“ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul corso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il mio spirito
Card Newman
( Apologia pro vita sua,cit pp381-382)
Il cristiano è sollecitato così come da tutta la Scrittura, a imitare Dio, il mondo e le sue realtà sono un ostacolo alla sua "divinizzazione", alla sua santità, per il cristiano che vive secondo lo Spirito Amore, il mondo e le sue realtà sono la condizione stessa per divinizzarsi, per entrare per ciò che gli compete, nel disegno e nell'economia della salvezza dell'umanità e del mondo. Così come non v'è salvezza del mondo senza l'opera dell'uomo che lo conduce a perfezione, il cristiano non si salva senza il mondo, poichè è chiamato a santificarlo finchè "Dio sia tutto in tutti", Il mondo è il luogo e il mezzo grazie al quale il cristiano " guidato dallo Spirito" raggiunge la sua santità e il suo essere e vivere nell'Amore"
Padre Lorenzo Rossi
...Sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboli, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del Crocifisso amore.."
( da I nomi del bello e il mistero di Dio; Bruno Forte)
L'uomo è chiamato a nascere, venire alla luce, venire al mondo, per tutta la vita.
In ogni ambito, ciascuno nel suo, vivere è creare condizioni di co-nascenza. Solo così smettiamo di oscillare tra voler occupare tutta la scena e voler toglierci di scena, per paura di non esistere abbastanza, e ci apriamo all'unica forma felice di vita, quella che ci permette di nascere fino alla morte: la ri-co-nascenza.
Alessandro D'Avenia
Questo è davvero un tempo per impegnarci tutti insieme a sperare.
Nessun altro bene
Adrien Candiard
«Non avrai altri dèi di fronte a me», esigeva Dio cominciando l’enumerazione dei suoi Dieci Comandamenti a Mosè (Es 20,3). E il salmista risponde, come in eco: «Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene» (Sal 16,2). Quest’ultima affermazione è esigente, persino un po’ intimorente: non potremo allora gioire di null’altro se non di Dio? Dobbiamo rinunciare a trovare la felicità nell’amore dei nostri cari o nella coscienza di esercitare un lavoro utile, dal momento che è Dio l’unica fonte di felicità? Non è questo ciò che dice il salmista, il quale esprime tutta la gioia che la presenza di Dio gli procura, e trabocca di gratitudine per il dono ricevuto. Gratitudine: una parola, così vicina alla grazia, che è già di per sé un cammino di felicità. La gratitudine è la gioia di ricevere un dono, la pura gioia dei nostri otto anni davanti ai regali di Natale, di cui abbiamo perso, da allora, l’estrema semplicità. È appunto la gratitudine che ci consente di non mettere in concorrenza Dio con le altre fonti della nostra felicità: ricondurre al Creatore, in questa gioia di gratitudine, la carezza di un raggio di sole che mi riscalda, l’amore della donna che amo o il fiorire alla vita dei miei nipoti significa saper ridire con il salmista, senza nulla disprezzare delle felicità della mia vita: «Solo in te è il mio bene!».
L’unica possibilità..il Coraggio della fratellanza. Ognuno, insieme.
Enzo bianchi
di Chiara Genisio
La fraternità come via per superare la guerra. «L’unica possibilità». Ad affermarlo è fratel Enzo Bianchi: «Siamo alla vigilia di una grande guerra mondiale. La fraternità è da vivere con lo stesso impegno avuto per la libertà e l’uguaglianza, come qualcosa di politico per cui combattere.
Deve tradursi in istituti politici, giuridici com’è avvenuto in Sudafrica per la riconciliazione. Finché la fraternità resta un augurio, anche la libertà e l’uguaglianza saranno fragili, come scrivo nel mio libro ». Si intitola proprio così, semplicemente Fraternità (Einaudi Editore), il suo ultimo libro. Un testo che era già pronto anni fa, poco prima dell’uscita dell’Enciclica sociale Fratelli tutti di papa Francesco. Ha scelto di attendere a pubblicare, nonostante i solleciti del suo editore. Ma ora ha sentito che il tema doveva “assolutamente” essere approfondito e divulgato. «Ne ho sentito l’urgenza», afferma, «la società è sempre più rancorosa, più diffidente con la mancanza di fiducia. Un clima in cui viene sempre meno soprattutto la fraternità e, di conseguenza, la solidarietà, lo stare insieme. Ciò mi ha spaventato e mi ha indotto a pubblicare questo libro; con la guerra ormai ai confini dell’Europa e nel Medio Oriente la fraternità diventa l’orizzonte dell’umanità e non più l’orizzonte di cui parlare come se riguardasse solo i cristiani o una parte del mondo».
Papa Francesco nella Prefazione scrive che nel libro lei mostra che «la fraternità è la vocazione dell’umanità». Quanto è importante che papa Bergoglio abbia scritto la Prefazione?
«Molto importante. Non ho mai perso la consapevolezza di essere figlio di uno stagnino, di venire dal Monferrato da una famiglia povera; nella mia vita avrei mai pensato di stringere la mano a un Papa, di diventare poi con Benedetto XVI e con Francesco, in un certo senso, un amico. La Prefazione mi è giunta come un dono grande, un segno di affetto di papa Francesco, di un suo riconoscimento soprattutto dopo un periodo burrascoso, in cui sembrava che ci fossero molte diffidenze verso di me. Quindi, non solo ringrazio Francesco che, in tutto questo tempo, con lettere e messaggi mi ha dato segni di affetto, di confidenza, di rassicurazione, ma lo ringrazio perché ha messo anche un sigillo su quello che scrivo, su quello che può essere il mio insegnamento, la mia eredità».
Lei a un certo punto cita che Francesco identifica la questione della fraternità come una cosa dei credenti di tutte le religioni, ma lei dice no: è una questione dell’umano...
«E aggiungo anche dei non credenti. Secondo me la fraternità è universale. Dobbiamo stare attenti a non fare una specie di “Onu dei credenti” in cui al centro ci sarebbero i monoteismi, poi le altre religioni e le altre spiritualità ai bordi. L’uomo non è definito dal credere o dal non credere, ma dal suo operare».
C’è, quindi, un’unica fraternità per tutti?
«Sì. Noi certamente ci sentiamo confermati nella fraternità, perché diciamo che l’unico nostro padre è Dio. Ma i non credenti possono sentire la fraternità come imperativo avvertito dalla coscienza umana come decisivo; è un cammino al quale sono chiamati tutti gli uomini e le donne della terra. L’umanità è una: ciascuno o si colloca in relazione con altri e si umanizza o sperimenta un cammino individualistico che ha come esito la barbarie».
Possiamo affermare che un credente dovrebbe avere una spinta in più verso la fraternità?
«Una responsabilità in più».
La Chiesa italiana come vive la fraternità?
«La Chiesa o è una fraternità oppure non è Chiesa di Cristo. La Chiesa italiana non sempre sente quello che dice Francesco, non sempre ascolta le voci più vive. È una Chiesa ancora troppo lenta; al Sinodo non c’è un vero tema di rinnovamento, manca l’invenzione, la scoperta di un segno dei tempi nuovi... Non si percepisce un’urgenza nuova nella Chiesa italiana. Sono ancora valide le indicazioni pastorali dell’inizio del 2000».
Di cosa c’è bisogno?
«Occorre avere del coraggio».
La questione femminile affiora nel dibattito anche al Sinodo: nella Chiesa italiana c’è un problema femminile?
«C’è in tutta la Chiesa, forse un po’ meno nelle Chiese del Nord. Le donne non sono ancora valorizzate come dovrebbero. Abbiamo un Papa che è più profeta e più avanti di quel che è il popolo di Dio».
Come sono i giovani che incontra?
«I giovani non sentono neanche la Chiesa lontano, per loro non esiste più. Viviamo un tempo di esculturazione del cristianesimo A volte parlando con loro mi dicono che la Chiesa non sanno cosa sia. Vivono nell’indifferenza verso tutto, con l’obiettivo di stare bene con sé stessi. Ci mancano dei corridoi di formazione per i giovani. Sono preoccupato, in questo periodo sto lavorando con gli Scout, un’agenzia che fa formazione e che aiuta a crescere umanamente e fornisce una grammatica umana».
Da mesi è impegnato con conferenze e iniziative, a parlare non solo di fraternità ma anche di vita, sentimenti, cuore, cibo. Tutta questa vitalità le arriva da “Casa Madia”, la sua nuova casa?
«No. Io credo che la fonte sia l’assiduità alla parola di Dio. Io sperimento che l’assiduità alla parola di Dio mi infonde un coraggio, una forza per cui non temo nulla. Mi fa dire quello che devo dire a chiunque; non ho paura e affronto anche quelli che mi calunniano o mi hanno calunniato. Se la parola di Dio viene meno anche per un giorno, io mi sento smarrito e mi sento debole».
L’invito è a pregare di più?
«Sì, a leggere di più la parola di Dio. Attaccarsi al Vangelo perché il Vangelo è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il Vangelo».
Dare o ricevere
Adrien Candiard
Quando scrive «Beato l’uomo che ha cura del debole» (Sal 41,2), il salmista sembra essersi lasciato andare a un momento di distrazione. Non voleva piuttosto dire: “Beato il povero o il debole a cui qualcuno pensa”? Se infatti ci si prende cura degli sventurati, è appunto per renderli meno sventurati, per dare loro qualcosa che assomigli alla felicità. Se alla fine è colui che aiuta a ritrovarsi felice, si direbbe che ci sia sfuggito qualcosa. Eppure, il salmista è concorde con Gesù stesso, di cui san Paolo riporta questa parola: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35) – unica beatitudine di Gesù che non venga a noi da un Vangelo. Beatitudine che viene a confermare ciò che tutti i volontari e volontarie del mondo sanno bene: nel prendersi cura dei più piccoli e dei più deboli, essi ricevono molto più di quanto non diano. E che ne è, allora, della felicità degli sventurati? Non ce ne preoccupiamo mai tanto come quando consentiamo loro di manifestare anch’essi, nella misura loro possibile, cura per i più deboli – senza dunque imprigionarli nel ruolo di oggetti della nostra generosità, ma lasciandoli diventare soggetti capaci di amare, di prendersi cura degli altri e di dare.
Il gusto della vita
Roberto Oliva
Persino dall’abisso della precarietà umana può nascere – se ne riconosciamo la legittimità – l’anelito che, attraverso le pieghe della storia, ci conduce al gusto di essa. Antonio Gramsci dal carcere così scriveva alla mamma: «Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. Finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie».
Se l’insicurezza umana è narrazione del significato – a volte ignoto – di ciò che siamo, i cammini tortuosi compiuti al di là delle apparenze e dei riconoscimenti conducono verso mete più alte. A volte occorre maggiore delicatezza verso questa precarietà che desidera essere riconosciuta come appello che sale a Dio dai bassifondi della nostra complessità perché essa diventa ‘gustosa’ nel momento in cui si scopre possibilità e non solo mera fatticità.
Le domande partorite dalla precarietà umana esprimono il potenziale di un’inquietudine da non addomesticare poiché invitano ad uscire dall’individuale visione limitata delle cose. Soprattutto nei paesi occidentali questa precarietà assume i contorni di una povertà di tempo che, subdolamente, supera una semplice questione di orologio. La ‘mancanza’ di tempo provoca una corsa continua, evitando gesti “inutili”, verso il ripiegamento sul presente che – a stento – si tenta di dilatare sempre più. Come accade per le diverse forme di povertà, anche la seguente tende ad esasperare la mancanza fino ad assolutizzarla: quando si scopre che il presente non è tutto, ma una parte del tempo, si diventa succubi dell’ansia per paura di attraversare la vita.
Ma la povertà del tempo non è mai legata al presente che viene meno, bensì al futuro che incombe, cioè al tempo che sta per venire: “Come sarà? Cosa accadrà? Riuscirò a cavarmela?” Quando si diventa affamati di tempo l’unica soluzione è quella di riempire con attese eccessive un presente che fatica a diventare eterno. Così cresce senza sosta la frenesia di stimare ciò che siamo capaci di realizzare, la fretta di camuffare ciò che ancora non siamo diventati e soprattutto la paura di non meritare il giusto per le nostre prestazioni.
Se il tempo che resta sembra ridotto allora occorre dimostrare tutto e adesso, disposti alla logica disumana della competizione per meritare l’approvazione altrui e quando non arriva si approda nel disagio con la realtà. Questo è il malessere che dilaga ai nostri giorni abitati dalle vittime dell’ansia, tipica di chi fugge dalla propria vulnerabilità rincorrendo comodi e raggiungibili paradisi artificiali.
L’eterno presente ci ripiega così su noi stessi, trasformandoci in brutte copie dal famoso Narciso privi della capacità di prenderci cura dell’altro: l’amore infatti non esiste come ideale ma come sentiero da percorrere. Ai sentimenti contrastanti della paura è urgente rispondere con un esercizio di sentimenti positivi capaci di tirar fuori la dimensione affettiva che abita la verità dell’umano: lì, infatti, è nascosto il tesoro (Mt 6,21).
Se il presente non è tutto, il futuro diventa il tempo dell’imprevedibile. L’inedito costituisce così la riserva di possibilità attraverso la quale la precarietà umana può ancora desiderare. Non casualmente al cuore del messaggio di Gesù alberga quell’imperativo che libera ogni desiderio di vita: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34). Il futuro non solo è ciò che ci viene incontro, ma anche ciò che posso diventare poiché “l’uomo si sperimenta come la possibilità infinita” (K. Rahner).
Ogni soluzione che l’uomo trova alla sua precarietà è sempre provvisoria, ogni appagamento all’ansia che escogita è sempre relativo: per tale motivo abbiamo bisogno del futuro per realizzare noi stessi. Il futuro è il tempo in cui posso immaginarmi, articolarmi e desiderarmi (V. Costa, La società dell’ansia, Roma 2024, 67). Il tempo, infatti, è anche attesa non solo godimento: gestazione di un desiderio che ci spinge oltre lo spazio ristretto dell’ansia da prestazioni.
In fondo Dio è colui che vuole essere desiderato non posseduto, atteso non rinchiuso: con Lui il futuro diventa la possibilità di esprimere a pieno il desiderio di vivere e amare perché è fedele alla sua promessa: “Sì, vengo presto!” (Ap 22,20).
Alessandro D’Avenia "Diventare chi?"
«Sono esaurito». «Ho bisogno di staccare la spina». «Devo ricaricarmi». Espressioni d’uso quotidiano che tradiscono la fatica di pensarsi macchine con un corpo-hardware e una coscienza-software («ci aggiorniamo», «non siamo compatibili», «interfacciamoci»).
È la neolingua tecnologica: abbiamo affidato alle macchine l’umanissimo sogno di non morire, perché l’umano, così com’è, sembra una versione superata del vivere. Infatti «ultima generazione» non indica più i nuovi nati, ma i nuovi telefoni o pc. Eppure noi non stacchiamo la spina, riposiamo come i campi per dare frutto; non ci ricarichiamo, noi rinforziamo i legami con la vita come l’albero con la terra e la luce; non ci esauriamo come batterie, ma come sorgenti d’acqua. Barattando il discorso naturale con quello artificiale, abbiamo scelto: macchina ti dici, macchina diventi. Ma funzionare è il nostro destino? Il frullatore frulla, la lavatrice lava, il calcolatore calcola. E l’umano come «umana»? Sente e sa di essere vivo perché sente e sa che morirà: siamo un limite aperto, libero, creativo; siamo tempo incarnato, respiro e desiderio, sangue e sogno, destino e destinazione. Eppure invidiamo alla macchina il contrario: non sentire né sapere di sé, non dover scegliere né morire. Funzionare ci rende più sicuri, ma non felici, perché «umanare» non è funzionare, ma diventare. Diventare chi?
Ogni cultura immagina la felicità in una forma compiuta dell’umano, per questo tutte hanno la loro «formazione»: il metodo educativo per avere quella «forma». Una cultura che punta alla forma-macchina fa, per esempio, una scuola-macchina, dove si eseguono «programmi» su memorie da riempire di dati. La didattica (dal greco indicare: ciò che è vero, giusto, bello) diventa «didatica» (fornire dati), la formazione formattazione (a tutti gli stessi dati). Lo ha reso palese il confinamento: abbiamo creduto di far scuola mantenendo intatti ore e programmi ma attraverso lo schermo, perché formare è in-formare memorie (soft-disk) senza corpo. Non c’erano vite ma programmi da eseguire, e infatti le vite sono rimaste ferite.
Già nel 1958 la filosofa Hannah Arendt aveva colto la deriva: «Quest’uomo del futuro, che gli scienziati pensano di produrre nel giro di un secolo, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove, che desidera scambiare con qualcosa che lui stesso abbia fatto» (Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana). Al «diventare ciò che siamo» dei Greci (sei portatore di un destino) e patrimonio di molte altre culture, preferiamo «l’essere programmati»: è più sicuro e alleggerisce il peso della libertà. Però prima o poi ci rompiamo come telefoni che, a forza di «ultimi aggiornamenti», non reggono più il «programma» divenuto troppo «pesante».
Crediamo di dover cambiare hardware, invece è solo una salutare crisi di senso, che la macchina non ha: chi sono? Chi sto diventando? Non è un caso che in ambito educativo non abbiamo mai avuto così tante informazioni (manuali ed esperti) ma così tanta difficoltà a educare. Come mai? Perché non bastano i dati, l’umano non è programma ma origine, non è protocollo ma relazione, la «forma» non si «carica» in base a quello che il mondo si aspetta dal nostro curriculum, come nella famosa scena di Matrix in cui il protagonista, sospeso nel bianco come un hardware vergine, viene «aggiornato». In noi la forma si «scopre», «coltiva» e «compie»: essere «in forma» non riguarda solo il corpo, ma la vita tutta.
Scriveva il poeta greco Pindaro già nel VI sec. a.C. «Diventa ciò che sei, avendolo appreso» cioè, come ricordava il dio Apollo a chi visitava il suo tempio, su una facciata «Conosci te stesso» (sei un uomo), sull’altra «Nulla di troppo» (rimani uomo). Servono i dati, ma non bastano.
Ci serve un’ipotesi diversa al «pensati macchina», abbiamo bisogno di abbracciare la condizione umana così «come ci è stata data», dice Arendt, in generale e in originale: la vita non è «data» (dati) ma «data» (donata), non si programma, si scopre. Omero lo dice senza mezzi termini, perché per dire «uomo» dice «mortale», cioè «fatto di morte», come legnoso è fatto di legno. Gli dei greci sono infatti uguali agli uomini tranne in un aspetto: sono immortali. Ed è la «forma» divina il fine della «formazione» greca.
Il mortale (soggetto al tempo) aspira all’immortale (vince il tempo), al non soggetto alla morte. Infatti quella cultura ha indagato la natura delle cose per cogliere ciò che non muta, inventando ciò che non muore come i templi e i teatri, la geometria e la medicina, la filosofia e la democrazia... All’uomo greco, mortale che cerca l’immortale, la cultura giudaico-cristiana suggerisce un orizzonte più ampio. L’uomo è sì mortale «Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?» (Mt 6,27) chiede Cristo, che abbraccia questa condizione morendo anche lui, ma rivela che l’uomo è di più: è figlio, figlio del Dio della vita e della cura della vita, «anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete» (Lc 12,7). Non è fatto di morte ma di filiazione. La forma piena dell’umano non è diventare immortale, ma figlio: «A quanti l’hanno accolto (il Figlio) ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12).
Essere figlio significa sentirsi voluti nella vita ora e sempre: non mi sono dato la vita e questo mi mette in condizione di scoprire se la vita viene dal nulla o da un amore che mi vuole esistente, ora e dopo la morte. La relazione con questo amore è via per la forma umana più compiuta. Non si tratta quindi di diventare immortali, privilegio di pochi, ma «filiali», possibile a tutti: rafforzare l’appartenenza alla vita e unire gli uomini. È infatti in ambito cristiano che nascono idee come la redistribuzione dei beni in eccesso, i Monti di pietà (il piccolo credito senza usura), gli ospedali, le università...
