso tempo postmoderno senza indulgere alla rassegnazione lamentosa o al risentimento.

 

Al cardinale non sfugge la problematicità della visione postmoderna della vita e della società, che si configura come una mentalità di opposizione nei confronti del modo in cui abbiamo concepito il mondo fino ad ora e che promuove un’istintiva preferenza per i sentimenti, per le emozioni e per l’attimo presente, invece che per i grandi progetti e ideali.

 

Naturalmente, in questo clima si fanno strada il rifiuto o un certo giudizio negativo nei confronti della morale, un sentimento anti-istituzionale che penalizza anche la Chiesa, nonché ciò che Martini chiama «il rifiuto del senso del peccato e della redenzione».

 

Questi aspetti potrebbero facilmente gettare lo spirito del cristiano nello scoraggiamento oppure orientarlo verso un atteggiamento ostile e controversista. Al contrario, nello spirito ignaziano che gli era proprio, il cardinale Martini afferma che occorre un vero discernimento spirituale, capace di osservare la realtà con gli occhi di Dio e di cogliere perciò il grano buono nel mezzo della zizzania.

 

A ben guardare – afferma sorprendentemente – «forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero».

 

La lettura è degna di attenta riflessione. La crisi di un certo cristianesimo sociologico, la perdita di rilevanza pubblica della Chiesa e la riduzione del suo potere sociale, così come la mentalità “liquida” che presiede le visioni e l’agire dei nostri contemporanei non rappresentano un “luogo” totalmente negativo per la fede cristiana; al contrario, la crisi diventa e può essere un’occasione per riscoprire un cristianesimo nuovo, che non si instaura più per un influsso sociale o per tradizione culturale, ma si situa nel cuore della gente grazie alla freschezza e alla novità del Vangelo, e diventa attrattiva per il fatto di mostrarsi come una sfida, un rischio, una possibilità di realizzare una vita umana qualitativamente differente.

 

Insomma, la crisi di un cristianesimo tradizionale e sociologico potrebbe indurre alla riscoperta di una fede viva, fondata sulla Parola, radicata nell’esperienza spirituale e, certamente, più consapevole, più responsabile e più adulta.

 

Non è superfluo ricordare che Benedetto XVI ebbe a fare la stessa analisi parlando ai cattolici di Germania nel 2011, ricordando loro che «in un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore… Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo». Anni addietro, l’allora professor Ratzinger aveva già parlato di una “Chiesa minoranza”.

 

In tale direzione, Martini esorta il lettore citando san Paolo: «Esamina tutto con discernimento; conserva ciò che è vero; astieniti dal male» (1Ts 5,21-22). In questo esercizio, il cardinale afferma che, nel tempo postmoderno, la fede è una vera e propria sfida, per affrontare la quale servono quattro attitudini, che vale la pena non solo di enumerare, ma anche di meditare citando le sue stesse parole:

 

«Non essere sorpreso dalla diversità. Non avere paura di ciò che è diverso o nuovo, ma consideralo come un dono di Dio. Prova ad essere capace di ascoltare cose molto diverse da quelle che normalmente pensi, ma senza giudicare immediatamente chi parla. Cerca di capire che cosa ti viene detto e gli argomenti fondamentali presentati. I giovani sono molto sensibili a un atteggiamento di ascolto senza giudizi. Questa attitudine dà loro il coraggio di parlare»;

 

«Corri dei rischi. La fede è il grande rischio della vita. “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25)»;

 

«Sii amico dei poveri. Metti i poveri al centro della tua vita, perché essi sono gli amici di Gesù che ha fatto di se stesso uno di loro»;

 

«Alimentati con il Vangelo. Come Gesù ci dice nel suo discorso sul pane della vita: “Perché il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (GV 6,33)».

 

Si tratta di un vero e proprio programma spirituale e pastorale, che non si preoccupa degli spazi da occupare e dei trionfi sociali da raggiungere, ma di sviluppare una spiritualità capace di generare luce nel mondo e di aprire strade al Vangelo; per dar vita a queste quattro attitudini, infatti, Martini propone quattro esercizi: la lectio divina perché è la Parola di Dio che nutre la vita e apre all’incontro con Dio; l’autocontrollo, perché saziare tutti i desideri senza discernimento può portare alla noia e alla sazietà; il silenzio, perché «dobbiamo allontanarci dall’insana schiavitù del rumore e delle chiacchiere senza fine, e trovare ogni giorno almeno mezz’ora di silenzio e mezza giornata ogni settimana per pensare a noi stessi, per riflettere e pregare»; infine, l’umiltà, cioè «non credere che spetti a noi risolvere i grandi problemi dei nostri tempi. Lascia spazio allo Spirito Santo che lavora meglio di noi e più profondamente. Non cercare di soffocare lo Spirito negli altri, è lo Spirito che soffia. Piuttosto, sii pronto a cogliere le sue manifestazioni più sottili».

 

Anche in un tempo difficile, indifferente e per certi versi ostile alla fede e alla Chiesa, Dio continua a bussare. Tante persone, anche inconsapevolmente, sono inquietate da domande diverse e dal desiderio di vincere il grigiore della routine e la staticità delle abitudini. Il Vangelo continua in qualche modo a suscitare stupore e la figura di Gesù crea ancora scompiglio. Ciò che manca, forse, è un cristianesimo, una Chiesa e dei cristiani capaci di quello sguardo e di quelle attitudini, che il cardinal Martini ha voluto ricordarci.

 

Non è un caso se questo invito, oggi, in una nuova stagione ecclesiale ricca di sorprese, ci viene proposto da papa Francesco. Proprio il pontefice ha affermato: «la nostra missione di battezzati, di sacerdoti, di consacrati, non è determinata particolarmente dal numero o dalla quantità di spazi che si occupano, ma dalla capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione; dal modo in cui viviamo come discepoli di Gesù, in mezzo a coloro dei quali noi condividiamo il quotidiano, le gioie, i dolori, le sofferenze e le speranze… Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi. Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo. Anche se questo può non portare apparentemente benefici tangibili o immediati. Perché essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro, un incontro con Gesù Cristo».

 

 

Su questa strada, tracciata profeticamente da Carlo Maria Martini, siamo ancora in cammino.


Card. Martini: il silenzio che apre all’ascolto e sfocia nel dialogo

Marco Vergottini, teologo, a lungo collaboratore dell’allora arcivescovo di Milano, segnala i punti di contatto nella figura e nel pensiero dell’attuale pontefice e del biblista che fu sulla cattedra di Ambrogio dal 1979 al 2002

 

 

“La passione per l’evangelo, la parresia, l’invito a uno stile di Chiesa sinodale, la lotta per la giustizia e il perdono, l’attenzione ai poveri”: sono questi i tratti che avvicinano - oltre ovviamente alla scuola ignaziana - due gesuiti come Jorge Mario Bergoglio e Carlo Maria Martini. Così come non mancano le differenze: nel “temperamento”, nella formazione e nel “curriculum ecclesiastico”. È Marco Vergottini, teologo, a lungo collaboratore dell’allora arcivescovo di Milano, a segnalare i punti di contatto nella figura e nel pensiero dell’attuale pontefice e del biblista che fu sulla cattedra di Ambrogio dal 1979 al 2002. Di Martini si ricorda il terzo anniversario della scomparsa, avvenuta il 31 agosto 2012: in tale occasione ha visto la luce il volume “Martini e noi”, curato da Vergottini, con 111 testimonianze di “cardinali, vescovi, intellettuali, teologi, giornalisti e soprattutto uomini e donne che sono stati segnati dal rapporto con le sue parole, con i suoi scritti, con la sua persona”.

 

In dialogo con il suo tempo. Al termine del lungo lavoro attorno al volume, Vergottini riconosce che alcuni tra coloro che raccontano della personale conoscenza col card. Martini, “hanno scoperto o impresso una nuova direzione alla propria vita proprio nell’incontro con lui, nell’ascolto del suo magistero episcopale a Milano durato 22 anni, continuato dalle cattedre di Gerusalemme e Gallarate”. Gli scritti presentati in “Martini e noi” e raggruppati per capitoli, delineano del resto una sorta di indice della biografia martiniana: il credente e la vita spirituale; il biblista e Gerusalemme; il vescovo e la sua Chiesa; l’uomo del dialogo ecumenico e interreligioso; il pastore e le forme della comunicazione; l’intellettuale e la polis. Vergottini, che ha alle spalle diversi studi sul porporato, puntualizza: “Se Martini ha potuto sorprendere la Chiesa di Milano per l’insistenza con cui ha richiamato il primato della dimensione contemplativa, pure egli ha ricercato con intensità, curiosità e audacia - da taluni ritenuta quasi spericolata - di entrare in dialogo con le donne e gli uomini di oggi per incalzarli a riflettere sul senso dell’esistenza e sollecitarli all’incontro con il Padre di tutti, riscuotendo interesse e attenzione nel mondo laico, come nessun’altra personalità del mondo cattolico”.

 

Silenzio che genera ascolto. Tra le firme del volume, edito da Piemme, figurano il cardinale Ravasi, il priore di Bose Enzo Bianchi, il patriarca ecumenico Bartolomeo I. E poi Cacciari, Cazzullo, De Bortoli, Giorello, Lerner, Mancuso… Tanti gli amici del lungo periodo milanese di Martini. Tra questi proprio Ravasi, nominato da Martini nel 1989 prefetto della prestigiosa Biblioteca Ambrosiana. Nel suo scritto, Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, sottolinea soprattutto un aspetto del cardinale di origine piemontese: “Il silenzio autentico genera l’ascolto che, a sua volta, crea il dialogo. È stato un po’ questo il programma personale ed ecclesiale di Martini che ha sempre alonato le sue parole di silenzio contemplativo, rendendole così incisive ed efficaci e perciò feconde per l’incontro con l’Altro divino e l’altro umano”. Ma “il suo non era solo un silenzio ‘ascetico’, capace cioè di purificare la parola dalla verbosità, dall’enfasi e dalla prevaricazione; era anche un silenzio ‘mistico’ e appassionato perché edificava la comunione attraverso l’ascolto attento della parola dell’altro. Non per nulla i primi interventi ecclesiali pubblici del cardinale erano stati un appello alla vita contemplativa e all’ascolto della Parola sacra”. Il card. Ravasi aggiunge: “Martini nel suo lungo ministero pastorale ha saputo costantemente scendere dal monte del silenzio contemplativo per incrociare le persone in un silenzio di ascolto fraterno che sbocciava nell’incontro, nel confronto, nel dialogo ove identità e differenza si componevano in armonia”.

 

 

“Ecclesiastico senza tattiche”. Sull’ascolto torna il biblista Enzo Bianchi, secondo il quale l’aspetto “più impressionante del suo essere uomo, cristiano, vescovo della Parola, emergeva dalla sua grande capacità di ascolto: dialogare con lui era sperimentare di persona cosa sia un orecchio attento e un cuore accogliente, cosa significhi pensare e pregare prima di formulare una risposta… Era da questo ascolto attento, della Parola e dell’interlocutore, che ho visto nascere nel cardinale Martini la capacità di gesti profetici, la sollecitudine per la Chiesa e per la sua unità, la vicinanza ai poveri, il farsi prossimo ai lontani, il dialogo con i non credenti. In lui coglievo una delle rare figure di ecclesiastici senza tattiche, né strategie, né calcoli di governo, ma quella vita di Cristo e in Cristo che aveva posto come chiave di lettura dell’esistenza di ogni battezzato e del suo ministero pastorale”.


Pasolini.."il discepolo amato"

"Morsicato da Gesù Cristo"

 

Enzo Bianchi

 

 

Per il centenario della nascita di Pierpaolo Pasolini molti hanno scritto su di lui ma non ho trovato riferimenti alla sua postura di “morsicato da Gesù Cristo”. Eppure Pier Paolo ha lasciato molte tracce nei suoi scritti, nelle opere cinematografiche e anche, sconosciuta ai più, nella sceneggiatura di un film mai realizzato su Paolo di Tarso. Vale forse la pena che condivida alcuni miei incontri con lui che hanno avuto per me profondo significato.

 

Incontrai per la prima volta Pasolini nel 1963 su una terrazza della Pro Civitate Christiana di Assisi. Era un pomeriggio di ottobre carico di silenzio e lui aveva un libriccino in mano che leggeva, staccandone sovente lo sguardo fissarlo nel vuoto, per pensare. Mi disse di essere affascinato dal Vangelo, soprattutto dal Vangelo secondo Matteo, e che “non fare un film ma lasciare che il Vangelo stesso fosse un racconto visivo”. Iniziò così la nostra conversazione, della quale annotai subito alcune frasi per non dimenticarle: “Io non credo che Cristo sia Figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella mia coscienza, ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, così rigorosa e ideale, da andare al di là dei comuni termini dell’umanità”.

Ci rivedemmo ancora a Torino dove mi parlò della sua intenzione di lavorare per un film sull’apostolo Paolo. Diffidando del ritratto che Luca, l’autore degli Atti degli Apostoli, offre di Paolo, Pasolini intendeva utilizzare soltanto la trama degli Atti degli Apostoli e far parlare Paolo solo attraverso i testi delle sue lettere. Per l’apostolo Paolo aveva una passione profonda come per Cristo: una passione in cui carne e sangue erano presenti, mai negati, ma per così dire sovraesaltati. Nel maggio del 1968 scrisse un “Abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo”, di cui parlammo ancora ad Assisi in Pro Civitate, e la sua preoccupazione era, come disse, che “San Paolo risultasse vivo qui e ora tra noi”. Per questo voleva rendere contemporanee le città e il Mediterraneo di Paolo, e far risuonare le parole dell’apostolo a Londra, Barcellona e oltre Atlantico. Pasolini era affascinato dal Paolo che predicava la croce, lo scandalo per gli uomini religiosi, la follia per gli intellettuali. Vedeva la morte violenta dell’apostolo accadere in una New York di acciaio e cemento, emblema del mondo disumanizzato che è diventato il nostro.

 

Un giorno del 1969, più oppresso del solito nel condividere con me le forti tensioni di quell’anno così denso di cambiamenti e di violenza, mi confessò: “Anch’io sono caduto da cavallo come Paolo, ma un piede è rimasto nella staffa e così continuo a battere la testa qua e là!”. Mentre mi diceva questo un’inenarrabile tristezza gli saliva al cuore e affiorava sul suo volto scavato. Tre anni fa incontrai ancora una volta a Cadaqués il mio caro amico Enrique Irazoqui (l’attore che interpretò Gesù nel Vangelo secondo Matteo) poco prima che morisse. Insieme ricordammo Pier Paolo, la luce che attraversa la sua tristezza, l’enigma della sua costante e testarda interpretazione di se stesso come inascoltato profeta e come ”povero Cristo”.

 Secondo Matteo

 

A 100 anni dalla nascita di Pasolini

 

Piero Stefani

 

 

Alla 25a mostra del cinema di Venezia (1964) il Leone d’oro fu assegnato a Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, con protagonista la compianta Monica Vitti. Dopo l’oro, l’argento, il secondo premio, fu assegnato a Il Vangelo secondo Matteo, pellicola (allora lo si poteva dire alla lettera) dedicata «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII», morto, come era a tutti noto, nel giugno dell’anno precedente. Gli spettatori invece ignoravano la tragica fine a cui sarebbero andati incontro i due uomini fotografati, seduti uno accanto all’altro, nella sala cinematografica del Lido.

Uno, più alto, indossava un doppiopetto scuro; l’altro, più minuto, uno smoking. Si trattava del presidente del Consiglio in carica, on. Aldo Moro, e del regista del film, Pier Paolo Pasolini. Il primo sarebbe stato ucciso nel maggio del 1978, mentre il secondo sarebbe stato trucidato il giorno dei morti del 1975. Erano lì per vedere un film che, dopo aver dato ampio spazio alla morte in croce, terminava con un sobrio riferimento alla risurrezione di Gesù, evento in cui uno solo dei due illustri personaggi credeva.

A quanto è dato sapere, in un primo momento l’ateo Pasolini si proponeva di terminare la propria opera con la scena della morte di Gesù. Poi ci ripensò. Avrebbe forse potuto fare altrimenti, visto che era suo desiderio «che il mio film potesse essere proiettato nel giorno di Pasqua in tutti i cinema parrocchiali d’Italia e del mondo»? [1] Un ambito quest’ultimo, in un certo senso, simboleggiato, nella sala del Lido, dal cattolico praticante Aldo Moro.

Di certo la pellicola fu in seguito presente in svariati cinema parrocchiali, probabilmente in nessuno di essi fu però proiettata nella domenica di Pasqua. Oggi anche quelle sale appaiono, del resto, mondi altrettanto lontani dal misero squallore dei Sassi di Matera d’allora, principale sfondo di un film che, ai nostri occhi, si presenta pure come vivido documento dell’antica povertà delle genti meridionali.

L’incontro che indusse il regista non credente a progettare e a realizzare Il Vangelo secondo Matteo fu, in sostanza, casuale. In una lettera scritta a Lucio Caruso della Pro Civitate di Assisi nel febbraio del 1963, Pasolini affermò che la prima volta in cui aveva soggiornato là aveva trovato «accanto al capezzale» una copia del «Vangelo: vostro delizioso-diabolico calcolo!». L’esca, per così dire, funzionò.

Dopo vent’anni in cui non l’aveva più preso in mano, Pasolini lesse Matteo «tutto di seguito, come un romanzo» e nell’esaltazione della lettura, la maggiore fra tutte, gli venne subito l’idea di farne un film. Vangelo al singolare. Non so dimostrarlo sul piano documentario, ma tutto lascia ritenere che sul comodino ci fosse un volumetto che conteneva tutti e quattro i Vangeli. Pasolini lesse però solo il primo, Matteo; lo percepì come una totalità in sé compiuta. Anzi, colse quel libro come una presenza; è forse un caso che Pasolini impieghi un’espressione, «accanto al capezzale», di solito usata per chi è vicino a una persona malata?

 

Come un romanzo

 

Ci s’imbatte all’improvviso in un testo in grado di essere letto tutto in una volta come un romanzo. Solo una piccola parte dei libri biblici è predisposta a essere assunta in questo modo. Tra essi ci sono certo i Vangeli i quali, nella loro forma letteraria, sono pur sempre delle biografie, per quanto sui generis.

Una delle caratteristiche che li distinguono dai racconti della vita degli uomini illustri presenti nella cultura classica è la mancata descrizione dei tratti fisici del protagonista. Che Gesù abbia un corpo è prepotentemente affermato attraverso la presentazione dei suoi gesti, dei suoi rapporti con le altre persone e, in massimo grado, del suo patire. Mentre l’aver sottaciuto le sue fattezze fisiche ha contribuito a far sì che, nel corso delle epoche, i modi di rappresentare la sua figura risentissero, in maniera determinante, della cultura del tempo.

Gesù Cristo è stato rappresentato ieratico e umiliato, sacerdote composto sulla croce e uomo dei dolori contorto fino alla deformazione, biondo e carezzevole o bruno e vigoroso, col volto trasfigurato o con il viso dai lineamenti puramente umani.

Nella modernità, la soggettività dell’interprete ha acquistato maggior spazio. Sui modi di rappresentare Gesù si proiettano sempre più i convincimenti e i sentimenti dell’interprete. Ciò vale anche per Pasolini, a cominciare dalla scelta di affidare il ruolo di Gesù al diciannovenne studente catalano antifranchista Enrique Irazoqui.

Nel film Cristo diviene portavoce del mondo degli umili, dei poveri, dei malati e, in modo eminente, dei bambini, per questo si contrappone ai potenti. Il contrasto era perciò inevitabile. Fin dal principio si coglie che la decisione di Gesù di schierarsi dalla parte delle vittime lo condurrà a essere lui stesso vittima. Gesù adulto compare per la prima volta quando si fa battezzare da Giovanni al Giordano; la sequenza nel film è contraddistinta da un frammento tratto dalla mozartiana Musica funebre massonica, brano che fungerà da sottofondo a tutta la lunga scena della crocifissione. [2]

Se ci si limitasse a ciò, il discorso si concentrerebbe (come non di rado avvenne negli anni Sessanta) sui limiti e sulla portata del marxismo pasoliniano. Il grande salto ermeneutico e artistico compiuto dal poeta, scrittore e regista fu invece la necessità di dar spazio anche a coloro che credono nel Vangelo: «Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica, non contraddicessero mai la vostra sensibilità di credenti. Perché altrimenti non raggiungerei il mio scopo di riproporre a tutti una vita che è modello – sia pure irraggiungibile – per tutti». [3]

Occorre però spingersi ancora più in là; in Pasolini vi è qualcosa di più del rispetto, pur autentico, della sensibilità altrui. A essere in gioco è la comprensione stessa del testo. Il regista scrisse di non poter, in quanto ateo, raccontare il Vangelo in modo classico: «D’altra parte però volevo filmare il Vangelo secondo Matteo, cioè raccontare la storia di Cristo figlio di Dio. Dovevo dunque narrare un racconto cui non credevo. Non potevo essere io a narrarlo (...) per poter raccontare il Vangelo, ho dovuto immergermi nell’anima di un credente, Piero della Francesca, per esempio». [4]

 

«Tu chiami, Cristo, e senza luce»

 

Lo sforzo ermeneutico di Pasolini non ebbe nulla da spartire con una conversione. Gesù è rappresentato nel film con un volto sempre e solo umano (la Trasfigurazione – Mt 17,1-8 – non viene rappresentata); eppure egli è presentato nel contempo come figlio di Dio. Pasolini, attraverso la lettura filmica delle pagine evangeliche, riuscì a dare maggiore consistenza a un’intuizione poetica da lui avuta più di vent’anni prima nella Domenica uliva, componimento centrale del ciclo Poesia a Casarsa (1942).

In riferimento alla Domenica della Palme vi si legge il verso: «Tu clàmis, Crist, e senza lum» («tu chiami, Cristo, e senza luce»). Secondo Pasolini, queste parole avrebbero potuto costituire la più efficace epigrafe del suo film. L’inatteso incontro con le pagine del primo Vangelo irrobustisce così inquietudini e sentimenti antichi aprendo uno spiraglio verso una nuova luce o forse verso una nuova e più consapevole oscurità.

Nel film, interamente basato (salvo una fuggevole eccezione) su parole contenute nel Vangelo di Matteo, la scelta di assumere Piero della Francesca come testimone della fede trova riscontro fin dalla scena iniziale. In essa la giovanissima Maria è raffigurata in base a un modello iconico che richiama scopertamente la Madonna del parto di Monterchi, meta per secoli di pie visite di donne prossime alla maternità. [5]

Altrettanto non può dirsi per un altro celeberrimo affresco di Piero, il Risorto di Sansepolcro («il Cristo contadino», per dirla con Giorgio Bassani). Nel film non vi è alcuna trionfale uscita dalla tomba; in esso non sventola alcuno stendardo. L’umile risurrezione pasoliniana non avrebbe tollerato una plateale uscita dal sepolcro. In questo senso la fedeltà al dettato evangelico è massima: i Vangeli, a differenza dell’iconografia occidentale, non descrivono mai Gesù che sta uscendo dalla tomba.

Per altri versi invece Pasolini abbandona completamente il testo matteano. La decisione di rendere lo stupefatto volto di Maria di Nazaret specchio indiretto della risurrezione non trova alcun riscontro testuale né nel primo Vangelo, né altrove. Invero nel presentare la vicenda della Passione, il film integra il Vangelo di Matteo con quello di Giovanni. Ciò avviene a motivo della presenza sia di Maria sia del «discepolo amato» i cui occhi riempiono, più volte, da soli, l’intero schermo.

Le immagini comunicano quanto alle parole (non matteane) è precluso dire: «Donna ecco tuo figlio (...) ecco tua madre» (Gv 19,26-27). Le modalità di ripresa suggeriscono l’esistenza di un’identificazione di Pier Paolo con il «discepolo amato», ipotesi potentemente rafforzata dal fatto che il ruolo di Maria anziana fu affidato alla madre del regista, Susanna Pasolini.

 

 

NOTE

 

1 Cf. G. Bertagna, Il volto di Gesù nel cinema, Pardes Edizioni, Bologna 2005, 28.

2 Le musiche nel film provengono da fonti eterogenee: Bach, Mozart, Prokofiev, Missa Luba, spiritual, blues riproposte, in genere, secondo la tecnica del Leitmotiv.

3 Cf. Bertagna, Il volto di Gesù nel cinema, 28s.

4 P.P. Pasolini, Per il cinema. Vol. II. Mondadori, Milano 2001, 2889-2900.

5 La Madonna del parto compare nei film: La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini e Nostalghia di Andrej Tarkovskij (1983), in entrambi i casi collocata lontana da Monterchi.

 

 

(Il Regno Attualità, 4/2022, 15/02/2022, pag. 132)


PASOLINI PIER PAOLO (1922-1975)

 

 

 

"Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo" (Pier Paolo Pasolini). Commenta lo storico Alberto Melloni: "Si, perché rappresenta un modo di parlare di Dio che sfugge alle nostre schematizzazioni, che sbriciola i nostri tentativi di rappresentare Dio in una forma fruibile, utile. Il Dio di cui parla Gesù è sempre scandalosamente più buono di come lo vorremmo e, al tempo stesso, sempre scandalosamente più esigente di come a noi farebbe comodo".

 

Lettera di Pier Paolo Pasolini al Dott. Lucia S. Caruso della Pro Civitate Christiana di Assisi.

 

febbraio 1963

 

Caro Caruso, vorrei spiegarle meglio per scritto, quello che le ho confusamente confidato a voce.

 

La prima volta che sono venuto da voi a Assisi, mi sono trovato accanto al capezzale il Vangelo: vostro delizioso diabolico calcolo! E infatti tutto è andato come doveva andare: l'ho riletto - dopo circa vent'anni (era il quaranta, il quarantuno, quando, ragazzo, l'ho letto per la prima volta: e ne è nato “ L'Usignolo della Chiesa Cattolica ”, - poi l'ho letto solo saltuariamente, un passo qua, un passo là, come succede...).

 

Da voi, quel giorno, l'ho letto di seguito, come un romanzo. E, nell'esaltazione della lettura - Lei lo sa, è la più esaltante che si possa fare! - mi è venuta, tra l'altro, l'idea di fame un film. Un'idea che da principio mi è sembrata utopistica e sterile, “esaltata ”, appunto. E invece no. Col passare dei giorni e poi delle settimane, questa idea si è fatta sempre più prepotente e esclusiva: ha cacciato nell'ombra tutte le altre idee di lavoro che avevo nella testa, le ha debilitate, devitalizzate. Ed è rimasta solo lei, viva e rigogliosa in mezzo a me.

 

Solo dopo due o tre mesi, quando ormai l'avevo elaborata - e mi era diventata del tutto familiare - l'ho confidata al mio produttore: ed egli ha accettato di fare questo film cosi difficile e rischioso, per me - e per lui.

 

Ora, ho bisogno dell'aiuto vostro: di Don Giovanni, Suo, dei suoi colleghi. Un appoggio tecnico, filologico, ma anche un appoggio ideale. Le chiederei insomma (e, attraverso lei, con cui ho maggiore confidenza, alla “ Pro Civitate Christiana”) di aiutarmi nel lavoro di preparazione del film, prima; e poi di assistermi durante la regia.

 

La mia idea è questa: seguire punto per punto il “Vangelo secondo Matteo”, senza farne una sceneggiatura o una riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all'altezza poetica del testo.

 

È questa altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel senso corrente del termine, né un'opera in qualche modo ideologica.

 

In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente - almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l'umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei .comuni termini dell'umanità. Per questo dico “ poesia ”: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo. Vorrei che il mio film potesse essere proiettato nel giorno di Pasqua in tutti i cinema parrocchiali d'Italia e del mondo. Ecco perché ho bisogno della vostra assistenza e del vostro appoggio. Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica, non contraddicessero mai la vostra sensibilità di credenti. Perché altrimenti non raggiungerei il mio scopo di riproporre a tutti una vita che è modello - sia pure irraggiungibile - per tutti.

 

 

 

Spero tanto che abbiate fiducia in me.

 

Le stringo la mano, affettuosamente, suo

 

Pier Paolo Pasolini

 

 

 

Lettera di Pier Paolo Pasolini al produttore Alfredo Bini.

 

 

 

giugno 1963

 

Caro Alfredo,

 

mi chiedi di riassumerti per scritto, e per tua comodità, i criteri che presiederanno alla mia realizzazione del “ Vangelo secondo San Matteo ”.

 

Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l'umanità di Cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora “divina” è ai limiti della metaforicità, fino 'a essere idealmente una realtà. Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”: ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica: il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l'ho sperimentata nel Vangelo.

 

Quanto al mio rapporto “artistico” col Vangelo, esso è abbastanza curioso: tu forse sai che, come scrittore nato idealmente dalla Resistenza, come marxista ecc., per tutti gli anni Cinquanta il mio lavoro ideologico è stato verso la razionalità, in polemica coll'irrazionalismo della letteratura decadente (su cui mi ero fermato e che tanto amavo). L'idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, è invece, devo confessarlo, frutto di una furiosa ondata irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia, rischiando. magari i pericoli dell'esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale: Piero della Francesca e in parte Duccio per l'ispirazione figurativa; la realtà, in fondo preistorica ed esotica del mondo arabo, come fondo e ambiente). Tutto questo rimette pericolosamente in ballo tutta la mia carriera di scrittore, lo so. Ma sarebbe bella che, amando così svisceratamente il Cristo di Matteo, temessi poi di rimettere in ballo qualcosa. Tuo

 

La crocifissione

 

“Ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili. ” .

 

Paolo, Lettera ai Corinti

 

 

 

Tutte le piaghe sono al sole

 

ed Egli muore sotto gli occhi

 

di tutti: perfino la madre

 

sotto il petto, il ventre, i ginocchi,

 

guarda il Suo corpo patire,

 

L'alba e il vespro gli fanno luce

 

sulle braccia aperte e l'Aprile

 

intenerisce il Suo esibire

 

la morte a sguardi che Lo bruciano.

 

 

 

Perché Cristo fu esposto in Croce?

 

 

 

Oh scossa del cuore al nudo

 

corpo del giovinetto... atroce

 

offesa al suo pudore crudo...

 

Il sole e gli sguardi! La voce

 

estrema chiese a Dio perdono

 

con un singhiozzo di vergogna

 

rossa nel cielo senza suono,

 

tra pupille fresche e annoiate

 

di Lui: morte, sesso e gogna.

 

 

 

Bisogna esporsi (questo insegna

 

il povero Cristo inchiodato?),

 

la chiarezza del cuore è degna

 

di ogni scherno, di ogni peccato

 

di ogni più nuda passione...

 

(questo vuol dire il Crocifisso?

 

sacrificare ogni giorno il dono

 

rinunciare ogni giorno al perdono

 

sporgersi ingenui sull'abisso).

 

 

 

Noi staremo offerti sulla croce,

 

alla gogna, tra le pupille

 

limpide di gioia feroce,

 

scoprendo all'ironia le stille

 

del sangue dal petto ai ginocchi,

 

miti, ridicoli, tremando

 

 

 

d'intelletto e passione nel gioco

 

del cuore arso dal suo fuoco,

 

per testimoniare lo scandalo.

 

 

 

Pier Paolo Pasolini: cattolici, non adeguatevi!

 

INEDITO. A trent'anni dalla morte, un dibattito sulla Chiesa in cui lo scrittore non credente propone un ideale di spiritualità che rivaluta la tradizione e la bellezza "popolari" della fede e chiede di non conformarsi alla modernità.

 

Brani tratti da una tavola rotonda che Giancarlo Zizola organizzò nella sede romana de 'Il Giorno' nel dicembre 1969.

 

Pasolini: "La domanda è questa: se quello che si esprime attraverso la liturgia è il popolo che voi dite come soggetto, mi pare non arriviamo a una distinzione classista in senso, diciamo, ormai ortodosso e convenzionale della parola. Cioè, quando voi parlate di popolo e borghesia fate una distinzione ancora psicologica o sociologica, ma non sociale e non classista ancora.

 

Ora, quando voi criticate il borghese, come sarei io ad esempio, che richiederebbe alla messa - almeno in linea

 

teorica perché in effetti io non vado a messa - il suo mistero, il suo momento estatico, il silenzio o il mistero di una lingua incomprensibile, voi fate un rimprovero massimalistico al borghese; lo chiamate borghese individualista e, in un certo senso, guardate un po' ironicamente questa sua esigenza misticheggiante, che è anche estetizzante. Ma allora vorrei citare una frase di Mircea Eliade che è abbastanza tipica. Egli dice che il popolo vive la ritualità in concreto, completamente, esistenzialmente, corporalmente; il popolo inteso in un senso vago della parola, cioè il popolo come era nelle civiltà contadine, nelle civiltà agrarie, nell'ambito in cui è nata la religione cristiana, vive il rito in concreto e la sua esperienza rituale –dice proprio così- equivale alla più intima esperienza privata, personale dell'uomo moderno. Cioè con questo si istituisce una specie di analogia tra l'esperienza estetica, perché no, di un uomo moderno e l'esperienza religiosa del popolo antico, contadino, preindustriale. Ora, secondo me, questa analogia ha una certa ragione d'essere. Non è che si possa buttar via tacciandola di estetismo e basta. E questa analogia, che si può trovare tra il popolo di oggi, tra l'uomo borghese moderno di oggi e il popolo preindustriale, è un fatto che si ripete oggi nelle chiese, perché in un certo senso il popolo è rimasto quello di allora; in parte è ancora in qualche modo come i preindustriali, vive ancora un'esperienza religiosa di tipo contadino, di tipo magico. E allora le donnette si trovano accanto, alla messa, un borghese colto, estetizzante. Quindi nella messa convivono queste due situazioni che sono analoghe”.

 

Balducci: “Noi rischiamo sempre di dimenticare che la nostra fede si deve riferire a un convivio, e non ad un banchetto religioso o magico, ma ad un banchetto normale, che conteneva l'intenzione salvifica del Signore.

 

Secondo me, proprio gli uomini per così dire meno religiosi, si trovano meglio nella liturgia rinnovata. E' una liturgia che domani sarà molto più adatta all'operaio secolarizzato che non al borghese colto, il quale dovrà umiliare la propria religione, il proprio soggettivismo, se vuol essere un credente”.

 

Marsili: “La liturgia come l'abbiamo fatta finora poteva essere ed è alienante, appunto perché espressione di una religione carica di un atavismo più o meno magico. Nel medioevo tutte le messe erano da morto e certi cattolici arrivavano al colmo dicendo che durante la messa l'anima, per la quale la messa era applicata, veniva liberata dal purgatorio.

 

Lutero li rimproverava di non fare la messa per i vivi, di non invitare la gente alla cena, ma di fare sacrifici per i defunti. E' in questo senso che oggi dobbiamo distaccarci da questo tipo di liturgia. Bisogna che cominciamo a diventare antitridentini e antimedievali, per fare la riforma. Il medioevo è stata la rovina della Chiesa cattolica, perché è stato la prostrazione della fede, riempita di tutto il magismo nordico. Quando sentiamo Ross definire il medioevo come il tempo delle cattedrali, dico che Ross non ha capito niente, perché quelle cattedrali sono per noi la moltiplicazione del tempio di Gerusalemme. Non deve restare pietra su pietra, arte o non arte che sia...”.

 

Pasolini: Arte e religione sono due fenomeni coesistenti e strettamente unitari”.

 

Marsili: “Sì, ma non è più fede, non è più cristianesimo...”.

 

Pasolini: “Il fatto è che gli edifici delle chiese - arte e religione - erano belli!”

 

Marsili: “È un altro discorso. Cristo annuncia la distruzione di un tempio e la ricostruzione in sé stesso, proprio per creare una forma nuova alla base della quale c'è solo la conversione. "Convertitevi!": Cristo non lo ha detto ai pagani, ma agli ebrei, che erano attaccatissimi alla religione”.

 

Pasolini: “Lo so, ma essere antimedievali e antitridentini significa essere alla retroguardia, cioè bisogna trovare qualcosa di più...”.

 

Balducci: “Per Pasolini, è chiaro, la Chiesa non può vivere solo se ha questa alimentazione "religiosa" . Non può ammettere la distinzione che noi ammettiamo tra fede e religione. Credo che egli ci chieda come

 

possa domani esistere ancora la Chiesa quando ipotizza il superamento di queste forme religiose”.

 

Burgalassi: “Ma io proprio come sociologo - a parte il fatto religioso - direi che la Chiesa può esprimere anche in futuro valori di profezia riscoprendo l'uomo.

 

Pasolini: Ma l'uomo del futuro sarà un uomo alienato…

 

Burgalassi: La liturgia di oggi, nella misura in cui permette la riscoperta dei valori umani –la spontaneità, la comunità, la comunione, l'amore- guarda al futuro, cioè scopre l'uomo e favorisce la crescita dell'uomo.

 

Pasolini: Lo scopre nel momento in cui l'uomo sta, come mai è avvenuto nella sua storia, per venire alienato… La nuova liturgia in un certo senso borghesizza il rapporto tra sacerdote e fedele. Mentre prima era un rapporto feudale: la messa in latino era un rapporto feudale tra un popolo preindustriale e una élite di tipo feudale. Quindi la Chiesa era alienante in quanto il sacro era un abituare il popolo alla rassegnazione, al 'memento mor' come dice Marcuse.Adesso invece il rapporto non è più tra feudatari o piccole élites di potenti e un grande popolo di tipo preindustriale, adesso il rapporto è tra piccola borghesia e classe dominante, un borghese di tipo capitalistico e un popolo che si sta rapidamente evolvendo. La liturgia abolendo il latino, dando questa forma di democrazia alla Chiesa, si adegua ai tempi. Io faccio un discorso puramente esteriore, non lo faccio dal l'interno della Chiesa. A questo punto l'unico atteggiamento della Chiesa, se vuole salvare l'uomo attraverso i valori umani di cui voi mi parlate, è l'opposizione totale, radicale alla borghesia, che va verso una trasformazione completamente alienante dell'uomo. E infatti se voi osservate le società borghesi più progredite di quella italiana - per esempio in America - il loro tipo di religiosità è una religiosità completamente alienante. Tutte queste forme di religiosità - per esempio gli hyppies- sono tutte di tipo repressivo e alienante. Ora il futuro immediato, anche in Italia è questo qui”.

 

Balducci: “Se il compito del Vangelo è quello di liberare completamente l'uomo, allora si tratterà di vedere via via quali sono le forme alienanti e l'importante è che la Chiesa non si allinei”.

 

Pasolini: Allora questa Chiesa dovrà essere radicalmente, massimalisticamente antiborghese.

 

Balducci: “Io direi che il momento liturgico dovrebbe essere - una volta realizzato al di fuori degli involucri sacrali che ancora lo inceppano - il momento della massima responsabilizzazione dell'uomo. Per noi la riflessione col mistero del Cristo è una riflessione che non può essere considerata per definizione alienante. Ma se noi crediamo che l'uomo abbia la possibilità, mediante la fede, di trascendere le forze storiche che lo dominano, allora il credente diventa non l'uomo che volta le spalle alla storia per rivolgersi a Dio, ma l'uomo che si pone in faccia alla storia in una situazione di responsabilizzazione massima, che poi viene data dalla parola profetica. In ogni modo tutte le forze che responsabilizzano l'uomo per noi sono forze evangeliche”.

 

Pasolini: "Anch'io penso che il Vangelo sia uno dei modi di responsabilizzazione autentica… Ma allora come ottenere questo? Perché ad un certo punto l'uomo potrà non essere più in grado di capirvi”.

 

Marsili: "L'uomo capisce sé stesso, l'uomo capirà sé stesso, capirà il proprio bisogno in quanto l'uomo cerca di superare sempre la situazione attuale”.

 

Pasolini: “È un' altra osservazione ottimistica, devo dire. Ma facciamo un' osservazione pessimistica: ad un certo punto l'uomo non sarà più in grado di capire sé stesso. Avrà una tale falsa idea di sé, che non sarà più in grado di capirsi.

 

Da quello che posso presupporre come uno che si interessa un po' di psicologia vedo davanti a me un tipo di società in cui sarà difficile fare un discorso religioso, cioè autentico, perché o sarà incapace di avvertire un discorso religioso perché occupato soltanto dalla soteriologia terrena perché semplicemente non ci sarà più teismo ma neppure antiteismo. E' logico che la società si configuri così... Oppure può darsi che le forme religiose future, che stanno crescendo come dice Paolo VI, siano però del tipo alienante che si diceva”.

 

 

Balducci: “Comunque la cosa paradossale è che il più religioso è stato Pasolini”.

Oggi è Domenica,

pei prati con freschi piedi

saltano i fanciulli

leggeri negli scarpetti.

 

Cantando al mio specchio,

cantando mi pettino.

Ride nel mio occhio

il Diavolo peccatore.

 

Suonate, mie campane,

cacciatelo indietro!

"Suoniamo, ma tu cosa guardi

cantando nei tuoi prati?"

 

Guardo il sole

di morte estati,

guardo la pioggia,

le foglie, i grilli.

 

Guardo il mio corpo

di quando ero fanciullo,

le tristi Domeniche,

il vivere perduto.

 

"Oggi ti vestono

la seta e l'amore,

oggi è Domenica,

 

domani si muore".


Teilhard de Chardin..ogni minima azione ricolma di Dio

"Caro amico, tu vuoi rivalorizzare il tuo lavoro umano che ti sembra svalutato dalle prospettive e dall'ascetica cristiane. Ebbene, hai solo da riversarvi la meravigliosa sostanza della buona volontà. Purifica la tua intenzione, e ogni minima azione sarà ricolma di Dio."

 

Teilhard de Chardin

Si vorrebbe insegnare a vedere Dio dappertutto: vederlo nel punto più segreto, più consistente, più definitivo del Mondo. Ciò che è racchiuso e proposto è dunque solo un atteggiamento pratico o forse in modo più preciso, un’educazione degli occhi …

 

Ognuno di noi ha come compito la divinizzazione dell’intero Universo.

 

P. Teilhard de Chardin

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A chi dispiega adeguatamente la vela al soffio della Terra, si rivela una corrente che lo costringe ad inoltrarsi sempre più in alto mare. Più le aspirazioni e le azioni d'un uomo sono nobili, più questi diventa avido di fini grandi e sublimi da conseguire. Ben presto non gli bastano più la sola famiglia, la sola patria, il solo aspetto remunerativo della sua azione. Avrà bisogno di creare delle organizzazioni generali, di aprire vie nuove, di sostenere delle Cause, di scoprire delle Verità, di nutrire e di difendere degli Ideali. – Così, gradualmente, l'operaio della Terra cessa di appartenere a se stesso. A poco a poco, il grande soffio dell'Universo, insinuatosi in lui attraverso la fessura d'un agire umile ma fedele, lo ha dilatato, sollevato, trascinato.

 

                                Teilhard de Chardin 

Il cristiano è ad un tempo l'uomo più dedito e distaccato che esiste. Convinto, più di un qualsiasi ‘mondano', del valore e dell'interesse insondabili nascosti nel benché minimo successo terreno, è nel contempo persuaso, alla pari di un qualsiasi anacoreta, della fondamentale nullità di ogni risultato inteso semplicemente come vantaggio individuale (anche universale) all'infuori di Dio. Egli cerca Dio e solo Dio, attraverso la realtà delle creature. Per lui, l'interesse è veramente nelle cose, ma in assoluto subordine alla presenza di Dio in esse. Per lui, la luce celeste diventa tangibile e raggiungibile nel cristallo degli esseri; ma desidera solo la luce; e se la luce si spegne perché l'oggetto è spostato, superato, oppure se ne va, anche la sostanza più preziosa non diventa che cenere ai suoi occhi. Così, ‘sin nel proprio intimo e negli sviluppi più personali che si procura, non cerca se stesso ma il più Grande di sé, al quale sa di essere destinato. Davvero, al proprio sguardo, non conta più; non esiste più; si è dimenticato e perso nello stesso sforzo del perfezionamento. Non è più l'atomo che vive, è l'Universo che vive in lui.

 

Teilhard de Chardin

Dio al centro dell’universo

 

Dio nostro,

tu sei al centro di tutto e tutto circondi:

tutto si curva al tuo passaggio:

gioie, progressi, dolori, fallimenti, errori,

opere, preghiere, bellezze,

potenze del cielo, della terra e degli inferi.

E tutto mette la propria energia

a servizio del tuo spazio divino

e da esso tutto è pervaso con potenza.

Tu non distruggi le cose e neppure le forzi:

le liberi, le orienti, le trasfiguri, le animi.

Non le abbandoni, ma ti appoggi su di loro,

e avanzi trascinando con te ciò che in loro è santo.

Donaci la purezza di cuore, la fede, la fedeltà,

perché con questi doni si costruisce la nuova terra,

e si vince il mondo in Gesù Cristo,

nostro Signore.

Amen

 

 

T. De Chardin

 

O sì, Signore la mia opera sarà salvata, a motivo d'una pretesa che Tu stesso hai posto al centro della mia volontà! Voglio, ho bisogno che lo sia. Lo voglio perché amo irresistibilmente ciò che il tuo ausilio permanente mi permette, ogni giorno, di realizzare. Questo pensiero, questo perfezionamento materiale, questa armonia, questa sfumatura particolare d'amore, questa squisita complessità d'un sorriso o d'uno sguardo, tutte queste bellezze nuove che appaiono per la prima volta, in me o attorno a me, sul volto umano della Terra, sono da me prediletti come figli, dei quali non posso credere che moriranno totalmente, nella loro carne. Se credessi che queste cose potrebbero appassire per sempre, avrei forse mai dato loro la vita? Mostra, o Signore, a tutti i tuoi fedeli come, in un senso reale e pieno, «le loro opere li seguono» nel tuo regno: opera sequuntur illos.

 

Oh! venga il tempo in cui gli Uomini, diventati coscienti dello stretto legame che associa tutti i movimenti di questo Mondo nell'unica opera dell'Incarnazione, non potranno più dedicarsi ad alcun compito senza illuminarlo con la prospettiva precisa che il loro lavoro, per quanto elementare sia, è raccolto e utilizzato da un Centro divino dell'Universo!

Il 10 aprile 1955, al tramonto di una radiosa domenica di Pasqua, moriva a New York padre Pierre Teilhard de Chardin. Aveva da poco redatto ll Cristico, per riaffermare un’ultima volta la visione di un universo convergente in Cristo-Omega e la fede in un Cristianesimo capace di rinnovare il suo straordinario potere di 'panamorizzazione', a beneficio dell’unità del mondo.  Alla fine della vita, che presentiva prossima, si era tuttavia reso conto della propria solitudine intellettuale, dell’impossibilità di trasmettere tutto ciò che aveva 'visto', tanto da «non poter citare un solo autore, un solo scritto» che condividesse la 'Diafania' per mezzo della quale il mondo gli appariva meravigliosamente trasfigurato. In una lettera indirizzata a padre Ravier due giorni prima di morire, affermava di essere dolorosamente sorpreso e deluso per aver constatato che i suoi più intimi amici «pensano e pregano ancora in un 'Cosmo' statico, anziché in 'Cosmogenesi'». Eppure fin da principio, quando assieme a loro studiava teologia ad Hastings, li aveva resi partecipi della sua visione, colta come in un lampo che illumina il cielo notturno: «La coscienza d’una Deriva profonda, ontologica, totale dell’Universo».  Esiste un’importante relazione di Teilhard de Chardin su L’Homme, devant les enseigne- ments de l’Église et devant la philosophie spritualiste (è del 1911, anno della sua ordinazione sacerdotale), che contrassegna quella repentina presa di coscienza: è un documento inspiegabilmente omesso dai curatori delle opere postume e leggibile soltanto in internet. Esso dimostra che le sue principali idee erano già presenti nella grande intuizione iniziale: non si trattò di un semplice cambiamento di opinione, quanto piuttosto di una radicale modifica del suo stato di coscienza, capace di inglobare in sé il corso dell’intera evoluzione e la grandezza cosmica del Cristo Risorto. Tale stato di coscienza rappresenta una dimensione interiore molto difficile da trasmettere a parole: esige invece, metaforicamente, che le foglie più esterne e recenti di ogni quercia diventino esse stesse consapevoli dei rami e del tronco che le sorreggono, delle radici che le alimentano e del Sole che dà loro energia... Jean Gebser ha definito «integrale » questo nuovo stato di coscienza, verso cui sta lentamente evolvendo l’uomo moderno. Dopo il 1955, gli scritti postumi di Teilhard (gli stessi che aveva redatto per i suoi molti amici, scienziati e religiosi) sono stati raccolti in tredici volumi. In Italia, sono apparsi nel corso di 36 anni, fra il 1968 e il 2004, in ordine non cronologico, alcuni non più in commercio. Queste brevi considerazioni sono più che sufficienti per affermare che, stando così le cose, non è affatto agevole cogliere l’intero pensiero teilhardiano. Quantunque certi aspetti spirituali e cristologici della sua visione siano stati recepiti dalla cultura cattolica, riteniamo che Teilhard de Chardin avvertirebbe anche oggi di sentirsi alquanto solo, per il nostro modo riduttivo d’intendere e interpretare l’evoluzione. Per Teilhard, l’evoluzione include tutti i fenomeni di trasformazione della materia a partire da un atomo primigenio (postulato nel 1927 dal sacerdote cattolico George Lemaître) sino all’unificazione dell’umanità nel Punto Omega. Benché sia noto che dopo il Big bang, in virtù di 'leggi' presenti ab origine nel fenomeno stesso (come ad esempio l’equivalenza energiamassa, espressa da Einstein nella famosa formula E=mc²) siano apparse, in successione, le particelle subatomiche, i protoni, i neutroni, l’idrogeno, l’elio e, più tardi, le prime stelle, in cui si sono formati gli elementi atomici sino al ferro, ecc., tuttavia i dibattiti sull’evoluzione si sviluppano quasi esclusivamente attorno alla materia organica, in modo slegato dall’evoluzione della materia inorganica.  Nessuno nega, naturalmente, che ogni evento evolutivo sia stato in qualche modo condizionato dai precedenti e abbia influito su quelli successivi, ma di fatto sembra che sussista un restringimento visivo, se non di 'coscienza del Tutto'. Peraltro la scienza moderna riconosce che la realtà non è fatta di 'cose', ma di 'relazioni', che il senso costruttivo dell’evoluzione, dal Big Bang in poi, è segnato da livelli crescenti di complessificazione, proprio come Teilhard aveva sostenuto, senza essere allora compreso, perché in anticipo di alcune decine d’anni rispetto alla 'teoria generale dei sistemi'. Egli infatti ha per primo rilevato che accanto al processo («in discesa») di disorganizzazione per Entropia, tutta l’evoluzione, inorganica e organica, è attraversata da un ostinato e faticoso processo di organizzazione («in salita») che «fa nascere, per 'corpuscolarizzazione' graduale dell’Energia cosmica, l’infinita varietà degli atomi, molecole, cellule viventi, ecc.» sino alla futura unificazione dell’umanità!  Senza dubbio l’evoluzione antropo-sociologica, come prolungamento dell’evoluzione fisico-chimica e biologica, rappresenta la parte più peculiare della visione di Teilhard, ma è anche quella meno considerata e approfondita. Il Passato evolutivo lo aveva soprattutto interessato per spingere lo sguardo verso l’avanti, in vista di una «superumanità» che potrebbe realizzarsi mediante la «simpatia interumana e le forze religiose». La previsione di un futuro così lontano ha probabilmente ridotto l’interesse degli studiosi per i moltissimi scritti che Teilhard ha dedicato al futuro dell’uomo, oppure sono sembrate irrealistiche certe drammatiche previsioni, come questa del 1931: «L’età delle nazioni è passata. Se non vogliamo perire, si tratta ora per noi di rigettare i vecchi pregiudizi e di costruire laTerra». A sessant’anni dalla scomparsa di Teilhard de Chardin, sembra opportuno dedicare molta più attenzione ai numerosi suoi scritti riguardanti la Noosfera, da lui profetizzata nel 1925. Il futuro dell’umanità non è affatto privi di rischi e, dunque, «la costruzione della Noosfera – come egli ha sottolineato – non potrebbe essere semplicemente istintiva e passiva. Ma aspetta da noi una collaborazione attiva e diretta, uno slancio vigoroso fatto di convinzione e di speranza».