La cultura greca «forma» l’uomo-immortale, che accetta drammaticamente la condizione mortale (come narrano epos e tragedia) e cerca di raggiungere il divino, perché solo ciò che è divino non muore. La cultura cristiana «forma» l’uomo-figlio, che accetta relazionalmente la vita ed è chiamato a moltiplicarla con i propri talenti in favore degli altri. È divino ciò che diventa figlio e rende fratelli.
La cultura oggi dominante «forma» l’uomo-potenza, lo spinge a funzionare, a programmarsi, ad avere successo. Il corpo è un hardware e la coscienza un software (la cosiddetta intelligenza artificiale non è l’evoluzione del computer ma la nostra, ciò che noi vogliamo diventare: pensiero meccanico che risolve problemi in pochissimo tempo, ma è inconsapevole di sé). È divino chi si libera dai limiti, chi funziona meglio e non si pone più inutili domande di senso. La «formazione» greca dice «diventa ciò che sei, costi quel che costi, c’è un destino»; la cristiana «ricevi ciò che sei, sei un dono per te e per il mondo, c’è una chiamata»; quella contemporanea «funziona meglio che puoi, sarai al sicuro, c’è un programma». Di conseguenza per la cultura greca la forma-modello dell’umano è l’eroe, Achille; per quella cristiana il figlio, Cristo; per quella moderna il risultato, IA.
Da domani un noto social eliminerà i filtri bellezza perché garantiscono risultati, ma ci costano patologie: dismorfofobia, dipendenza, depressione... Noi diventiamo, ma chi vogliamo diventare lo scegliamo noi: eroi, figli o risultati? Che cosa ci rende più felici? Cerco la risposta mentre cammino con chi amo nel bosco innevato, la luce filtra tra gli alberi contratti nel silenzio invernale illuminando a tratti la strada che conduce al rifugio dove potremo scaldarci, riposare, mangiare, parlare piano, confidarci gioie e dolori. Ringrazio Dio. E la memoria di tutto questo non mi servirà a risolvere nessun problema, ma a sapere che sono vivo e da vivo un giorno morirò. Continuerò a servirmi delle macchine e della loro potenza, senza mai invidiare la loro incoscienza.
Grande distrazione e presenza
Elisabetta Proietti
C’è una categoria che mi sembra rappresentare un rischioso nuovo paradigma dell’oggi: quella della “grande distrazione”. Gli antichi latini avevano un vocabolo, distraho, che significava tirare in sensi diversi, separare, disgregare e anche rompere in pezzi, disunire, mandare a vuoto un obiettivo, staccarlo da sé. Ragionando per opposti, il contrario di distrazione lo troviamo nella concentrazione. Una persona concentrata, poi, è anche presente; tuttavia la concentrazione è solo una delle molteplici realtà della presenza. Ad esempio, il mind wandering è necessario e costruttivo, predispone alla centratura e alla creatività: anch’esso in questo senso è presenza. Presenza è percepire corrispondenza tra interiorità ed esterno; rivolgendoci ancora agli antichi maestri, è trovarsi in uno stato di en-thou-siasmòs, nell’essenza e nell’ispirazione del dio. Riuscire a contattare quel “dio di dentro” che significa contattare un nucleo proprio vitale, il “punto vivo” per dirla con il Nobel Luigi Pirandello. Qualcosa che apre alla creatività, un terreno di pre-espressività. All’opposto sta la “grande distrazione” intesa come assiduità del distoglimento da sé, difficoltà protratta e indotta a mettere a fuoco. L’incapacità progressiva di cogliere il contesto sotto traccia, e non è questione di poco conto: cresce il frastuono della grande distrazione e di pari passo decresce l’abilità a decodificare “il rumore di sottofondo” il quale contribuisce a costruire coscienza personale e collettiva, e facciamo fatica a capire dove stiamo andando. La grande distrazione è scorrimento e si contrappone all’incontro profondo. La proiezione continua sull’altrove porta alla costruzione di identità solipsistiche, in un mondo che ha estremo bisogno dell’intelligenza dei gruppi per affrontare i decisivi cambiamenti in atto. Rivelatrice è una attuale invalsa modalità di fruizione delle cose, ad esempio dell’arte e della natura. C’è una differenza tra godere e carpire, tra lasciarsi attraversare e trasformare da un’esperienza e invece illudersi di impossessarsene velocemente attraverso lo smartphone, riducendo l’esperienza a un oggetto di consumo, il godimento e l’estasi a nulla. Smania di possesso e meccanicità connotano questo fare.
UNA CATEGORIA DELL’OGGI
Possiamo dunque definire la grande distrazione una categoria attuale pedagogica ed esistenziale. Un campo di indagine che ci interpella e richiede, a tutti gli educatori, la ricerca di pratiche che possano essere di aiuto, evoluzione e autoliberazione; affinché la persona possa coltivare nella presenza la qualità della relazione con sé e con ogni alterità, umana e non, e così avere sguardo per contribuire a rendere migliore la societas, dando ad essa una forma desiderabile per tutti. Una sfida che oggi (quando l’a-razionale ineducato è spesso direzionato sulla violenza, quando la preoccupazione del riarmo pandemico sembra occupare la natura umana lasciando poche fessure alla negoziazione del bene della pace) diventa ancora più urgente. La grande distrazione è il continuo essere spostati altrove che forse è iniziato con l’era del multitasking e con l’illusione delle infinite potenzialità di gestire diversi contesti in contemporanea, illusione che ci ha esaltati. Una tendenza diventata un disegno industriale, che accettiamo compiacendoci di andare dove il nostro algoritmo ci porta. Preoccuparsi di favorire la presenza piena diventa essenziale: essa dispone a cercare soluzioni creative. “(…) Sviluppiamo la creatività di tutti, perché il mondo cambi”, sostiene Rodari. Contro la creatività rema la grande distrazione: l’assiduo essere indotti a eludere il qui e ora (penso ad esempio al continuo scrolling con i social), che ostacola l’elaborazione collettiva di temi e problemi, mentre è attraverso di essa che passa la costruzione di una responsabilità pubblica. Il risultato è che ci indigniamo ma non combattiamo, ci scriviamo ma non ci tocchiamo. La grande distrazione è il ripiegamento delle più belle energie umane verso la stasi, pur nell’illusione di un’attività incessante, e l’inconsapevole inerzia davanti a quanto accade. È pervasiva; tocca tutti gli ambiti della vita; blocca o condiziona la scelta; depriva di strumenti di comprensione.
QUALE PRESENZA?
All’opposto della grande distrazione incontriamo la presenza. Nel greco antico il verbo pàreimi indicava sono presente, mi trovo, ma anche dipende da me, è in mio potere. Il latino praesum è illuminante: sono il principale responsabile, proteggo, sono il custode. Ma cosa dipende da me, cosa è più in mio potere, a queste condizioni? L’impegno sul fronte educativo deve essere quello di favorire la presenza per reagire; esserci perché possa dipendere da me. È la più grande responsabilità e il più importante lascito che possiamo fare alle giovani generazioni. L’innovazione di una Paese corrisponde alla sua cultura della responsabilità. Presenza significa esserci come persone dotate di senso in un contesto dotato di senso. La definizione dell’antropologo Ernesto De Martino – che incontra il da sein di Heidegger – indica la presenza come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e modificandola eventualmente attraverso l’azione. È l’adsum dei latini: ci sono, sono pronto. La crisi della presenza è spaesamento.
INCIDERE SULLA REALTÀ
Come poter governare i cambiamenti in atto senza subirli, poter tornare a dire dipende da me, ho potere di scelta, sono custode? Scrive Sant’Agostino: “L’animo attende, presta attenzione, ricorda”: attende il futuro e ha memoria del passato, ma è il presente il momento in cui si deve “prestare attenzione”. Presenza è attenzione, un’arte difficile di “comprendere le verità evidenti con tutta l’anima”; “l’attenzione estrema costituisce nell’uomo la facoltà creatrice” scrive Simone Weil. L’esercizio vero di questa capacità è “vita in profondità”. La grande distrazione, invece, è condizione rischiosa perché perdita di contatto con il fondo di noi stessi. Un mondo alienato dalla sua vera essenza non sa sviluppare nuove possibilità, ma si arma; è un mondo che, prima o poi, sceglie la guerra. Scrive ancora il filosofo di Tagaste: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.
Quando viene la felicità
Adrien Candiard
Qoelet, l’autore del libro dell’Ecclesiaste, non aveva la televisione, né seguiva i media online. Rispetto a noi aveva una consapevolezza limitata delle disgrazie del mondo, della miseria e del terrore ingenerati dalla malvagità umana. Ma quel che osserva intorno a sé è sufficiente per fargli esprimere delle considerazioni quasi disperate, dopo aver visto le lacrime degli oppressi: «Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole» (Qo 4,2-3). Non parla di sé, ma di quelle folle di sventurati scagliate dalla violenza sulle strade del mondo, in cerca di un riparo o di un tozzo di pane. Cercare di essere felici dimenticando le disgrazie del mondo significa isolarsi in una ricerca narcisistica e, con ogni probabilità, largamente illusoria; significa anche trascurare che quella felicità che la nostra cultura ha elevato a fine di ogni vita non può essere alla portata di tutti – anche se dobbiamo preoccuparci senza posa del loro benessere. La vita degli infelici è allora priva di valore, senza interesse? O dobbiamo riconoscere che la nostra ossessione per la felicità non ha necessariamente messo il dito nel senso profondo dell’esistenza?
Dalle aspettative alla speranza
José Tolentino Mendonça
Un’arte che la vita ci richiede, per vie diverse ma insistentemente, è quella di tramutare le aspettative in speranza. Dobbiamo riconoscere che tante volte, invece di essere un moltiplicatore di vita, le nostre aspettative diventano un’inconfessata spina nel fianco che ci trasciniamo per anni e anni. Siamo lenti a capire che le aspettative corrispondono alla proiezione dei nostri desideri, mentre la speranza si libra su di noi e ci coinvolge in una gestazione più grande, più generosa e polifonica. Facilmente le aspettative diventano creazioni astratte e illusorie, disegnate come forme ideali, determinate dalla nostra visione parziale. Mentre l’esperienza della fede, per esempio, ci fa abbracciare una speranza crocifissa, che si costruisce in direzione contraria al cammino lineare e senza scosse che avevamo previsto, e ci apre alle sorprese a cui l’amore concretamente ci conduce. Le aspettative sono una forma nervosa di intervenire nella realtà e di accompagnare gli altri. Senza rendercene conto, facciamo pressione, condizioniamo, riduciamo la vastità con il nostro stile affannoso. La speranza, invece, ci insegna a prendere il tempo come nostro alleato, poiché crede nel potere vitale di ciò che pare appena una briciola, quasi un niente. Ma ci sono briciole, infine, che si rivelano essere semi prodigiosi: il loro schiudersi riscatta la storia.
Il coraggio della Speranza
Eugenio Borgna
La speranza fa parte della vita, è una esperienza umana che ha molteplici espressioni tematiche e che ha una sua radicale significazione non solo in filosofia e in teologia, ma anche in psichiatria e, cosa ancora più importante, nella vita di ogni giorno; e di speranza vorrei parlare in queste pagine, intessute delle mie esperienze di vita.
La speranza non è l’attesa
L’attesa e la speranza sono esperienze di vita contrassegnate da concordanze tematiche ma che non si confondono l’una nell’altra.
Ci sono attese che non finiscono mai e attese che nascono e muoiono rapidamente; ci sono attese che si rievocano con ansia e inquietudine e attese che si rivivono invece con serenità; ci sono attese incentrate su eventi felici e altre su eventi ricolmi di angoscia e di dolore; ci sono attese che sconfinano nella speranza e attese che nulla hanno a che fare con la speranza; ci sono attese che riguardano il nostro destino e attese che riguardano il destino di altre persone; ci sono attese che invece cambiano di giorno in giorno e attese che non si concludono mai.
Ma ci sono altre attese: attese terrene e attese metafisiche, attese di qualcosa che ci consente di continuare a vivere, di ritrovare un senso alla vita, e attese disperate che non si realizzano mai.
Non saprei come meglio avviarmi alle riflessioni conclusive sull’attesa, e sulla sua ragione d’essere tematica, se non richiamandomi alle cose scritte da Eugène Minkowski, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, in testi di straordinaria importanza, non solo fenomenologica, ma anche psicopatologica. Anche nelle sue più alte e complesse considerazioni, alle quali non sono mai estranee implicazioni filosofiche bergsoniane e husserliane, egli non si allontana mai dalla sua esperienza clinica. Così definisce l’attesa: «Essa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro.
Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo». A queste considerazioni Minkowski ne aggiunge altre: «L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà.
L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa».
L’attesa non si identifica così con la speranza; benché l’una e l’altra siano tematizzate dal loro distendersi nel futuro: nell’orizzonte delle cose che ancora non sono state, e che nondimeno saranno, o potranno essere; ma cosa si può dire della speranza, come definirla nelle sue fondazioni esistenziali?
La speranza nelle sue fondazioni esistenziali
La speranza come categoria esistenziale non può essere intesa nella sua emblematica radicalità se non nel contesto di riflessioni non solo psicopatologiche, ma anche filosofiche, che ci consentano di avvicinarci al nucleo eidetico della speranza: ai suoi infiniti orizzonti di senso. Come è possibile non citare, nel contesto di questo discorso, le parole vertiginose di Blaise Pascal sul tempo e sulla speranza? «Noi non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce con cui predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine.
Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai».
La dialettica e il mistero della speranza, gli abissi di significato che sono in essa, riemergono da queste parole che sfidano il tempo; e a noi, a chiunque di noi intenda fare una psichiatria fenomenologica e antropologica, non rimane se non di riversare nel solco delle esperienze cliniche il senso di quello che le riflessioni pascaliane racchiudono in sé. Noi non viviamo mai ma speriamo di vivere; e allora, quando la speranza viene meno in noi, quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando cioè la depressione, la malattia che recide drasticamente la speranza, nasce in noi, come è possibile vivere e continuare a vivere?
La speranza nelle sue radici fenomenologiche
Nel suo splendido libro, dedicato al tempo vissuto, Eugène Minkowski ha scritto pagine bellissime sulle radici fenomenologiche della speranza. «La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa.
Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me». E ancora: «Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire- ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».
Conoscere gli andamenti della speranza nelle aree delle esperienze psicopatologiche è senz’altro utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assenza, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: nelle sue crisi e nei suoi naufragi. La speranza, nella sua trascendenza, ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose, mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell’anima con le loro angosce e le loro lacerazioni.
Ridestare la speranza
Dalle parole di chi sta male, di chi sia immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso, di un qualche senso, nella vita, riemergono l’importanza e i significati della speranza, e dei suoi naufragi.
Questi si riflettono nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiarsi e nello svuotarsi degli orizzonti di vita, nel dilatarsi del presente e del passato, nell’inaridirsi dell’avvenire del quale non sopravvivono se non alcuni frammenti che non danno sollievo, e che non creano comunicazione e comunione con il mondo delle persone e delle cose. Dalla evanescenza della speranza discendono poi solitudine e isolamento che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri.
Quando questo avviene, quando la disperazione depressiva, psicotica o esistenziale, svuota di senso la vita, e la morte volontaria ne è una delle conseguenze possibili, la cosa essenziale è quella di ascoltare e di valutare se la condizione psicotica, depressiva o esistenziale mantenga aperti gli spazi a una qualche attesa, a una qualche speranza, che possano essere ridestate nel contesto del progetto terapeutico.
Confrontandoci, noi che viviamo nella speranza e nelle speranze, con chi non abbia più speranze nel cuore (bruciate dall’angoscia e dalla disperazione), non dovremmo mai dimenticare la debolezza e le ambivalenze delle nostre parole e dei nostri gesti che non sempre sono dotati di una radicale testimonianza terapeutica. Le parole leggere, o le parole pesanti come piombo: quali parole abbiamo nel cuore quando ci avviciniamo al destino, al volto e agli sguardi, ai silenzi e agli scoramenti, alla tristezza e all’angoscia, alla timidezza e alle insicurezze, alle speranze recise di chiunque fra noi sia colpito dalla malattia mortale e dalla disfatta della speranza?
La speranza nella cura
Non solo negli incontri che la vita ci propone ogni giorno, ma anche, e soprattutto, negli incontri che si hanno con pazienti divorati dall’angoscia e dalla disperazione, è davvero necessario intendere il senso misterioso di un dialogare nel silenzio; e questo al fine di intuire cosa questi pazienti sentano, e cosa provino, quali attese e quali speranze inquiete essi abbiano, e quali ombre scendano sugli orizzonti della loro vita.
Grande importanza, in ordine alle risultanze terapeutiche, ha la presenza in chi cura della speranza, della capacità e della possibilità di mantenere viva la fiaccola, o almeno la scintilla, di una speranza come atteggiamento interiore; e questo, in particolare, quando ci confrontiamo con le esperienze psicotiche che si esprimano nell’autre monde della follia. La speranza è come l’anima di una psicoterapia che tenda a fare riemergere le risorse nascoste e galleggianti nella vita interiore dei pazienti.
La nostalgia della morte volontaria
La speranza, senza confondersi mai con l’ottimismo, ci conduce a rivivere la sofferenza degli altri da noi come la nostra possibile sofferenza e a partecipare alla loro angoscia e al richiamo in loro della morte volontaria. Non è possibile, in ogni caso, confrontarsi con esperienze oscure e ambiva- lenti, come sono quelle che si correlano in particolare con la nostalgia della morte volontaria, se non si riconoscono le emozioni che sono in noi: la qualità delle nostre relazioni controtransferali che, se sono impregnate di inquietudine e di paura, non ci consentono di svolgere un utile lavoro psicoterapeutico.
Se non accettiamo interiormente l’esperienza del suicidio come possibilità radicata nella condizione umana e se la riviviamo come destituita di ogni possibile orizzonte di senso, allora non nascerà mai in noi una speranza capace di trainare una psicoterapia adeguata alla comprensione di quello che avviene nella vita emozionale, e nella storia della vita, di chi sia affascinato dal desiderio del suicidio, dall’anelito a rifuggire da una vita rivissuta come insopportabile e insostenibile. Se la speranza è in noi, se comprendiamo il senso dello scacco esistenziale che c’è nel suicidio, allora ci sarà possibile parlare sinceramente con i pazienti della cosa evitando inutili e vaghe allusioni.
Senza dimenticare mai che, quando il suicidio fallisce, essi si vergognano del gesto compiuto e tendono a banalizzarlo e a tacerlo, a rimuoverlo.
Il parlarne, in ogni caso, esige una grande delicatezza e una grande discrezione, e anche una grande attenzione alle motivazioni che vengono espresse, e a quelle, magari molto più importanti, che vengono taciute. Le parole con le quali si conclude lo splendido saggio di Walter Benjamin sulle goethiane Affinità elettive dovrebbero essere incise nel cuore di ciascuno di noi quando la vita si fa difficile e non è lontana da noi la disperazione.
Le parole sono queste: «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».
La speranza che rinasce
Come si vive la speranza quando la tristezza, la malinconia, il male di vivere, la depressione, che ne è la definizione clinica, scendono nella nostra vita, velandola e immergendola nella notte oscura dell’anima? Non conosco testimonianza più umana e struggente di quella che mi è stata data da una mia giovane paziente, curata in anni lontani e mai dimenticata, che ho chiamata Maria Teresa, nella quale l’eclissi della speranza e la sua rinascita sono state la conseguenza di una condizione depressiva di vita.
Ne vorrei ricordare alcune sue parole, che sono state di disperazione prima e di rinascita della speranza poi. «Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa tremenda sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non più alcuna speranza». A queste parole si univa una angoscia lacerante e una stremata tristezza dell’anima, che sembravano non finire mai; e invece dopo alcune settimane di cura un cambiamento radicale: la speranza perduta, a mano a mano si rigenera, e queste sue parole lo dimostrano.
«Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo nel miglioramento di mia figlia.
Avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ma ieri è nata improvvisamente in me una diversa speranza. Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Una speranza che contiene il futuro ma un futuro che è vita. La presenza di un avvenire. Il futuro mi spaventava, prima, perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente.
Ieri, non avvertivo più questo senso negativo. La speranza che si apriva, ed era come una nuova vita ». Sono parole emblematiche della significazione umana della speranza, del suo rinascere dal cuore, come fonte di conoscenza, del suo scomporsi in speranza e in speranze, una differenza di radicale importanza, del suo essere la splendida descrizione di una speranza che si forma muovendo dalla interiorità.
Sono parole che sanno dare di questo passaggio dalla disperazione alla speranza una straordinaria evidenza, che si è accompagnata ai cambiamenti delle espressioni del volto, da dolorose e straziate a luminose e ridenti. Sono esperienze che danno un senso alla psichiatria, come scienza umana, che aiuta, direi, ad avvicinarsi al cuore della speranza.
Le ultime cose
La vita dell’uomo è la speranza, e alla speranza vorrei invitare i miei occhi e gli occhi delle lettrici e dei lettori di questa meravigliosa rivista a guardare come alla coda di una cometa che non possa né oscurarsi né spegnersi.
Ma non mi è ora possibile dimenticare quello che della speranza dice Giacomo Leopardi in celebri pensieri dello Zibaldone; e in particolare in questi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza»; e ancora: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amore di se stesso.
Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita».
Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce; e la speranza, come diceva sant’Agostino, è misteriosamente intrecciata alla memoria. Questo ci dice che passato, presente e futuro scorrono senza fine l’uno nell’altro; e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel suo cuore la speranza che è fragile come cristallo e dura come diamante. Sapere testimoniare la speranza, che vive in noi, a quanti l’hanno perduta è una esperienza che ne allarga i confini; e nella speranza si riesce a donare un senso all’infinito del dolore. Ma non potrei concludere queste mie riflessioni se non dicendo che la speranza ha bisogno di coraggio: quello di non lasciarsi affascinare da quello che avviene nel momento in cui viviamo, quello di ricercare senza fine il possibile che si nasconde nell’impossibile, quello di non identificare la speranza con l’ottimismo, che non ha nulla a che fare con lei, quello di non dimenticarsi mai che la speranza è apertura al mistero e che ci saranno sempre più cose in cielo e in terra di quelle che non conoscano le nostre filosofie, e le nostre psichiatrie: le celebri parole, aggiornate, dell’Amleto.
Una bellissima poesia di Emily Dickinson sigilla questo mio discorso sulla speranza.
È la “speranza” una creatura alata / che si annida nell’anima – / e canta melodie senza parole– / senza smettere mai – E la senti dolcissima nel vento – / e ben aspra dev’essere la tempesta che valga a spaventare / il tenue uccello che tanti riscaldò – Nella landa più gelida l’ho udita – / sui più remoti mari – / ma nemmeno all’estremo del bisogno / ha voluto una briciola – da me.
Fortezza virtù della Speranza
Enzo Bianchi
È difficile oggi parlare delle virtù. Pensiamo subito a una lettura moralistica, perché non si comprende più la virtù come habitus che fa parte della formazione del carattere. In realtà, la virtù è la dimensione stabile e evidente degli aspetti più profondi della persona dal punto di vista psicologico, morale e spirituale.
Non è una virtù teologale, dono dall’alto, ma è qualcosa che si può acquisire con la ricerca, l’esercizio, e dando costanza nel tempo a atteggiamenti e azioni finalizzate a compiere il bene.
Oggi, dobbiamo riconoscerlo, una delle più gravi carenze nella paideia, nell’educazione, è nell’approccio alle virtù.
Ma tra le virtù alle quali si bada poco, possiamo dire che la fortezza è ancora una virtù, la terza virtù cardinale secondo la tradizione filosofica e teologica occidentale?
Forse oggi è misconosciuta perché termine troppo imparentato con “forza”? O forse in reazione a una certa lettura di Nietzsche e del suo “uomo forte”? Eppure in passato la fortezza era considerata la virtù per eccellenza. Era la virtù “condizione necessaria di tutte le virtù”. Era ritenuta indispensabile per una vita bella, buona, felice, degna di essere vissuta, era sentita come determinante. Solo con la fortezza si può firmiter operari , operare in modo saldo, rimuovendo gli ostacoli perché l’azione decisa abbia corso e abbia buon esito.
Come si può costruire una famiglia se non c’è questa virtù della fortezza nei genitori e in modo specifico nel padre? I figli che crescono hanno bisogno di sentire e vedere la possibilità di aderire a qualcosa di sicuro, di saldo. E come si può governare una comunità senza essere “forti” ? Come si può contrastare la forza che aggredisce e tenta di distruggere senza persone forti che con discernimento sappiano lottare e difendersi? Ed è proprio nella capacità della lotta che la virtù della fortezza deve esercitarsi, nel sustinere ,cioè nella resistenza anche lunga e faticosa.
Il contrario della persona forte non è il pauroso ma l’impotente, che nella sua paralisi ad operare lascia fuoriuscire la violenza che lo abita per rovesciarla fuori di sé.
Proprio per mancanza di fortezza diventerà un traditore lasciando agli altri il lavoro sporco e nascondendo così la sua incapacità anche a opporsi alla persona forte.
Dove manca la fortezza fiorisce l’omertà, si omette la cura, la giustizia non può essere esercitata per l’arroganza di chi possiede potenza, il silenzio complice di chi non vuole vedere vince su ogni compassione. Troppi elogi della fragilità vengono celebrati oggi ma la fragilità è un grido che chiede aiuto, cura, interessamento di persone forti, non di persone complici della diffusa astenia.
Vorrei infine ricordare come la virtù della fortezza sia il fondamento della speranza. Perché colui che sa sperare lo può fare tenendo i piedi su un terreno solido per poi lanciarsi in avanti, può sperare sul fondamento di cose certe e mai da solo ma insieme agli altri.
"L’armonia è la chiave per salvare il mondo, solo così possiamo sognare giustizia e bellezza"
Vito Mancuso
La leva dell’intelligenza ci ha innalzati come teorizzava Archimede, ma serve una fede a cui appoggiarsi. Filosofia, religione o politica offrono una soluzione a patto di non crederle immobili, perché nulla lo è.
Immaginatevi (com’è capitato a me) di dover esporre pubblicamente quale sia la vostra filosofia di vita, la vostra scala di valori, il punto di appoggio della vostra mente per orientarvi nel mondo: quale sia insomma il vostro “ubi consistam”. L’espressione latina è tratta dalla frase pronunciata da Archimede dopo aver scoperto il principio della leva: “Da ubi consistam et terram caelumque movebo”, “Datemi un punto d’appoggio e solleverò la terra e il cielo”. Qui però non è in gioco un punto di appoggio materiale, quanto piuttosto il punto di appoggio immateriale necessario alla coscienza per non smarrirsi nel labirinto della vita. Ebbene, come rispondereste?
Ad Archimede nessuno fu in grado di dare il punto di appoggio fisico richiesto e il mondo proseguì nel suo corso regolare. E fu proprio questa regolarità cosmica a costituire lungo i secoli il punto di appoggio mentale degli esseri umani. Così Shakespeare illustrava la situazione: “I cieli, i pianeti, e questa terra ch’è centro di ogni cosa, rispettano grado, priorità, rango, stabilità, corso, proporzione, tempo, forma, dovere e fedeltà col massimo rigore” (Troilo e Cressida, I,3). Su questa cosmologia si appoggiavano la religione e la politica, l’etica e l’estetica, producendo ciò che nella sua bellissima autobiografia intitolata “Il mondo di ieri” Stefan Zweig definiva “il mondo della sicurezza” …
Oggi le cose sono cambiate. La leva dell’intelligenza umana è effettivamente riuscita a sollevare il mondo come sognava Archimede. Da qui lo scardinamento dell’antica cosmologia, della religione, dell’ideologia politica, dell’etica, dell’estetica, della socialità. Tutto il mondo di ieri, oggi, non esiste più. Si trattava di un lavoro che andava fatto? Penso di sì, ma la conseguenza è che noi ora siamo rimasti privi di punti fermi che ci consentano di avere un terreno comune su cui costruire anche solo un minimo di comunità. Il mondo di ieri faceva pagare la sicurezza e l’unità conferite negando libertà e diritti dei singoli, il mondo di oggi assicura libertà e diritti ai singoli ma lo fa sgretolando i valori e generando solitudine e insicurezza. Siccome però il primo bisogno della mente è la sicurezza (avvertita più urgentemente anche della libertà), da tale insicurezza deriva un malessere generale il cui nome più preciso è: paura. La paura conosce diverse gradazioni: preoccupazione, inquietudine, timore, agitazione, ansia, tremore, smarrimento, sgomento, spavento, fobia, orrore, panico, terrore. Ma una cosa è certa: essa si vince ritrovando sicurezza, e la sicurezza necessita di un punto fermo archimedeo su cui sollevare non dico il mondo, ma se stessi rispetto al mondo. Ovvero: datemi un punto fermo e mi solleverò dal mondo. E una volta lassù con la mia mente, il mondo mi farà meno paura e il mio respiro tornerà normale. Ma esiste un punto fermo a cui la mente si possa appoggiare?
L’atto di fede costituisce la posizione di un punto fermo per esercitare su di sé il movimento della leva. Ci si appoggia a quel punto e si solleva se stessi. Forse è la missione più importante della vita: sollevare se stessi e così vincere le proprie paure.
Esattamente come scriveva Etty Hillesum: “In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità”.
Solo dalla serenità interiore infatti scaturisce una vita autenticamente capace di bene, di giustizia, di vera bellezza.
Ma in che cosa avere fede? Qui il discorso si fa strettamente personale, si può avere infatti una fede religiosa, una fede filosofica, una fede politica o ancora di altro tipo. Un tempo si cercava il punto fermo in cui avere fede pensando che qualcosa (Dio, il partito, la scienza…) potesse essere immobile, o, teologicamente parlando, infallibile, poi però si è capito che in realtà nulla sta fermo e nessuno è infallibile. Anche quando siamo fermi, ci troviamo su un pianeta che gira su di sé a una velocità di 1700 km/h e che ruota attorno al sole alla velocità di centomila. Nei nostri corpi poi è tutto un continuo movimento: cellule che nascono, cellule che muoiono, microrganismi del nostro microbiota che ora combattono ora collaborano, e mille altri incontrollati processi. Nulla sta fermo fuori di noi, nulla sta fermo dentro di noi. Noi quindi oggi possiamo onestamente ottenere un punto d’appoggio per la nostra fede solo a condizione di non ricercare un punto fermo che sia immobile, perché non c’è nulla che lo sia (e se, ciononostante, lo facciamo, cadiamo nel dogmatismo e nella durezza ideologica). Un punto fermo si può dare solo a patto che non sia immobile: ecco la condizione per avere un punto di appoggio per noi postmoderni.
Per questo la mia fede, che riprendendo Jaspers definisco “fede filosofica”, è fede nell’armonia quale logica complessiva del mondo e della vita. Il mio punto fermo ma non immobile è dato dall’armonia e dalla sua ricerca. In tutto questo incessante mutamento che produce spaesamento io tento come posso con la mia vita e il mio lavoro di inserire in me e fuori di me energia positiva finalizzata alla costruzione di armonia. Più c’è armonia, più c’è vita sana: questa è la mia verità.
A proposito di verità, un giorno mi colpì il fatto che in latino il termine verità (veritas) ha la medesima radice del termine primavera (ver). Non credo sia una mera coincidenza.
Anzi, a mio avviso questo legame tra verità e primavera attesta che originariamente il concetto di verità non aveva a che fare con la mera esattezza (verità scientifica) né con un’immutabile dottrina (verità religiosa), ma con il dinamismo naturale che fa fiorire e rifiorire la vita: cioè con l’armonia in quanto capacità di aggregazione. Per questo, inoltre, il colore primaverile per eccellenza venne denominato “verde” (in latino virĭdis).
Si tratta di un dato che va attentamente considerato: le radici della nostra lingua ci consegnano la radice “vr” connessa alla primavera e alla verità, la quale perciò non va intesa come formula o come dottrina, ma come energia e informazione che fa fiorire e rifiorire la natura. Come armonia.
Ora scusatemi, ma invito chi ha letto fin qui a pronunciare ad alta voce la radice “vr” di veritas; anzi, la seguente sequenza: “vr vr vr vr vr”. Non sentite come il suono di un motore che cerca di mettersi in moto? Che cos’è questo motore? Io credo che qui abbiamo a che fare con la riproduzione, intuita dalla mente archetipale, della vibrazione originaria dell’essere come motore che genera vita, dell’essere come energia. Energia etimologicamente significa “al lavoro”, in questo caso potremmo dire “in moto”.
Mediante la radice vr la mente antica della nostra civiltà giunse a cogliere l’energia che mette in moto e produce lavoro e così a esprimere l’armonia . Noi siamo all’interno di questo processo e più saremo conformi alla sua logica relazionale servendone la fioritura, più a nostra volta fioriremo. Ecco il mio “ubi consistam”.
Il punto fermo ma non immobile dell’armonia quale logica profonda della vita è stato colto da tutte le grandi civiltà dell’antichità e denominato in vari modi tra cui “logos, dharma, tao, hochmà, maat”. Per me il nome più bello è “sophia”, e per questo vivo il mio “ubi consistam” come philo-sophia: come servizio amorevole della logica più profonda della vita.
Parola che crea, parola che distrugge
Eugenio Borgna
Sono molte le pagine che ho dedicato alle parole, alla loro importanza nelle relazioni quotidiane, e in particolare a quella delle parole nelle relazioni fra medico e paziente: paradigmatiche nel creare relazioni umane, e terapeutiche, o invece conflittuali, e antiterapeutiche. Fra le discipline mediche, la psichiatria è quella che dà la maggiore importanza alle parole, e non può vivere senza le parole, di quelle dei pazienti, e di quelle di chi li cura.
Come diceva Friedrich Hoelderlin, sulla scia di intuizioni nutrite di genialità e di follia, tutto è connesso, e allora vorrei dire che le relazioni sono il background, il tessuto ineliminabile, della vita, intrecciandosi alle emozioni che proviamo, e alle parole che le esprimono. Se vogliamo conoscere qualcosa di quello che avviene in noi, quando siamo in relazione, e non possiamo non esserlo sempre, non dovremmo mai stancarci dal seguire il cammino che ci porta alla nostra interiorità: in interiore homine habitat veritas: lo diceva sant’Agostino.
Noi siamo un colloquio
Ogni relazione è dialogo, è colloquio, è un essere insieme nell’ascolto, e non sempre è facile esserlo, ascoltare è attenzione, che è preghiera, si ascoltano le parole che ci sono dette, ma anche quelle che non ci sono dette, e che parlano con la voce degli occhi, alcuni occhi sbranano, come diceva Elias Canetti, e dei volti, delle lacrime e del sorriso. Quando ci incontriamo con una persona, la dovremmo guardare negli occhi, e la cosa ha una enorme importanza non solo nella relazione fra medico e paziente, fra insegnanti e allievi nella scuola, ma anche fra genitori e figli. Non saprei parlare della violenza che oggi dilaga nelle parole che si dicono nelle più diverse aree tematiche della vita senza svolgere alcune considerazioni sulla fenomenologia delle parole che dovremmo ricordarci di dire.
Le parole sono creature viventi
Le parole sono creature viventi, le parole non sono mai inerti e mute, comunicano sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, e una volta dette non ci appartengono più. Non c’è conoscenza se non seguendo il sentiero talora luminoso talora oscuro delle parole, ma ci sono parole che curano, parole che fanno del bene, e parole che fanno del male, e questo non ha importanza solo nella relazione fra medico e paziente, ma anche nella vita di ogni giorno. Sono le parole che ci consentono di essere in relazione con gli altri, con le persone che ci sono amiche, con quelle che ci chiedono di essere ascoltate, e con quelle che curiamo, se siamo medici. Non sempre siamo consapevoli dell’importanza che le parole hanno nel destare risonanze emozionali creative, e nel creare relazioni umane, che siano portatrici di serenità e di attesa, di conforto e di speranza, o invece di malessere e di sofferenza, di angoscia e di disperazione; ma non dovremmo mai dimenticarlo in ogni stagione della nostra vita.
Quando parliamo con una persona, cerchiamo di capire cosa ci dicano il suo volto e il suo sguardo, il suo sorriso e le sue lacrime? Non dovremmo mai dimenticare quello che ha scritto un grande scrittore francese, André Gide: nessuna parola giunga alle nostre labbra che non sia stata prima nel nostro cuore. Se lo facessimo, sapremmo trovare parole gentili che curano, e fanno del bene, parole che creano fiducia, e speranza, parole che ci allontanano dalla indifferenza e dalla violenza del linguaggio. Non so pensare a quanta consapevolezza noi abbiamo della importanza del linguaggio, che richiede in ogni caso riflessione e attenzione a quello che avviene nella nostra vita interiore, e in quella delle persone che la vita ci fa incontrare. Le parole che ci scambiamo in internet non bastano, e non servono, a metterci in una relazione dialogica con gli altri da noi, e semmai ci rendono partecipi di esperienze che non siano nutrite di emozioni.
Grande è la responsabilità delle famiglie e della scuola, degli strumenti di comunicazione, nel ridare importanza alle parole viventi, alle parole che hanno un suono, senza disconoscere i significati della comunicazione digitale, ma rimarcandone i limiti, e circoscrivendone le aree di comunicazione che in essa tendono ad essere astratte, ed estranee ad ogni contenuto emozionale.
Come riscoprire le parole gentili?
Le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che vivono nel dolore, o nella disperazione, le parole che non consentono il linguaggio della violenza, non le troveremmo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle emozioni delle persone, che la vita ci fa incontrare. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, in questo campo, ed è necessario affidarsi all’intuizione e alla sensibilità personali. Ci sono psichiatri e psicologi che non le hanno, e persone semplici che le hanno: sono qualità, almeno in parte, innate, e in ogni caso educabili. Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime. Ma è necessario educarsi a rivivere in noi le situazioni dolorose degli altri, e a immaginare quali parole vorremmo sentire dagli altri, se fossimo noi a stare male, e ad avere bisogno di parole che aprano il nostro cuore alla speranza.
Costa tempo, costa fatica, questa educazione alla immedesimazione nei pensieri e nelle emozioni delle persone che incontriamo; ma è un dovere al quale non dovremmo mai venire meno: solo così si può sperare in una rinnovata coscienza etica della vita.
Le relazioni quotidiane
Le parole sono essenziali nel creare relazioni quotidiane gentili e umane, invece gelide e ostili. Non ci sono insomma relazioni quotidiane, che non siano trainate dalle parole, dalla grande importanza che esse hanno nella vita. Non sono ovviamente un linguista, e non saprei inoltrarmi nelle selve oscure delle etimologie, e nondimeno nei lunghi anni di vita in psichiatria, in un manicomio in particolare, sono giunto a mano, a mano a conoscere quali parole dire, e quali non dire, quando ero in dialogo con le pazienti di cui mi occupavo. Le esperienze, che mi è stato possibile fare, mi hanno fatto conoscere l’importanza delle parole nella vita quotidiana, e la frequenza di quelle intessute di noncuranza e di indifferenza, di disinteresse e di apatia: premesse alla nascita della violenza del linguaggio.