Nel ricordo di Henri de Lubac, Teilhard appare come un grande religioso, un credente molto solido e un vero figlio della Chiesa Cattolica, entro la quale ha voluto infatti restare sino all'ultimo giorno della sua vita.

Non fu sempre in linea con l'insegnamento del magistero ma è stato sempre fedele ai dogmi, anche a quelli del peccato originale e dell'inferno. A proposito di quest'ultimo, ad esempio, ha trovato il modo di «spiegarlo» come una realtà che «per la sua stessa esistenza aggiunge al cosmo una gravita, un rilievo che, senza di esso non esisterebbero». Tutt'altro quindi che un semplicistico ottimismo di stampo naturalistico.

Come abbiamo sopra accennato, tutto il pensiero teilhardiano è dominato dalla tensione a un'unità cosmica e dalla preoccupazione di arrivare a Dio attraverso il mondo. Un mondo visto come ambiente divino (Le milieu divin è una sua opera fondamentale), dove quel fenomeno straordinario che è l'uomo (Le phénomène humain, altra grande opera) lavora per portare tutto verso il compimento che è il Cristo totale. Si tratta di una visione grandiosa e affascinante, retta, per dirla con Wildiers, sulla tensione dialettica tra il Senso cosmico e il Senso cristico; dove tutta l'evoluzione porta l'universo a convergere verso il punto Omega, cioè Cristo stesso.

I motivi delle perplessità da parte dei teologi sono legati essenzialmente ai criteri di verifica delle sue affermazioni. Che cosa può fondare la cristicità dell'universo e la convergenza a Cristo? Nel pensiero teilhardiano pare quasi che tali realtà siano in qualche modo insite e rintracciabili nella fenomenologia e confermabili con il procedimento scientifico: mentre è solo sul metodo della fede e non sulla fenomenologia né sul metodo sperimentale che può basarsi una verifica personale delle verità rivelate.

Anche la visione mistica, espressa particolarmente ne L'ambiente divino, si muove in una direzione differente da quella della grande tradizione mistica cristiana. In questa, la natura non è che una delle possibili manifestazioni dello spirito e questo è potenza creatrice incondizionata, in grado di fermentare qualsiasi sostanza in qualsiasi tempo.

In Teilhard invece sembra esserci una identificazione dello spirito col divenire delle forme che incontriamo nella storia evolutiva dell'universo; come pure la potenza spirituale della materia è un «fermento che trasforma la natura ma non potrebbe privarsi della materia che la natura le offre». C'è quindi il rischio di qualche equivoco e riaffiora, come dice Cappelletti, un possibile naturalismo: «purificato da scorie edonistiche ma tuttavia consistente, come ogni altro, nell'impostazione del divenire all'essere, del fenomeno all'idea, del contingente all'assoluto».

Al di là di puntualizzazioni come queste (e altre più specifiche se ne potrebbero fare), la figura di Teilhard de Chardin resta per tutti una grande testimonianza di cristiano in azione.

Negli anni '50 le sue posizioni, pur se in modo conflittuale, hanno avuto un ruolo importante per far decantare il pensiero cristiano e favorire, come egli auspicava, «l'abbattimento della barriera che, da quattro secoli, non aveva smesso di salire fra Ragione e Fede».

 

Oggi siamo in un contesto abbastanza diverso: dominato da un diffuso materialismo ma anche colpito dalla crisi ecologica e pervaso da una rinnovata attenzione per l'ambiente. Di fronte ad esso sta una cristianità minata dal tarlo della secolarizzazione e timida nel proporre tutta la positività del suo annuncio. La testimonianza di Teilhard può aiutare a disegnare un tipo d'uomo credente e totalmente presente nel suo tempo: non uno che « ama la terra per goderne» ma per « renderla più pura » ; non uno che «aderisce al mondo» ma uno che «pre-aderisce a Dio» e con ciò trionfa sul mondo; non uno che ritiene l'uomo capace di «divinizzarsi chiudendosi in sé», sulla scia del misticismo orientale, ma uno che vede il massimo della persona-lizzazione nella adesione a Cristo.

Jacques Maritain..rivivificare in Cristo

 

Tutto è canto e poesia...il cuore del suo pensiero

Jacques Maritain 

 

Nulla è perduto di ciò che è stato fatto, tutto è canto e poesia

 

Per l'uomo e per la vita umana non c'è in verità nulla di più grande dell'intuizione e dell'amore.“

 

Il religioso perfetto prega così bene che ignora di pregare.

 

Il Vangelo dell'amore di Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo. È per questo che l'uomo, l'uomo vivente, costituisce la prima e fondamentale via della Chiesa.

 

la Chiesa ha insegnato agli uomini ad essere liberi. Oggi forze cieche che da duecento anni le hanno dato l'assalto in nome della libertà e in nome della persona umana deificata, lasciano infine cadere la maschera. Ora si presentano per quello che sono. La loro sete e asservire l'uomo. I tempi attuali, per miserevoli che siano, hanno di che esaltare coloro che amano la Chiesa e amano la libertà. La situazione storica da essi affrontata è definitivamente chiara. Il grande dramma del nostro tempo è il confronto tra uomo e lo Stato totalitario, il quale non è altro che il vecchio e bugiardo dio dell'impero senza legge che esigeva per sé l'adorazione di tutte le cose, La causa della libertà e della Chiesa si incontrano nella difesa dell'uomo.

 

Il compito principale dell'educazione è soprattutto quello di formare l'uomo, o piuttosto di guidare lo sviluppo dinamico per mezzo del quale l'uomo forma se stesso ad essere un uomo. 

 

L'educazione dell'uomo è un risveglio umano.

 

 

 

 

Coloro che credono di non credere in Dio, in realtà poi credono inconsciamente in Lui, perché il Dio di cui negano l'esistenza non è Dio, ma qualcos'altro.


MESSAGGERI DI DIO SULLE VIE DEL MONDO

I coniugi Jacques e Raïssa Maritain

 

(dal bimestrale di Teologia e di Pastorale eucaristica “La Nuova Alleanza”, gennaio-febbraio 2012)

Jacques Maritain nacque a Parigi il 18 novembre 1882 da una famiglia protestante. Il padre Paul era

avvocato, la madre Geneviève era figlia di Jules Favre, deputato repubblicano, tenace oppositore di Luigi

Napoleone. Jacques frequentò il liceo con vivace intelligenza. Ben presto comprese la necessità di una

educazione capace di mettere a contatto l’intelligenza con il reale mediante la bellezza. Alla Sorbona si

laureò in filosofia e poi in scienze naturali.

In questo periodo conobbe Raïssa Oumancoff, nata a Rostov sul Don in Ucraina nel 1883. La sua

famiglia, dopo alcuni mesi di peripezie, si trasferì nella grande Parigi cosmopolita della fine secolo.

L’ambientamento nella nuova realtà si presentò subito difficile; tuttavia, nonostante i disagi iniziali, Raïssa,

ancora preadolescente, rivelò a scuola una notevole lucidità intellettuale affermandosi rapidamente per le sue

doti singolari e la decisa propensione allo studio. Conobbe ben presto la poesia e la filosofia. L’esperienza di

Parigi significò anche il distacco dal caldo mondo dell’ebraismo ortodosso, praticato soprattutto dagli anziani

della famiglia.

Si aprì una fase di relativismo e di oscurità sul problema di Dio, che caratterizzò la sua esistenza fino

al momento della progressiva conversione alla fede cattolica. Dopo aver conosciuto Jacques, con lui

condivise la crisi intellettuale dovuta alla insoddisfazione dei corsi universitari che, impregnati di scientismo,

irridevano al bisogno dei giovani di trovare la verità. Raïssa, di famiglia ebrea, e Jacques, di famiglia

protestante, a vent’anni diventarono atei e anarchici. Raïssa ai corsi di scienze della Sorbona, frequentava i

giovani anarchici russi, emigrati a Parigi. Così ricordava quegli anni:

“Riflettendo sul male e sul dolore, mi domandai come un Dio onnipotente e buono potesse

permetterne l’esistenza e, abbandonata alle mie sole forze, ho risolto il problema cessando di

credere. La vita mi apparve allora assolutamente vuota e triste ma, persuasa che essa avesse

un senso, non cessai di cercarlo… Piuttosto giovane, credevo a ciò che si diceva intorno a me:

che l’ignoranza, il fanatismo stessero dalla parte della religione, che la ragione stesse dalla

parte della scienza”.

La disperazione era in agguato. Raïssa intuiva, comunque, che senza la verità su Dio, su se stessi e

sul mondo, la vita era assurda. I due giovani, fortemente insoddisfatti, giunsero persino a pensare all’ipotesi

del suicidio; ma dopo aver riflettuto, decisero di dare ancora credito alla vita, nella speranza di poter

approdare alla verità. Si sposarono in Municipio. Il loro incontro divenne un programma di vita. Scrisse

Raïssa:

“Bisognava ripensare insieme l’universo intero, il senso della vita, la sorte degli uomini, la

giustizia e l’ingiustizia della società. Bisognava leggere i poeti ed i romanzieri

contemporanei, frequentare i concerti e visitare i musei… Il tempo passava in fretta, non

potevamo sprecarlo nelle banalità della vita”.

Jacques così descrisse quegli anni di studi universitari:

“La filosofia scientista e positivista dei miei maestri della Sorbona aveva finito per farmi

disperare della ragione. Per un momento avevo creduto di poter trovare la certezza integrale

nelle scienze. Molti pensavano che la mia fidanzata e io saremmo divenuti i discepoli del

materialismo. La cosa più bella per la quale devo ringraziare i miei studi di quell’epoca è

di avermi fatto incontrare, alla Facoltà di Scienza, quella che da allora ho avuto la fortuna di

avere accanto a me in tutti i miei lavori, in una perfetta e benedetta comunione”.

La prima conversione

Fu Charles Peguy a salvare i due giovani, portandoli ad ascoltare le lezioni di Henri Bergson sulla

mistica di Plotino. I Maritain non avevano in mente con chiarezza cosa andavano a cercare. Scrisse Jacques:

“Questa verità, ardentemente cercata, invincibilmente creduta, era ancora per noi una specie

di Dio sconosciuto; le riservavamo un altare nel nostro cuore, le riconoscevamo ogni diritto

su di noi, sulla nostra vita. Ma non sapevamo ciò che essa sarebbe stata, per quale via, con

quali mezzi poteva essere raggiunta”.

E’ allora che due giovani ricevettero risposta alla loro inquietudine intellettuale, apprendendo che è

possibile, per mezzo dell’intuizione, conoscere l’Assoluto, avere certezze sul senso della vita. Ma non era

ancora la fede. Dopo aver letto il romanzo “La donna povera” di Lèon Bloy, i due fecero amicizia con il

vecchio scrittore, il quale, con la sua testimonianza di un cattolicesimo radicale, li portò a credere in Cristo e

nella sua Chiesa.

Bloy scrisse a Raïssa:

“Ora voglio tentare di rispondere alla parte più grave della vostra lettera, dove dite “Io non

sono cristiana, non so che cosa cercare e mi lamento”. Perché continuate a cercare, amica

mia, poiché avete già trovato? Come potreste amare ciò che scrivo, se non pensaste, se non

sentiste come me? Voi non solo siete cristiana, Raïssa, siete cristiana ardente, figlia

amatissima del Padre” (25 agosto 1905).

I Maritain decisero di chiedere il sacramento del battesimo (l’11 giugno 1906) solo dopo aver

rinunciato all’idea di trovare la verità e la felicità intellettuale nella filosofia proposta all’epoca. Grazie alla

lettura dei mistici, compresero che ciò che si sa di Dio è nulla rispetto a ciò che non si conosce di Lui. E’ la

via della teologia apofatica, la teologia del “silenzio”.

La loro conversione ebbe anche una connotazione mariana. Bloy, infatti, li iniziò alla devozione a

Notre Dame de La Salette, convinto della realtà dell’apparizione di Maria nel 1846. Durante il viaggio a

Grenoble per ricevere la cresima, i Maritain salirono in pellegrinaggio al santuario dove si fermarono per

dieci giorni. La sede di verità dei Maritain venne saziata non dallo studio, ma dall’amore per la verità che

dona la saggezza, l’amore perfetto che dona la libertà perfetta. Per i Maritain, il momento del battesimo,

avvio della vita cristiana, ha significato “iniziare a realizzare la loro vocazione alla santità”.

Raïssa scrisse sul suo diario circa la conversione:

“Ogni convertito sperimenta la caduta di Paolo sulla via di Damasco. Il convertito si separa

dal mondo con un duro colpo che gli strappa il legame con se stesso e con gli altri. In un

istante, nel momento di grazia, tutti i valori si inclinano verso di Lui”.

Questa testimonianza evidenzia psicologicamente l’ansia soggettiva di verità che animava i due

giovani: “Vi era in noi questa idea invincibile della verità, questa porta aperta sul cammino della vita”.

La seconda conversione

Nella vita dei due ci fu poi una seconda conversione, importante come e più della prima. Entrambi

laureati in scienze biologiche alla Sorbona, grazie a Bergson si erano già allontanati dallo scientismo

materialistico. Il domenicano H. Clérissac propose a Raïssa di leggere san Tommaso all’inizio del 1909. Così

ne scrisse lei stessa:

“Fu tremando di curiosità e timore che aprii per la prima volta la Summa Theologica. La

scolastica non era, secondo la reputazione corrente, un sepolcro di sottigliezze cadute in

polvere?... Dalle prime pagine compresi la vanità e la puerilità delle mie apprensioni. Tutto

qui era libertà dello spirito, purezza della fede, integrità dell’intelletto illuminato di scienza e

di genio… pregare, comprendere mi erano sola e stessa cosa, l’uno dava sete all’altro e mi

sentivo sempre dissetata”.

Così, l’avventura intellettuale di Raïssa ebbe una svolta decisiva dopo la lettura della Summa

Theologica di san Tommaso. Fu per lei una liberazione, un’inondazione di luce, la scoperta della sua patria.

Qui intuì che

“stabilire la ragione sulla fede… non era indebolirla, ma fortificarla, non asservirla ma

liberarla, non snaturarla ma ricondurla alla purezza della propria natura; come illuminare

colui che avanza a tentoni e che cammina nelle tenebre non è condurlo fuori della propria

strada, ma fargli vedere la via dove si propone di camminare”.

Raïssa si convinse dunque che “una sola forza può ancora opporsi alla follia generale:

l’intelligenza illuminata dalla fede”. Soltanto questa intelligenza - era il suo convincimento - sarebbe stata in

grado di preservare l’umanità dal nichilismo, dallo scetticismo e dall’idolatria, insomma dalle “forze

mostruose” che trascinano il mondo.

Da allora, i due Maritain (insieme a Vera, sorella di Raïssa: una comunanza di vita e di pensiero che

durerà tutta la vita) si impegnarono non solo a diffondere la filosofia di san Tommaso, ma di approfondirla in

tutti i campi del sapere: dalla teologia alla politica, dalla pedagogia al diritto. La conversione al cattolicesimo

condusse Raïssa e il marito Jacques su strade nuove, ricche di scoperte, di esperienze e di impegni, percorse

insieme. L’ispirazione di fondo delle loro scelte era chiara:

“Dobbiamo essere come religiosi di un ordine speciale, la cui regola contempla la vita nel

mondo. Bisogna, per così dire, ingannare il mondo, avendo l’aria di condurre la vita del

mondo. Dobbiamo seguire la via della contemplazione nel mondo”.

Jacques e Raïssa: un comune laboratorio di vita e di fede

Il cammino di fede e lo stile di vita dei due Maritain è ben sintetizzato in un passo del testo famoso

di Jacques, “Umanesimo integrale”:

“Io non agisco in quanto cristiano, ma devo agire da cristiano, impegnando solo me, non

la Chiesa, ma impegnandomi tutto intero, e non amputato o disanimato – impegnando solo me

stesso che sono cristiano, che sono nel mondo e lavoro nel mondo senza essere del mondo, che

per la mia fede, il mio battesimo e la mia cresima, e per piccolo che sia, ho la vocazione di

infondere nel mondo, là dove io sono, una linfa cristiana”.

La linfa che i due Maritain infusero nella realtà può essere evidenziata in alcune tematiche specifiche

della loro esistenza.

a) Fede e cultura

Jacques e Raïssa ebbero un pensiero comune, però tradotto con due diversi linguaggi. Nel rispetto

delle tappe del cammino verso Dio di ciascuna persona, entrambi gli sposi avevano un sentimento forte della

sacralità e del primato della coscienza, che li spingeva oltre le barriere e li avvicinava alla sensibilità

contemporanea.

“In un certo senso Raïssa ha detto tutto nelle sue poesie”, scriveva ad esempio Jacques della moglie,

e lei di lui: “Egli ha creato una filosofia politica, la sola fatta per lottare contro quella di Machiavelli,

universalmente seguita sino al presente dagli uomini di Stato”.

Jacques era consapevole di essere rispettato e supportato da Raïssa, nel suo lavoro, tanto che così

scriveva nel presentare il “Diario” di Raïssa, pubblicato postumo nel 1963:

“Al di sopra di tutto c’era una sollecitudine nei riguardi del mio lavoro filosofico. Nonostante

tutte le pene morali e fisiche e, in alcuni momenti, una quasi completa mancanza di forze, è

riuscita con uno scatto di volontà. E perché la collaborazione che le ho sempre domandato

era per lei un dovere sacro, è possibile rileggere sul manoscritto tutto quello che ho

pubblicato”.

b) Castità e libertà

Dopo sei anni di matrimonio, nel 1912 i due giovani sposi maturarono la decisione di pronunciare un

voto di castità. Questo voto, sconosciuto anche agli amici più intimi, fu la radice nascosta di tutte le attività

culturali, politiche e spirituali che promossero in seguito, ma non una rinuncia. Jacques scrisse:

“Non dico che sia stata una decisione facile da prendere. Essa non comportava nemmeno

l’ombra di un disprezzo per la natura, ma nella nostra corsa verso l’Assoluto e nel nostro

desiderio di seguire a qualunque costo, pur restando nel mondo, almeno uno dei consigli della

vita perfetta, noi volevamo fare spazio per la ricerca della contemplazione e dell’unione con

Dio e vendere per questa perla preziosa beni in loro stessi eccellenti. La speranza di un tale

scopo ci dava le ali.

Noi presentivamo anche, ed è stata una delle grandi grazie della nostra vita, che la forza

e la profondità del nostro mutuo amore sarebbero state accresciute come all’infinito”.

Jacques e Raïssa hanno tenuto fede ad un cammino che si arricchiva col trascorrere del tempo, mutando man

mano le modalità della comunicazione interpersonale, fino a sentire di comune accordo che la loro unità

poteva reggere e continuare a crescere al di là del contatto fisico.

c) Fiducia e stima reciproca

Tutto è stato fatto insieme dai due Maritain, perché insieme sono stati convinti di quando andavano

facendo e vivendo: anzitutto, nella ricerca della verità, e, poi, nella lotta al male. La personalità di Jacques si

andava stagliando all’esterno come la manifestazione filosofica splendidamente visibile di quello stesso

pensiero di cui Raïssa era la radice e l’anima. Non c’era tra loro alcun sentimento di gelosia, di

rivendicazione di titolarità delle opere. Da questa consapevolezza di vivere in un comune laboratorio di

ricerca, scaturiva l’apprezzamento di ciascuno per il lavoro dell’altro.

Grazie a Raïssa, Jacques poté formulare una insolita - per l’epoca - stima del genere femminile, che

era come un’estensione di quella che Jacques provava per Raïssa. Di lei, ad esempio, scrisse: “Raïssa è

sempre vissuta per la verità, non ha mai resistito alla verità. Il suo spirito non ha mai fatto una grinza”. E

lei di lui: “La sua tenerezza per me è scioccante, la sua sollecitudine è senza limiti”.

d) Contemplazione e azione

Raïssa e Jacques hanno camminato radicalmente verso la santità, vissuta attraverso la ricerca della

verità, l’amore coniugale, la contemplazione dell’Assoluto. Bisogna leggere le poesie di Raïssa per poter

entrare nell’intimità di questa avventura meravigliosa, dove lei ha saputo raccordare esperienza mistica ed

esperienza poetica, religione e cultura.

Osservando il loro impegno di animazione della realtà temporale, di primo acchito non ci si

immagina di avere a che fare con due persone votate alla mistica. E proprio a proposito della contemplazione

e dell’accessibilità della vita di preghiera, sarebbe interessante approfondire quel breve lavoro a quattro mani

di Jacques e Raïssa che è “Liturgia e contemplazione” (Borla, 1960).

La stessa scelta del filosofo di ritirarsi presso i Piccoli Fratelli di Gesù a Tolosa, dopo la morte della moglie,

è indice di quanto grande fosse la tensione verso la vita contemplativa. Azione e contemplazione si nutrivano

della speranza cristiana.

Pieno di speranza è stato l’ultimo messaggio di Jacques:

“Verrà un giorno in cui questa grande patria, che è il mondo, ritroverà in buona parte, in

mezzo a mali anch’essi nuovi, secondo la legge della storia del mondo, il fine vero per cui è

stata creata; un giorno in cui una nuova civiltà darà agli uomini, non certo la felicità perfetta,

ma un ordinamento più degno di loro e li renderà più felici sulla terra. Poiché io penso che la

meravigliosa pazienza di Dio non sia ancora esaurita, e che il giudizio finale non avverrà

domani”.

 

Luigi Guglielmoni - Fausto Negri

Jacques Maritain e la sete di verità

 

 

«In fondo tutta l'opera di Maritain è direttamente o indirettamente una rivendicazione a favore della filosofia, una lunga e appassionata apologia della filosofia, e di colpo anche una probante “dimostrazione di filosofia”, che liberamente si afferma per il semplice fatto di vivere e di esistere nella sua opera» Così scrive Vittorio Possenti filosofo dell’Università Cà Foscari nel 1976 sulla Rivista Vita e Pensiero a proposito di Jacques Maritain (Jacques Maritain o la difesa della filosofia: «Approches sans entraves»). E davvero tra le righe dei 60 (e più) libri pubblicati, così come dietro il suo pensiero filosofico, nelle fratture che hanno determinato le sue numerose “conversioni”, possiamo leggere la storia della sua vita.

 

Jacques Maritain nasce a Parigi nel 1882, in una famiglia protestante, figlio di un avvocato, Paul Maritain e di Geneviève Favre (figlia del politico Jules Favre). Dopo aver frequentato il liceo Henri-IV, inizia a studiare alla Sorbona dove si laurea dapprima in filosofia e poi in scienze naturali. Qui, tra i corridoi dell’Università, incontra Raïssa Oumançoff, immigrata russa di origine ebraica, che diventerà sua moglie. Nel romanzo autobiografico I grandi amici Raissa ricorda il loro primo incontro: «Divenimmo presto inseparabili. [..] Non esisteva niente al difuori di ciò che dovevamo dirci: bisognava ripensare insieme l’universo intero, il senso della vita, la sorte degli uomini, la giustizia e l’ingiustizia delle società. Bisognava leggere i poeti e i romanzieri contemporanei, frequentare i concerti classici, visitare musei di pittura… il tempo passava troppo in fretta e non potevamo sprecarlo nelle banalità della vita. Per la prima volta potevo veramente parlare di me, uscire dalle mie riflessioni silenziose per comunicarle, dire i miei tormenti. Per la prima volta incontravo qualcuno che mi ispirava di colpo una confidenza assoluta; qualcuno che, lo sapevo già da allora, non mi avrebbe mai delusa; qualcuno con cui, su tutte le cose, potevo così ben armonizzare. Un altro Qualcuno aveva prestabilito fra noi, malgrado così grandi differenze di temperamento e di origine, una sovrana armonia».

 

Inizia così un profondo sodalizio spirituale e intellettuale tra i due, un’avventura di amore e conoscenza mossa da una comune sete di verità che non riesce a trovare risposta nelle lezioni dei docenti della Sorbona imbevuti di relativismo e scetticismo: «Avevamo appena esaminato ciò che ci avevano portato due o tre anni di studio alla Sorbona; senza dubbio un bagaglio abbastanza importante di conoscenze particolari scientifiche e filosofiche, ma quelle conoscenze erano minate alla loro base dal relativismo degli scienziati, dallo scetticismo dei filosofi. Noi non appartenevamo affatto, con i nostri scarsi vent’anni, al gruppo dei seguaci dello scetticismo, che lanciano il loro “che ne so io?” come il fumo di una sigaretta e trovano d’altra parte la vita eccellente. Eravamo, con tutta la nostra generazione, le loro vittime. […] Quest’angoscia metafisica che penetra alle sorgenti stesse del desiderio di vivere, è capace di divenire una disperazione totale e di sfociare nel suicidio. […] È un’angoscia di questa specie che ho vissuto allora; ma essa fu guarita, che mi è difficile, dopo tanta dolcezza e felicità, risentirla nuovamente in tutta la sua amarezza. Senza dubbio altre angosce sono venute, altri dolori, spesso immensi; ma quell’angoscia lì non l’ho più conosciuta. Tuttavia non l’ho dimenticata: non si dimenticano le porte della morte. […]»

 

Sarà Henri Bergson a strappare Raissa e Jacques dalle angosce del dubbio e della disperazione che li aveva portati alle soglie del suicidio. Bergson in quegli anni (siamo nel 1901-1902) insegna filosofia al Collège de France, nell’edificio a fronte della Sorbona. Un giorno l’amico Charles de Péguy decise di portarli ad ascoltare le sue affollatissime lezioni. I due ne rimasero affascinati. Come scrive Piero Viotto, che fu docente di pedagogia dell’Università Cattolica e uno dei massimi studiosi del filosofo francese, «Bergson, spiegando Platino, fornì loro la chiave per comprendere la possibilità di conoscere la verità, di sperimentare la libertà e di contemplare l'Assoluto» (Bergson secondo Raissa Maritain in Vita e Pensiero 1997-10). Tuttavia, benché affascinati dagli aspetti metafisici dalla ricerca psicologica di Bergson, Jacques Maritain e Raissa divennero ben presto consapevoli della debole fondazione filosofica del pensiero bergsoniano e cominciarono a preoccuparsi dalle conseguenze che i suoi discepoli traevano dalle sue dottrine.

 

Nel 1904, dopo due anni di fidanzamento decidono di sposarsi, mentre Jacques sta ancora completando gli studi. Di lì a poco la loro vita subirà una nuova svolta. Il 25 giugno 1905, i coniugi Maritain salgono le scalinate che portano alla Basilica del Sacré-Coeur di Parigi alla ricerca di «uno strano “mendicante” che, disprezzando qualsiasi filosofia, vociferava sopra i tetti la verità divina». Quel “mendicante ingrato” era lo scrittore Léon Bloy. Da quell'incontro «cominciò il loro cammino verso il Battesimo, e iniziò pel futuro filosofo lo studio della Verità cristiana di cui egli è nel nostro tempo uno dei più alti, autorevoli, ascoltati assertori» (Francesco Casnati, Bloy, Maritain e l'umanesimo integrale in Vita e Pensiero 1968 - 2).

 

Durante la lunga convalescenza di Raissa per un ascesso retrofaringeo, il domenicano Humbert Clérissac, consigliere spirituale dei Maritain, la invita a leggere la Summa Theologica di San Tommaso d'Aquino. L’entusiasmo nella lettura contagia il marito, che vede in San Tommaso la conferma di molte sue idee. I due «comprendono che si può giungere all'Assoluto non solo con la fede ma anche con l'intelletto e l'uso corretto della ragione». Scrive Maritain: «Fu dopo la conversione al cattolicesimo che conobbi S. Tommaso; io, che ero passato con tanto entusiasmo attraverso tutte le dottrine dei filosofi moderni e non vi avevo trovato che delusione e grandiose incertezze, provai allora come un'illuminazione della ragione; la mia vocazione filosofica mi veniva restituita in tutta la sua pienezza».

 

La scoperta della filosofia di San Tommaso mette in crisi la fedeltà a Bergson ma non cancella l’influenza profonda del primo maestro di spiritualismo. Il tomismo, secondo Maritain, è una filosofia progressiva, capace di inglobare nel suo cammino tutte le verità che implicitamente sono presenti nei diversi sistemi filosofici, che si succedono nella storia della cultura e della società. È ciò che emerge dalla raccolta antologica Ragione e ragioni, una serie di testi che coprono tutto l'arco della ricerca filosofica maritatiana, dalla metafisica alla morale, dall'estetica alla politica, dalla teologia alla filosofia della storia. Lo stesso Jacques nel saggio Da Bergson a Tommaso d'Aquino, riconoscendo i rapporti tra le due filosofie, scrive: «Non dico queste cose con non so quale ridicola pretesa di annettere Bergson al tomismo, ma perché egli stesso pensava che io non avevo avuto torto di dire che la sua filosofia conteneva alcune virtualità non ancora sviluppate; e perché è accaduto che, alla fine, ci siamo ritrovati in un certo modo tutti e due nel mezzo della strada, ciascuno avendo camminato senza accorgersene in maniera di avvicinarsi all'altro: lui, verso coloro che, soli, rappresentano, senza tradirla, la fede a cui io appartengo; io, verso la comprensione un po' meno insufficiente dell'umano lavoro di coloro che cercano senza avere ancora trovato». In Theonas. dialoghi tra un sapiente e due filosofi su argomenti di diversa attualità, un volumetto scritto in forma di dialogo, Maritain chiarisce la differenza rappresentata dal pensiero di San Tommaso: «il tomismo non rifiuta gli apporti della filosofia contemporanea, ma vuole garantire l'autenticità del discorso filosofico che si differenzia dalla metodologia delle scienze matematiche e delle scienze sociali, perché si muove a livello della intelligibilità dell'essere ed ha per oggetto non la misura di ciò che cambia, ma la contemplazione di ciò che permane».

 

«Deciso di fare della filosofia di Aristotele e di San Tommaso il centro del suo insegnamento», nel 1912 Jacques Maritain inizia la propria attività di docente, prima al Collegio Stanislao, poi all'Istituto cattolico di Parigi e al piccolo seminario di Versailles. Dal 1922 al 1939 la casa dei Maritain a Meudon diventa luogo di incontri culturali di filosofi, teologi, scrittori, poeti. Tra gli altri anche il filosofo e giornalista Étienne Borne che, in un’intervista pubblicata nel 1982 su Vita e Pensiero, ricorda così quelle domeniche di studio attorno ad un tema: «Meudon era un'altura dello spirito e un punto di incontri spesso insoliti, dove a volte si annodavano, per gli uni o per gli altri, i fili dei loro destini. […] Non era una torre d'avorio. Ci si teneva in ascolto dei problemi del mondo a una svolta decisiva del nostro secolo: la grande depressione che sembrava suonate a morto per il sistema capitalistico, l'ascesa dei fascismi e del nazismo, la condanna dell'«Action française» e, più in generale, la scoperta da parte della Chiesa del pericolo rappresentato da tutte le forme del paganesimo politico, il consolidamento all'Est, nel silenzio e nel mistero, del sistema comunista. Di fronte al fallimento e al declino delle idee o dei regimi tradizionali, e in primo luogo di quelle e di quelli che si credevano-liberali e progressisti, si trattava di creare degli strumenti intellettuali che permettessero di pensare la crisi nelle sue molteplici dimensioni e di aprire, malgrado gli avvenimenti apocalittici di cui si avvertiva l'approssimarsi, una breccia alla speranza». Nel 1936 Maritain pubblicherà la sua opera più famosa, Umanesimo integrale, il frutto più maturo di questo periodo di grande fermento intellettuale, che susciterà immediate polemiche ma che sarà poi il fondamento su cui si reggerà l'impianto del Concilio Vaticano II: gli importanti insegnamenti sulla Chiesa e il mondo, l’apostolato dei laici e la libertà religiosa recano indiscutibilmente il segno dell’umanesimo integrale di Maritain. Il discorso qui iniziato, la possibilità di una società liberale e democratica, cristianamente ispirata, proseguirà in Cristianesimo e democrazia. Nella prefazione all’edizione italiana del 1977, l’allora rettore dell’Università Cattolica, Giuseppe Lazzati scrive: «È a questa volontà di “pensare la politica” prima di “fare politica” che si offre questo saggio».

 

Tra il 1935 e il 1937 Jacques Maritain prende posizione contro l’invasione dell’Etiopia, il bombardamento di Guernica, la guerra di Spagna. A causa del nazismo i Maritain si trasferiscono negli Stati Uniti (1940-44) e a New York Jacques insegna nelle università di Princeton e della Columbia, tenendo conferenze in numerose città americane. Nel 1953 Jacques Maritain si ritrova al centro di una polemica dopo la pubblicazione dell’edizione italiana di L’uomo e lo Stato, in cui, diversamente dalle opere precedenti, insiste su un concetto più laico di democrazia come razionalizzazione etica della vita sociale. Le critiche, rivolte in particolare da padre Messineo su «La Civiltà Cattolica» erano forse attese, come si evince dalle lettere scambiate con il filosofo, che se in un primo momento chiede addirittura di bloccare la traduzione, poi vuole assicurarsi che esca. A proposito Guido Aceti risponde in un articolo del 1954 sulla rivista Vita e Pensiero: «non crediamo che compito del pensatore cattolico sia quello di una ripetizione di tesi note, bensì quello di rimeditare e completare queste tesi con la vivacità di una riflessione che se da un lato guarda alla perennità della tradizione, dall’altro non ha meno vivo il senso della presente contingenza storica» (L’uomo e lo Stato in Vita e Pensiero, 1954 - 4; Vita e Pensiero. Cento anni di editoria. Catalogo Storico 1918-2017). Oggi L’uomo e lo stato è considerato il suo capolavoro di filosofia politica, e, secondo il filosofo Paolo Nepi, «L'opera più organica e sistematica» dal punto di vista della riflessione politica maritainiana (La lezione di Maritain, in Vita e Pensiero 1980 - 9).

 

Nel 1956 esce I grandi amici di Raissa Maritain, felice biografia in cui compaiono i maestri dei due coniugi, da Bergson a Péguy, da Bloy a Georges Rouault (sulla corrispondenza tra Maritain e Rouault vedi anche il saggio di Giovanni Botta Jacques Maritain e Georges Rouault. Una corrispondenza tra estetica e poetica pubblicato nel 2016). Poco dopo, nel 1960, Raissa muore e Jacques decide di ritirarsi a Tolosa presso la Comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, dove rimarrà fino alla morte nel 1973.

 

Perché rileggerlo oggi? Forse la risposta migliore possono darla le parole della lettera che Papa Giovanni Paolo II nel 1982 ha indirizzato a Giuseppe Lazzati in occasione del Convegno Internazionale in onore del filosofo francese pubblicata sulla rivista Vita e Pensiero: Jacques Maritain, senza farsi illusioni sulle difficoltà del compito e su quanto fosse ancora lunga la strada da percorrere, era convinto del fatto che, se l'Umanesimo dell'Incarnazione deve ispirare il processo di civilizzazione, questo richiede necessariamente grande eroismo e coraggiose iniziative da parte dei cristiani. Molti degli aspetti di questo pensiero che anticipava i tempi divennero più tardi di dominio comune, quali la partecipazione attiva di tutti alla vita socio-politica; il senso acuto della giustizia in un mondo di vergognose sperequazioni; la solidarietà con i poveri, con gli emarginati, con i piccoli di questo mondo; reintegrazione delle masse. Egli era l'uomo del dialogo. Senza compromessi quando la verità era in causa, non fu mai partigiano nella difesa delle proprie idee, specialmente se esse erano opinabili. In questo senso, egli ha lanciato una sfida che merita di essere accolta da chiunque intenda essere leale servitore di una verità che non è sua, perché lo trascende. Verità da scoprire in una ricerca che è, al tempo, stesso, impegno di indagine seria dal punto di vista scientifico, e apertura al superiore apporto della rivelazione, davanti alla quale ci si deve porre in atteggiamento di fede e di amore. In ciò Maritain è stato veramente un maestro. Anche per questo il suo pensiero s'accorda esemplarmente col grande progetto del Magistero della Chiesa per l'era contemporanea: Tutto rivificare e rinnovare in Cristo, avvicinando la fede alla cultura e la cultura alla fede.

 

 

(a cura di Erica Crespi)


Raissa Maritain..contemplare l'Assoluto

Se la tua anima, o Poeta, non vive d’entusiasmo e d’amore,

di passione, di pietà, di comprensione,

nulla mi dànno le acrobazie delle tue abilità,

 

delle tue scaltrezze.

Dolcezza del mondo

 

Dolcezza del mondo! Fin dove sale e scende nel mio cuore la

tua musica! TI tuo incanto si dà per l'eternità.

Un'ora nel cuore della tua bellezza, un'ora terrestre e reale, -

beatitudine senza ricordo, presente senza futuro, nel tuo amore

impersonale.

Magie della primavera, giardino perenne delle delizie, il cielo è

limpido e terso, una luce dolce sembra discendere dal paradiso.

Rami fioriti delle acacie, degli aranci, dei roseti, dei lillà, -

profusione di piante, fecondità miracolosa del bosco.

Contempla il Bosco e l'Albero della Croce, che reca il suo

Fiore e il suo Frutto eterno!

Più dell'albero è fecondo il cuore, fa maturare il suo frutto nel

silenzio; grappolo sanguinante destinato al torchio.

Vascello fragile e di carne, universo segreto ed aperto, dove la

dolcezza del mondo affluisce con il sangue.

O soavità, pienezza, gioia! quali parole, quali grida vi potrebbero

esprimere?

Voi non parlate che coi battiti segreti di questo cuore che solo

gli angeli della musica possono decifrare e ripetere.

TI mio fervore ha percorso la terra e il cielo, ho creduto di

possedere tutto in quei momenti eterni.

Istanti felici, ora privilegiata che ha racchiuso in sé tutto l'amore

 

diffuso nel mondo.

Tu sei la Verità

- Tu sei la Sincerità,

Ma ogni uomo è bugiardo.

Ecco che tutto ciò che è in me

Il bene e il male, la menzogna e l'errore,

Ciò che so e ciò che ignoro,

Ti prega e ti scongiura e grida verso di Te!

Se cerco di conoscermi mi perdo nei miei pensieri

Tu solo conosci il nome vero del mio essere.

E se sia degno di odio o d'amore.

Che la tua pietà ci salvi con la grazia,

Tu che operi in noi il volere e l'agire

E che potresti di una pietra

Fare un figlio d'Abramo

Purifica, illumina la mia anima

E fa che sfugga alla potenza del nulla.

 

 

R. Maritain

La gloria di Dio

 

Il riposo è in  te - Te  che sei l'ineffabile

In te l'inconoscenza assorbe la pienezza

Battito invisibile  ̶  sonno vivo

Nel cielo della tua notte domina la certezza

Sostanza impenetrabile  ̶  Deità

Al nostro amore voi siete accessibile

 

Fedele Trinità

Le tre conversioni di Raissa

 

Il 4 novembre 1960 muore a Parigi un’ebrea russa, Raïssa Oumançoff, i cui libri sono tradotti anche a Tokyo; più conosciuta come moglie di Jacques Maritain, il filosofo con cui ha condiviso un’avventura spirituale, culturale e politica fin dalla giovinezza. Come ha scritto il loro biografo, Jean-Luc Barrè, la vita culturale del secolo ventesimo non ha fatto perno sulla coppia esistenzialista Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir, ma proprio sulla coppia Maritain, che prima a Parigi, poi a New York, animava incontri culturali con filosofi come Berdiaeff, Gilson, Edith Stein, artisti come Rouault, Chagall, Severini, musicisti come Auric e Lourié; romanzieri come Bernanos, Claudel, Julien Green, Caroline Gordon, Flannery O’Connor, poeti come Cocteau, Reverdy, Max Jacob. Leggendo i suoi scritti autobiografici – I grandi amici e Diario –, possiamo seguirla in questa avventura.

 

Raïssa, di famiglia ebrea, e Jacques, di famiglia protestante, sui vent’anni diventano atei e anarchici, frequentano le università popolari, si sposano in municipio. Raïssa ricorda: «Riflettendo sul male e sul dolore, mi domandai come un Dio onnipotente e buono potesse permetterne l’esistenza e, abbandonata alle mie sole forze, ho risolto il problema cessando di credere. La vita mi apparve allora assolutamente vuota e triste, ma persuasa che essa avesse un senso non cessai di cercarlo… Piuttosto giovane, credevo a ciò che si diceva intorno a me, che l’ignoranza, il fanatismo stessero dalla parte della religione, che la ragione stesse dalla parte della scienza».

 

Raïssa si iscrive ai corsi di scienze della Sorbona e frequenta i giovani anarchici russi, emigrati a Parigi. All’università incontra Jacques, «un giovanotto dal viso buono con abbondanti capelli biondi e la barba leggera». L’incontro è subito un programma di vita: «Bisognava ripensare insieme l’universo intero, il senso della vita, la sorte degli uomini, la giustizia e l’ingiustizia della società. Bisognava leggere i poeti ed i romanzieri contemporanei, frequentare i concerti e visitare i musei… Il tempo passava in fretta, non potevamo sprecarlo nelle banalità della vita». Insoddisfatti, giungono alla soglia del suicidio; ma dopo avere riflettuto, decidono di dare ancora credito alla vita, nella speranza di poter approdare alla verità.

È Charles Péguy a salvare i due giovani portandoli ad ascoltare le lezioni di Henri Bergson sulla mistica di Plotino. I Maritain non sapevano cosa andavano a cercare: «Questa verità, ardentemente cercata, invincibilmente creduta, era ancora per noi una specie di Dio sconosciuto».

È allora che i due giovani ricevono risposta alla loro inquietudine intellettuale, apprendendo che è possibile, per mezzo dell’intuizione, conoscere l’Assoluto, avere certezze sul senso della vita. Ma non è ancora la fede.

Dopo aver letto il romanzo La donna povera di Léon Bloy, fanno amicizia con il vecchio scrittore il quale, con la sua testimonianza di un cattolicesimo radicale, li porta a credere in Cristo e nella sua Chiesa. Bloy scrive a Raïssa: «Ora voglio tentare di rispondere alla parte più grave della vostra lettera, dove dite: “Io non sono cristiana, non so che cosa cercare e mi lamento”. Perché continuate a cercare, amica mia, poiché avete già trovato? Come potreste amare ciò che scrivo, se non pensaste, se non sentiste come me? Voi non solo siete cristiana, Raïssa, siete cristiana ardente, figlia amatissima del Padre» (25 agosto 1905).

La conversione dei Maritain ha anche una connotazione mariana. Bloy li inizia alla devozione a Notre-Dame de La Salette, convinto della realtà dell’apparizione di Maria nel 1846.

 

Poi nella loro vita c’è una seconda conversione, altrettanto importante della prima. Entrambi laureati in scienze biologiche alla Sorbona, grazie a Bergson si erano già allontanati dallo scientismo materialistico. La scoperta della filosofia di san Tommaso fa loro comprendere che il bergsonismo risolve la verità in una intuizione soggettiva, negando all’intelligenza umana la capacità di raggiungere la verità nella sua oggettività. Il domenicano H. Clérissac propone a Raïssa di leggere san Tommaso all’inizio del 1909: «Fu tremando di curiosità e timore che aprii per la prima volta la Summa teologica. La scolastica non era, secondo la reputazione corrente, un sepolcro di sottigliezze cadute in polvere?… Dalle prime pagine compresi la vanità e la puerilità delle mie apprensioni. Tutto qui era libertà dello spirito, purezza della fede, integrità dell’intelletto illuminato di scienza e di genio… Pregare, comprendere mi erano una sola e stessa cosa, l’uno dava sete all’altro e mi sentivo sempre dissetata». Da allora i Maritain si impegnano non solo a diffondere la filosofia di san Tommaso, ma ad approfondirla in tutti i campi del sapere, dalla teologia alla politica, dalla pedagogia al diritto, anche perché comprendono che lo spiritualismo alla Bergson finisce solo per inclinare le coscienze verso il relativismo.

 

Dopo sei anni di matrimonio, nel 1912 i due giovani maturano la decisione di pronunciare un voto di castità. Questo voto, sconosciuto anche agli amici più intimi, è la radice nascosta di tutte le attività culturali, politiche e spirituali che promuoveranno in seguito, ma non una rinuncia alla coniugalità. Jacques scrive: «Abbiamo deciso di rinunciare a ciò che nel matrimonio non soddisfa solamente i bisogni profondi dell’essere umano, carne e spirito, ma è una cosa buona e legittima in sé stessa, ed abbiamo rinunciato nel medesimo tempo alla speranza di sopravvivere nei figli o nelle figlie. Non dico che sia stata una decisione facile da prendere. Essa non comportava nemmeno l’ombra di un disprezzo per la natura, ma nella nostra corsa verso l’Assoluto e nel nostro desiderio di seguire a qualunque costo, pur restando nel mondo, almeno uno dei consigli della vita perfetta, noi volevamo fare spazio per la ricerca della contemplazione e dell’unione con Dio e vendere per questa perla preziosa beni in loro stessi eccellenti. La speranza di un tale scopo ci dava le ali. Noi presentivamo, anche, ed è stata una delle grandi grazie della nostra vita, che la forza e la profondità del nostro mutuo amore sarebbero state accresciute come all’infinito». Non una scelta anticoniugale, quindi, ma un perfezionamento eroico della vita di coppia.

 

Quello di Raïssa (e di Jacques) è stato un cammino radicale verso la santità, vissuto attraverso la ricerca della verità, l’amore coniugale, la contemplazione dell’Assoluto. Bisogna leggere le poesie di Raïssa per potere entrare nell’intimità di questa avventura meravigliosa, dove lei ha saputo raccordare esperienza mistica e poetica, religione e cultura


Rainer Maria Rilke.. Poeta della luce

 

Delle tue vastità fammi guardiano

 

Fammi ascoltatore attento della pietra, donami di aprire bene gli occhi su quanto i tuoi mari siano soli, lascia che accompagni lo scorrere dei fiumi dall esultanza di una riva e l altra fin dentro il suono della notte lungamente. Manda me nei tuoi deserti territori là dove vanno i grandi venti, dove grossi chiostri, come vesti, si levano d' intorno a vite mai vissute. La voglio fermarmi con i pellegrini e per un sentiero andare che nessuno sa.