Non ho potuto confrontarmi con un tema, come quello della violenza nel linguaggio nelle relazioni quotidiane, di questa radicale importanza, senza riflettere prima sulla fenomenologia e sulla dinamica del linguaggio delle parole: non c’è solo questo, certo, c’è anche il linguaggio del corpo vivente, dei gesti e dei volti, degli sguardi e delle lacrime, e c’è anche, non meno importante, il linguaggio del silenzio. Non dovremmo dimenticarlo, e in ogni caso vorrei ora continuare a riflettere sulla fenomenologia delle parole, e in particolare sulle risonanze, che esse possono avere nelle nostre quotidiane relazioni di vita, evitando le parole portatrici di aggressività e di violenza, che oggi riemergono così frequentemente.
Le parole divorate dall’indifferenza
Mille modi di essere in relazione, ma, prima ancora di parlare della violenza nel linguaggio quotidiano, vorrei dire qualcosa dell’indifferenza che ci porta a essere prigionieri dei nostri desideri e delle nostre attese, e a rifuggire dall’ascolto, e dalla ricerca, di quelli degli altri. L’indifferenza è una delle premesse a non interessarsi del valore e dei significati delle parole, essa crea il deserto in noi: il deserto dei tartari, così come ne parla Dino Buzzati nel suo bellissimo romanzo. La mattina, risvegliandoci, Friedrich Nietzsche diceva che dovremmo augurarci di fare durante la giornata almeno una buona azione: questa sarebbe la sconfitta dell’indifferenza, che si nasconde nella noia, nel disinteresse al dolore e alle sofferenze, nel venire meno al dovere della generosità e della solidarietà, e nella scelta di parole che non hanno risonanze risanatrici nella vita interiore degli altri.
Sono parole non ancora immerse nella violenza, ma fanno del male, generano malessere, e non di rado angoscia, nelle persone, in quelle adolescenti in particolare, con le quali ci incontriamo. L’egoismo e l’indifferenza che ne consegue, o che lo genera, sono i primi germi, i più diffusi, ai quali dovremmo fare attenzione, e ai quali invece non pensiamo, distraendoci, e smarrendo gentilezza e umanità. La violenza nel linguaggio la riconosciamo facilmente, ma non ci accorgiamo che anche parole divorate dall’indifferenza fanno soffrire gli altri che non riescono a difendersi. Le parole dell’egoismo e dell’indifferenza, le une sconfinanti nelle altre, le dovremmo riconoscere, ed evitare a ogni costo, perché sono pericolose ugualmente a quelle violente che sono più facilmente riconosciute nelle loro conseguenze. La violenza del linguaggio nasce da uno sconvolgimento etico ancora più radicale e sconvolgente.
La violenza del linguaggio
Il passaggio dall’indifferenza del linguaggio alla violenza del linguaggio si constata oggi con inquietante frequenza in molte condizioni sociali di vita. Basta andare in macchina, anche su strade provinciali, nemmeno molto trafficate, perché la violenza, e non solo l’indifferenza e l’insofferenza delle persone, si abbia a manifestare nei gesti e nelle parole. Il linguaggio violento si tocca con mano, ed è espressione di una raggelante indifferenza etica. L’andare in macchina, la cosa oggi più banale e più frequente, ci parla della violenza, che non è solo nelle parole, ma anche nei gesti che le accompagnano, causando indelebili ferite alla dignità e alla libertà, all’umanità e alla gentilezza, al rispetto e all’autonomia degli altri da noi.
Il linguaggio della violenza, che sradica le fondazioni etiche delle relazioni quotidiane, dilaga in aree sempre più vaste della vita: da quelle della vita quotidiana a quelle della vita politica. La violenza del linguaggio lascia ferite che non si rimarginano, e continuano a sanguinare; e la cosa è così diffusa che non ce ne accorgiamo. Dall’iniziale indifferenza ai valori delle relazioni quotidiane si passa così alla violenza agghiacciante delle parole, e da queste non si torna più indietro, inaridendo ogni fonte etica della vita. Non dimentichiamoci mai di riflettere sul destino delle parole che diciamo, e talora di quelle che dovremmo dire, e non diciamo, a causa delle nostre paure, e delle nostre negligenze.
La violenza del linguaggio non si manifesta solo quando si è in macchina, ma anche, e in misura ancora più pericolosa, in alcune trasmissioni televisive, in alcuni articoli giornalistici, e nella vita politica. Le relazioni quotidiane ne sono deformate e lacerate nei loro orizzonti di senso, conducono all’esasperazione, e alla creazione di esistenze imprigionate nei grovigli di individualismi, perduti a ogni possibile speranza. Ma la violenza delle parole rinasce nei suoi aspetti più devastanti, direi, nelle forme di espressione politica che raggiungono dissonanze intollerabili. Le parole, quelle che ho cercato di indicare nelle loro sfere semantiche gentili e comunitarie, ne sono sfigurate, non comunicano se non rabbia e aggressività, ritorsioni e violenza, ai confini di una umanità ferita e lacerata. Ciascuno di noi dovrebbe impegnarsi nel recuperare linguaggi e comportamenti educati e gentili, aperti all’ascolto e alla solidarietà, estranei a ogni forma di violenza.
Quale salvezza?
Solo recuperando il valore delle parole, e cogliendone le fragilità e gli orizzonti di senso, è possibile immaginare di moderare il flusso continuo e inarrestabile della violenza del linguaggio. La gentilezza è la forma di vita, antitetica a quella divorata dall’indifferenza e dalla violenza, che dovrebbe essere illustrata nella sua ragione d’essere nella scuola primaria e nelle scuole secondarie. In alcune scuole austriache questo avviene, illustrando il tema non meno importante della follia, considerata come dolorosa possibilità umana, e non demonizzata come esperienza di vita insignificante e desertica. A questa degenerazione etica non ci sarà salvezza se non insegnando nelle scuole il significato umano e rivoluzionario delle parole, e quello della gentilezza, che si dovrebbe accompagnare a ogni momento della nostra vita, e che nobilita la condizione umana: la psichiatria conosce bene queste cose che non si stanca di ripetere. Sì, in psichiatria parole sbagliate e immotivate, sconsiderate e indifferenti, sono causa di dolore e di angoscia, di ferite dell’anima, che possono non guarire più, e allora mi augurerei che queste mie pagine, nutrite di anni e anni trascorsi nel mondo misterioso della follia, possano essere di un qualche aiuto nelle riflessioni sugli infiniti orizzonti di senso delle parole, e in particolare sulla loro incompresa fragilità.
La violenza delle parole non è se non la premessa, voluta, o non voluta, alla violenza delle azioni, ed è allora un tema di radicale attualità. Non dovremmo mai dimenticarlo.
Indicazioni di lettura
Agostino, Le confessioni, Einaudi, Torino 1966.
E. Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino 2019.
E. Borgna, Saggezza, il Mulino, Bologna 2019.
E. Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore, Feltrinelli, Milano 2020.
D. Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano 2016.
E. Canetti, Il gioco degli occhi, Adelphi, Milano 1995.
A. Gide, La sinfonia pastorale, Frassinelli, Torino 1953.
F. Hoelderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, Adelphi, Milano 1976.
L. Serianni, Il sentimento della lingua, il Mulino, Bologna 2019.
Una passione persuasiva
Eugenio Borgna
“Mitezza è la capacità di cogliere che nelle relazioni personali – che costituiscono il livello propriamente umano dell’esistenza – non ha luogo la costrizione o la prepotenza ma è più efficace la passione persuasiva, il calore dell’anima”. Borgna parte dalle parole di Carlo Maria Martini per definire le “possibili articolazioni” di questa “esperienza umana così importante, e così dimenticata”. E così quotidiana, se lo si volesse: “Talora non ci rassegniamo a che sia l’altro a concludere il discorso e vogliamo per noi la battuta finale. Sarebbe bello imparare la beatitudine di chi, a un certo punto, sa tacere nell’umiltà lasciando che l’altro magari prevalga, perché non è poi così importante spuntarla”.
È infatti nel rapporto con gli altri che si misura la mitezza, accostabile ma non assimilabile alla mansuetudine: questa infatti, secondo Norberto Bobbio, “è più una virtù individuale, la mitezza più una virtù sociale”, politica, si sarebbe tentati dire, essendo che “la mitezza è attiva, la mansuetudine è passiva”. Attiva ma non aggressiva, la mitezza è lontana anche dall’indifferenza, essendo sempre “ricerca di quello che ci unisce al di là di ogni diversa opinione”. In ciò richiamando, occorre dirlo, “un mondo della vita alternativo a quello della politica”, della politica intesa come la pratica e la qualità dei rapporti di cui ci tocca essere testimoni.
Ma la mitezza è un po’ come il coraggio, non la si può possedere solo perché lo si vorrebbe, “la mitezza è congenita”, sostiene la poetessa Vivian Lamarque, e sembra ammetterlo lo stesso Bobbio, autore di un Elogio della mitezza cui Borgna attinge ripetutamente: “Mi piacerebbe avere la natura dell’uomo mite. Ma non è così. (…) amo le persone miti, questo sì, perché sono quelle che rendono più abitabile questa ‘aiuola’”.
Modo di rapportarsi al prossimo, la mitezza è comunque, o dovrebbe essere, anche regola da osservare nei propri confronti, in quanto “accettazione di quello che noi siamo, delle nostre fragilità e dei nostri limiti”, e dunque via maestra, in questo senso, per “accettare le fragilità e i limiti degli altri”.
Come la mitezza, così la virtù contermine della gentilezza appare oggi “inattuale, nostalgica, e in fondo inutile”, quando è invece, proprio “nella situazione storica attuale”, “una fedele compagna di strada nell’arginare la solitudine, e l’angoscia”.
Simone Weil, Hofmannstahl, Hölderlin, Dostoevskij, Rilke e gli altri immancabili autori di riferimento segnano in contrappunto il discorso riproponendoci l’argomentare per analogie e richiami cui Borgna, letterato sensibile e analista consumato del disagio mentale, ci ha abituato in altri suoi libri, come La nostalgia ferita (in queste note nel maggio 2019). Ad arricchire la costellazione di autori in dialogo sono qui molti italiani, poeti: oltre a Leopardi e Pascoli, anche Antonia Pozzi, e Sergio Corazzini, di cui restano in mente i versi dedicati a un animale che della mitezza è immagine, l’agnello: “Gli occhioni dolorosi /volge senza belare / e pare non osi / perdono domandare”
Mitezza, Einaudi 2023 (pp. 114, euro 12)
Ci sono lacrime che salgono al cielo
Eugenio Borgna
Non intendo ora parlare delle lacrime, come conseguenza di una malattia, ma delle lacrime che rinascono dal taedium vitae, dal male di vivere, dalla nostalgia, o dalla malinconia.
Ci sono lacrime che fanno male, e lacrime nutrite di dolcezza, lacrime amare, e lacrime che leniscono le ferite silenziose dell'anima, lacrime che germogliano nella scia di ricordi lieti e dolorosi, e lacrime di gioia, come quelle rivissute da Blaise Pascal nelle sue indicibili testimonianze mistiche.
Le lacrime ci mettono in comunicazione con gli altri e ci chiedono non di rado aiuto; ma quando ci incontriamo con una persona che piange, che cosa avviene in noi? Quali parole abbiamo nel cuore, quali emozioni ci sono in noi, e quali sguardi sgorgano dai nostri occhi? Conosciamo i gesti (stringere una mano, o fare una carezza, impalpabile come un sospiro), che possano smorzare il dolore dell'anima?
Le lacrime, se sono sincere, sono la testimonianza di una vita interiore delicata e sensibile, e dovremmo saperle accogliere nelle loro gentili e umane risonanze.
Nelle Confessioni, non si può non leggerle almeno una volta in vita, sant'Agostino descrive con parole strazianti il morire della madre, e le lacrime che le hanno accompagnate. Ne vorrei citare alcuni frammenti: «Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino ad essiccarlo. Fu una lotta penosissima», e ancora: «Ma cos'era dunque, che mi doleva dentro gravemente, se non la recente ferita, derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune?»
Rivolgendosi allora a Dio egli diceva: «Privato di lei così, all'improvviso, mi prese il desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi su di lei, su di me per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo. Perché ad ascoltarle c'eri tu, non un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compito».
Sono parole che si leggono con grande inesausta emozione, e come una preghiera.
All'eloquenza delle lacrime ha dedicato parole straziate Jean-Loup Charvet, storico dell'arte e musicologo francese, in un suo bellissimo libro. Ne vorrei stralciare alcuni frammenti:
«Immobili nella loro caduta, le lacrime partecipano a un movimento che non è più quello della terra. Non cadono mai veramente; o meglio raggiungono il loro obiettivo prima di essere cadute. Non tratteniamo le lacrime, sono loro che ci trattengono. Esse parlano scorrendo verso un altrove che è già oltre la loro esistenza. L'istante delle vere lacrime è quello dell'incontro tra la leggerezza della luce e il peso dell'ombra», e ancora, con immagini struggenti: «Le lacrime esistono al di là della luce, al di là della pesantezza, e persino al di là del silenzio. È allora che piangiamo per davvero lacrimae verae. Da questa eloquenza silenziosa nasce una conversazione infinita. Parola sensibile, parola necessaria e impossibile, la lacrima ha questo di paradossale: più è discreta, più significa, e più sfiora, più cí tocca nel profondo. Stranamente silenziosa, chiaramente visibile, risolutamente sospesa, è una scrittura che esiste solo nelle sue cancellature».
La fenomenologia delle lacrime, il loro significato umano e spirituale, la loro donazione di senso, la loro dignità, il loro sgorgare da un infinito dolore dell'anima e la loro friabile apertura alla speranza rinascono luminosamente dalle pagine umbratili e luminose, metaforiche e misteriose, di sant'Agostino e di Charvet: sono pagine che non si possono leggere senza sentirle vicine al nostro cuore, e alle nostre quotidiane esperienze di vita.
Ma ci sono lacrime che salgono al cielo, come diceva Rilke, e che talora sono più durature del bronzo: la splendida immagine è di Emily Dickinson. Mi auguro che conosciate le sue poesie di una indicibile bellezza: sono un balsamo nelle ore del dolore e della solitudine.
(Eugenio Borgna: Apro l'anima e gli occhi. Coscienza interiore e comunicazione, Interlinea Novara 2021, pp. 39-42)
Quella luce che ci aspetta tutti
Riccardo Maccioni
Al di là delle inquietudini e dei problemi più o meno grandi che possiamo incontrare, chi ha fede crede che ad attenderlo ci sia un futuro di luce. Questo non significa prendere sottogamba le difficoltà ma viverle senza farsene schiacciare, con la leggerezza e la sapienza di chi è "nel" mondo senza essere "del" mondo. Belle parole si dirà, che però non tengono conto delle urgenze quotidiane, che sembrano dimenticare quanto dolore possa serbare in sé la nostra esistenza, specie quand’è appesantita dal dolore di un tradimento, dalla sofferenza di una malattia, dall’angoscia per la scomparsa di una persona cara. Non si tratta naturalmente di un invito all’indifferenza, il Signore ci insegna anzi ad affrontare i problemi senza trascurarne nessuno, facendolo però nel modo giusto, cominciando dal confidare nella forza della preghiera. Come testimonia Joseph Folliet (1903-1972) sacerdote, giornalista ed educatore francese che ci aiuta a riflettere su cosa troveremo al termine del nostro cammino.
«Io credo, Signore,
che al termine del cammino
non c'è ancora da camminare
ma la fine del pellegrinaggio.
Credo, Signore,
che alla fine della notte
non c'è più notte
ma l'aurora.
Credo, Signore,
che alla fine dell'inverno
non c'è più inverno
ma la primavera.
Credo, Signore,
che dopo la disperazione
non c'è ancora disperazione
ma la speranza.
Credo, Signore,
che al termine dell'attesa
non c'è ancora attesa
ma l'incontro.
Credo, Signore,
che dopo la morte
non c'è ancora morte
ma la vita».
Attendere nella gioia
Divo Barsotti
Il messaggio del Cristianesimo è la gioia e la ragione di questa gioia è l'imminenza della venuta del Signore. Ma altra cosa è la ragione e altra la condizione: infatti, pur esistendo la ragione della gioia, l anima potrebbe non esserci capace di accoglierla, e non è capace di accoglierla se non realizza certe condizioni. La condizione necessaria ad accogliere questa gioia è detta dal tempo in cui questo messaggio di gioia viene annunciato alla Chiesa, tempo di penitenza. La gioia cristiana fiorisce sull'albero della Croce. Siamo testimoni della gioia, ma prima dobbiamo cercare di vivere in quel digiuno dal mondo che è condizione della gioia cristiana. Possiamo sperare di possedere Dio nella misura che siamo distaccati dalle cose. L'annuncio della gioia cristiana è prima di tutto esigenza di mortificazione, di rinuncia. L'anima possiedera' Dio nella misura che è vuota di sé e desidera' Dio nella misura che è libera da ogni attaccamento. Bisogna che l'anima si abitui a distaccarsi da tutto e trovi tutto in Dio. L'anima deve volgersi verso l'alto.
Vivere l'Avvento vuol dire aprirsi tutti a un solo desiderio: l'attesa di Dio. Noi quest'attesa, non la sentiamo, possiamo avere il senso della presenza di Dio, del possesso di Dio, ma il giorno di domani non rappresenta per noi una meraviglia, l'anima non vive nello stupore di quel che le è promesso. Desiderio di Dio, attesa di Dio! L'amore a te si dona e tutto puoi aspettare da Lui. Quel che Egli ti può dare è sempre nuovo e sempre supera ogni tua aspettativa. Noi crediamo che ci aspettino sempre le stesse cose, invece è tutto nuovo. Tutti aspettiamo meraviglie nuove domani, ma le aspetteremo con maggiore ansia se fossimo davvero distaccati. Non aspetteremmo i suoi doni da Lui.
Questo è l'atteggiamento dell'anima, la gioia che deriva dalla speranza certa in Uno che rimane l'ignoto, che è perpetua novità. Tutte le cose ci dicono Ecce Sponsus venit. Che l'anima esca di sé, dai suoi pensieri abituali, dalla sua vita abituale, allora potrà dire Veni Domine Jesu.
Vivere in modo che ogni circostanza ci ripeta Ecce Sponsus venit. Che l'anima sia tuta viva nel desiderio e nella speranza certa di un incontro imminente.
Il presente, tempo della speranza
Anita Prati
L’elogio del passato è un esercizio retorico che ha sempre appassionato gli insoddisfatti, i cinici, i disfattisti, i tradizionalisti, i timorosi. Davanti alle incertezze del futuro e ai rischi che increspano la superficie del presente, i contorni definiti del già accaduto raccontano orizzonti di certezze in cui è sempre possibile rifugiarsi, sentendosi al sicuro.
Sulla riva opposta stanno gli ottimisti ad oltranza, quelli che «andrà tutto bene» anche di fronte ai genocidi autorizzati e alla violenza che, in modo subdolo ma implacabile, contamina le falde sotterranee del vivere comune.
Lo sguardo all’indietro e la proiezione nel futuro raccontano due posizioni simmetriche, sbilanciate l’una sulla nostalgia, l’altra sull’idillio, ma entrambe avviluppate dentro una narrazione che trova perno e motore nella necessità di mettere a tacere le ansie sull’oggi. Il passato era migliore; il futuro sarà migliore.
***
Del tempo che è stato trattengo solo i giorni chiari, il racconto che pacifica o esalta, azzerando tutti i travagli da cui ogni presente viene partorito; del tempo che sarà mi concedo il sogno – Leopardi lo chiamava illusione – di un nonluogo utopico in cui tutto sarà diverso, più felice, più bello.
Così, tra rimpianti nostalgici del tempo che fu e utopie idealizzate del tempo che verrà, quella presa realistica sul presente che si chiama «speranza» continuamente si sfilaccia, facendosi sempre più vacua e inconsistente.
Strana sorte, quella della parola «speranza». I suoi contorni, nell’uso comune, vanno spesso a confondersi con quelli di parole come «sogno, illusione, miraggio, chimera». «Speranza» si riduce allora ad essere una vacua immagine di superficie, completamente priva di profondità, un’immagine che smarrisce l’affondo della traiettoria che, liberando il desiderio dalle strettoie talvolta mortifere del presente, segna la direzione, cioè il senso, del nostro andare avanti, del nostro procedere verso, del nostro tendere a.