 

 

Rainer Maria Rilke


.

Bisogna, alle cose,

lasciare la propria quiete, indisturbata evoluzione

che viene dal loro interno

e che da niente può essere

forzata o accelerata.

Tutto è: portare a compimento

la gestazione

e poi dare alla luce.

 

Bisogna avere pazienza

verso le irresolutezze del cuore

e cercare di amare le domande stesse

come stanze chiuse a chiave e come libri

che sono scritti in una lingua che proprio non sappiamo.

 

Si tratta di vivere ogni cosa.

Quando si vivono le domande,

forse, piano piano, si finisce,

senza accorgersene,

col vivere dentro alle risposte

celate in un giorno che non sappiamo.

 

Rainer Maria Rilke

 


 

 

 

Rainer Maria Rilke, nato a Praga nel 1875, figlio sensibilissimo e fragile di un modesto funzionario, fu avviato alla carriera militare: nel 1890, per cause rimaste oscure abbandonò la scuola militare di Mährisch-Weisskirchen. Dopo due anni a Linz, tornò a Praga dove preparò privatamente l'esame di licenza liceale (1895). La sua precoce vocazione letteraria fu incoraggiata dalla madre. Nel 1896-1899 proseguì a Monaco e a Berlino gli studi di letteratura e di storia dell'arte. Fa il suo decisivo incontro con Lou Andreas- Salomé, con lei compie nel 1899 e nel 1900 due viaggi in Russia: incontra Tolstoj, il misticismo e il paesaggio russo. Nel 1900 entra a far parte di una colonia di artisti a Worpswede, presso Brema, dove aveva conosciuto la scultrice Clara Westhoff, che sposò dopo pochi mesi. Il matrimonio fallì presto. Rilke si trasferì a Parigi dove, nel 1905, incontrò lo scultore Rodin, di cui divenne segretario fino al 1906 quando ruppe con lui.

Una nuova grave crisi psicologica, dovuta anche dall'incontro con la filosofia di Kierkegaard, provocò una nuova fase di inquietudine: tra il 1901 e il 1913 viaggia in Europa meridionale e in Africa settentrionale. Nel 1911 è ospite nel castello della principessa von Thurn-und-Taxis, a Duino, presso Trieste. Durante la guerra visse quasi sempre a Monaco. E' poi nel castello di Muzot, nel Vallese, nel 1923. Rilke morì in un sanatorio di Valmont (Montreux, Svizzera) nel 1926, stroncato dalla leucemia, dopo terribili sofferenze.

 

 

 

Opere

Della sua vocazione letteraria Rilke aveva una consapevolezza acuta e precoce. Vedeva in sé stesso una specie di mediatore della grazia. La sua prima raccolta poetica, Vita e canti (Leben und Lieder, 1894), poi ripudiata dall'autore, nel vago lirismo sentimentale mostra un giovane Rilke legato al decadentismo della fine del secolo. A essa seguirono Sacrificio al lari (Larenopfer, 1895), Incoronato di sogno (Traumgekrönt, 1896), Avvento (Advent, 1897).

 

Decisivo fu l'incontro con Lou Andreas-Salomé, l'intellettuale allora più anziana di lui di quindici anni, che era stata amica di Nietzsche e che sarebbe poi diventata allieva di Freud. In lei Rilke trovò un sostegno umano e artistico. A lei è dedicato un diario tenuto a Firenze durante la primavera del 1898, il cosiddetto "Quaderno di Firenze" (Florenzer Tagebuch, 1942), di grande importanza per la conoscenza della personalità dello scrittore in quel periodo della sua vita, influenzata dall'esempio di Nietzsche. Al 1899 risalgono la raccolta Per la mia gioia (Mir zu Feier), e il racconto lirico Il canto di amore e di morte dell'alfiere Christoph Rilke (Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke), opera che segna l'adesione di Rilke all'ideale neo- romanticista e che costituì il primo grande successo di pubblico di Rilke.

 

Tra il 1899 e il 1903 Rilke scrisse le tre parti del Libro d'ore (Das Stundenbuch):

Il libro della vita monastica (Das Buch vom mönchischen Leben)

Il libro del pellegrinaggio (Das Buch von der Pilgerschaft)

Il libro della povertà e della morte (Das Buch von der Armut und vom Tode).

L'opera, pubblicata in prima edizione nel 1905 (con frontespizio di W. Tiemann) fonda la fama del giovane Rilke. Essa esprime una religiosità terrestre, che si esplica nella mistica delle cose concrete e nell'esercizio artistico. Il tema è variato con una proliferazione inesauribile di metafore: tale ricchezza fa del libro una delle grandi creazioni verbali del tempo.

Influenzate dalle esperienze del viaggio russo sono le Storie del buon dio (Geschichten vom lieben Gott, 1900-1904), ciclo di racconti «narrati ai grandi per i bambini», nella quale Rilke dà voce alla presenza divina nella vita quotidiana. Il libro delle immagini (Das Buch der Bilder, 1902) che apparve poi in nuova edizione ampliata nel 1906, e che assegna un ulteriore affinamento delle sue qualità poetiche.

 

La severa concezione dell'arte e la disciplina morale di Rodin, come pure la conoscenza dell'opera di Cézanne (di cui fu allestita una mostra nel 1907), contribuirono a provocare un profondo mutamento in Rilke, evidente nelle Nuove poesie (Neue Gedichte, 1907 e 1908). In quest'opera Rilke cerca di fissare con precisione le immagini delle cose, per restituire alla realtà la pienezza del senso, andata perduta a causa del processo di mercificazione che ha investito la società industriale.

Documentazione artistica, per molti aspetti rivoluzionaria, di una tormentosa condizione esistenziale, quella dell'artista chiuso nella propria interiorità, è il romanzo-dialogo autobiografico I quaderni di Malte Laurids Brigge (Die Aufzeichnungen des Malte Lauridts Brigge, 1910). Il protagonista, un giovane intellettuale inquieto, va a abitare malato e solo a Parigi. Vi sperimenta la paura, la solitudine, la miseria, ma impara a vedere le cose, che mostrano certe parvenze per poi fluire in altre in un flusso continuo. E' attratto dai derelitti, dai dementi, dai miserabili che finiscono con il dare alla città contorni ossessivi e allucinati. Annota in un suo diario sogni e incubi, reminiscenze dell'infanzia, momenti felici e dolorosi. Su tutto prevale il pensiero del la morte e la ricerca di dio.

 

Rilke iniziò nel 1911 la prima stesura delle Elegie duinesi (Duineser Elegien) a Duino, presso Trieste, ospite nel castello della principessa von Thurn-und-Taxis, che concluse nel 1923 nel castello di Muzot, nel Vallese. Seguirono i Sonetti a Orfeo (Sonette an Orpheus, 1923), e la raccolta postuma delle Poesie estreme (Späte Gedichte) caratterizzate da una limpida serenità. Siamo al culmine della maturità poetica di Rilke, in queste poesie, di grande e tersa audacia formale, Rilke si stacca nettamente dalla cultura della crisi di fine secolo, per approdare a una nuova visione della vita: una visione che considera ancora l'uomo come possibile distruttore del mondo in quanto mercificatore, ma anche come suo possibile salvatore, quando sappia trasferirlo in un invisibile «spazio interiore», identificato e difeso dal verbo poetico. La necessità di preservare da ogni minaccia esterna questo spazio interiore era apparsa a Rilke in tutta la sua drammatica urgenza soprattutto di fronte alla prima guerra mondiale, cui aveva assistito con angoscioso sgomento.

 

 

Le nuove dimensioni della forma e del linguaggio esplorate e fissate da Rilke hanno esercitato un influsso determinante sulla poesia della prima metà del XX secolo europeo.


Cristina Campo..la poetessa che cerca la parola perfetta

Cristina Campo..

la passione della perfezione

 

 

Per la maggior parte degli italiani Cristina Campo è una sconosciuta ma per un’élite è oggetto di vero e proprio culto. Schiva, antimoderna, consacrata alle lettere, la Campo è destinata a rimanere nell’ombra per aver scritto poco (e mai narrativa) e di difficile approccio anche da un punto di vista commerciale: pubblicata da Adelphi, la Campo rimane pietra miliare del Novecento italiano.

 

La scrittrice più sconosciuta d’Italia è Cristina Campo al secolo Vittoria Guerrini nata a Bologna il 28 aprile del 1923 e morta a Roma il 10 gennaio 1977. Nata con una malformazione cardiaca non frequentò i suoi coetanei e seguì studi privati maturando un isolamento e una precarietà che si sarebbero rispecchiati nei suoi scritti. Poetessa, scrittrice, saggista e traduttrice, visionaria, icona dell’essenzialità, in vita ha scritto relativamente poco e avrebbe voluto scrivere anche meno (dalle sue stesse parole). Definita “scrittrice assente” era ossessionata dalla passione per la perfezione. Morì a soli 54 anni dopo essere stata una delle più grandi intellettuali del Novecento. Amava scrivere sotto pseudonimo (Cristina Campo è il più celebre ma si firmava anche Puccio Quaratesi, Bernardo Trevisano, Giusto Cabianca, Benedetto P. d’Angelo) e amava giocare con gli amici sul tema della propria identità anagrafica.

 

Cristina Campo abitò a Bologna (dove nacque), a Firenze e a Roma (dove morì). Visse di letteratura, circondata dai gatti e quando morì molte delle sue carte andarono disperse. Le sue raffinate pagine erano estranee ad una società incapace di leggerle (era tagliata fuori dalla scena editoriale). Si racconta che fosse vivace e molto affascinante con mani piccole e orecchie bellissime ma, nell’impossibilità di avere figli, non si sposò, ebbe amicizie innocenti e un rapporto privilegiato con l’intellettuale Elémire Zolla, studioso delle culture d’Oriente, ch’ella salvò dalla tisi. Durante gli anni romani i due vissero ai due lati del Tevere, poi in due stanze della Pensione Sant’Anselmo e infine in un appartamento su piazza Sant’Anselmo ma la convivenza fu quella di due anime opposte: rigorosa quella di Cristina, disordinata quella di Zolla. La Campo divenne una cattolica fanatica: ispirata da Simone Weil (che le aveva fatto conoscere Mario Luzi) si abbandonò alla mistica e, nell’ultima parte della sua vita, all’ascesi. Zolla difendeva le tradizioni ma non sprofondò mai nel fanatismo. Quando Cristina morì Zolla ne fu devastato: nonostante un documento in cui i due si lasciavano i reciproci scritti, la Campo aveva cambiato idea e i parenti ne avrebbero disperso lettere e carte. Zolla, allora, ritornò a vivere nella Pensione Sant’Anselmo con pochi libri, pochi mobili e tre gatti.

 

Cristina Campo fu una grandissima lettrice e spaziò da Shakespeare a T. S. Eliot, da Virginia Woolf a Truman Capote, da William Carlos Williams a John Donne, da Gustav Herling a Simone Weil, da Proust a Borges, da Hoffmannsthal a Dante, da Céline a Cechov a Emily Dickinson e tanti altri ancora. Frequentava scrittori e poeti: Alessandro Spina, Corrado Alvaro, Mario Luzi, Benedetta Craveri, Giorgio Bassani, Maria Luisa

 

 

 

Spaziani, Pietro Citati, Guido Ceronetti, Roberto Calasso, Anna Banti, Gianfranco Draghi, Ezra Pound. La sua vita si è compiuta solo grazie alla letteratura. Non è facile sintetizzare l’opera e la personalità della Campo che resta un grande insondabile mistero. Donna in contraddizione cercava la solitudine e temeva le cattive compagnie. Sceglieva le battaglie da combattere e ci si buttava a capofitto: processi, repressioni, stermini, distruzioni fino all’ultima, quella a favore della tradizione liturgica della religione cattolica. Sola, e sempre più isolata, per tutta la vita scrisse tante lettere ad amici e colleghi, in particolare all’amica Margherita Pieracci (curatrice delle sue opere).

 

In realtà Cristina Campo scrisse moltissimo se si contano i saggi e le traduzioni ma è difficile recuperarli perché mai raccolti in volumi. Esiste invece una ricca e dettagliata bibliografia dei suoi scritti. Ufficialmente l’opera della Campo consta di tre tomi, Gli imperdonabili, La Tigre Assenza e Lettere a un amico lontano: un volume di saggi creativi (s

 

 

 

 

 

critti in vari anni), una raccolta di testi poetici (un vero e proprio planctus scritto dopo la morte dei genitori) e un libriccino di lettere. Gli ultimi due sono addirittura postumi e voluti dagli amici editori. Con gli anni sono stati pubblicati altri libri della Campo quasi tutti di natura epistolare (Il mio pensiero non vi lascia, Carteggio, Un ramo già fiorito. Lettere a Remo Fasani, Lettere a Mita, Se tu fossi qui. Lettere a Maria Zambrano, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso).

 

 

Nel 2002 è uscita la sua biografia, Belinda e il suo mostro (Adelphi) scritta da Cristina De Stefano che racconta tutta la sua storia intensa e vibrante: dall’infanzia bolognese alle amicizie, dagli anni della guerra agli amori, dagli amori alle testimonianze fino alla morte. Come un’indagine poliziesca, la vita della Campo è ricostruita attraverso testimonianze e la rilettura dei suoi testi. E per noi lettori curiosi è l’unica via da percorrere per conoscere la biografia di questa straordinaria artista che, alla continua ricerca della perfezione, ha lasciato tanti frammenti di sé senza mai concepire un’opera maggiore che forse ne avrebbe consacrato il genio.

Devota come un ramo

 

Devota come un ramo curvato da molte nevi

 

allegra come falò per colline d'oblio,

 

su acutissime lamine in bianca maglia di ortiche,

 

ti insegnerò, mia anima, questo passo d'addio...

 

 

Cristina Campo 


Amore, oggi il tuo nome

 

Amore, oggi il tuo nome

al mio labbro è sfuggito

come al piede l'ultimo gradino...

ora è sparsa l'acqua della vita

e tutta la lunga scala è da ricominciare.

T'ho barattato, amore, con parole.

Buio miele che odori dentro diafani vasi

sotto mille e seicento anni di lava

ti riconoscerò dall'immortale silenzio.

 

Cristina Campo


Sei poesie tradotte da Cristina Campo


CRISTINA CAMPO TRADUCE FRIEDRICH HOELDERLIN

Poco sapere, ma di gioia molto
ai mortali e' concesso.

O bel sole, perche' me non appaga
- tu, fiore dei miei fiori - nominarti
in un giorno di maggio? So io forse
cosa piu' alta?

Oh fossi piuttosto un fanciullo!
e come gli usignuoli, in canti senza affanno,
la mia gioia cantassi!

CRISTINA CAMPO TRADUCE EDUARD MOERIKE

Scioglie il suo nastro azzurro primavera
nuovamente nell'aria.
Dolci, noti profumi,
rigano di presagi la campagna.
Trasognate viole
chiedono di sbocciare. -
Ascolta: un tocco d'arpa, chissa' dove!
Primavera, sei giunta! E' la tua voce!

CRISTINA CAMPO TRADUCE HECTOR MURENA

Chi puo' guardare due volte
le scarpe di una creatura
qualunque
senza mettersi a piangere?
Dio, col suo sguardo
infinitamente abbattuto
che non si stacca mai
dalle scarpe degli uomini.

CRISTINA CAMPO TRADUCE WILLIAM CARLOS WILLIAMS

L'imperatore impotente
si ottunde a scrivere
poemi in un giardino
e intanto i suoi eserciti
uccidono e bruciano. Ma noi,
poveri e senza amore,
serbiamo qualche intesa
con quella verita' che e' la tristezza
dell'uomo: diciamo -
i tardi fiori, intoccati
dagli insetti e in attesa
solo del gelo.

CRISTINA CAMPO TRADUCE JOHN DONNE

Morte, non andar fiera se anche t'hanno chiamata
possente e orrenda. Non lo sei.
Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono,
povera morte, e non mi puoi uccidere.
Dal riposo e dal sonno, mere immagini
di te, vivo piacere, dunque da te maggiore,
si genera. E piu' presto se ne vanno con te
i migliori tra noi, pace alle loro ossa,
liberazione all'anima. Tu, schiava
della sorte, del caso, dei re, dei disperati,
hai casa col veleno, la malattia, la guerra,
e il papavero e il filtro ci fan dormire anch'essi
meglio del tuo fendente. Perche' dunque ti gonfi?
Un breve sonno e ci destiamo eterni.
Non vi sara' piu' morte. E tu, morte, morrai.

CRISTINA CAMPO TRADUCE SIMONE WEIL

Giorno che sorgi puro, sorridere sospeso
Sulla citta' d'un tratto e i suoi mille canali,
Quanto agli umani che accolgono la tua pace
Vedere il giorno e' soave!

Il sonno mai mi aveva colmato
Come stanotte e dissetato il cuore.
Ma il giorno dolce ai miei occhi e' venuto,
Dolce piu' del mio sonno!

Ecco, il richiamo del giorno tanto atteso
Tocca la citta' tra le acque e la pietra.
Un fremito nell'aria ancora muta
Sorge per ogni dove.

Vieni e vedi, citta', la tua gioia ti attende,
Sposa dei mari, vedi, lontano e piu' vicino,
Tanti flutti rigonfi di sussurri felici
Benedirti al risveglio.

Sul mare si distende lentamente la luce.
Tra un attimo la festa colmera' i nostri voti.
Il mare calmo attende. O bellezza sul mare
Dei raggi dell'aurora!


Il poeta contadino Giuseppe Guarisco..vero discepolo della Divina Sapienza

La mia vita

Cenni biografici

 

Un giorno lontano, 10 maggio 1914, venivo alla luce di questo mondo in una piccola e vecchia casa in contrada Bregadina, a Viadana di Calvisano. Prima di me c’erano già sei fratelli: tre maschi e tre femmine. Là i primi vagìti in una famiglia povera. Le membra strette con larghe fasce.

Raggiunti i due anni la mia famiglia si è trasferita nella cascina “Vaschina sera”. Una cascina senza comodità, con un po’ di terra. Qui ho iniziato le prime fatiche fisiche.

Dopo di me sono nati altri due fratelli: una famiglia di undici componenti. Il lavoro era campi e stalla.

A sei anni ho cominciato la prima elementare. Al mattino mi alzavo presto: prima aiutavo in stalla, alle ore sei andavo a servire la Messa e poi a scuola. La terza elementare l’ho ripetuta tre volte: capivo poco! Naturalmente c’eran solo tre anni di scuola.

Il lavoro della campagna era massacrante. La mietitura del grano si faceva a mano. A otto anni tagliavo il frumento con la falce. Avevo le gambe sanguinanti per i mozziconi degli steli tagliati che pungevano.

La terra veniva lavorata con l’aratro tirato dai buoi. D’estate, per evitare il tormento dei tafani sui bovini, si partiva alle quattro del mattino. La colazione veniva consumata nel campo, seduti per terra.

Vi era la stagione dei “bachi” (“caalér”). Ci si arrampicava sulle piante dei gelsi per procurare la foglia per i bachi da seta.

D’inverno andavamo sulle piante per tagliare la legna con l’accetta.

Il lavoro della campagna camminava di paripasso con gli impegni in parrocchia. Ancora da ragazzo il curato don Pietro Marini mi affidava tanti impegni: catechista, delegato della gioventù di Azione Cattolica e più tardi degli uomini.

A diciotto anni sempre don Pietro ha insistito perché accompagnassi le funzioni in chiesa con l’armonium. Senza andare a scuola di musica mi sono arrangiato da solo… ma che fatica! In principio con brani semplici, poi con canti a più voci. Tante volte sudavo… e sbagliavo! Ma bisognava andare avanti.

Veniva il momento della filodrammatica. A fatica abbiamo messo in moto una compagnia teatrale. C’ero sempre dentro: prima attore, poi suggeritore. A un certo punto, come hobby e passione, mi son messo  a scrivere delle farse e delle commedie in dialetto.

Mi sono sempre piaciute anche le poesie. Mi sembrava di avere una  vena poetica. Ma poi tante volte mi inceppavo! Venivano a proposito certe parole, ma non ne conoscevo il significato. Comunque ne ho scritte tante, specialmente per gli sposalizi e in altre circostanze. Quando ci riuscivo era per me una grande soddisfazione. Mi è sempre piaciuto l’umorismo! Mi faceva dimenticare il peggio.

Poi venne il momento di partire sotto le armi. A vent’anni partii per il militare. Prima a Cremona, poi a Milano nel terzo Reggimento Artiglieria Celere. Diciotto mesi di servizio. Fui congedato nel 1936.

A casa ripresi tutte le mie attività. Aiutavo nei campi, in stalla, in chiesa e su richiesta anche in Comune a Calvisano come Consigliere. Le convocazioni erano lunghe, con discussioni animate. Tornavo la sera tardi o di notte in bicicletta.

Nel 1937, in gennaio, mi è morta la mamma, Ferrari Giacomina. Il gran lutto ha gettato uno sconforto nella famiglia, specie per il papà Damasceno. Aveva settant’anni. Uomo già logorato dal lavoro dei campi, ha tirato avanti ancora tre anni, cupo e silenzioso.

Nel 1939, avevo accennato al papà che desideravo sposarmi: lui fece una smorfia! Era il primo anno che andavo a morose dalla signorina Ferrari Luigia (Gina). Il papà non era contrario al matrimonio, ma vi erano difficoltà economiche.

Poi nel 1940 fu colpito da un altro dispiacere: con lo scoppio della seconda guerra mondiale, io fui richiamato alle armi l’11 giugno 1940. Ho prestato servizio a Rocca D’Anfo, poi a Sonico in Val Camonica e infine a Sesana di Trieste. Il giorno 23 giugno mi giunse improvviso un telegramma per la morte del papà. Un altro grave lutto.

Nel 1942, comunque, mi feci dare la licenza di un mese per sposarmi. In tempo di guerra era  un rischio sposarsi.

Il primo bacio alla mia sposa l’ho dato sul treno, in viaggio di nozze il 5 ottobre 1942.

Nel 1943 il 7 settembre, con l’armistizio, è stata la tragedia. Preso prigioniero dai Tedeschi, mi portarono in Polonia e poi in Germania, sempre fra i reticolati, col tormento della fame, dei pidocchi e del freddo.

Il distacco più amaro fu quello di lasciare la giovane sposa per un viaggio ignoto: qui si apre il mio Diario di prigionia. Un calvario durato 22 mesi.

Al ritorno dalla prigionia ho ripreso il mio lavoro nei campi con pochi “piò” di terra e qualche capo di bestiame: una vita molto stentata.

Tribolando ho formato la mia famiglia. I figli nati sono sei, viventi quattro. Non sono mancati problemi di malanni: parecchie volte c’era il dottore per casa. Io avevo poca salute, perché invalido di guerra. Formare e crescere una famiglia con poca salute e tanto lavoro era preoccupante. Confidavo nella Provvidenza e superavo i momenti difficili con coraggio e col mio carattere sempre di buon umore.

Mentre tribolavo, mantenevo la vena di scrivere farse, commedie e poesie. L’arte dell’umorismo è stata per me un valido aiuto nell’approssimarsi della vecchiaia.

A un certo punto non gliela facevo più a lavorare la terra per l’invalidità fisica. Ho trovato lavoro, come invalido, presso l’industria. Ho lavorato a Brescia, poi a Carpenedolo e infine a Calvisano. Sempre un lavoro serrato fino a 63 anni.

Pensionato con la minima ho continuato stentatamente la mia vita in famiglia e in parrocchia.

Nei miei 85 anni di vita, di cui 57 di matrimonio, voglio ringraziare innanzitutto il Signore che mi ha custodito nei momenti di prova  e anche mia moglie Gina che mi ha sempre accompagnato con coraggio, serenità e con le sue instancabili  preghiere.

Adesso sono in attesa del giorno finale per entrare in  una nuova vita!

 

 

 

Viadana  10 maggio  1999                                      Gepi


 

Giuseppe guarisco il poeta contadino 

"vero discepolo della divina sapienza"

 

 

“Figlio mio custodisci le mie parole e fa’ tesoro dei miei precetti.

Osserva i miei precetti e vivrai; il mio insegnamento

sia come la pupilla dei tuoi occhi (Prov. 7,1-2).

 

Queste esortazioni che la Sapienza rivolge a chi desidera orientare positivamente la propria vita, possono ritenersi la chiave di lettura delle poesie amorevolmente raccolte per esser date alla stampa con la presente pubblicazione.

Per due motivi o sotto due prospettive convergenti:

da un lato vi si presenta l’esperienza di una persona che, attraverso le vicende della vita affrontate con fede e fiducia, ha saputo legare quelle dolorose e liete con il filo della Provvidenza di Dio “che tutto coordina per il bene di coloro che lo amano”.

E dall’altro vi si scorge come il padre affida ai figli come testamento spirituale, una testimonianza di vita serena e laboriosa, fiduciosa pur nella prova, e come i figli l’accolgono con animo riconoscente, perché vi vedono non tanto una esercitazione letteraria, quanto le pagine di vita scritte giorno per giorno, animate dalla preghiera e illuminate dalla Parola di Dio, per essere offerte con amore a chi, nel susseguirsi dei giorni, lega gioie e dolori per il bene dei suoi figli.

Pur non conoscendo l’autore, scorrendo le sue poesie ora in italiano ora in dialetto, mi sono fatto un’ottima impressione di un uomo saggio, vero discepolo della Divina Sapienza.

Non mi resta perciò che augurare ai figli e nipoti, agli amici e ai conoscenti, di saper fare tesoro della bella testimonianza di fede e di amore che il “poeta-contadino” ha voluto affidare alle poesie amorosamente raccolte nella presente pubblicazione.

 

 

Brescia 8 marzo 1999                                      Vigilio Mario Olmi V. A.


LA POESIA DI GIUSEPPE GUARISCO

(detto Gepi)

 

 

  "Vera poesia, poesia religiosa, perché la vita è vissuta e vista sotto la luce di Dio, come è ovvio per chi ha scoperto il senso religioso del vivere"

 

 

 

Quella che oggi è Viadana frazione di Calvisano con più di 1250 abitanti, tutti occupati in diverse attività, fino a qualche decina di anni fa non era altro che cascine e piccole contrade sparse nella campagna a nord del territorio di Calvisano. Per secoli la popolazione si era dedicata alla coltivazione dei campi e della pastorizia.

Da sempre a Viadana la gente ha formato una Comunità, per la presenza costante di un sacerdote Il Curato di Viadana, che celebrava e raccoglieva la popolazione nella chiesa dedicata all’Annunciazione. Nella prima metà del secolo scorso il Curato era anche il maestro di scuola dei ragazzi di 1° e 2° elementare maschile.

La scuola, a Viadana, esiste fin dal 1839 per i maschi e dal 1846 anche per le femmine. Nei primi anni del ‘900 venne istituita la classe 3° elementare a Calvisano e nelle frazioni. Al termine dell’obbligo scolastico, non pochi genitori chiedevano alle maestre di far ripetere ai loro figlioli la classe 3°, perchè i loro piccoli potessero frequentare ancora la scuola, ma soprattutto perché i ragazzi e le fanciulle potessero imparare di più, dal momento che le classi 4° e 5° elementare non erano statali ma parrocchiali, funzionanti a Calvisano, presso le Madri Canossiane, e quindi piuttosto lontane dalle abitazioni.

Giuseppe Guarisco scrive di aver ripetuto tre volte la classe 3° perché capiva poco!, in realtà, per i motivi espressi sopra.

La scuola costituiva per i ragazzi una parte del loro impegno e dovere quotidiano. Negli altri momenti della giornata e  nei giorni liberi di scuola, dovevano dedicarsi alle faccende domestiche o al lavoro in stalla, nei campi e nei pascoli. Un altro dovere fondamentale era la frequenza al catechismo e alla messa domenicale. Famiglia, scuola, chiesa erano strettamente unite e solidali nella educazione dei fanciulli.

Giuseppe Guarisco, nella sua poesia, esprime quel tipo di educazione e di formazione. Esalta e rimpiange nei suoi versi i valori che non sono solo del tempo passato, ma perenni: la bellezza della natura, francescamente sentita, ma anche, spesse volte, crudelmente sperimentata: tu sei benefica e pur crudele; il bene che l’uomo può compiere con l’aiuto di Dio, il male che compie per la sua fragilità e che deve espiare; l’amore, il più nobile dei sentimenti dell’uomo, ma che oggi giorno viene spesso profanato.

Nei suoi componimenti troviamo temi costanti e comuni a tutti i poeti antichi e moderni: il tempo che fugge, la morte che sovrasta, i dolci doni della natura, le piccole, ma significative gioie della vita. Tutto è visto con l’occhio dell’adulto che sa per esperienza, sovente dolorosa, la ragione del vivere, ma che ha conservato nell’anima la voce semplice del contadino.

Può sembrare, ad una prima lettura, di avere davanti una poesia popolare e naïf. Ed è vero: sono poesie per la maggior parte occasionali, scritte per varie ricorrenze religiose e civili, che la comunità di Viadana ha celebrato e ricordato. Ma le emozioni, i sentimenti, i pensieri trascendono il momento, vanno al di là del luogo e del tempo, si dilatano nel tempo e nello spazio.

In realtà, le poesie qui riportate esprimono l’esperienza di una vita intessuta di dolori e di fatica. Vi è la visione ottimistica e serena donata a Giuseppe Guarisco dalla fede e dalla pratica religiosa; ma vi è anche la consapevolezza del male e della cattiveria umana, che si è manifestata nella guerra, nella deportazione, nella prigionia nei lager. Vi è la vita di ogni giorno bella e triste nello stesso tempo, ove l’esperienza del dolore (fisico, morale, spirituale) supera l’esperienza della gioia.

E’ vera poesia, poesia religiosa, perché la vita è vissuta e vista sotto la luce di Dio, come è ovvio per chi ha scoperto il senso religioso del vivere.

Viene qui pubblicato un piccolo canzoniere, che vuol essere diario umano e spirituale. Poesia che esprime il vissuto dell’autore che rivive e reinterpreta sentimenti, emozioni, immagini proprie delle persone che vissero e ricordano un mondo ormai perduto, un mondo contadino ormai inesistente.

Affiorano dalla memoria i ricordi indelebili di chi in quel mondo è nato e a lungo è vissuto. Talvolta si nota una accorata elegia del paesaggio che è mutato troppo in fretta. E’ poesia che racconta un paese, con un pizzico di rimpianto per i valori purtroppo perduti. Ma non è rimpianto per le fatiche, per i dolori, per le preoccupazioni presenti nella civiltà contadina: chi rimpiange la vecchia civiltà contadina non l’ha mai conosciuta da vicino.

Quello era un mondo in cui vi era una diffusa povertà, sopportata con diffusa rassegnazione. La terra era l’unica fonte per il sostentamento degli uomini e degli animali. Viene alla memoria la figura di don Pietro che, all’approssimarsi dei temporali, correva a suonare le campane, per allontanare la nuvolaglia e a portarsi sulla soglia della chiesa con la reliquia della Santa Croce per scacciare con una benedizione la sventura che sovrastava.

Specie nei componimenti in dialetto (e soprattutto nelle commedie che meriterebbero di essere pubblicate) è raffigurato il mondo contadino, particolarmente quello calvisanese, o meglio viadanese.

E’ poesia intesa come gioco, lusus, come divertimento, affrontato con serietà di impegno e di intenti. Non c’è pretesa, ma gusto del poetare, desiderio non solo di dire parole, ma soprattutto di esprimere cose.

 

 

Virginio Prandini


AMORE

 

Fate silenzio, labbra, sì tacete!

Non cantate amor che non sapete!

 

Volete profanare questo grande verbo

ch’è tanto saporoso, ma per voi acerbo?

 

Oh! Esseri umani, miseri, che fate?

Amor non conoscete e tanto lo cantate!

 

Gridando fra le “musa” con espressivi gesti,

a volte forsennati, a volte pii e mesti,

 

che i cantautori esprimono ignari del valore

che in sè racchiude quel verbo ch’è amore.

 

Sol tu, o pia Madre, che il Figlio amasti tanto

puoi dir cos’è amore parlando dal tuo canto.

 

Sol tu, o Madre Santa, che prona alla croce

vedi il divin Figlio tra spasimo atroce,

 

ch’è fisso con tre chiodi, il volto insanguinato,

ci indica l’amor su un legno inchiodato.

 

Il Figlio tuo guardati, amor senza confini

ed i peccati  sconta dei miseri tapini,

 

con testa bassa e umile, Lui, ch’è Redentore

 

e il mondo va altero seppur è peccatore.

 

Giuseppe Guarisco


LA VITA

 

Nasce un bimbo, una luce s’accende

sul lungo cammino la vita ascende.

 

Dapprima è bella, tutto un trastullo!

E corre e cresce quel caro fanciullo.

 

Tra il buono e il bello ancora non pensa

che di dolori la vita è pur densa.

 

E su quel sentiero il mondo nasconde

trappole, inganni e lui si confonde.

 

Cammina evitando fastidi e noie.

Infatti gli arridon fortune e gioie!

 

Diventa adulto e con l’occasioni

fa intemperanze a profusioni!

 

Con tanti abusi di ogni sorte

s’ammala e quasi è vicino alla morte!

 

L’imperdonabile mal lo colpisce

tutto il suo mondo, d’un tratto, fallisce!

 

Aveva una luce a mo’ di chi crede:

ma è torturato e perde la fede.

 

Cammina sull’orlo per disperarsi,

ma poi ci ripensa vorrebbe rifarsi!

 

 

 

 

Perché se si spegne quel poco di luce

resto al buio e chi mi conduce?

 

La sofferenza su di me veglia

tormentata la carne, ma l’alma risveglia.

 

Il mondo, il mio corpo mi hanno tradito.

Signore, Signore, or son pentito!

 

Lo so, lo sento che io qui soffro:

ma tutto, Signore, tutto ti offro!

 

Perché, purtroppo, lo devo scontare

il mal che ho fatto, il mio peccare!

 

Ti rendo grazie per questa tua prova,

tu mi regali una vita ch’è nuova!

 

Al fin quella luce prima accesa

ancor sarà viva dopo l’ascesa.

 

E con la morte questa mia vita

io credo, Signore, non è qui finita!

 

Ma sfocia gloriosa, eterna, lassù

 

ove tutti quei mali, non ci sono più.

 

Giuseppe Guarisco


LA VITE E L’UOMO

 

Nel verno, spoglia, niente tu dici,

niun il guardo volge su te.

Ferme, gelate son le radici

Fin che stagione bella non v’è.

 

Il vignaiolo poi ti s’appressa:

come chirurgo pianger ti fa.

Al rigido palo vieni poi messa,

stretta da baci senza pietà!

 

Lo stelo tortuoso dal sole baciato

presto si copre da verdula chioma,

da turgidi grappoli incorniciato

espande, gustoso, il suo aroma.

 

Superba la mano che in tavola porta

l’uva regale, bruna e dorata;

e tra la frutta di ogni sorta

sei tu la prima, la prelibata.

 

L’uomo sorride vederti pigiata

E ne pregusta il succo rubino:

in ogni mensa che è preparata

c’è la premura sempre del vino!

 

Neanche la Vergin seppe tacere

quando  a Cana il vino mancò:

“Oh, figlio mio! Non hanno da bere!”.

Gesù la guarda… e poi l’ascoltò!

 

 

 

 

Ecco strappato il primo miracol

alla potenza del Figlio divin.

E’ come se vuoto sia un oracol

quando alla mensa vi manca il vin!

 

Oh! Qual profumo di provvidenza

c’è dal vigneto alla cantina!

“Beviamo, pure, di questa essenza:

ce l’ha mandata la mano divina!”.

 

Oh! Vite umile e prigioniera!

Ci dai un succo di tanto valor.

E se bevuto con bella maniera

ci rende lieti, ci dà vigor!

 

Chi se n’abusa sbaglia di certo:

offende Dio e scandalo dà!

Nella sua mente v’è lo sconcerto:

 

è degradato e nemmeno lo sa!

 

Il MARE

O mare! Quanto sei bello, grande, immenso!

Su di te scivolano uomini di ogni sorte!

Ma sotto, nelle viscere del tuo denso,

quanti, quanti sono gli spettri di morte!

Per questo a te volgo lo sguardo... e penso!

 

 

 

L’ ACQUA

 

Tu non hai vita e vita pur dai

immensa regina della natura.

C’è chi ti guarda, chi ti trascura

e c’è chi perfin offenderti sa.

Chi ti conosce e ti comprende

creatura, sorella mia?

Fors’il viandante su quella via

che arso e stanco si dissetò?

Oppure quel volgo, che sotto il sole,

è massacrato dal suo lavoro

ed ha trovato grande ristoro

nel chiaro vivido tuo zampil?

O forse l’uomo - il lussurioso -

che nei bagordi s’è dimenato

e refrigerio ha poi ritrovato

nella semplice tua bontà?

Quell’altro che stava nuotando

in quella spiaggia, in quel momento,

che si beava tutto contento

nel tuo dolce e lieto cullar?

Oh!… Nessuno ti dice grazie!

Ma che cattivi e senza cuore!

Eppure sanno che tutto muore

e non c’è vita senza di te!

Ah!... Quei frutti sì ubertosi

che dalla terra hanno succhiato!

Tu sei stata che hai mandato

alle radici il provvid’ umor.

Se pur semplice sei a guardarti

non ti conosce nemmen chi ti usa:

in un arcano tu sei rinchiusa

sol ti conosce il Creator.

Tu sei in terra, in cielo, in mare;

tu cambi forma, colore, aspetto

e a noi parli del tuo diletto

col tuo inno, le tue virtù.

Sei tu ancora che muovi la ruota

e al mondo dai energia.

E se di notte, su quella via,

le luci brillan, ancora sei tu.

Calma ten’vai, senza stancarti;

vispa gorgheggi nel lieto ruscello,

muovi, lambisci il ramoscello

che si diverte al tuo passar.

Quando ti tocca il sole cocente,

allora ti cangi e nùgol diventi

e poi ti plasman i provvidi venti

fin che di nuovo ritorni quaggiù.

A volte lenta, quasi graziosa,

scendi benefica dal tuo cielo

a rinverdire del prato lo stelo

e dissetare gli arsi terren.

Quando in alto ti trovi nel verno

lui ti trastulla e dice con vanto:

“Va’ sulla terra e stendi un manto

che pareggiabil un altro non v’è”.

A volte scendi, invece, furiosa

e se dal gelo tu sei toccata

allora in chicchi sei trasformata

e flagellando ci porti squallor!

Tu sei benefica e pur crudele;

diventi cattiva, cieca e dura:

perché tormenti la bella natura

che ebbe la vita pel tuo poter?

 

 

Ah!... Purtroppo quando t’impenni

e forsennata spingi la onda,

fin che all’urto cede la sponda,

allora pietade alcuna non v’è!

Come pagliuzze tutto trascini,

produci panico, grida e morte!

Eppure non meno ivi è la sorte

ove presenza tua non c’è!

Oh!…Bell’acqua, scusami tanto!

Or t’ho capito, sì finalmente!

Tu non hai colpa, sei innocente

e sei guidata dall’Autor!

Quando, fuorviata, meni una strage

è un richiamo del Creatore

che porge la prova al peccatore

perché elevi la mente al ciel!

Tu nella neve sei la purezza,

nella tempesta sei il peccato,

che strugge quanto Dio ci ha dato

e poi ritorni tutto a lavar!

Tu nel diluvio fosti lavacro

e nel mar Rosso liberatrice

poi nel Giordano, il Vangelo dice,

hai battezzato il Cristo Gesù!

 

Sorella acqua!

 

Giuseppe Guarisco


Verbo eterno di Dio..Adriana Zarri

Lasciate solo la terra

che scriva, a primavera,

un'epigrafe d'erba.

 

E dirà

che ho vissuto,

che ho atteso,

 

che attendo

 

Adriana Zarri

Ormai si è fatto scuro e io accendo la Luce

Adriana Zarri

 

Se ora volessi chiudere con un congedo edificante vi potrei dire: "Ricordatevi che, in una cascina, in mezzo alla campagna, c'è un'eremita che prega". Ma mi parrebbe estremamente pletorico. Sento il bisogno di semplificare, di ridurre all'essenza: spoglio, nudo, un osso. Lasciamo cadere l'eremitismo, il monachesimo, la cascina, la campagna, perfino la preghiera. Preferisco dire che vivo: mi sembra più semplice e più ricco perchè la vita comprende la preghiera, e forse la preghiera comprende la vita ed è la vita stessa. E non è necessario ricordarmi; ma, se mai, i termini sono questi: "In una casa c'è una persona che vive". E non è poi quello che diciamo sempre quando ci chiedono: "In quella casa chi ci abita?" e noi rispondiamo: "C'è Tizio; ci abita Caio".

 Quanto narrare per concludere con quasi nulla, quasi una banalità! E sbiadiscono tutte le strutture: anche quelle più care, quelle che mi hanno portato e che mi portano, che mi fanno esser chi sono e come sono ma non dissimile, nella profondità, da ogni uomo che vive, che lavora, studia, s'interroga, si tormenta... e tutto questo ripiegarsi e complicarsi è per scoprire la semplicità.

Sono un'eremita come potrei essere una suora, o una moglie o un padre; vivo in una cascina di campagna come potrei vivere in un monastero o in un appartamento di città; faccio la scrittrice come potrei fare la sarta. Niente importa perché tutto è importante nella medesima maniera.

 

 Ormai s'è fatto scuro e io accendo la luce. Si vede, fin dalla strada, la luce del Molinasso. Anch'io rischiaro debolmente il buio come ogni finestra che s'accende di notte. Uno passa, vede quei piccoli punti luminosi e pensa che c'è una casa, un uomo, una vita. "In una casa c'è una persona che vive".

ADRIANA ZARRI. MONACO IN DIALOGO

Giannino Piana

 

Il mondo interiore di Adriana Zarri [*], una vera mistica del nostro tempo, non è facile da decifrare. Sebbene siano molti i testi di spiritualità che ci ha lasciato – alcuni dei quali di rara intensità[1] – la sua figura di donna votata alla vita monastica risulta a chi l’ha conosciuta da vicino (e per un lunghissimo periodo della sua esistenza) caratterizzata da mille sorprendenti sfaccettature che non si lasciano imbrigliare dentro una scrittura, sia pure carica sempre di un’impronta fortemente personale, come la sua.

 

La ricchezza della personalità e la estrema varietà degli interessi coltivati confluivano in lei attorno ad un asse fondamentale, che dava unità alla sua esistenza: la ricerca insonne di Dio in un rapporto stretto con la terra in tutte le sue componenti – dagli uomini agli animali al mondo vegetale (è sufficiente ricordare la passione di Adriana per i gatti e, finché le è stato concesso dalla salute, l’allevamento degli animali da cortile e la coltivazione dell’orto) – aderendo alle radici contadine, che hanno segnato profondamente la sua identità umana e religiosa[2].

 

Ad avvalorare questa visione vi è poi il suo essere donna: l’appartenenza di genere si riflette decisamente anche sulla sua spiritualità, che ha i connotati di una spiritualità al femminile. Anche a questo proposito emerge tuttavia l’originalità di Adriana: la sua adesione alle lotte femministe è stata infatti sempre contrassegnata da un vero (e profondo) coinvolgimento e insieme dalla rivendicazione di una grande libertà e indipendenza di giudizio.

 

Nel cuore di una spiritualità della vita quotidiana

La spiritualità di Adriana coinvolge dunque – come si è accennato – la realtà in tutte le sue dimensioni.  Il profumo dei campi nelle diverse stagioni, il colore variegato dei fiori, il fruscio delle fonde e il verso degli animali e (soprattutto) le vicende degli uomini, quelle dei poveri in particolare, segnano l’incontro con un Dio che è dentro la storia: il Dio che si è definitivamente manifestato nella persona di Gesù di Nazaret. Ma l’aspetto che contraddistingue, in modo speciale, il suo approccio, e che la avvicina alla spiritualità francescana, è l’accento posto sull’importanza che ha avuto, nel «farsi carne» (sarx) del Figlio di Dio, la dimensione «spaziale» (e non solo «temporale»), il «divenire natura» (e non solo storia).

 

Il creato, in tutta la ricchezza delle sue espressioni, assume il carattere di habitat (spazio opportuno) che, rapportandosi al kairòs (tempo opportuno), conferisce alla dimensione contemplativa un orizzonte cosmico. L’esperienza di Dio nel mondo fa della vita quotidiana, nella molteplicità delle sue espressioni, non solo la sorgente ma anche la modalità secondo la quale vivere la relazione con il divino. Vi è dunque una profonda continuità tra vita spirituale e vita quotidiana, perché il Dio della rivelazione è – come ci ricorda la lettera ai Filippesi da Adriana spesso citata – colui che in Gesù Cristo «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» e «facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8).

 

Dio e mondo sono dunque per Adriana in un rapporto di circolarità: da un lato, la immagine del Dio cristiano non può prescindere dalla sua relazione con il mondo di cui è entrato a far parte; dall’altro, il mondo è da questa relazione riscattato; diviene anticipazione del Regno. Questa visione della realtà, che sollecita l’impegno nel presente e l’attesa del futuro, ha per Adriana una perfetta esplicitazione nella preghiera del Padre nostro, dove alla richiesta del pane quotidiano («Dacci oggi il nostro pane quotidiano») corrisponde l’invocazione del compiersi del Regno («Venga il tuo Regno») e dell’adempimento della volontà del Padre (“Sia fatta la tua volontà”) (Mt 6, 9-13).

 

La dimensione trinitaria

La dinamica relazionale, che è l’asse portante della spiritualità di Adriana, ha poi nel mistero trinitario le sue radici. Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, che Gesù di Nazaret ha reso trasparente nella sua persona e attraverso la sua azione, è il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo: un Dio nel quale la relazione coincide con la stessa natura: le persone che costituiscono il mistero divino sono in quanto si rapportano tra loro.

 

La definizione che di Dio fornisce la prima lettera di Giovanni: «Dio è carità» (1 Gv 4, 8) ha qui la sua più profonda motivazione. Trinità e carità sono strettamente correlate e interdipendenti. Solo di un Dio che vive in comunione di persone è infatti possibile dire che è Amore (e non semplicemente che ha l’amore), perché l’amore implica la relazione tra persone, che si costituiscono nel reciproco donarsi. In un libro di preghiere (o di quasi preghiere) che reca significativamente il titolo Tu[3], Adriana si rivolge a Dio come a Qualcuno cui è possibile dare del tu, giungendo a livelli di intimità che ricordano le grandi esperienze mistiche – da maestro Eckhart a Giovanni della Croce e a Teresa d’Avila – alle quali spesso Adriana fa riferimento nei suoi scritti.

 

L’incontro profondo ma sempre inevitabilmente limitato con il tu divino – la conoscenza di Dio è quaggiù parziale («per speculum et in aenigmate») –  è la molla che spinge Adriana ad accostarsi alla morte, che ella considera una componente essenziale della vita – il contatto con la natura cui è stata abituata fin dall’infanzia facilitava la consapevolezza di questa continuità – come al passaggio da questa vita alla vita nuova, nella quale diviene finalmente possibile entrare in una relazione «faccia a faccia» con il Signore, che consente di conoscerlo come egli è («sicuti est»).

 

Due attitudini esistenziali: ascolto e ricettività

La spiritualità di Adriana non si esaurisce tuttavia nella sola adesione ai presupposti fondativi ricordati; si rende concreta in una serie di attitudini esistenziali, due delle quali meritano di essere particolarmente ricordate.

 

La prima è l’ascolto. Le religioni del Libro sono religioni dell’ascolto: «Ascolta Israele» è l’invito che, fin dall’inizio, Dio rivolge al suo popolo. Ma l’ascolto – Adriana lo mette bene in evidenza – non si esaurisce (e non può esaurirsi) in un semplice sentire; esige un ridimensionamento dell’io per fare spazio all’accoglienza dell’altro e alla comprensione del suo messaggio. Esige la creazione di un clima di silenzio e la disponibilità a fare propria la povertà evangelica, che è insieme sobrietà nei confronti delle cose e apertura fiduciale alla grazia divina. La scoperta del mondo degli altri e dell’Altro è legata all’abbandono di ogni forma di autoreferenzialità, quale frutto di una profonda trasformazione interiore, una vera metanoia.

 

Una seconda attitudine, particolarmente cara ad Adriana, è la ricettività, che ella considera un habitus esistenziale in stretta sintonia con il vissuto femminile. Destinata ad essere custode della vita, la donna ha sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti di tale attitudine, la quale, lungi dall’identificarsi con la passività, è l’espressione (forse) più alta di attività, in quanto esige, per potersi esplicare, un processo di interiorizzazione, che consenta di riconoscere l’altro nella sua alterità, senza proiezioni mistificatorie.

 

D’altra parte, la ricettività non è soltanto una virtù umana, per quanto grande; è anche – a  questo va soprattutto ricondotta l’importanza che Adriana attribuisce ad essa – la condizione fondamentale per vivere la relazione con il Dio cristiano, il quale viene costantemente incontro all’uomo, andando alla sua ricerca anche quando si è colpevolmente allontanato da Lui. La fede non comporta dunque un andare verso Dio, ma un disporsi a riceverlo, creando le condizioni per accoglierlo, lasciandosi fare e amare da Lui.