Il legame etimologico che salda fra loro spes e spatium indica il protendersi spazio-temporale verso una meta, cioè verso un orizzonte che è, prima di tutto, orizzonte di direzione e di senso. Il tendere verso della radice sp- è anche nel verbo greco speudo e nel sostantivo spoudé, vocaboli portatori dell’idea di un agire direzionato e perciò stesso spinto da sollecitudine e da premura. È il correre verso la meta di cui parla Paolo nel terzo capitolo della Lettera ai cristiani di Filippi: non si dà speranza se non nello slancio di passi in cammino, di passi affrettati verso, protesi a.
I passi di Maria che, alzatasi, va in fretta (metà spoudès) verso i monti della Giudea, dalla cugina Elisabetta, come lei gravida di un figlio, come lei gravida di futuro.
Le statistiche che descrivono la tristezza di questo nostro lungo inverno demografico occidentale descrivono anche lo spegnersi della speranza nell’anima dell’Occidente: cosa più dell’attesa di un figlio è in grado di dare spessore e plasticità all’immagine e al volto della speranza, che è apertura sul futuro generata dalla piena consapevolezza del presente?
***
Sì, consapevolezza del presente. Niente a che fare con l’idillio utopico; men che meno con la nostalgia. La speranza morde il pane del presente e tiene il conto dei giorni – perché solo così, ci insegna il salmista, si può giungere alla sapienza del cuore.
Il poeta Pindaro, che lungo tutta la vita aveva celebrato le vittorie dei più grandi atleti di Grecia, suggellò il suo ultimo componimento, la Pitica VIII, composta in onore di un famoso lottatore, con una pacata riflessione sulla fragilità umana e sulla durata effimera della gloria:
La gioia dei mortali in un attimo s’accresce
e altrettanto rapidamente cade a terra,
solo che venga scossa da un pensiero diverso.
Creature di un giorno: che cos’è “qualcuno”? Che cos’è “nessuno”?
Ombra di sogno, la vita umana.
Ma quando giunge un bagliore − dono divino,
uno splendore di luce è sugli uomini e dolcezza d’eternità.
Gli uomini sono brotòi, mortali, ed epàmeroi, effimeri, creature di un solo giorno. Consapevolezza del presente è, prima di tutto, consapevolezza della mortalità e del limite che, in quanto umani, ci segna e ci dà forma. Le gioie della vita, come la gloria e la fama, sono soggette a mutamenti che non è in nostro potere determinare e condizionare. Perciò, che senso ha sentirsi «qualcuno»? che senso ha sentirsi «nessuno»? La vita umana non è che un’ombra di sogno, una pallida ombra.
Quest’ombra, però, può essere toccata dalla luce. Una luce che i mortali non si danno da sé, ma che ricevono da Dio come dono. Ed è proprio lì, in quell’incontro tra ombra e bagliore di luce, che si gioca per i mortali la visione (l’anticipo?) dell’eternità, è lì lo squarcio temporale che incardina nel presente quello slancio proteso al futuro che chiamiamo speranza. È Pindaro, ma un po’ sembra Mosè.
Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore.
Salmo 90 (89)
"Scambiamoci l’anima. Facciamo un miracolo."
Alessandro D’Avenia
Magari qualcosa ti è sfuggito, magari l'amore per la vita e, per quanto di seconda mano, o meglio di seconda anima, un po' di attenzione e un po' di tenerezza potresti trovarla anche tra queste righe, per resistere a chi ti vuole impotente e ridere di chi ti vuole disperato.
Ma come si fa a resistere e a ridere se il lunedì è poi la somma asfissiante di abitudine e necessità? Il regno triste del niente di nuovo? Credi al miracolo, anche nel lunedì più usato, anzi fallo. Assomiglia a una moglie che di notte, mentre mi rigiro nel letto per un malessere, sussurra: «Se ti serve qualcosa io sono qui». Il miracolo della normalità: un bicchier d'acqua in cui non ti perdi, ma ti ritrovi. Il miracolo della luce nella notte, che rischiara il prossimo passo: è inutile provare a illuminare il buio di un'intera valle di lacrime. E a me piace pensare che quelle lacrime siano anche di gioia: lì è il miracolo. La lacrima di gioia cade perché temiamo che una cosa bella finisca e ci portiamo avanti con gli addii, mostrando il nostro bisogno di consolazione, la nostra nostalgia del presente. Quella lacrima salva l'istante perché non diventi distante, come la goccia d'acqua preserva la vita del reperto sul vetrino da microscopio. Vorrei che guardassi nell'oculare perché, anche se raccontato, un miracolo riaccade. Questo oggi ho da dirti...
Vado a ritroso analizzando al microscopio della memoria qualche vetrino di gioia della settimana trascorsa, per osservarne la composizione. Solo così il distante torna istante.
E nella prima lacrima che avvolge il reperto, vedo le betulle già spoglie del bosco autunnale. All'ombra il freddo penetra dalle fessure del cappotto nuovo cercando il mio torcicollo ma nelle oasi di sole sembra di guarire. Le betulle hanno tronchi bianchi e lisci e, sfogliate, sono donne nordiche dalla pelle nuda. In cielo prevale un azzurro affaticato mentre in terra foglie che mai diresti esser state verdi si adagiano nel sottobosco già addormentato, e quelle ancora aggrappate ai rami, al soffio di un vento tenue, diventano mani che dicono arrivederci. Vedo scendere mia moglie sul sentiero rossastro, l'unico movimento nel contrarsi autunnale delle linfe. Il sole le brilla addosso come sulle betulle bianche, e loro e lei cantano senza parole «non moriremo, perché ci ha fatte l'amore». C'è una ingiustificata bellezza nelle cose autunnali che non hanno ragione d'usare colori di festa, eppure li vestono. Intanto c'è chi uccide e distrugge, forse perché non ha mai visto le betulle in autunno e una donna amata andargli incontro tra tutti i tu possibili. Non disintegra chi non è disintegrato, non fa disgrazia chi non è disgraziato.
Prendo un altro cristallino, metto a fuoco la composizione di questa lacrima di gioia. C'è mio padre che, invecchiando, vuole essere rassicurato dall'amore di tutti, ed è indifeso di fronte a questa sete che non lo lascia tranquillo, come i giorni che volgono al tramonto, eppure è proprio il tramonto che andiamo a vedere tutte le volte che possiamo. Al mare, in montagna, e magari, se ci sorprende ancora vivi, anche in città, dove riesce ad ammorbidire persino il cemento, l'asfalto e la nostra frettolosa solitudine. E quell'amore che vuole mio padre dopo gli 80 anni è lo stesso che voglio anche io dopo i 40, e mia nipote prima dei 10, e forse anche tu, ovunque tu sia nel computo delle decine. E questa sete fa l'umano nell'uomo, anzi il divino nell'uomo. In un altro cristallino, dentro la lacrima, vedo delle lettere che, messe a fuoco, compongono una verità. L'ha appuntata un uomo nel suo diario il 12 febbraio 1922, una domenica, come quella in cui scrivo. Penso a quella domenica del 1922 come questa del 2024, preludio a un lunedì in cui è già tutto visto, eppure proprio in quella domenica, giorno in cui dovrebbe lavorare solo l'anima, un uomo di nome Franz Kafka affrontava la sua amarezza, aggrappandosi alla penna anziché alla disperazione: «È errato dire che ho fatto esperienza della frase "Ti Amo", ho sperimentato soltanto l'attesa silenziosa che avrebbe dovuto essere interrotta dal mio "Ti amo"». Anche io non riuscivo a dire quella frase, ma quando è accaduto è stato come iniziare a parlare. E benché adesso irrompa più spesso, mi sorprende comunque: l'amore non è sopravvivenza della specie camuffata da metafora, infatti, quando uso la metafora - «ti amo» - è proprio la morte che abbraccio, perché amare è dare la vita non certo tenersela. C'è un'altra lacrima su un altro vetrino, confezionato nel tardo pomeriggio della scorsa domenica, l'ora che tutti temiamo a meno che non ci distragga una partita, o qualche altro diversivo occidentale. Per me c'era una tarda messa domenicale in cui temevo di perdere l'anima anziché ritrovarla, ma una parola forte come una primavera («liberaci dal male») mi è arrivata dritta in faccia, mentre tenevo gli occhi chiusi su un mondo che potrebbe essere un paradiso ma è più spesso un inferno nel quale non resta che disperarsi o amare di più. Come scriveva a un amico Paul Celan, poeta suicida, sopravvissuto nel corpo ma non nell'anima ai campi nazisti: «A Parigi andavo in una chiesa. Quasi sempre Notre-Dame. E in chiesa non si viene sollevati dalla propria angoscia, no, al contrario, capita che si provi un’angoscia ancora più grande... E allora è come se dovessimo togliere a Lui un peso dalle spalle o dalle mani, o un po’ di tristezza dallo sguardo. E Lui siamo noi tutti. È quasi per testardaggine che lo aiutiamo». E allora il purgatorio non è una fiction medioevale, ma la vita che mi è dato vivere e in cui sono chiamato ad agire: un crepuscolo che diventa luce o tenebra a seconda di cosa scelgo di fare. E infatti dopo quel «liberaci dal male» dico «amen»: ci sto. È la parola ebraica che indica la roccia su cui costruire. Dico amen a questo gioco strano della vita in cui è sempre il turno di tutti e ciascuno e vince (la felicità) chi fa bellezza, gioia, luce. E così finisco le righe che forse stai ancora leggendo prima di annegare nell'ennesimo lunedì, che però è l'unico che avremo in tutta una vita, datato 25 novembre 2024. Un lunedì dedicato a combattere la violenza contro le donne. Penso allora a un'amica non pagata con regolarità da una grande azienda che si spaccia in prima linea per i diritti, un'altra che per paura di perdere il posto non trova il coraggio di reagire al capo che la usa, un'altra ancora che non ottiene il tempo indeterminato per aver respinto le attenzioni di un superiore, e un'altra ancora che durante il colloquio di lavoro si è sentita dire che, se voleva il posto, non doveva rimanere incinta... E in generale a tutte le colleghe di scuola, precarie e con stipendi inadeguati (che in Italia la classe docente sia soprattutto femminile rende questa ingiustizia sociale ancor più scandalosa). Ci sono così tanti miracoli da fare, oggi, che mi chiedo perché non cominciamo subito?
"Il mondo lo salverà la gentilezza"
Alessandro D'Avenia
Il mondo non è una biglia blu mare che danza secondo le leggi della fisica alla periferia di una delle infinite galassie dell'universo. Troppo poco.
Mondo è la relazione che ciascuno stringe: con sé, con le cose e le persone. Ogni persona è e fa un mondo mai visto, da cui dipende il corso della storia umana, determinata dalla libertà più che dalla fisica.
Perché mondo? Traduzione del greco kosmos (ordine/bellezza), armonia di elementi connessi tra loro; l'opposto è immondo (brutto/decomposto) come l'immondizia. E poiché salvo significava in origine unito, collegato, integro, allora il mondo è salvo quando i legami che lo costituiscono sono così forti che l'entropia (morte) non riesce a spezzarli.
Ma per essere così saldi di che cosa devono esser fatti questi legami con sé stessi, con le cose e con le persone? Se per esempio in una catastrofe mondiale sopravvivesse solo la classe in cui sto facendo lezione, quello sarebbe il mondo intero.
Che mondo sarebbe? Che cosa le permetterebbe di salvarsi e fare un mondo nuovo?
La gentilezza, che non è il morbido sentimental-moralismo di facciata a cui è spesso ridotta oggi. Ho partecipato al Festival della Gentilezza, organizzato dal Corriere la scorsa settimana, nel tentativo di rianimare questa parola. Che cosa ho scoperto?
La gentilezza nella cultura individualistica in cui siamo immersi è spesso una finzione, una forma seduttiva per avere più potere.
Siamo gentili fino a quando qualcuno non calpesta l'alluce al nostro ego, tolleranti fino a prova contraria. Quanti «gentili» in scena, dietro le quinte sono feroci, perché la loro gentilezza è manipolazione, seduzione, paternalismo, affettazione, posa, strategia... per far abbassare le difese altrui e ottenere più controllo. La gentilezza è l'opposto. Gentile viene infatti dall'antica radice del «dare vita» presente in: generoso, geniale, generare, genesi, ingegno... Anche gente viene dalla stessa radice, gens era infatti, a Roma, il clan allargato con il medesimo capostipite, e gentile era quindi chi apparteneva a quella stirpe (Cesare era della famiglia dei Cesari, della gens Iulia, e si chiamava Caio: Caio Giulio Cesare).
Nel Medioevo, grazie soprattutto ad alcuni poeti, si spezza l'identificazione gentilezza-sangue, cortesia-corte, e la gentilezza diventa qualità dello spirito, cioè del cuore. I poeti dello Stilnovo (tra cui il giovane Dante) dicono che la gentilezza è la potenza umana che si attiva quando si è «generati» dall'amore.
La donna gentile rende gentile l'innamorato, perché solo chi è già gentile rende tale chi lo è ancora solo in potenza.
Gentilezza è quindi l'effetto dell'amore che mi conferma, gratuitamente, che sono degno di esistere, sono voluto, così come sono, nella vita. È infatti il «saluto» (stessa radice di salute e salvezza) fisico e metafisico di Beatrice a Dante a farlo entrare in una Vita nuova (titolo della sua prima opera).
La gentilezza non è più nobiltà di sangue, ma di cuore. Esser nobile per questi poeti non è questione di «classe», ma di nascere a una vita che è il progressivo compimento della propria natura nel suo darsi unico e irripetibile.
Il gentile viene generato e può quindi generare. Facciamo un salto nella modernità, sempre dove la lingua è madre, cioè dà vita, come accade per lo più nella poesia. Leopardi definisce «gentile» un fiore, non per effetto di un'emozione effimera ma di una profonda verità: gentile è la ginestra che fiorisce nel deserto di lava del Vesuvio. Per il poeta la gentilezza del fiore è l'eroica fedeltà a se stesso in favore dell'altro, compimento della propria originalità (origine).
La ginestra infatti mostra all'uomo, illuso di esser padrone della vita con le sue «magnifiche sorti e progressive», dove alberga la sua reale grandezza: «tu siedi, o fior gentile, e quasi/ i danni altrui commiserando, al cielo/ di dolcissimo odor mandi un profumo,/ che il deserto consola».
La gentilezza-ginestra è fedele a sé e agli altri, e non nonostante il deserto, ma proprio nel e per il deserto, dove ha le sue radici e il suo compito: ama, dà se stessa, profuma e consola. Questa gentilezza crea la famiglia umana, che Leopardi chiama «social catena» e basa sulla lotta degli uomini contro il loro nemico comune, la natura con la sua indifferenza. Ma neanche ciò basta, perché non tutti sono capaci di questo generoso eroismo.
Dove attingere allora l'energia della gentilezza? L'unica cosa che tutti gli uomini hanno veramente in comune è essere figli, questo significa che l'esperienza della filiazione, quel radicale sentirsi e sapersi voluti nella vita, è l'unica condizione che consente di essere poi riconoscenti alla vita, cioè pronti a creare altra vita.
Chi appartiene diventa gentile, ed è poi quindi generoso, geniale, ingegnoso. È «da» e quindi «per». Oggi è eroso proprio il senso di filiazione, di appartenenza alla vita, di ri-generazione continua. Più che figli ci sentiamo orfani. Questo dipende dalla morte di Dio certificata da Nietzsche, Dio non fa più mondo, non è più la fonte dei legami.
E infatti il filosofo proponeva una via, eroica e solitaria, simile alla ginestra leopardiana. Ma chi ci riesce? Per esempio: come può essere gentile (generativa) una scuola basata sul precariato, che fa sentire orfani sia docenti che studenti. Serve uno stilnovo di gentilezza che rinnovi cuori e strutture sulla base del senso di filiazione, di appartenenza: essere generati per generare.
A dispetto di quanto si dica in giro, Dio ci manca, e per questo Chesterton a proposito di guerra diceva che sono solo due le vie per la pace: «Uno consiste nel rimedio buddista dell’eliminazione di tutti i desideri. L’altro nel rimedio cristiano di una comune religione». Non a caso è la rivelazione del Figlio, cioè la rivelazione di una relazione e non di una religione, proprio quello che ci apprestiamo a festeggiare con il Natale.
Quando Cartesio mise a fondamento della realtà il suo «Penso quindi sono», ci obbligò a «pensarci» soli e a «farci» da soli (self-made), conquistando, consumando, sottomettendo. In guerra. Invece, come dice il filosofo Emmanuel Lévinas, tornando inconsapevolmente al «saluto» di Beatrice a Dante: «Prima del cogito viene il buongiorno», prima dell'io viene il tu, prima dell'individuo la relazione, l'io è un figlio. Infatti a differenza della certezza cartesiana, la verità è di carne, ha un volto, e per questo comporta rischi e incertezze, come accade in ogni relazione.
Il gentile non teme di morire perché viene sempre ri-generato, non si esaurisce perché riceve sempre vita e nessuno gliela può togliere, anzi è lui che la dona. Per salvare il mondo il «Penso dunque sono» deve cedere il passo al ben più reale e appassionante «Mi pensi dunque sono» e «Ti penso dunque sono». Chi mi pensa? A chi penso? La somma delle risposte fanno quanto siamo «gentili».
Solo così quella classe, sopravvissuta alla catastrofe, potrà essere un mondo nuovo. Salvo. Gentile.
Il senso della vita
Alberto Caprotti
Non è quasi mai vero che si stava meglio quando si stava peggio. Non ho sufficiente età e memoria per dirlo con certezza, ma mi pare di ricordare che al massimo si stava diverso. E mi permetto di notare che il nuovo, ora, non è che sia tanto sensato. Ascoltiamo frammenti per cercare di capire tutto, scriviamo nei telefoni e non li usiamo per telefonare, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema; ascoltiamo i
libri invece che leggerli, paghiamo il parcheggio dell’aeroporto più di quanto spendiamo per un volo, facciamo lente code per mangiare al fast food, viaggiamo tanto per fermarci poco, scegliamo le partenze intelligenti per ritrovarci tutti in coda mentre quelli non intelligenti sono già arrivati. Ma tutto questo andare senza sosta e senza logica genera una realtà che ci sembra sensata se con tanta urgenza e passione ci preoccupiamo, come mai nessuno prima di noi nella storia, di salvare il pianeta, mangiare bio, parlare di pace facendo la guerra. E ricordare le password, conservare la memoria, allungare la vita, e tutelare i più deboli, anche se meno di quanto si pensi a difendere dall’estinzione l’agnello sambucano del Piemonte o la fragola di Tortona. La diversità ci unisce, il dissenso ci divide, ma capire le ragioni di quello che facciamo, ecco questa resta l’enorme irrisolta questione dei nostri giorni.
"La fatica di piangere"
Enzo Bianchi
Noi pensiamo abitualmente che gli occhi siano quelle feritoie del nostro corpo che permettono l’esercizio di uno dei cinque sensi, la vista. Osservazione vera ma insufficiente, perché gli occhi non sono solo destinati a vedere ma anche a comunicare: sono infatti eloquenti. E tra le possibilità di comunicazione c’è il pianto. È significativo che anche gli occhi dei non vedenti possono piangere.
Le lacrime compaiono inumidendo l’occhio, il quale gravido a un certo punto le lascia colare ed esse scendono sul viso e lo attraversano.
Le lacrime sono misteriose, la loro sorgente è nascosta, eppure quando spuntano hanno il potere di destare sentimenti, ispirare gesti in chi ne è testimone, dicono qualcosa che è più performativo di una parola. Piangere è il gesto universale che può esprimere tanti e diversi sentimenti: dalla disperazione alla gioia e all’esultanza. La saggezza popolare si esprimeva non a caso con brevi frasi: “Piangi che ti fa bene! ... Piangi che ti aiuta a resistere! ... Piangi che Dio conta le tue lacrime!”. Ma oggi si piange poco, facciamo fatica a permettere che gli altri ci vedano in pianto, anzi spesso anche nel dolore abbiamo gli “occhi secchi”.
Socrate, secondo Platone, era critico sulle lacrime dei suoi amici che assistevano al suo suicidio: solo Fedone piangeva! E nel mondo latino Marco Aurelio, il sapiente imperatore, propone l’apatia, l’atarassia come arte che vince il pianto. No, le lacrime sono la manifestazione dei sentimenti umani. In realtà la secchezza degli occhi, oggi attestata, fa parte di un’anestesia generale, l’indifferenza che nasce dall’abitudine a vedere lo spettacolo del male. Roland Barthes, nei suoi Frammenti di un discorso amoroso (1977), si chiedeva: “Chi scriverà la storia delle lacrime? ... Da quando gli uomini hanno smesso di piangere? Che ne è della sensibilità?”.
Eppure dovremmo saperlo: Sunt lacrimae rerum (Eneide I,462), cioè siamo immersi nelle lacrime di tutte le cose perché tutte le creature piangono... e molti, infiniti sono i motivi per piangere: dal dolore fisico a quello psichico, dal venirci incontro della morte alla caduta e al fallimento di una vita, oppure per la fine dell’amore che speravamo durasse per sempre.
Dovremmo ritrovare la certezza che nessuna lacrima andrà perduta, allora ritorneremo a piangere.
Nella grande tradizione cristiana esistono anche le lacrime del pentimento. Oggi di fronte al male commesso si rifugge dalla responsabilità, si ha paura di portare una colpa. L’ossessione della colpevolizzazione ha fatto sparire il senso della colpa. Eppure il riconoscimento fino al pianto, è un’esperienza decisiva per percorrere il cammino del cambiamento. Ma oggi solo se il male che facciamo è conosciuto proviamo vergogna, altrimenti non assumiamo nessuna responsabilità.
E non dimentichiamo: l’essere umano quando è orgoglioso non piange, quando è cattivo non piange, quando è indifferente non piange.
La filosofia di vita nascosta nel Piccolo Principe di Saint-Exupéry
Sergio Givone
Un saggio di Francesco Marino scandaglia il capolavoro: il misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara e proveniente da un minuscolo asteroide interroga l’uomo di ogni tempo.
Il problema che assilla la coscienza occidentale moderna e soprattutto post-moderna è quello del rapporto tra libertà e verità: com’è possibile tenerle insieme? Anzi: è possibile tenerle insieme? Dalla risposta a questa domanda dipendono le risposte a tante altre domande. Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944) ha, a suo modo, mostrato l’indissolubilità del nesso tra verità e libertà. È questa la tesi del saggio di Francesco Marino Eredità e ascesa. La filosofia di Antoine de Saint-Éxupery (Inschibboleth, pagine 400, euro 30,00), con la prefazione del filosofo Sergio Givone che qui anticipiamo.
Tutti conoscono il Piccolo Principe; tutti almeno una volta nella vita sono stati sfiorati dall’idea che il misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara provenendo da un minuscolo asteroide ai confini dell’universo avesse qualcosa di molto importante da dirci, anche se poi sarebbe difficile trovare qualcuno che gli abbia davvero dato retta.
Ma nessuno o quasi nessuno finora era andato a cercare negli scritti postumi dell’autore della favola più letta e più tradotta nel mondo la conferma del suo sospetto: cioè che a far da presupposto a quella favola fosse una riflessione filosofica di tutto rispetto in cui Saint-Exupéry fu impegnato lungo tutta la vita.
E dire che non sarebbero mancate le pezze d’appoggio, assai numerose. Vedi ad esempio la raccolta intitolata Citadelle e ordinata dallo stesso Saint-Exupéry per temi e problemi di ordine speculativo. Ma vedi anche, e soprattutto, i Carnets, che sono una miniera di spunti, sia occasionali sia organici, e la dicono lunga sulla temperie culturale fra le due guerre ma soprattutto testimoniano un pensiero in divenire non privo d’una sua originalità e d’una sua novità anticipatrice.
In questo libro Francesco Marino legge Le Petit Prince alla luce dei Carnets e della Citadelle, ma anche della Correspondance, e ne ricava una tesi non meno sorprendente che convincente. Sostiene Marino: la filosofia di Saint-Exupéry – perché di filosofia si tratta – è tutta incentrata su un concetto di verità che rompe con la tradizione metafisica e inaugura una prospettiva che l’ermeneutica farà sua. Verità come esercizio di libertà. Verità come atto e non come stato di cose. Verità come fare, come creare, anzi, come ridestare, e non come contemplare o corrispondere. Ridestare che cosa? Ridestare l’essenziale umano, dice Saint-Exupéry. L’essenziale umano non è qualcosa che è lì e lì sta, da sempre, per sempre, immutabilmente. Cosa dell’essere, l’essenziale umano non è a disposizione dell’uomo, come se l’uomo potesse farne ciò che vuole e magari dargli il nome che crede, secondo il suo capriccio.
Al contrario, in esso l’uomo incontra il suo sé più proprio, la sua vocazione, il suo destino. Grazie all’essere. È l’essere a provocare l’uomo a essere sé stesso. Come da una trascendenza, l’essere strappa l’uomo all’identità di sé con sé e lo chiama a rinascere altro da sé, infinitamente altro, e ad abitare l’infinito. Ma è l’uomo ad accendere nell’essere una luce che non è della natura perché è dello spirito. Venendo al mondo l’uomo attesta che lo spirito è irriducibile alla natura. Questa irriducibilità è la libertà. E la libertà è l’espressione di ciò che noi siamo veramente. La libertà è la verità dell’essere: e non solo dell’essere al mondo, ma dell’essere in quanto tale. Il mondo sarà pure la prigione dell’uomo. Ma se l’uomo è prigioniero del mondo – questo il suggerimento di Saint-Exupéry – suo primo dovere sarà fuggirsene via, tornare libero, riconquistare il cielo, sia il cielo dove ci si libra in volo sia il cielo figurato dell’anima.
E come potrebbe l’uomo rispondere a questo appello originario, se non in nome dell’essere? Originariamente l’essere è libertà. Dire, come fa una certa metafisica (per esempio la metafisica che Luigi Pareyson definiva “ontica”, ossia la metafisica che prende atto del dato oggettivo, dello stato di cose esistente, dell’essere come essere-stato, e lo identifica con la realtà contrapponendolo alla mera apparenza), che l’essere è e non può non essere, insomma, dire che l’essere è necessità significa tradire non solo il senso dell’essere ma addirittura la verità dell’essere. La verità dell’essere è la libertà. Tolta la libertà, niente di ciò che è ha più alcun senso. Tutto si fa opaco, si spegne, muore. Il mondo diventa il regno dell’assurdo. Con la libertà, invece, non c’è cosa che non appaia degna di essere accettata e addirittura amata. Al punto che anche la condizione più miserabile, se liberamente scelta, acquista valore inestimabile. È il paradosso della libertà. Ed è anzi, a voler andare perfino più in là, il paradosso dell’amore.
Perché l’amore non è oggetto di volontà. Tantomeno può essere imposto ad altri. Eppure, nel momento in cui ne facciamo esperienza (nel momento in cui ci capita di amare, nel momento in cui amiamo perché amiamo e non perché abbiamo deciso di amare) scopriamo che una luce si è accesa da qualche parte, più precisamente nel nostro cuore, e questa luce, per quanto ciò appaia inverosimile, e anche un po’ folle, è in grado di rischiarare il mondo intero, dissipare le ombre, raggiungere perfino le oscurità più tenebrose. Ogni cosa appare illuminata. E come potrebbe darsi un prodigio del genere se l’amore, che non si dà mai a comando, non coincidesse con il desiderio, e dunque con il contenuto più intimo e più profondo e più intensamente voluto del nostro essere?
A partire da considerazioni di questo tipo Marino svolge la filosofia di Saint-Exupéry nella direzione di un’ontologia che rimette al centro il problema del senso e della verità dell’essere (e che quindi è una metafisica, per restare al lessico pareysoniano, “ontologica”). Particolarmente felice appare qui un cenno di Marino: quello che invita a leggere filosoficamente Saint-Exupéry muovendo da Pascal.
Tre sono i motivi per farlo. Il primo riguarda il celebre pensiero intorno al cuore che ha ragioni sue proprie del tutto ignote alla ragione: ragioni, non sentimenti o intuizioni, ma forme del discorso in grado di argomentare intorno a una verità che evidentemente non è univoca e forse neppure unica, ma certo è irriducibile alla logica e alla scienza. Il secondo evoca l’altrettanto famoso tema della scommessa in forza della quale una speranza del tutto infondata o comunque non suffragata da prove potrebbe mostrarsi plausibile, credibile, degna di fede, in una parola più capace di avvicinarci al vero di quanto non possa fare la disperazione. Il terzo motivo fa riferimento alla posizione conquistata per via pratica e non teoretica, cioè attraverso una sfida che, per così dire, stana il vero dal suo nascondimento e ne fa il principio dell’agire umano, esposto sì al nulla, ma nondimeno proteso a uno scopo e già da sempre orientato.
Tutto ciò secondo Marino permette di ascrivere a pieno titolo la filosofia di Saint-Exupéry al campo dell’ermeneutica. Un’ermeneutica che ben poco ha a che fare con la decostruzione del mondo cui ci ha abituati il postmoderno, perché semmai si tratta di una sua ricostruzione, se non addirittura di una nuova creazione. A parlare espressamente di nuova creazione è proprio Saint-Exupéry. Il quale ne trova le tracce ovunque l’uomo si lasci interrogare, come il Piccolo Principe, dal mistero che avvolge l’universo.
Stupore, meraviglia, ma anche sgomento, lo accompagnano, anzi, affiorano in lui sempre di nuovo come dalla sorgente stessa della vita. E non è già questo un risveglio, non è già questa una rinascita? Sia come sia, le domande in questione sono le stesse di una ontologia che voglia essere al tempo stesso ontologia della verità e ontologia della libertà. Ma anche le stesse di un aviatore che si alza in volo sul suo traballante monoplano come se a chiamarlo fossero le stelle, ma che a un certo punto s’inabissa nella notte.
Fede è possedere
ragioni per vivere
Riccardo Tonelli
La stragrande maggioranza degli uomini vive di fede: affidano infatti a cose, persone, sogni e progetti un pezzo della loro esistenza. Chi crede in Gesù Cristo, condivide questo atteggiamento comune, lo orienta verso orizzonti nuovi, lo fonda su una radice che afferma insperabilmente sicura. Come fanno tutti, consegna la sua vita e la sua speranza a qualcosa che, in qualche modo, lo supera.
La diversità tra la fede cristiana e la fede con cui ci diamo ragioni per vivere, provocati dai problemi che la vita di tutti i giorni ci lancia, è tanto importante e qualificante che i cristiani pretendono, proprio sulla forza della loro fede, di essere gente che vive in questo mondo come se fosse di un altro mondo.
I punti di contatto sono però tanti che solo chi condivide il significato del sostantivo «fede», può dire in termini seri la novità che proviene dall'aggettivo «cristiana».
Per questa ragione propongo di incominciare la nostra ricerca sulla fede cristiana mettendoci sinceramente alla scuola degli uomini che sanno vivere di fede in modo maturo. La mia fede in Gesù Cristo, a cui non posso rinunciare per una falsa pretesa di neutralità, ispira la riflessione e la orienta verso direzioni che altrimenti potrebbero sfuggirmi.
1. IL SIGNIFICATO
L'espressione «vivere di fede» viene utilizzata in differenti contesti. Si parla di fede politica, di fede in una persona o in una istituzione; qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una squadra di calcio.
In questi modelli esiste un denominatore comune: fede è un complesso di ideali, capaci di guidare gli orientamenti di una persona, fino a sollecitare un impegno coerente di vita.
Nella declinazione religiosa la fede riferisce a Dio il fondamento di questi ideali e l'orizzonte ultimo della vita.
La fede cristiana assume e condivide questo atteggiamento. Lo radica sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia. E si esprime come risposta personale alla Parola ascoltata. Si differenzia dalle altre fedi religiose perché riconosce in Gesù di Nazaret il testimone definitivo del Padre.
1.1. Un complesso di ideali assunti per «identificazione»
Il complesso di ideali, in cui una persona si riconosce e a cui ispira la sua esistenza (da quelli politici a quelli sportivi, fino a quelli che investono le dimensioni più radicali della vita e chiamano direttamente in causa Gesù Cristo), sono assunti attraverso un processo di identificazione.
L'identificazione è un processo formativo molto originale, diverso da quello di cui abitualmente ci serviamo per apprendere nuove informazioni o per acquisire nuove competenze.
Nell'insegnamento, chi sa comunica la sua scienza agli altri. Essi ascoltano, valutano e assimilano le proposte. Per abilitarci a competenze che non avevamo (la guida di un automobile, l'uso del computer, una disciplina sportiva...), la via normale è quella della ripetizione dei gesti adeguati: provando e riprovando, diventiamo competenti.
In tutti i casi, al centro c'è uno specialista che fa la sua proposta e ne giustifica la correttezza sul filo della logica.
Nei processi di identificazione le cose procedono in modo assai diverso. Riconosciamo qualcuno significativo e importante per noi per quello che è. All'esperto viene sostituito il testimone; alla logica subentra l'esperienza. Decidiamo così di aprire a lui il santuario intimissimo della nostra vita, per affidargli la gestione delle ragioni decisive dell'esistenza.
Qualche volta si tratta di ragioni oggettivamente piccole e povere. La persona che le condivide le valuta però così importanti da fondare in esse un pezzo della sua passione e del suo entusiasmo.
Altre volte si tratta di ragioni grandi e impegnative, per cui vale davvero la spesa giocare tutta la vita.
L'identificazione scatta nei confronti di una persona, singola e concreta, nei confronti di un gruppo sociale di appartenenza, e, qualche volta, anche nei confronti di una istituzione.
L'operazione è delicata e un po' pericolosa, soprattutto quando non ci sono di mezzo solo aspetti parziali dell'esistenza, ma tutta la vita ne viene afferrata. Non esistono però alternative. Gli «ideali», quelli che danno ragioni per vivere, sporgono sempre verso l'ignoto e il non posseduto. Non diventano significativi perché sono pienamente verificati; lo diventano solo perché sono resi significativi dalla testimonianza di alcune persone. Siamo disposti ad accettare il rischio di giocare la nostra esistenza su un fondamento che non riusciamo a possedere in modo pieno e verificabile, perché stimiamo «degni di fiducia» questi nostri interlocutori.
1.2. Dare vita e dare ragioni per vivere
Questo fatto merita un'attenzione speciale: ci introduce nel mistero della generazione della vita.
Esiste una persona, una comunità, un gruppo di credenti, che è portatore di un insieme di ragioni per credere alla vita e sperare in essa dentro la morte. Questo soggetto consegna ad altri l'ideale in cui si riconosce.
Lo fa come gesto d'amore. Non ha nessun altro scopo recondito. Non vuole diffondere nuovi modelli culturali; non ha prodotti raffinati da immettere sul mercato. Non cerca proseliti per la sua causa. Non gli interessa produrre strumenti di pressione, magari a fin di bene.
Ha una sola intensa passione: la vita. E si lascia inquietare profondamente dalla diffusa domanda di vita. Ha vissuto un'esperienza che ha rassicurato la sua incertezza e ha confortato la sua paura. E vuole offrire ad altri il dono di cui è stato fatto ricco.
L'intenzione e i gesti che accompagnano e verificano la sua testimonianza sono le uniche prove che la rendono «credibile», in una compagnia che sostiene e rende forte la sua povera voce e i suoi gesti incerti.
Sulla provocazione della sua testimonianza, altri ritrovano ragioni per vivere e per sperare. Nasce la fede. Qualcuno può ora dire: «Adesso anch'io credo alla vita».
Dare la vita sul piano fisico, nella generazione della carne, è un avvenimento misteriosamente grande e impegnativo. Continua l'impresa divina della creazione. Non è però sufficiente: dà la vita veramente solo chi dà ragioni per vivere. Senza ragioni per vivere, la vita è una disperazione: molto meglio la morte.
Nella fede, che ci scambiamo da persona a persona, si realizza il livello più alto di generazione. Sostenendo la fede di una persona, noi le diamo la vita.
Vivere di fede è possedere ragioni per vivere; donare la fede, suscitando ideali per cui vivere, è dare pienamente la vita.
2. LA QUALITÀ DI UNA FEDE «ADULTA»
Ho già avanzato una punta di sospetto sull'identificazione, perché questo processo ha sempre il rischio di diventare manipolatorio. Ci sentiamo tanto in crisi, alla ricerca affannosa di ragioni per vivere, che diventiamo disposti a svendere la nostra libertà e ci fidiamo ciecamente di colui che ci fa proposte.
La zona di rischio è tanto più larga, quanto è intensa la ricerca di speranza o quanto le proposte sono offerte con toni solenni e seducenti.
L'ho già detto: non ci sono alternative. Gli ideali che danno fondamento alla nostra speranza si accettano per scommessa, rinunciando alle fredde procedure razionali.
Questa condizione fa problema a chi vuole giocare la sua umanità in piena responsabilità.
Di qui l'interrogativo: quando posso considerarmi adulto nel vortice del processo di identificazione?
Quali condizioni personali indicano che è diventata fede «adulta» l'atteggiamento vitale di chi affida a un fondamento le sue ragioni per vivere e per sperare?
Il bambino affida la sua speranza alla mano sicura della mamma. Lo fa senza chiedersi il perché di questo suo atteggiamento e senza pretendere motivi che lo giustifichino.
Non è certo questo lo stile di una fede «adulta». Possiamo però considerare «fede» adulta l'atteggiamento di chi vuole rendersi conto di tutto e non decide nulla della sua vita se non quando tutti i conti gli tornano con sicurezza? Certamente no. La fede ha sempre una dose alta di rischio personale. Non possiamo mai dire: «è così, e solo così», come quando ci mettiamo a dimostrare un teorema di matematica.
La fede adulta non assomiglia all'atteggiamento
critico dello scienziato, ma neppure a quello del bambino nelle braccia della madre. Quando, allora, divento adulto nella fede?
Lo stretto rapporto esistente tra fede e vita giustifica una risposta che può suonare un po' strana: la qualità della fede, come la qualità della vita, si misura dalla sfida della morte.
La fede è «adulta» quando sa possedere anche la morte. Lo esprimo mettendo in risalto due caratteristiche di questo difficile confronto.
2.1. Ricostruire l'identità dall'interiorità
Ci chiediamo spesso chi siamo, anche per riuscire a dire a noi stessi chi vogliamo essere. Ce lo chiediamo provocati nel confronto con gli altri e nel frastuono di mille seducenti proposte.
Di risposte ne abbiamo tantissime, tutte pronte all'uso. Dalla parte della morte, in quel silenzio impietoso che essa provoca, le scopriamo spesso troppo fragili per bastare a saziare un'inquietudine mai spenta.
Una cosa è certa: l'identità è l'esito di una lunga faticosa marcia di conquista. Solo a fine percorso sappiamo chi siamo veramente. Non possiamo pretendere di dircelo una volta per sempre, attingendo poi a questa definizione con la stessa presunzione con cui trattiamo il nostro conto in banca.
Il momento della morte è quello in cui in modo definitivo possiamo finalmente affermare la nostra identità. Ma, a quel punto, non ci serve più. Siamo come quegli studenti a cui balena la soluzione intelligente del problema qualche istante dopo aver concluso l'esame.
L'identità non è utile a fine percorso; serve il lento procedere della nostra giornata, tappa dopo tappa.