 

La preghiera e l’eremo

L’esperienza spirituale fin qui evocata ha per Adriana il suo momento più alto nella preghiera, o meglio nel pregare, il quale, lungi dal ridursi a fare o a dire preghiere, è un vero e proprio modo di essere-al-mondo. Il Dio della rivelazione biblica è il Dio dell’alleanza, che entra in comunione vitale con l’uomo ma che, al tempo stesso, gli impone di non raffigurarlo nè nominarlo, rivendicando in questo modo la sua assoluta Alterità. La preghiera è dunque ascolto, incontro e relazione, ma è anche rispetto di una distanza che non può mai essere del tutto colmata. È un vivere alla presenza di Dio, fare esperienza dell’essere abitati da Lui, ma è anche riconoscimento dell’assenza; è rifiuto di catturarlo per servirsene, evitando di assumersi fino in fondo la propria responsabilità nel mondo.

 

La preghiera è una cosa seria che implica la confidenza, ma che non può essere viziata da sdolcinature impudiche – il tema del pudore ricorre con frequenza nei testi spirituali di Adriana come un’istanza che deve connotare ogni espressione religiosa – e che non deve essere separata dal contesto in cui si sviluppa l’esistenza. L’incontro con Dio rinvia all’impegno nel mondo; l’atto cultuale non ha alcun significato se non si traduce in culto spirituale, nella capacità di coniugare incontro con Dio e fedeltà all’uomo e alla terra, immettendo nel dialogo religioso le inquietudini e le speranze umane.

 

La preghiera di Adriana ha questo timbro; da essa scaturisce la militanza che ha contrassegnato l’intera sua esistenza, con la partecipazione diretta alle battaglie contro le diseguaglianze sociali e per la promozione dei diritti civili. L’eremo non è stato per lei un luogo separato dal mondo, ma un angolo appartato dal quale guardare con lucidità e partecipazione le vicende umane e mondane. La solitudine del monaco – Adriana preferiva definirsi così, al maschile, per l’accezione equivoca acquisita dal termine femminile – non è isolamento; è un processo di riappropriazione del mondo interiore, che restituisce all’uomo la libertà, rendendolo capace di esercitare il discernimento profetico nei confronti della realtà.

 

Una spiritualità, quella di Adriana, la cui grande linearità e coerenza, ha suscitato talora forti contestazioni da parte di ambienti ecclesiastici tradizionalisti; ma che ha, nel contempo, favorito la nascita di profonde amicizie religiose e laiche – come non ricordare dom Benedetto Calati e Rossana Rossanda? – che hanno concorso ad arricchire la sua esperienza religiosa e civile (e di cui hanno fruito quanti hanno frequentato i suoi incontri). Una spiritualità soprattutto, nella quale la tensione alla trascendenza, lungi dal vanificare la dedizione nei confronti dell’uomo e della terra, ha fornito piuttosto lo stimolo all’esercizio di una limpida e feconda testimonianza in favore della città degli uomini.

 

Giannino Piana

Già docente di etica cristiana alla Libera Università di Urbino e di etica ed economia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Socio fondatore e membro del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti

 

[*] Il 26 aprile Adriana Zarri [1919-2010] avrebbe compiuto cento anni. La rivista Il Gallo, che aderisce alla Rete Viandanti, ha chiesto a Giannino Piana di ricordarla nella sua personalità, nella sua spiritualità e nel suo pensiero.

L’articolo è apparso su “Il Gallo” numero 800 (maggio 2019) pp. 8-9.

 

[1] Tra le opere più significative vanno ricordate:

È più facile che un cammello… Gribaudi, Torino 1975; Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera, Cittadella, Assisi 1978; Erba della mia erba. Resoconto di vita, Cittadella, Assisi 1981; Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011; Quasi una preghiera, Einaudi, Torino 2012.

[2] Cfr. Con quella luna negli occhi, Einaudi 2014.

 

[3] Tu. Quasi preghiere, Gribaudi, Torino 1973.


 

LA PREGHIERA È LA CONTESTAZIONE PIÙ PROFONDA”. ADRIANA ZARRI, UNA MISTICA DEL NOSTRO TEMPO

 

 

«Due ginocchia prostate a terra in preghiera, due mani aperte nel cielo ad abbracciare l’universo»: si ritraeva così Adriana Zarri, monaco laico, teologa e scrittrice, nel suo primo libro, L’arcobaleno delle ore (Edizioni Il giorno, 1947). E così ha vissuto fino alla morte, come testimoniano le sue opere: con le mani sporche di mondo, di deserto, di preghiera. Con le mani inquinate di terrestrità pur nell’incessante anelito alle stelle, alle galassie, a Dio. Mani aperte nel cielo, con le gambe distese tra un filo d’erba e l’altro: questo significava per lei pregare. Vivere al vocativo: sentirsi chiamati e chiamare, come ceste vuote, recipienti nudi da riempire di Spirito, «in un appello perenne, in una continua esclamazione di stupore, incontrare […] Dio che pronuncia il nostro nome; e pronunciare noi il suo (Gv 20, 11-18) che è il nome stesso della vita» (Nostro Signore del deserto, Rubettino, 2013, p. 208; prima edizione: Cittadella, 1978).

 

 

Scrivere di Adriana Zarri (1919-2010) porta a chiedersi anzitutto se sia possibile raccontare un’esperienza di silenzio. Nel 1970 decise infatti – dopo una lunga attività teologica e giornalistica, spesso polemica e senz’altro libera e originale (fu la prima donna in Italia a occuparsi di teologia ed ecclesiologia, con senso critico e coraggiosa militanza) di approfondire a tutto tondo la vocazione eremitica, trasferendosi inizialmente da Roma al castello di Albiano dIvrea, dove rimase per un po anche insieme ad altri monaci, e poi a Perosa Canavese, al Molinasso, una cascina abbandonata immersa tra i rovi, luogo che vide avverarsi la sua svolta di fede verso una più autentica adesione al monachesimo laico, di cui fu, già dalla giovinezza segnata da un periodo trascorso in convento, nella Compagnia di San Paolo del Cardinal Ferrari innovativa e radicale esponente. Una delle Lettere dalleremo, scritta proprio durante linsediamento al Molinasso, ne rievoca la bellezza e la posizione molto isolata: «La mia casa, nella sua parte posteriore, dà sui campi e, più oltre, su un bosco che costeggia un fiume. È il deserto. Nessuna voce se non, in lontananza, lo scorrere dell’acqua, nessuna strada, nessuna casa, se non, lontanissimo, aggrappate sui monti. Sul davanti invece la solitudine è più attenuata. C’è il viottolo poderale che porta alla strada. A un’opportuna distanza, che difende il mio silenzio (oltre, cioè, a mezzo chilometro), vedo passare le macchine, i trattori, le pecore… A un paio di chilometri visibili d’inverno, con la caduta delle foglie alcune case di contadini. Di notte, quando non c’è la nebbia, vedo le loro finestre illuminate. A volte (di rado, se il vento è favorevole) mi giunge perfino una voce umana. È la vita con le sue strade, con le sue case, le sue finestre accese, nella notte; e il lontano vociare degli uomini. Una voce che giunge di tanto in tanto non è un disturbo: è come una visita di umanità che ci riscalda l’animo e lo rende ancor più disponibile all’amore» (in «Rocca», 15 gennaio 1978).

Adriana Zarri..l'inquietudine della fede

 

Il 18 novembre 2010 moriva Adriana Zarri, poliedrica e singolare figura del cattolicesimo italiano, pubblicista, teologa, eremita e donna libera che ha saputo nella sua lunga esistenza, non priva di contraddizioni, tenere la linea della testimonianza cristiana come bussola e orizzonte in una società in tumulto come quella novecentesca. Nell’ambito del progetto 900Storie a cura del Centro Studi Piero Gobetti, la Fondazione Donat-Cattin ricorda, in una settimana a lei dedicata, la figura, il pensiero, l’azione culturale e la spiritualità. Il primo appuntamento si è tenuto lunedì 2 novembre sulle piattaforme social della Fondazione Donat-Cattin e del Polo del ‘900 con un  breve filmato della teologa Morena Baldacci, liturgista e docente, che ha introdotto il tema della teologia vissuta e pensata, pregata e studiata da una donna, e un podcast con letture e brani scelti dalla produzione ricca e articolata del pensiero della Zarri. Giovedì 5 novembre, alle 18,00 in modalità streaming sui canali della Fondazione Donat-Cattin e del Polo del 900, si svolgerà un confronto con i teologi Ermis Segatti, Stella Morra e la storica Mariangela Maravaglia, autrice della prima biografia critica “Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri” appena pubblicata da “Il Mulino”. Il confronto sarà inframmezzato da letture dell’attrice Eleni Molos tratte da brani di saggi della Zarri. Introdurrà i lavori Luca Rolandi, giornalista e ricercatore della Fondazione Carlo Donat-Cattin.

 

 

Adriana Zarri nasce a San Lazzaro di Savena, vicino a Bologna, nel 1919. I suoi studi e il suo impegno furono subito orientati al confronto con il Cristianesimo e con una chiesa cattolica da portare oltre la visione di Pio XII. È diventata, anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, una delle più importanti testimoni di quella fedeltà al Vangelo che si coniuga – proprio in virtù di una verità che rende liberi – con la più schietta laicità. Antifascista, coinvolta nei problemi sociali, decisa a difendere la libertà di coscienza, si trasferisce a Roma dove studia teologia. Diventa giornalista e scrive dapprima su tutti i giornali e le riviste di area religiosa: l’«Osservatore romano», «Studium», «Servitium», «Il Regno», «Concilium», «Rivista di teologia morale» (RTM), «Rocca». In seguito collabora assiduamente a «Politica» e «Settegiorni» le riviste di punta su cui la sinistra democristiana si confronta con i fermenti ecclesiali, politici e sociali. Infine collabora a “Micromega” e a “Il Manifesto”. Naturalmente i tanti libri editi da Locusta, Cittadella, Borla, e dopo la sua morte da Einaudi. Ha partecipato anche a trasmissioni radiofoniche (Uomini e profeti) e televisive (la Samarcanda del primo Santoro). Note le sue posizioni molto dure anche contro la gerarchia e su temi etici che però non hanno offuscato nella memoria collettiva le sue radici profondamente evangeliche e fedeli alla dottrina cattolica, ovviamente sempre imperniati su conflitti di coscienza e di fede umana e divina. Poi all’inizio degli anni Settanta, dopo i vorticosi anni del post-Concilio, la sua presenza attiva alla Pro Civitate Christiana di don Giovanni Rossi ad Assisi, in molti gruppi del dissenso cattolico, senza mai una adesione e con molti distinguo e infine la scelta eremitica che in località diverse dell’area dell’eporediese, accolta dal vescovo di Ivrea mons. Luigi Bettazzi, che caratterizzerà gli ultimi 35 anni della sua esistenza. E’ sepolta nel cimitero canavesano di Crotte, una frazione di Strambino, dove visse gli ultimi anni nel suo eremo di Ca’Sassino. Per la sua tomba, in terra, scrisse lei stessa quella che definì “un’epigrafe d’erba”: “Non mi vestite di nero:è triste e funebre. Non mi vestite di bianco: è superbo e retorico. Vestitemi a fiori gialli e rossi e con ali di uccelli. E tu, Signore, guarda le mie mani. Forse c’è una corona. Forse ci hanno messo una croce. Hanno sbagliato. In mano ho foglie verdi e sulla croce, la tua resurrezione. E, sulla tomba, non mi mettete marmo freddo con sopra le solite bugie che consolano i vivi. Lasciate solo la terra che scriva, a primavera, un’epigrafe d’erba. E dirà che ho vissuto, che attendo. E scriverà il mio nome e il tuo, uniti come due bocche di papaveri”.


Verso un sapere dell'anima..Maria Zambrano

«L’anima si è rivolta alla sua interiorità, nel suo centro si è trovato quel punto d’identità, eterno e impassibile, che è dentro l’uomo, che non lo trascina fuori di sé come oggetto del mondo intelligibile. L’agognata unità si ottiene in altro modo, è un altro genere di unità in cui la vita ha preso, grazie a questo centro interiore, i caratteri dell’essere autentico; è unità vera ed eterna».

 

 

Maria Zambrano

 

 

Perché si scrive

 

María Zambrano

 

 

 

Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.

E’ una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.

Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta.

E da questa sconfitta intima, umana, non di un singolo uomo ma dell’essere umano, nasce l’esigenza di scrivere. Si scrive per rifarsi della sconfitta subita ogni­ qualvolta abbiamo parlato a lungo.

La vittoria, del resto, può darsi solo dove si è subita la sconfitta, nelle stesse parole. Queste stesse parole avranno ora, nello scrivere, una diversa funzione: non serviranno più il momento oppressore, non serviranno più a giustificarci di fronte all’assalto del momentaneo, bensì, partendo dal centro del nostro essere raccolto in se stesso, ci difenderanno di fronte alla totalità dei momenti, di fronte alla totalità delle circostanze, di fronte alla vita intera.

C'è nello scrivere un trattenere le parole, come nel parlare c'è invece un liberarle, un distaccarsi da noi. Scrivendo si trattengono le parole, le si fanno proprie, soggette a ritmo, contrassegnate dal dominio umano di chi in questo modo le maneggia. Ciò indipendentemente dal fatto che lo scrittore si preoccupi delle parole, scelga coscientemente e le disponga in un ordine razionale, conosciuto.Al contrario, basta essere scrittore, scrivere spinti da questa intime necessità di liberarsi delle parole, di superare completamente la sconfitta subita, perché si verifichi questo trattenimento delle parole. La volontà di trattenere si trova già al principio, alla radice dell'atto stesso di scrivere e l'accompagna permanentemente. Le parole vanno così cadendo precise, in un processo di riconciliazione dell'uomo che le libera trattenendole, di chi le pronuncia con cauta generosità.

Ogni vittoria umana deve essere riconciliazione, ritrovamento di un amicizia perduta, riaffermazione dopo un disastro del quale l'uomo è stato la vittima; vittoria in cui non potrebbe esistere umiliazione dell'avversario, poiché in tal caso non sarebbe più vittoria, cioè gloria per l'uomo.

Sì, perché lo scrittore cerca la gloria la gloria di una riconciliazione con le parole, precedenti tiranne della sua potenza di comunicazione. Vittoria di un potere di comunicazione. Lo scrittore infatti esercita non solo un diritto richiesto dalla sua stringente necessità, ma anche un potere, una potenza di comunicazione che accresca la sua umanità, che porti l'umanità dell'uomo a limiti appena scoperti, ai limiti del valore umano, dell'essere umano, con l'inumano, ai quali lo scrittore giunge, vincendo nel suo glorioso incontro di riconciliazione con le parole tante volte traditrici. Salvare le parole dalla loro vanità, dalla loro vacuità, dando loro consistenza, forgiandole durevolmente, è lo scopo che persegue, anche senza saperlo, chi scrive davvero.

C'è infatti uno scrivere parlando, quello che scrive "come se parlasse", e già questo "come se" deve farci diffidare, poiché la ragione d'essere qualcosa deve essere ragione d'essere questo e questo soltanto. Fare una cosa "come se fosse" un'altra la impoverisce e le sottrae tutto il suo significato, ponendo in dubbio la sua necessità.

Scrivere diventa il contrario di parlare: si parla per soddisfare una necessità momentanea immediata e parlando ci rendiamo prigionieri di ciò che abbiamo pronunciato; nello scrivere, invece, si trova liberazione e durevolezza – si trova liberazione soltanto quando approdiamo a qualcosa di durevole. Salvare le parole dalla loro esistenza momentanea, transitoria, e condurle nella nostra riconciliazione verso ciò che è durevole, è il compito di chi scrive.

Ma le parole dicono qualcosa. Che cosa vuol dire lo scrittore e a quale scopo? Perché e per chi?

Vuole dire il segreto, ciò che non si può dire a voce perché troppo vero; le grandi verità non si è soliti dirle parlando. La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo è il silenzio delle vite, e che non può essere detto. “Ci sono cose che non si possono dire”, ed è indubitabile. Ma è proprio ciò che non si può dire che bisogna scrivere.

Scoprire il segreto e comunicarlo sono i due stimoli che muovono lo scrittore.

Il segreto si rivela allo scrittore mentre lo scrive, non quando lo pronuncia. La parola rivela segreti soltanto nell'estasi, fuori dal tempo nella poesia. La poesia è segreto parlato, che deve essere scritto per fissarsi, non per essere prodotto. Il poeta esprime con la propria voce la poesia il poeta ha sempre voce, canta, o piange il suo segreto. Il poeta parla, trattenendo le parole nel dire, misurandole e creandole nel dire della sua voce. Si riscatta da esse senza renderle mute, senza ridurle al solo mondo visibile, senza cancellarle dal suono. Lo scrittore invece incide, fissa immediatamente senza voce. Perché la sua solitudine è diversa da quella del poeta. Allo scrittore nella sua solitudine il segreto si rivela non del tutto, ma in un divenire progressivo. Scopre a poco a poco il segreto nell'aria e sente il bisogno di fissare il suo tracciato per poter poi alla fine abbracciare la totalità della sua figura... Ciò anche quando possiede uno schema antecedente all'ultima realizzazione. Lo schema stesso dice già che c'è stato bisogno di fissarlo progressivamente in una figura, di comporlo linea per linea.

Ansia di svelare, ansia incontenibile di comunicare ciò che si è svelato; duplice tafano che assilla l’uomo, facendo di lui uno scrittore. Quale doppia sete è mai questa? Quale essere incompleto è costui che produce in sé tale sete, che si placa solo scrivendo? Scrivendo soltanto? No; solo per mezzo dello scrivere. Quello che lo scrittore persegue, è il puro scritto o qualcosa che si ottiene per mezzo dello scritto?

Lo scrittore esce dalla sua solitudine per comunicare il segreto. Quindi non è già più lo stesso segreto conosciuto da lui quello che lo colma, dato che ha bisogno di comunicarlo. Sarà piuttosto questa comunicazione? Se è così, l’atto dello scrivere è solo un mezzo, e lo scritto, lo strumento forgiato. Ma a caratterizzare lo strumento è il fatto che viene forgiato in vista di qualcosa, e questo qualcosa è ciò che gli conferisce la sua nobiltà e il suo splendore. E’ nobile la spada perché è fatta per il combattimento, e la sua nobiltà cresce se la mano d’opera l’ha forgiata con maestria, senza che questa bellezza di forma scalzi il suo primo significato: l’essere stata creata per la lotta.

Lo scritto è ugualmente uno strumento di cui si serve quest’ansia incontenibile di comunicare, di “pubblicare” il segreto trovato, e la bellezza formale che possiede non può sottrargli il suo primo significato: produrre un effetto, far sì che qualcuno venga a sapere qualcosa.

Un libro, finché non viene letto, è soltanto un essere in potenza, in potenza come una bomba inesplosa. Ogni libro deve avere qualcosa della bomba, di un evento il cui verificarsi minaccia e, anche semplicemente con la sua vibrazione, mette in risalto la falsità.

Come chi lancia una bomba, lo scrittore scaglia fuori di sé, dal suo mondo e quindi dall'ambiente che può controllare, il segreto trovato. Non sa che effetto produrrà a seguito della sua rivelazione, nè può dominarlo con la sua volontà. Perciò è una atto di fede, come mettere una bomba o appicar fuoco a una città; è un atto di fede, come lanciarsi su qualcosa la cui traiettoria non è in nostro possesso.

Puro atto di fede è lo scrivere e ancor di più perché il segreto rivelato non smette di essere tale per chi lo comunica scrivendolo. Il segreto si mostra allo scrittore, senza rendersi spiegabile; non smette cioè di essere un segreto per lui prima che per chiunque altro, e forse per lui soltanto, poiché il destino di chi in incappa per primo in una verità è quello di trovarla per mostrarla agli altri, lasciando che siano questi, suo pubblico a sviscerarne il significato.

È un atto di fede lo scrivere, e come ogni fede, di fedeltà. Lo scrivere richiede fedeltà prima di ogni altra cosa: essere fedeli a ciò che chiede di essere tratto fuori dal silenzio. Una cattiva trascrizione, un’interferenza delle passioni dell’uomo che è scrittore distruggeranno la fedeltà dovuta. È il caso dello scrittore opaco, che interpone le sue passioni tra la verità scritta e coloro a cui sta per comunicarla.

Il fatto è che lo scrittore non deve esibire se stesso, anche se da sé trae ciò che scrive. Trarre qualcosa da sé è tutto il contrario dell’esibire se stesso. E se il trarre da sé con polso sicuro l’immagine fedele dà trasparenza alla verità dello scritto, il porre con vuota incoscienza le proprie passioni davanti alla verità l’appanna e l’oscura. La fedeltà, per essere conseguita, esige una totale purificazione dalle passioni, che devono essere messe a tacere per far posto alla verità. La verità ha bisogno di un grande vuoto, di un silenzio in cui poter prendere dimora senza che nessun’altra presenza si mischi alla sua, falsandola. Chi scrive, mentre lo fa, deve far tacere le proprie passioni e, soprattutto, la sua vanità. La vanità è una gonfiatura di qualcosa che non è riuscita a essere e si gonfia per coprire il suo vuoto interiore. Lo scrittore vanitoso dirà tutto ciò che deve essere taciuto per mancanza d'entità, tutto ciò che per non essere davvero non deve essere messo in chiaro, e per dirlo tacerà iò che deve essere rivelato, lo passerà sotto silenzio o lo falserà con la sua intromissione vanitosa. La fedeltà crea in chi la rispetta la solidità, l'integrità del suo stesso essere. La fedeltà esclude la vanità, che consiste nell'appoggiarsi su ciò che non è, su ciò che non è verità. Questa verita' è quella che ordina le passioni senza sradicarle, le fa servire, le pone al loro posto, nell'unico punto da cui sostengono l'edificio della persona morale che con esse si forma per opera della fedeltà a quel che è vero. Così, l’essenza dell’uomo scrittore si forma in questa fedeltà con cui egli trascrive il segreto che rende pubblico, quale uno specchio fedele della sua figura, senza permettere alla vanità di proiettare la sua ombra, e di sfigurarla. Se infatti lo scrittore rivela il segreto non è per un atto di volontà, né per l’ambizione di mostrarsi qual è (cioè come non riesce a essere) davanti al pubblico. In realtà esistono segreti che esigono di per se stessi di essere rivelati, resi pubblici.

Quel che si pubblica serve perché qualcuno, uno o tanti, viva tenendo presente quanto è venuto a conoscere, perché viva in modo diverso dopo averlo conosciuto; serve a liberare qualcuno dalla prigione della menzogna, o dalle nebbie del tedio, che è la menzogna vitale. Ma forse a tale risultato non si può giungere se, filantropicamente, lo si assume come obiettivo in sé. Quel che pubblica, che lo si voglia o no, libera ciò che ha il potere per questo o per il contrario, ma senza tale potere non serve nulla il volerlo. Esiste un amore impotente, che si chiama filantropia. "Senza la carità la fede che muove le montagne non serve a nulla", dice san Paolo, e aggiunge: "La carità è l'amore di Dio".

Senza fede la carità decade ad ansia impotente di liberare i nostri simili da un carcere da cui non riusciamo a prevedere l'uscita. Dà la libertà solo chi è libero "La verità vi farà liberi". La verità ottenuta mediante la fedeltà purificatrice dell'uomo che scrive.

Ci sono segreti che hanno bisogno di essere resi pubblici e sono quelli che visitano lo scrittore approfittando della sua solitudine, del suo effettivo isolamento, che gli fa avere sete. Di un essere assetato e solitario ha bisogno il segreto per posarvisi sopra, chiedendogli, nel dargli progressivamente la sua presenza, che la vada fissando, per mezzo della parola, in tracciati durevoli.

Un essere appartato da sé e dagli uomini, e persino dalle cose, poiché solo nella solitudine si sente la sete di verità che colma la vita umana, una sete di riscatto di vittoria sulle parole che ci sono sfuggite tradendoci; sete di vincere per mezzo della parola gli istanti vuoti trascorsi, il fallimento incessante di lasciarci andare attraverso il tempo.

In questa solitudine assetata anche la verità, benché occulta, si rivela, ed è proprio lei che chiede di essere messa in chiaro. Chi l’ha vista a poco a poco non la conosce se non la scrive, e la scrive perché gli altri la conoscano. A rigore, se si mostra a lui, non è a lui in quanto individuo determinato, ma in quanto individuo del medesimo genere di coloro che devono conoscerla; e gli si mostra approfittando della sua solitudine e ansia, del suo far tacere lo schiamazzo delle passioni. Ma non è propriamente a lui che essa si mostra. Dal momento che lo scrittore conosce a seconda che scrive e scrive già per comunicare agli altri il segreto trovato, è in realtà a questa comunicazione, a questa comunità spirituale dello scrittore con il suo pubblico che la verità si mostra.