Possiamo sognare un tipo di identità conclusiva, nel momento solenne della morte, solo se l'abbiamo costruita così giorno dopo giorno.
Quale identità?
Non voglio dare una risposta sul piano dei contenuti. Questo è, in ultima analisi, un problema strettamente personale. Nelle pagine che seguono darò qualche suggerimento di merito. Non è la soluzione dei problemi; rappresenta solo un punto su cui confrontare la soluzione che personalmente ci diamo.
Chiedo invece di verificare subito il modo con cui decidiamo la nostra identità. Su questo modello procedurale la fede diventa «adulta».
Possiamo costruire la nostra identità solo dal silenzio della nostra interiorità. Ci diciamo «chi sia- mo» e «chi ci sogniamo» in quello spazio intimissimo e personale dove siamo sempre inesorabilmente soli e poveri. Lì ci ritroviamo senza le cose, i titoli, le sicurezze e gli idoli che ci danno conforto e sembrano tanto preziosi per dire a tutti chi siamo.
Anche se ci affannassimo ad accumulare tesori di questo tipo, la morte ce li strapperebbe tutti, inesorabile come un ladro.
La morte ci lascia senza le cose: dunque senza identità, se l'abbiamo costruita sulle cose. Un'identità dall'interiorità resiste invece al vento della morte. Nasce nel distacco quotidiano e progressivo, che anticipa quello della morte. Ci diciamo «chi siamo a», re fra- stando da soli, anche in mezzo a una compagnia fragorosa di amici e di testimoni.
Questa è la fede adulta: una fede che viene dal silenzio dell'interiorità, dove tutte le voci risuonano interessanti, ma dove nessuna può pretendere di darci quella ragione per vivere e per sperare di cui abbiamo ardente bisogno.
La fede ci costringe al coraggio solitario che assomiglia tantissimo a quello dei martiri d'un tempo passato e del nostro tempo: la fede trova forza e sostegno in se stessa e non cerca l'appoggio del consenso e dell'applauso.
Vivere di fede è quindi evento di libertà, un gestoche irrompe nel centro più intimo dell'esistenza. Spesso non siamo in grado di oggettivare in modo adeguato questa esperienza. Ma essa resta, come una decisione ultima di coscienza non più applaudita da alcuno, in una speranza illimitata che supera le delusioni della vita e l'impotenza di fronte alla morte.
2.2. Fiducia nella vita
La morte produce un distacco obbligato e irrevocabile dalle cose e dalle persone. Recide, in ultima analisi, la trama quotidiana della vita.
Ci sono ragioni da vendere per disperarsi. Che senso ha un'esistenza che si conclude in una costrizione senza appelli ad abbandonare tutto quello che è stato amato, costruito, realizzato?
Possiamo amare una vita protesa verso un esito tanto triste e ingiusto?
Gesù, a parole e a fatti, ha insegnato che possiede la vita solo chi la sa offrire totalmente, la possiamo amare solo se impariamo a consegnarla (Mt 16, 21; Lc 17, 33; Gv 12, 25). Molti uomini hanno preso sul serio queste idee, persino senza riconoscerlo in modo diretto.
La fede genera vita e ragioni per vivere perché sollecita continuamente a possedere «consegnando» tutto. Così ha fatto Gesù, secondo il racconto di Luca: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo, spirò» (Lc 23,46).
La fede è matura quando la fiducia piena nella vita diventa amore appassionato che sa condividere.
2.2.1. Distacco dalle cose
Il distacco dalle cose è irrimediabile. Non c'è scampo e non ci sono alternative: o impariamo a vivere imparando a morire, oppure viviamo «contro» la logica della morte, arraffando e accumulando in attesa di perdere tutto.
Il distacco non è l'atteggiamento manicheo di chi disprezza tutto per un principio superiore. Distacco vuol dire invece consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità. Le cose sono per la vita di tutti.
E tutti hanno il diritto di goderne, soprattutto hanno questo diritto coloro a cui sono sottratte più violentemente e ingiustamente.
Il povero, l'essere-di-bisogno, è la ragione del mio distacco. Mi privo delle cose, giorno dopo giorno, proprio mentre le possiedo gioiosamente, per permettere ad altri di goderne un po' .
L'esito è strano e assurdo nella logica in cui siamo abituati a lavorare: condividendo, tutti abbiamo tutto a sazietà.
La parabola della moltiplicazione dei pani lo insegna senza mezzi termini: solo condividendo i pochi pani che qualcuno previdente aveva portato con sé, tutti si sono tolti la fame e ne sono rimaste sette sporte traboccanti (Lc 9, 12-16).
Qui passa la linea di demarcazione tra due modi di vivere la vita: fidarsi tanto della vita da saper «partire in solitudine», distaccandosi dalle cose perché possano servire ad altri; oppure imprecare contro l'esistenza che ci strappa da quello che abbiamo cercato di afferrare a tutti i costi.
2.2.2. Distacco dalle persone
La morte ci strappa violentemente anche dalle persone con cui abbiamo condiviso un piccolo frammento di tempo, tanta passione ed esperienze originalissime di amore. Non le possiamo portare con noi, nonostante l'affetto intenso che ci lega. Le dobbiamo abbandonare alla loro solitudine e al loro dolore.
L'abbiamo già sperimentato personalmente. Papà o mamma ci hanno lasciato, e sono scomparsi molti di coloro che ci hanno generato alla vita, dandoci ragioni per vivere. E se per fortuna sono ancora con noi, sentiamo incombente la minaccia della loro scomparsa.
Lo sappiamo e ne soffriamo. Basta davvero poco per toccare dal vivo lo strappo violento e insanabile della morte. Parliamo tanto di amore, di solidarietà, dell'ebbrezza dello stare in compagnia. E poi... all'improvviso la luce si spegne: per noi e per gli altri. Di fronte a questa minaccia rispunta, più inquietante che mai, l'interrogativo: possiamo fidarci di questa vita che ci costringe a restare da soli e ci chiede di partire in solitudine?
Fiducia nella vita significa, anche in questo caso, anticipare nel ritmo dell'esistenza quotidiana il distacco prodotto dalla morte, per non essere colti di sorpresa, quando verrà improvvisa e inesorabile.
Verso le persone siamo chiamati a vivere un distacco simile e molto diverso da quello che realizziamo nei confronti delle cose.
Non voglio giocare sulle parole. Non è certo questo il contesto per farlo.
Per dire in modo concreto la qualità del distacco a cui dobbiamo allenarci, penso ai doni preziosi che ci hanno fatto amici che non sono più fisicamente in nostra compagnia.
I cristiani proclamano, con forza e con fierezza, che Gesù di Nazaret è il Vivente. È vissuto duemila anni fa, in una regione lontana dalla nostra. Trascinato sulla croce dalla malvagità dei suoi nemici, ha vinto la morte e ha superato i confini del tempo. Vive oggi con noi.
Lo stesso si dice di Maria, dei grandi credenti che hanno segnato la storia della loro presenza operosa.
Io chiamo don Bosco «padre» perché mi ha dato, in modo specialissimo, ragioni per vivere e per sperare. Con tanti amici e con tanti giovani, diciamo che è ancora vivo in mezzo a noi, anche se la passione per i giovani l'ha consumato come una lampada che brucia l'ultima goccia di olio e poi si spegne.
Certo, non è esattamente la stessa cosa riconoscere che Gesù è il Vivente e dire che Maria, don Bosco, i santi sono ancora vivi. È diversa la persistenza nella vita ed è differente il dono che la loro esistenza ci ha offerto.
Gesù di Nazaret è veramente vivo in mezzo a noi, fondamento della nostra vita e della nostra speranza. Lo testimonia Pietro davanti al tribunale del sommo sacerdote e dei maestri della legge, irritati per la guarigione dello zoppo alla porta del Tempio: «Capi del popolo e anziani di questo tribunale, ascoltatemi. Voi oggi ci domandate conto del bene che abbiamo fatto ad un povero malato e per di più volete sapere come mai quest'uomo ha potuto essere guarito. Ebbene, una cosa dovete sapere voi e tutto il popolo d'Israele: quest'uomo sta davanti a voi, guarito, perché abbiamo invocato Gesù Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che Dio ha fatto risorgere dai morti. [...] Gesù Cristo, e nessun altro, può darci la salvezza: infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci» (At 4,8-13).
I santi e i nostri amici sono vivi in mezzo a noi perché ci siamo amati intensamente e perché la loro esistenza ha costruito la nostra. Quando la morte ce li strappa dal contatto fisico, resta il ricordo intenso della loro presenza. Li pensiamo con nostalgia, li avvertiamo ancora vicini perché la loro esistenza è stata un dono impagabile per la nostra vita.
Ci hanno amato e hanno servito la nostra crescita nella libertà e nella responsabilità. Hanno generato in noi una qualità nuova di esistenza.
Tutto ciò che ci parla di loro è per noi gradito e prezioso. Ci sentiamo soli e, nonostante tutto, non ne soffriamo, perché grazie a loro siamo diventati «adulti», capaci di vivere in solitudine.
Molto diverso è il rapporto con persone di cui abbiamo un ricordo triste. Si arriva persino a dire: per fortuna, non ci sono più; ci hanno succhiato il sangue e ci hanno amareggiato l'esistenza... ma anche per loro la festa è finita. La loro partenza è salutata come una grande liberazione.
Ho suggerito due situazioni opposte.
A confronto con quello che altri sono stati per noi, è più facile dirci cosa significa imparare a vivere nel distacco verso le persone.
Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere solo se, nell'avventura con gli altri, ho saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la loro gioia di vivere, la loro capacità di sperare, la responsabilità di crescere come protagonisti della storia personale e collettiva.
Quando la mia presenza si fa ossessiva, quando cerco a tutti i costi di dominare la mano che mi chiede un aiuto, quando faccio prevalere il mio interesse su quello degli amici... non vivo nel distacco. Cerco di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resterò così senza quello che ho cercato di possedere e la mia partenza sarà accolta come una liberazione.
Quando invece mi perdo nell'amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a «dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza», anticipo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il mio ricordo «resta», forte come l' amore .
La nostra fede è diventata adulta perché abbiamo vinto anche la morte, anticipando, attraverso gesti pieni di vita, le sue richieste dolorose.
3. IL PROCESSO VERSO LA FEDE «ADULTA»
Non diventiamo adulti tutto d'un colpo. La nostra fede non diventa adulta con un tocco improvviso di bacchetta magica.
Il cammino è lungo e impegnativo. La méta è luminosa e, da lontano, giudica il processo.
La fede che fa credere alla vita resta un atto strettamente personale, giocato nella solitudine della propria interiorità. Lì, nel silenzio e nella sofferenza della solitudine, le ragioni di vita che altri hanno offerto diventano le «mie» ragioni di vita. Diventa quindi fede adulta solo quando ciò che è stato ricevuto, nello scambio di una testimonianza di vita, viene riconquistato personalmente.
Questa è la condizione irrinunciabile. Solo quando la fede raggiunge questo indice di autenticità essa è capace di generare, nella libertà, vita d'attorno, dando ad altri quelle ragioni per vivere e sperare che sono state offerte a noi.
Se questa condizione viene disattesa, siamo costretti a seminare di idoli i sentieri della nostra vita. Ci inquieta tanto la ricerca di ragioni per vivere che corriamo a spegnere la nostra sete alle cisterne piene di fango, e diventiamo tanto affamati di speranza da affidarla ciecamente al primo venuto.
Esprimere l'annuncio fino in fondo alla vita
Enzo Bianchi
Nella nostra esistenza la morte resta l’evento ineluttabile per eccellenza, anche se oggi si vive come se si fosse immortali. La morte viene rubata all’uomo, come se fosse qualcosa di osceno, e la nostra vita rischia di non avere più un confronto con il momento della propria finitudine. Il libro è una forte – e insieme consolante – reazione alle ideologie dell’edonismo che confina l’esperienza della morte nello spazio degli emarginati o della incoscienza.
“Sono passati quarant’anni e ancora una volta questo libro viene ristampato: certo porta i segni della fede ardente nella pienezza della mia vita. Fede che è mutata, non è più la stessa, forse è anche più abitata da domande e dubbi rispetto al passato, ma è ancora fede, adesione a Gesù Cristo. E se la fede fosse diventata più debole è rimasto l’amore per il Signore, e questo basta perché lo possa incontrare come la realtà più preziosa e amata, come l’unica speranza mai venuta meno. Da parte mia il desiderio è poter esclamare all’annuncio, se ci sarà, del compimento della mia vita: – mi rallegro perchè mi dicono: andiamo alla dimora del Signore! – e subito dopo dire il mio ringraziamento al Signore, a chi ho amato e mi ha amato, alla terra, alle creature tutte che mi hanno accompagnato, mi hanno dato lezione, consolazione e gioia durante tutta la mia vita.”
Vito Mancuso “Per salvarci dobbiamo creare una barriera tra noi e la cattiveria mondo”
Ascoltiamo una notizia alla radio, leggiamo un giornale e poi usciamo, di corsa nel traffico. Un clacson suona, l’autobus è affollato, c’è uno che impreca.
Corriamo in giro, leggiamo dell’ennesimo omicidio, malediciamo qualcuno perché sui social abbiamo letto che… E poi torniamo a casa, la stanchezza, lo stress, un magone nel petto. Quante volte accade? Quanto della negatività del mondo ci avvelena quotidianamente? Alla fine, quel che resta è una sensazione di smarrimento e di paura, come se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, tra guerre, crisi climatiche e migrazioni. Eppure, non è così. L’unica cosa da fare, quindi, è tirare un respiro per poi focalizzarsi su sé stessi. Non è difficile e ce lo spiega il filosofo Vito Mancuso.
In questi tempi difficili che stiamo vivendo come ci può aiutare l’etica?
L'unica possibilità che abbiamo per non diventare difficili anche noi, come lo sono questi tempi, è di porre una barriera tra noi e la difficoltà di questi giorni. Difficoltà che si chiama cattiveria, tensione, aggressività. E la barriera che noi poniamo tra la cattiveria di questi tempi e noi stessi si chiama etica. Etica significa giustizia interiore, ricerca di armonia, ricerca del bene e non dell'interesse immediato. L’etica trasforma una persona negativa non dico in un amico, ma perlomeno in una persona non ostile. Questo vuol dire etica. Considerato i tempi che viviamo, chi non fa così soccombe. L’unica soluzione, come dicevo prima, è creare una specie di fossato, come nei castelli medievali, tra sé stessi e la cattiveria. Per isolarsi da questa specie di onda nera che arriva e che può sommergere tutti. Ci si aiuta così. Chi non lo fa, viene travolto dalla marea nera, è in balia di questo spirito. E molti lo sono già, purtroppo. Lo si capisce parlando con le persone, andando in giro, guidando nel traffico. Siamo diventati tutti tendenzialmente più aggressivi e rissosi, senza empatia.
Tra guerre, discorsi d’odio e altre cose, come possiamo difenderci? La filosofia può aiutarci?
La società sta andando verso un declino, per non dire dirupo, ed è chiaro che la filosofia ci aiuta interiormente. Certo, in questo momento storico non è che con la filosofia, l'etica, la spiritualità insomma, si riesca a cambiare il mondo esterno. È evidente che questo processo nel quale siamo inseriti non è facilmente trasformabile. E, tra l’altro, chissà per quanto tempo dovremmo ancora sopportare questa situazione sempre più problematica. Però, la filosofia, l’etica, la spiritualità e la coltivazione della propria interiorità ci possono aiutare a non diventare noi stessi vittime di questa situazione.
E se non riuscissimo a trovare forza nella filosofia?
Le soluzioni sono due: o diventiamo anche noi a nostra volta delle persone negative, assorbendo quello che c’è intorno, oppure resistiamo, perché sentiamo che diventare cattivi significherebbe la peggiore sconfitta per la nostra vita. Bisogna riuscire a rimanere persone giuste. Tutti insieme, con l’aiuto della filosofia, dobbiamo resistere, trovando una fonte di energie positive. Questa fonte si chiama preghiera, per chi è religioso. Per chi non lo è si chiama filosofia, meditazione. Ma anche una persona religiosa può benissimo sia pregare sia avvalersi della filosofia. E poi è anche importante creare dei legami positivi, sani. Ma, ripeto, la cosa imprescindibile è la cura della propria interiorità: a cosa serve lottare per la pace se dentro di noi c'è la guerra? Dobbiamo aspirare prima di tutto a una pacificazione interiore. Il grande errore del socialismo, del comunismo e delle ideologie del ‘900 era di pensare che i problemi umani si risolvessero solo a livello sociale. Non che la società non sia importante, ha un ruolo rilevante. Ma i problemi umani si risolvono a livello umano, a livello interiore, perché la società non è nient'altro che l'espressione di quello che siamo noi. E quindi il vero campo di battaglia è interiore.
Il titolo del suo ultimo libro è “Destinazione speranza”. Cosa intende?
La parola speranza, come diceva il grande studioso della lingua latina VII secolo, Isidoro di Siviglia, viene dal termine “pes”, piede, un elemento del corpo ci tiene in posizione eretta. Ecco, la speranza è una forza interiore che non ti fa abbattere sulla realtà, quando la realtà è quella di cui abbiamo parlato finora. Se una persona non ha questa ulteriore forza interiore è chiaro che viene catturato dall’onda nera e diventa aggressivo e depresso. E anche deprimente, nel senso che deprime gli altri e si deprime sé stesso. Se, invece, si ha un'interiorità viva, vivace, allora le cose cambiano e si può affrontare la realtà senza scoraggiarsi, senza cadere nello scetticismo. E questo distributore di energia positiva la possiamo chiamare, appunto, speranza.
Corpo Celeste
Chandra Livia Candiani
Oggi ho letto Anna Maria Ortese, Corpo celeste.
E adesso ricopio qui le sue parole perché non avrei parole così battenti e dirette per dire quello che preme.
“So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere, e della dignità di ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.
C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al di sopra dell’utile. […] Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi.
Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie – può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.”
Non avere vergogna di difendere con parole scarne e semplici il bene della diversità, della svariatezza, dell’interdipendenza degli esseri, rispetto a un pensiero che guarda solo all’intricatezza umana e non osa richiami a partire da sé, come invece fanno gli asini ragliando. Considerare l’altro che non può parlare un testimone del nostro disastro, della nostra cieca voracità, della nostra passione di essere in primo piano e ridurre così tutto il resto a nostro sfondo. Imparare da animali e alberi e minerali come stare al mondo con l’umiltà delle creature, l’onesto essere precari in vita. Non raccontarsi la storia come vogliono i tiranni del pensiero, non infilarsi una maschera e lasciarla diventare nostra pelle.
Imparare a stare nascosti. In disparte. Tornare a giocare. Fare della innocua follia una legittima risorsa. Stare fermi e zitti a guardare e ascoltare. Smettere di far paura a tutti gli altri esseri e agli umani che non stanno in riga. Smettere di parlare solo con chi ci fa eco. Lasciarci vedere brutti come siamo, crudeli come siamo, per fiducia nella trasformazione e nella bontà fondamentale, quella che non lo fa apposta. Non cercare scuse, ma smettere e rammendare. Farci domande, tante domande e aspettare silenziosi che arrivino le risposte, aspettare tutta la vita e forse scoprire che la nostra esistenza così com’è e come siamo è la risposta, e non le parole con cui ricopriamo il nostro spavento raccontando la storia della storia della storia. Sapere che la paura che gli animali hanno di noi è la stessa che noi abbiamo della nostra nuda solitudine. Lasciare che la nostra vera storia non occhieggi soltanto nel disastro.