La comunicazione di ciò che è nascosto, che a tutti si offre mediante lo scrittore è la gloria; la gloria quale manifestazione della verità nascosta fino al presente, che dilaterà gli istanti trasfigurando le vite. È la gloria che lo scrittore spera pur senza dirselo è che raggiunge quando, ponendosi in ascolto con fede nella sua solitudine assetata, sa trascrivere fedelmente il segreto disvelato; la gloria di cui è soggetto degno dopo lo spontaneo martirio vissuto nel perseguire, catturare e trattenere le parole per adattarle alla verità. Per questa ricerca eroica la gloria ricade sulla testa dello scrittore, si riflette su di essa. Ma la gloria a rigore è di tutti; si manifesta nella comunanza spirituale dello scrittore con il suo pubblico e la trascende.

Tale comunanza tra scrittore e pubblico, contrariamente a quanto si crede, non si forma dopo che il pubblico ha letto l’opera pubblicata, bensì prima, nell’atto stesso in cui lo scrittore scrive la sua opera. La comunanza dello scrittore con il suo pubblico si crea pertanto nel momento in cui si rende manifesto il segreto. E pubblico esiste prima dell’eventuale lettura dell’opera, esiste dall’inizio dell’opera, coesiste con essa e con lo scrittore in quanto tale. E in realtà riusciranno ad avere un pubblico solo quelle opere che l’avevano già dal principio. Lo scrittore perciò non ha bisogno di porsi il problema dell’esistenza di tale pubblico, dato che esso esiste insieme a lui dacché ha cominciato a scrivere. Questa e' la sua gloria, che sempre giunge in risposta a chi non l'ha cercata né desiderata, anche se la presagisce e la desidera per trasformare con essa la molteplicità del tempo, trascorso, perduto, in un solo istante, unico, compatto ed eterno.

 

 

(Verso un sapere dell'anima, Raffaello Cortina 1996, pp.23-31)


Verso un sapere

 

dell'anima

 

María Zambrano

 

Ogni epoca trova una sua giustificazione di fronte alla storia per la scoperta di una verità che in essa acquista chiarezza. Quale sarà mai la verità della nostra epoca? Quale la sua manifestazione? Le verità hanno i loro precursori, che scontano con la pena dell'oblio la colpa di aver visto lontano.

Ma i precursori si riconoscono soltanto dalla pienezza della verità che li ha preceduti; solo dal possesso di questa verità si comprende il significato delle loro enigmatiche parole. Unicamente nella verità rischiarata si riconosce la verità seminascosta.

La rivelazione a cui stiamo assistendo nei tempi odierni è quella dell'uomo nella sua vita, rivelazione prodotta dalla Filosofia che, a sua volta, in essa si rivela. Dalla Filosofia che impiega i suoi strumenti razionali per gettar luce sulla Scienza, "Scienza delle scienze", si è tornati, senza tuttavia disperdere tale eredità, a un fatto sorprendente e assolutamente meraviglioso: la Filosofia, il pensiero in tutta la sua purezza, si lancia con l'impeto della passione non per divorare se stessa, come solo la passione fa, ma per indugiare opportunamente e portarci intatta la preda, prima che questa possa sfuggirle.

La passione da sola mette in fuga la verità, che, suscettibile e agile, riesce a sottrarsi alle sue grinfie. La ragione da sola non riesce a sorprendere la preda. Mentre passione e ragione unite, o meglio, la ragione appassionata che si slancia con impeto ma sa poi trattenersi al momento giusto, riescono a catturare senza danno la nuda verità.

La Filosofia è quindi, come diceva Platone parlando di Pitagora, "cammino di vita". La verità è l'alimento della vita, che tuttavia non la divora ma la tiene in alto, fissandola infine nel tempo, poiché "il tempo passa e la parola del Signore resta".

Così, l'essere consapevoli che nel tempo in cui viviamo si porta alla luce della- ragione una verità, ci conforta e ci aiuta a sopportare l'angoscia di passare con esso. "Tutto scorre" sarebbe la grande consolazione dei Quietisti se nel tutto non fossimo compresi anche noi, se con il tempo che passa non passasse anche la nostra vita. Aggrappandoci alla verità, alla nostra verità, legandoci alla sua scoperta per averla accolta dentro di noi, fissandola nel nostro essere, sentiamo che il nostro tempo non passa, o almeno non invano. Del suo passare rimane qualcosa, come nel fluire dell'acqua del fiume, che scorre e si trattiene. "Tutto scorre": scorre l'acqua del fiume, però il fiume stesso e il suo letto rimangono. È necessario che ci sia un percorso, e il percorso della vita è la verità.

È indispensabile che un fiume abbia un letto, altrimenti non si avrebbe un fiume ma un pantano. Potendo sfuggire, l'acqua avrebbe l'illusione momentanea di aver ottenuto la libertà, di aver riacquistato l'integrità della sua potenza. Ma la potenza si esaurisce in assenza di argini; anche con íl solo ostacolo rappresentato dalla sua estensione illimitata, la furia dell'acqua incanalata scenderebbe sopraffatta sulla pianura sterminata. Il letto serve al fiume tanto quanto la furia della corrente dell'acqua che scorre in esso. Ed è un bene che la vita si precipiti di corsa: lo sfuggire della semplice presenza fisica che cade nelle pieghe del tempo, l'angoscia di passare, si trasforma nella gioia di essere in cammino.

Ciò che fa la Filosofia quando è fedele a se stessa è precisamente mostrarci tale percorso, rivelandosi dunque una guida, un cammino di vita.

Ma tale cammino è composto inizialmente dai passi, tracce, e solo quando una linea segnata lo distingue dall'estensione inanimata che lo circonda possiamo vederlo, come accade ai giorni nostri. Cominciamo a sentire che la nostra vita scorre, vincolata e libera, nell'alveo di una verità che ci si rivela, e da lì iniziamo a comprendere pensieri di fronte ai quali saremmo forse rimasti insensibili, o al contrario colti da uno stupore, impossibile da tradurre in idee. Ci sono due modi di reagire di fronte ai pensieri che sono stralci o parti di un pensiero più radicale, ancora sconosciuto: uno è quello di rimanere insensibili alla verità che indicano, l'altro è di rendersi conto, per una forma di sensibilità generata dalla necessità che abbiamo di quella verità, che essa è lì ma non possiamo incontrarla direttamente. È la conoscenza a provocarci la sete che ci conduce alla roccia sotto cui sgorga l'acqua, senza però permetterci di portarla alla superficie.

Al contrario, quando viviamo in contatto con un pensiero ultimo, rivelatore, abbiamo anzitutto un orizzonte da cui ci sentiamo presi e anche uno strumento tecnico per situare e collocare con ordine í problemi, i pensieri; il cammino dà ordine al paesaggio e permette di muoversi verso una direzione precisa.

Così ci sentiamo di fronte alla rivelazione che ci offre la Ragione secondo il suo nuovo significato: quello di essere guida, cammino di vita.

In questo cammino avvertiamo la necessità di un sapere dell'anima, di un ordine della nostra interiorità. A ciò mirano gli scritti postumi di Max Scheler, Ordo Amoris e Morte e sopravvivenza. La sua impostazione deriva da Pascal e Spinoza da un lato, e da Nietzsche dall'altro. Il Pascal della frase ripetuta e abusata fino a farle dire il contrario: "Ci sono ragioni del cuore che la ragione non conosce", lo Spinoza dell'Amor Dei intellectualis e il Nietzsche che cercava un superuomo; come asse portante l'idea cristiana dell'uomo quale essere che muore e ama, che muore con la morte e si salva con l'amore.

Max Scheler reclama energicamente un ordine del cuore, un ordine dell'anima che il razionalismo, più che la ragione, ignora.

La cultura moderna ha espulso da sé l'essere totale dell'uomo per occuparsi soltanto del suo pensiero, dalla scoperta dell'uomo come res cogitans fino a scienze non propriamente filosofiche. Cartesio scrisse un Trattato sulle passioni, e qualche tempo dopo Spinoza un'Etica in cui la psicologia è ancora Metafisica, poiché lo studio e la classificazione naturalista delle passioni vengono indirizzati verso un sapere superiore dell'uomo e della sua vita; le passioni, quali strumenti, vengono studiate allo scopo di trovare una vita felice, una vita eterna. [1]

Immediatamente il processo si accelera, precipita. Leibniz e gli inglesi – Hume e Locke – scrivono solo sull'Intelletto umano. Kant elabora la sua Filosofia della ragione e del soggetto etico. Già qui si trova l'uomo, o meglio, è a partire da qui che comincia a esserlo, ma in un senso diverso da quello che ci interessa adesso.

Ma la cosiddetta "psiche", la cosiddetta "anima", che fine ha fatto? Fu incaricata la Psicologia scientifica dí studiarla, e la Psicologia applicò all'anima i suoi metodi scientifici. Che cosa siamo venuti a sapere dai suoi risultati?

In realtà l'anima rimaneva una sfida; da una parte infatti la Ragione dell'uomo illuminava la natura; dall'altra la ragione era íl fondamento del carattere trascendente dell'uomo, del suo essere e della sua libertà. Ma tra la natura e l'Io dell'idealismo rimaneva quel frammento di cosmo nell'uomo a cui si è dato il nome di anima.

Che cosa ne sappiamo? La natura, le forze cosmiche circondano l'uomo, ed egli ha saputo dominarle e penetrare alcuni dei loro segreti. "Le cose sono i limiti dell'uomo", ha detto Nietzsche, e questi limiti l'uomo arrivò a conoscerli. Tuttavia esistevano due saperi distinti: un sapere che la ragione domina e un sapere poetico, non dominabile, del cosmo, della natura. È curioso vedere come, nel secolo xix, in cui la ragione allarga il suo dominio sulla natura, sui "fenomeni della natura", l'uomo viva personalmente nella coscienza romantica dell'invincibilità della natura. La natura per il romantico è immensa, inafferrabile, infinita, ed egli la vede nei suoi momenti di furia estrema: nella tempesta, nei fulmini, nella "montagna scoscesa", nel "mare insondabile", negli "abissi senza fine", nei "precipizi profondi della terra e del cielo". L'uomo romantico, che sottomette con la propria ragione le forze della natura come mai era accaduto prima, parla della natura poeticamente, con terrore, quasi con spavento.

Ma la natura era, per l'uomo romantico, solo lo specchio in cui poter vedere riflessa la propria anima, della quale la ragione applicata alla scienza non gli diceva nulla; l'anima, della cui conoscenza veniva incaricata la nuova scienza chiamata Psicologia "resasi indipendente dalla Metafisica".

L'anima cercava se stessa nella poesia, nell'espressione poetica. [2] Cercava se stessa nella natura impetuosa. "Gli abissi insondabili", i "precipizi senza fine", "le tempeste fragorose" erano i suoi propri abissi, le sue proprie tempeste, ottenebrate a causa dell'abbandono della luce della ragione.

Così Max Scheler, formulando un sapere del cuore, può dire: "Ciò che l'espressione simbolica 'cuore' designa non è (come ve lo immaginate voí, filistei da un lato e romantici dall'altro) la sede di stati confusi, di impeti oscuri e indeterminati o di forze intense che spingono l'uomo da una parte all'altra".

L'uomo romantico, la cui ragione assoggettava l'universo per catturare il fulmine e scomporre l'acqua, si trovava contemporaneamente assoggettato dall'incanto dell'immensità del mare o dalla capacità fulminante della scarica elettrica, come da un potere divino. Era la sua stessa anima incompresa, abbandonata dalla luce della ragione, a dirigersi verso ciò che di inafferrabile ha la natura per l'uomo, spinta da un'irresistibile forza di compensazione. Per l'uomo i fenomeni naturali si possono ridurre a formule matematiche, ma da queste formule trascende qualcosa di innominabile, di irriducibile che lascia l'uomo meravigliato di fronte al mistero della sua presenza, di fronte alla sua impressionante bellezza.

E l'uomo romantico si trovava ad avere una entità così importante come l'anima, abbandonata a se stessa e cieca, dopo quasi due secoli di ragione. Vennero così a convergere, in una confluenza pericolosa e piena di fascino, queste due ragioni del cosmo: la natura, nella sua irriducibilità a formule matematiche, e l'anima umana, nella sua estraneità alla luce della ragione. Le tempeste, i naufragi, le onde increspate, gli abissi terribili, erano naturali e umani a un tempo, erano natura e anima, erano cosmici... Da qui l'originalità dello stile dell'arte romantica, il legame misterioso tra uomo e natura. Osservando le incisioni di Gustave Doré che illustrano la Divina Commedia, rimaniamo sempre un po' incerti: di che tipo di abissi si tratta? Sono realtà cosmiche o è la realtà della povera anima del condannato? Entrambe le cose: è la medesima realtà quella dell'abisso tenebroso, fenditura tra due montagne, e quella dell'abisso di disperazione in cui si trova l'anima condannata; natura e anima, parti dell'universo che si sono unite nell'arte romantica.

Ma sarà sempre così? Rimarranno senza luce questi abissi del cuore, rimarrà abbandonata l'anima con le sue passioni, al margine dei cammini della ragione? Ci sarà posto per lei in questo "cammino di vita" che è la Filosofia? La sua corrente dovrà continuare a straripare con il rischio di finire ridotta in una pozza? Potrà scorrere incanalata e libera all'interno del percorso che la verità apre alla vita? Ci sono sì ragioni del cuore, c'è un ordine del cuore che la ragione ancora non conosce.

In alcune occasioni però ha provato a conoscerle. Da differenti punti di vista l'uomo ha squarciato i veli che coprono l'ordine occulto della propria anima. È accaduto nelle religioni greco-orientali, nel cattolicesimo (il protestantesimo, quasi sempre puritano, avvertiva probabilmente una certa repulsione verso questo scrutare le viscere umane), in qualche filosofo che volle lasciare la propria anima intagliata come un brillante, incastonando le passioni in geometrici cristalli di teoremi, chiose e postulati, in quelle carte postume che oggi possiamo leggere anche nella nostra lingua; [3] o in un altro pensatore ebreo, Spinoza, che andò vagando di religione in religione, errando per le differenti credenze, come altri fratelli della stessa stirpe per vari paesi. Questi due pensatori, pur a distanza di tre secoli e con molte differenze, in quanto segnati da un comune destino religioso di peregrinazioni, hanno voluto fondare un ordo amoris. Hanno parlato in forma distinta, perché distinti sono i loro strumenti e i loro metodi, ovvero il loro modo di avvicinarsi alle cose; ma di fronte all'interrogativo indifferibile che sentiamo oggi formulare intorno alle ragioni del cuore che la ragione ancora non conosce, essi si distinguono dagli altri per la loro attenzione alle realtà profonde dell'anima, che hanno voluto illuminare con la ragione.

Ma il nostro sguardo ripercorre íl ciclo della cultura che ci è familiare, cercando un sapere sulla graziosa, adulata e abbandonata "psiche", e ciò che si vede anzitutto è il carattere frammentario e come privo dí sostegno (a eccezione forse di Aristotele e Spinoza) di quanto si è detto su un argomento tanto importante e pericoloso; o al contrario un'architettura eccessiva, una rigidità derivata dall'essere giunti a questo tipo di sapere a partire da a priori, etici o religiosi (in quest'ultimo caso, senza dubbio molto più fecondi e flessibili). O eccesso di architettura, di ipotesi, oppure mancanza di fermezza e di chiarezza piena in ciò che è stato afferrato. La farfalla in alcuni casi muore, in altri vola via. Raramente si è verificato quel miracolo di agilità della mente che le permette di trattare adeguatamente l'anima, di costruire una rete fatta apposta per catturare la realtà sfuggente della "psiche".

Dato che l'anima non è l'unica realtà dell'uomo, il sapere che la riguarda deve essere inserito in un sapere più ampio e radicale, come la navata di un edificio deve essere sostenuta dalla meccanica dell'intero edificio.

Ma questo sapere più ampio, nel quale può svilupparsi il delicato sapere intorno all'anima, non poteva essere un sapere qualsiasi, una Filosofia qualunque. Era necessaria un'idea dell'uomo nella sua integrità e un'idea della ragione ugualmente nella sua integrità. Finché, per esempio, l'uomo era un ente razionale e nient'altro e la ragione una ragione matematica, come poteva darsi un sapere dell'anima? Da questo punto di vista [4] poteva esserci solo un Trattato sull'anima, di Spinoza, in cui l'anima è l'idea adeguata del corpo e nient'altro.

Era necessario imbattersi in questa nuova rivelazione della Ragione, alla cui aurora assistiamo come alla Ragione della vita intera dell'uomo. In essa intravediamo sì la possibilità di un tale sapere, che sentiamo tanto indispensabile. Il percorso che questa verità apre alla vita permette e addirittura richiede che il fluire della "psiche" scorra in esso. Almeno così speriamo.

Quanti saperi, risultato di una vita di lotta contro le passioni, saranno stati passati sotto silenzio per mancanza di orizzonti razionali in cui inserirsi, per mancanza di coordinate adeguate a cui far riferimento! Senza l'orizzonte di un sapere radicale il sapere sulle passioni, amore e odio, rimaneva privo di sostegno, sospeso in un'aria terribile di confessione, o peggio, di confidenza. Bisognava avere un marcato cinismo e una sorta di intimo compiacimento nel parlare di sé per mettere insieme la propria esperienza, quella amorosa ad esempio. Che struttura darle? Abbiamo un Dell'amore di Stendhal, tentativo audace in pieno romanticismo di non lasciare sospeso nel "vago e ineffabile" l'argomento amoroso. E senza pensarci ecco che ci siamo imbattuti in un altro di quegli uomini che non rimasero indifferenti alla vita dell'anima, lasciando in silenzio la ragione.

Filosofi, romanzieri, poeti, hanno gettato luce su qualcosa inerente alle ragioni del cuore, alle viscere dell'uomo; tra le religioni, quelle greco-orientali e la Chiesa cattolica, che per fortuna non disdegnò completamente di trarre qualche beneficio dal sapere orientale.

In Grecia ritroviamo gli oracoli a parlarci dell'anima, o almeno ad alludervi. Che cosa rappresentano gli oracoli nella vita greca? Se la Filosofia inizia con Talete a interrogarsi sull'essere delle cose, l'oracolo soddisferà quest'altro interrogativo: Chi sono io? Qual è il mio destino? Che cosa devo fare di fronte a questa o a quella situazione? E vediamo persino Socrate consultare l'oracolo di Delfi, ascoltare il suo daimon interiore. I greci andavano a consultare il Dio che abitava il santuario, il piccolo tempio che non separava la divinità dal paesaggio che lo circondava; interrogavano il Dio e si abbandonavano a un'orgia di purificazione.

Nei riti orfici e nel culto di Dioniso l'anima, per conoscersi, si immergeva nella natura, come accadrà nel romanticismo, ma in maniera molto diversa. Se il romanticismo umanizza la natura e cerca in essa la plasticità, la figura, nel culto di Dioniso l'anima cerca la musicalità insita nella natura, il suo impeto puro. È un bagno cosmico, un'immersione dell'anima nelle fonti originarie dell'impeto della vita, una riconciliazione dell'anima con la vita. "Le situazioni di massima esaltazione corporea portano con sé un delizioso annullamento nell'unità cosmica." (Ortega y Gasset, Vitalità, Anima, Spirito). L'orgia è una riconciliazione dell'anima, che cominciando a sentire se stessa soffre, con la natura; è un appello ai poteri cosmici che l'uomo fa quando le viscere della vita gli provocano dolore. È un ritorno alle fonti originarie della vitalità che lo purifica dalle ombre dell'interiorità, da qualcosa che comincia a sentire suo, dimora di silenzio e solitudine.

La solitudine è stata avvertita in principio come un peccato, come un qualcosa che produce rimorso. Ogni distanza che l'uomo prende dal resto dell'universo gli crea una solitudine che inizialmente genera terrore e rimorso, e dalla solitudine appena conquistata ritorna ad abbracciare ciò che ha da poco lasciato.

Così l'anima greca, quando cominciava a sentirsi separata dal cosmo, riccorreva ai misteri di Eleusi e al culto di Dioniso in cerca di una riconciliazione, con la speranza di liberarsi dei suoi dolori, e anche con l'allegria di chi ritrova le proprie origini. Orgia, purificazione, abbandono momentaneo dei dolori della recente solitudine.

Il romantico, al contrario, non pretende di immergersi nel dionisiaco della natura, bensì si unisce alla sua plasticità. Cerca sì l'impeto, ma nella figura che lo ha attraversato. Il romantico lega la propria anima alla natura affinché se ne riempia, se ne impregni, come nelle notti di luna che amava tanto descrivere.

Ma l'oracolo significava altro nel suo riferimento alla "catarsi" orfica e all'orgia. Era piuttosto un'ansia dell'anima per il razionale, la speranza di uscire dal dubbio più che di liberarsi dai dolori, di risolvere l'indecisione dell'individuo di fronte alle situazioni della vita: l'affanno di conoscere per saper cosa fare. Anticipava il "conosci te stesso" socratico. In un certo modo Socrate diventò l'oracolo per ogni cittadino di Atene che non aveva paura di pensare, ovvero di divenire a sua volta oracolo di se stesso.

I grandi filosofi greci non rinunciarono al compito di gettar luce sull'entità misteriosa dell'anima: non lo fece Platone, e neppure Aristotele, che fornirono i fondamenti di tutto il sapere cristiano-medioevale.

Lasciando da parte ciò che la ragione ha detto dell'anima quando ha gettato la propria luce su di essa, e anche per meglio considerare queste ragioni, sarebbe opportuno vedere prima più chiaramente in che modo l'uomo ha sentito la sua anima, e come ha rapportato se stesso al mondo e ai suoi due poli, che potremmo chiamare Dio e Natura. Se l'uomo non consiste nella propria anima – e oggi lo vediamo con chiarezza –, come ha percepito questo frammento di cosmo che dimora in lui? Se pensiamo a ciò che chiamiamo Io, lo vediamo circondato da strati concentrici sempre più distanti ed estranei; in primo luogo dentro di sé, poi in ciò che ormai non è più uomo. In questi strati ritroviamo l'anima. Che posto occupa? Qual è il suo ruolo?

Tra l'Io e la natura al di fuori si interpone ciò che chiamiamo anima. Abbiamo già avuto modo di osservare molto brevemente con quali forme distinte l'anima ha cercato se stessa attraverso la natura nelle religioni greche e nell'arte romantica, ma si è anche detto che "Dio si trova nel fondo dell'anima".

Come accade nel sistema planetario in cui viviamo, questi tre corpi, Dio, la Natura e l'Uomo vanno tessendo con le loro orbite un dramma. Si verificano anche eclissi, e allora un'ombra cade su uno dei corpi. L'anima dell'uomo che ruolo gioca in questo dramma, in queste distanze ed eclissi? Dell'anima si è predicato con insistenza la purezza, la trasparenza. Tale anelito profondo di "catarsi" da parte dell'uomo, tale desiderio perenne di possedere un'anima chiara e trasparente, non indicherà una necessità più profonda? Trasparente è un aggettivo che utilizziamo per indicare ad esempio la qualità di un cristallo, di qualcosa che è un mezzo per lasciar passare qualcos'altro. La profondità, qualità che attribuiamo ugualmente a un'anima superiore, non è una condizione contraria. Un'anima chiara e profonda... per quale scopo ultimo della sua vita deve possederla l'uomo? Che cosa deve far passare attraverso la trasparenza dell'anima, quali radici profonde devono albergare nella sua profondità?

A seconda dei diversi momenti della Storia, l'anima è stata preferibilmente collegata a una parte dell'universo e messa in relazione ad altri elementi che nell'uomo non sono anima. Sarebbe interessante scoprire le forme proprie con cui l'anima si è espressa, tralasciando per il momento ciò che l'intelletto ha detto dell'anima a esso sussunta; scoprire quelle ragioni del cuore che è il cuore stesso ad aver trovato, approfittando della sua solitudine e abbandono.

 

NOTE

 

1. "E intorno all'anima parleremo soltanto di quelle cose che ci possono portare, come per mano, alla conoscenza di una vita felice." B. Spinoza, Etica, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 67.

2. Mendelssohn disse, nel 1765, che se la prosa appaga con la ragione, la poesia vuole altro.

3. M. Scheler, "Muerte y supervivencia", "Ordo Amoris", Revista de Occidente, Madrid 1934.

4. Dal punto di vista dell'uomo come essere pensante e della ragione come ragione matematica.

 

 

(FONTE: Verso un sapere dell'anima, Raffaerllo Cortina Editore 1996, pp. 11-22)