Non confessarla, ma offrirla con dignità perché è il nostro ponte più solido verso la storia degli altri. Rianimare la storia tatuata nel corpo, nella voce, negli sguardi. Non ignorare quello che bussa nelle buie notti e stenderlo al sole di giorno. Entrare nel nostro mancare e conoscerlo anziché riempirlo costantemente di futilità. “Lei non sa chi sono io.” Oh sì che lo so e mi si stringe il cuore sapendolo. Le opere sono gradini in discesa non in salita. Rivoluzionare la coscienza, non essere un carattere, ma un fiume, con tanti affluenti, e agire partendo dall’attesa e dal silenzio. Intonarsi alle azioni, riconoscendo le intenzioni. Risvegliarci ogni momento. Cosa cerchiamo quando anziché annusare le scie e poi seguirle corriamo dietro alle illusioni umane di appropriazione e accumulo, di ascesa? Restare fedeli alla sete senza confonderla con l’evaporazione dell’acqua. Quando disseto curo la mia arsura.
Di riuscirci prego.
Abbiamo bisogno di poesia, custodiamola
Daniele Mencarelli
Abbiamo sempre più bisogno di parola e scrittura, ma abbiamo fatto fuori quella che per rango e valore ne era la somma. La sua morte non è stata accidentale, ma volontaria, studiata a tavolino
Poemi anglosassoni
Lo stranissimo tempo che ci è toccato in sorte, fatto di più e più cose, come ogni altro tempo, ha nella rivoluzione digitale il suo marchio più esibito e dibattuto. L’innovazione è continua, nella nostra attività quotidiana è sempre più frequente la relazione e l’intervento di invisibili aiutanti, pronti ad accenderci la luce o consigliarci il percorso più veloce. L’intelligenza artificiale sarà regista delle nostre vite, con la sua voce suadente ci sarà fondamentale in tutte le nostre attività. Sin qui nulla di nuovo.
Infatti, il nostro è il tempo delle innovazioni, altri sono stati quelli delle rivoluzioni vere e proprie. Basti pensare al mondo prima dei voli aerei e dopo, giusto per fare il primo esempio che passa per la mente. Il nostro tempo, fatto di piccole grandi migliorie rispetto all’esistente, è legato a tutti quelli passati, e forse futuri, da un dato che continua a rimanere centrale nella stessa misura in cui è centrale l’uomo rispetto alla civiltà umana. Il dato è il ricorso alla parola, e alla sua forma più durevole: la scrittura.
Tutto continua a girare attorno a questa stella. Anche quando viene occultata, anche quando pare non esserci, alla base di tutto c’è sempre lei, la regina di noi mortali.
Dalle nuove frontiere dell’intrattenimento passando per i social, anche laddove l’immagine sembra centrale, sino al profluvio infinito di news in diretta h24 in giro per il pianeta, ci sarà sempre un’anima nascosta, un’anima di parole e scrittura. Alla fine il nostro dialogo con il mondo non può non avvalersi di questa mediazione antica quanto l’uomo, o quasi. La parola come telaio irrinunciabile dello stesso pensiero umano e di tutto ciò che è in grado di partorire e realizzare. Magari si è portati a pensare il contrario, ma l’innovazione continua produrrà una sempre maggiore richiesta di materia prima, ovvero di parole e di scritture, con cui costruire sempre nuove e più seducenti, e commerciali, narrazioni da mettere sui vari mercati.
Narrazioni. A pensarci bene, lo stranissimo tempo che ci è toccato in sorte ha nella centralità del racconto uno stigma ben più profondo rispetto alla digitalizzazione imperante. L’uomo contemporaneo delega ad altri il suo rapporto con la realtà, in maniera sempre più cieca e inconsapevole. Pensiamo di sapere e conoscere tutto solo perché abbiamo a disposizione un’offerta di narrazioni come in nessun altro tempo. E questa non è un’innovazione rispetto all’esistente: è un dato nuovo, un codice assolutamente originale rispetto al passato. Viviamo sprofondati nella narrazione di tutto, ce ne nutriamo costantemente, la realtà in questa relazione ossessiva è diventata un dettaglio sacrificabile, obsoleto. Il nostro tempo ipernarrativo, perennemente in prosa, a pensarci una trasformazione epocale l’ha prodotta. Questa sì assume tutti i crismi del dato rivoluzionario. Abbiamo sempre più bisogno di parola e scrittura, ma abbiamo fatto fuori quella che per rango e valore ne era la somma, per dirla con le parole di Leopardi.
La poesia sta al nostro tempo come una testimone scomoda, all’uomo che si accontenta del racconto della realtà fatto da altri, sempre su commissione, sempre interessato, comanda di uscire e di vedere con i propri occhi. La poesia è figlia della realtà, realtà che è arcinemica di tutte le narrazioni che ci esplodono sul viso ogni secondo. Per far fuori la realtà, occorreva togliere di mezzo la disciplina che ne esaltava il valore primo più di ogni altra. E il delitto è servito.
Non è uno scenario distopico, è la nostra epoca. La poesia ha assunto un valore eversivo rispetto al tempo e agli interessi imperanti, è scomoda, chiede all’uomo di essere libero, di essere esperimento di se stesso, cerca di ricollegarlo costantemente al dato della realtà, l’unico veramente in grado di rivelargli qualcosa che sino a quel momento non sapeva.
Nessuno lo dice, ma l’uomo senza poesia si sta lentamente ammalando, anche se lui non ne è cosciente. La prova più drammatica è il progressivo imbarbarimento rispetto ai temi fondamentali della vita. Temi che la poesia, da sempre, affronta faccia a faccia, facendone canto e insieme esperienza. Perché la poesia è l’unica parola che risiede naturalmente nella realtà, l’unica di cui la realtà si fidi veramente. Custodiamola.
Lasciare il segno
Alberto Caprotti
Flaiano diceva che “i giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei, gli altri fanno volume”. Ma quei giorni, se proprio non capitano, occorre andarseli a cercare. Inseguirli o, meglio, fabbricarli. Invece ci sono persone che non hanno mai voglia di niente, e purtroppo non sono poche. Non sanno da che parte girarsi, non sanno che farsene neppure del tempo. Non sono mai contente di nulla, che poi è una delle più grandi povertà del mondo. Galleggiano nel limbo, vivono in grigio, ormai non sanno più se ridere o piangere, e nel dubbio non fanno né l’uno né l’altro. Non rischiano, vegetano. Confondono la felicità con quello che desiderano senza apprezzare il bello e il buono che hanno a portata di mano ogni giorno. Invece è sempre valida e forte la convinzione che sia meglio la delusione rispetto al rimpianto, se non altro perché regala la consolazione di averci provato. E la consapevolezza di sapere che chi si accontenta forse gode, ma solo un po’.
Quando chiedevano a Madre Teresa perché fosse rimasta a Calcutta, lei rispondeva: c’è sempre un posto dove puoi essere straordinario. Ecco, se ognuno pensasse di poter davvero lasciare un segno del proprio passaggio, anche piccolo se non straordinario, forse nel mondo ci sarebbero più bellezza e meno squallore.
Enzo Bianchi “La debolezza è la virtù del buon cristiano ed è la prova più faticosa del mestiere di vivere”
Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della fede cristiana. E così la debolezza, l'asthenía che nasce dalla malattia, dall'handicap, dall'umiliazione, dall'imperfezione, dalla sofferenza imposta dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può diventare addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati, agli occhi del mondo degli imperfetti e dei deboli. L'Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza". Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte». In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza di Dio si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell'uomo, l'incompletezza, l'imperfezione.
Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia, e i cristiani abituati a tali parole sono disposti a ripeterle ma non a viverle: quest'ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell'antropologia cristiana.
Il domenicano francese Sylvain Detoc ha avuto l'intuizione e la capacità di scrivere quello che si potrebbe serenamente definire un elogio dell'imperfezione. In La gloria dei buoni a nulla. Guida spirituale per accogliere l'imperfezione, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, Detoc con senso dell'humour e al contempo raffinato senso teologico (è docente all'Institut Catholique e allo Studium domenicano di Tolosa) e con levità mai mediocre coglie una verità biblica che ha al tempo stesso un valore antropologico e teologico. Per la sua opera nel mondo Dio sceglie generalmente uomini che non brillano per ingegno e cultura, che non sono intellettuali raffinati, dotti e sapienti, ma persone poco dotate, di umili condizioni come pastori o pescatori, che sanno di essere inadeguati alla missione che Dio gli affida, perché deboli, incapaci a parlare in pubblico e poco coraggiosi, degli incapaci, appunto dei "buoni a nulla". Il Dio biblico non consegna il suo messaggio a dei campioni dell'evangelizzazione ma a gente "poco dotata", al punto che scegliere persone inadeguate fa parte della sua politica di reclutamento. O è un bizzarro responsabile delle risorse umane oppure un geniale scopritore di talenti.
Detoc ha buon gioco nel farne l'elenco: «Dio vuole generare un popolo a lui consacrato? Recluta Abramo, un novantenne che fa copia con una sterile, Sara. Dio vuole strappare il suo popolo dalla servitù del faraone e condurlo nella Terra promessa? Assume un leader balbuziente e con poco talento per la politica: Mosè. Dio vuole che la sua parola risuoni presso i sacerdoti nei santuari d'Israele? Assume Amos, un rozzo pastore di bestiame». La lista continua anche con gli uomini e le donne scelte da Gesù: «Pietro? Un codardo e un rinnegato. Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo? Due ambiziosi. Matteo? Un collaborazionista. Paolo? Un fanatico. Maria di Magdala? Una cortigiana, per giunta posseduta». Tuttavia, la goffaggine e l'atteggiamento problematico, spesso incapace, magari solo all'inizio, dei collaboratori che si è scelto, non ha scoraggiato Dio, «esitazioni, cadute e ricadute, peregrinazioni, persino passi indietro: niente di tutto questo ha indotto il Creatore a desistere dal suo benevolo disegno».
Lo humour di Sylvain Detoc cela una verità profonda della condizione umana, di quei "buoni a nulla" che ogni figlio di Adamo, il fatto di terra, il terroso è. Quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l'arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza e l'imperfezione, che si presentano a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in esse un'occasione di spogliazione? Non solo individualmente, ma come comunità umana, come società, e anche come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della discreta caritas, dell'amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler "dare testimonianza" a noi stessi?
C'è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell'umiliazione che nasce dall'inadeguatezza, dall'incapacità, dal limite, a volte dal vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza», prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di imperfezione, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Costatarsi come chiesa "buona a nulla". Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell'ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale?
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un'ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos'è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas! (O desiderabile debolezza!)» (come nei Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza e l'imperfezione appaiono sempre anche come prova, come faticosa prova.
La bellezza di una vita buona e bella
Lisa Cremaschi
Una vita bella è una vita eucaristica, cioè che riconosce che tutto è dono e sa ringraziare per ogni cosa. Che senso ha partecipare a tante eucarestie e non diventare uomini e donne eucaristici, cioè uomini e donne che non vivono nel regime della pretesa e della prepotenza ma in quello del dono (cf. Col 3,15: “Vivete nell’azione di grazie”)? E allora può essere una vita gioiosa. Scriveva Friedrich Nietzsche nel 1882: “Il furibondo lavoro senza respiro [degli americani] – il vizio peculiare del nuovo mondo – comincia già per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità. Ci si vergogna già oggi del riposo, il lungo meditare crea quasi rimorsi di coscienza … L’inclinazione alla gioia si chiama già ‘bisogno di ricreazione’ e comincia a vergognarsi di se stessa. ‘È un dovere verso la nostra salute’ si dice quando si è sorpresi durante una gita in campagna”.[15] Si può essere nella gioia? Sì, perché non siamo noi a salvare il mondo! Siamo collaboratori di Dio e collaboratori della gioia dei fratelli e delle sorelle (cf. 2Cor 1,24). Gioia di condividere un buon pasto, gioia nel fare festa, gioia nel coltivare relazioni di amicizia… Le nostre comunità cristiane sono luoghi di bellezza? In senso materiale – quanto squallore a volte nei luoghi religiosi! – ma soprattutto nei rapporti reciproci. Rapporti belli, sinceri, d’amore vicendevole ( e non solo luoghi in cui si organizza la carità per i poveri, ecc.). Le nostre liturgie sono belle, curate? O sono la ripetizione di formule più o meno biascicate da un funzionario del “religioso”? La chiesa, diceva papa Giovanni, non è un museo, non è una cittadella fortificata, è un giardino e in un giardino ci sono piante vive e tanto più sono diverse tanto più il giardino è bello...
E siamo chiamati a essere sacerdoti, tutti, in forza del battesimo ricevuto, sacerdoti, cioè mediatori tra Dio e gli uomini, incaricati di annunciare le opere meravigliose di Dio, la sua misericordia per tutti. Tutti dobbiamo far conoscere il Signore mostrando il suo volto, donando il perdono, proclamando con la nostra intera vita che nessuno è escluso dalla misericordia. Nel cuore di Dio c’è posto per tutti. Ma a volte, invece, non diventiamo un ostacolo a questo annuncio? “Vi esorto come stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11). I cristiani sono nel mondo, ma non appartengono al mondo. Il cristiano non ha patria su questa terra. In una stagione in cui si rinfocolano i nazionalismi, la chiesa dovrebbe ricordare che il cristiano non ha altra patria se non il regno dei cieli. Dobbiamo vivere in una grande fedeltà alla terra, alla storia, agli uomini, al mondo in cui viviamo, il mondo di oggi, senza inutili rimpianti del passato. Chi ha mai detto che il passato sia stato migliore, più santo, più conforme al vangelo del presente, dei tempi di oggi in cui siamo chiamati a vivere? Oggi siamo chiamati alla santità, nel mondo di oggi siamo chiamati a vivere il vangelo; la nostalgia dei tempi che furono, la pretesa di conservare forme di vivere la fede proprie del passato è un atto di disobbedienza allo Spirito che oggi ci chiama alla santità. E tuttavia anche oggi siamo posti dinanzi a eventi, problemi, situazioni che esigono discernimento. È difficile questo continuo discernimento che ci è chiesto tra un modo di pensare a cui dobbiamo opporre un netto rifiuto, e il rendere il vangelo parlante, profetico per i nostri contemporanei. Quante volte ci adeguiamo al mondo, forse illudendoci in questo modo di conquistare la gente! E quanto poco ci preoccupiamo di non fare da schermo al vangelo, di annunciarlo nella sua semplicità e purezza! Al termine delle Beatitudini nel vangelo di Matteo Gesù dichiara: “Voi siete il sale della terra … voi siete la luce del mondo” (Mt 5,13.16). Non ci viene detto che dobbiamo fare di tutto per essere sale e luce per gli altri, sforzarci per essere di esempio agli altri, magari proclamandolo a gran voce. Il discepolo è sale e luce, se lascia plasmare la sua vita dalla logica delle beatitudini.
“Voi siete sale e luce” è detto a quelli che si lasciano coinvolgere dalla vita di Gesù, luce del mondo. E allora la luce risplende da sé e risplende con i tempi di Dio che non sono i nostri. Se viviamo davvero nell’amore per il Signore, la nostra vita sarà bella, trasfigurata; dietro al Signore ci sono dei no da dire, la rinuncia all’io egoistico, ma il risultato non è un immiserimento della vita, come spesso è accaduto nella tradizione cristiana. Se uno, come dice Agostino, è innamorato della bellezza spirituale, questa bellezza traspare nel suo modo di essere, nelle sue relazioni, nei luoghi in cui vive, nel suo amore per il creato, per le creature, nella gioia e nella gratitudine per i doni che Dio ha dato all’uomo quando sono impiegati per amare gli altri.
Ha scritto Carlo Maria Martini nella Lettera pastorale già ricordata: “Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche.
Bisogna parlarne con un cuore carico di amore compassionevole, facendo esperienza di quella carità che dona con gioia e suscita entusiasmo; bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio”.
La forza della gratitudine
di Massimo Recalcati
Si può accogliere ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. Occorre essere grati nei confronti delle generazioni precedenti e di ciò che abbiamo vissuto.
Il passato è una catena che impedisce la nostra libertà? E una maledizione che impone la ripetizione inesorabile dello stesso trauma? Non a caso Nietzsche lo definiva come «il peso più grande».
Quello che abbiamo vissuto si deposita alle nostre spalle accorciando e condizionando impietosamente il tempo della nostra vita. Siamo tutti figli del «potere di ieri», come direbbe Jung.
Nessuno può più agire su ciò che è già stato ma solo subirlo.
Ma le cose stanno davvero così? Sappiamo bene che esiste un passato che non possiamo dimenticare. È un insegnamento della clinica psicoanalitica: la nostra memoria – come la nostra stessa vita – resta appesa ai traumi che l’hanno marchiata in modo indelebile. Si tratta di un passato che non può essere ordinato in un archivio, catalogato in un album o in un cimitero dei ricordi, ma che ritorna in modo spettrale imponendo alla nostra vita la sua ripetizione. In questo senso non siamo noi che decidiamo di ricordare il passato ma è il passato che si impone sulla nostra decisione di ricordare. È un fatto di esperienza: non riusciamo mai a ricordare come vorremmo quello che è stato e non riusciamo a non ricordare quello che dal passato vorremmo dimenticare. Questo significa che c’è qualcosa di sempre vivo nel nostro passato. La memoria non può essere né l’archivio, né l’album, né il cimitero dei ricordi. Piuttosto, come Freud ha mostrato bene, siamo inseguiti, tormentati, placcati dal nostro passato più traumatico: quello che è già stato insiste nel ripetersi, non cessa di rincorrerci e di condizionare la nostra vita.
Accade in modo eclatante nel film Il cacciatore di Cimino, dove uno dei protagonisti non può non continuare a ripetere nel corso della sua vita il trauma della roulette russa alla quale era stato sottoposto durante la guerra del Viet Nam, quando era caduto prigioniero dei Viet Cong. In questo caso, come nei disturbi che il DSM classifica come post-traumatici, il passato ritorna spettralmente imprigionando la vita in un “eterno ritorno dell’eguale”. Anche la depressione scaturisce da un legame tossico con il passato. Per il depresso tutto è già avvenuto, tutto si è già consumato, tutto è già stato e l’avvenire non può che essere solo cenere. Per questa ragione la sua inclinazione è sempre quella di rimpiangere ciò che è stato e non è più: la vigoria del proprio corpo, gli entusiasmi dei primi amori, una carriera professionale luminosa, un’infanzia felice… Il rimpianto è, infatti, un modo per entrare in rapporto col passato che mentre lo idealizza, lo rende per questa ragione insuperabile. Se tutto ciò che brilla è perduto, se è sprofondato nel buio di un passato irrecuperabile, se la mia vita si perde insieme a ciò che ha perduto, allora non abbiamo più futuro perché anche il futuro viene risucchiato all’indietro, trascinato verso il passato.
Ma il rimpianto non è la sola possibilità che noi abbiamo di entrare in rapporto col passato. Il grande insegnamento della psicoanalisi, che su questo punto eredita la riflessione di Nietzsche sul tempo storico, consiste nel mostrare che è solo la nostra lettura attuale del passato a definirne il senso. In questo modo noi abbiamo sempre la possibilità di dare una significazione inedita a ciò che è già avvenuto. La concezione lineare e causale del tempo si modifica profondamente: non è più il “prima” che determina inesorabilmente il “dopo”, ma esattamente il contrario. È il “dopo”, quello che deve ancora venire, che determinata quello che è già stato.
Sembra un pensiero contro intuitivo ma è, in realtà, un pensiero che anche gli storici conoscono bene. È solo lo sviluppo successivo dei fatti che ha potuto, per esempio, tradurre la presa della Bastiglia in un evento che noi possiamo riconoscere come epocale e non in una sommossa qualunque. Lo stesso si deve dire anche per il trauma incalcolabile della Shoah. Siamo noi a custodire oggi la realtà di quell’evento.
E questo si realizza solo se nel tempo presente quel trauma continua a esistere e ad insegnare. Non si tratta, dunque, di ricordarsi di ciò che è avvenuto ma di riscrivere la storia facendo esistere oggi il senso di ciò che è stato.
È lo stesso che accade in una esperienza analitica: il paziente non si limita a ricordare il proprio passato, ma ne ricostruisce il senso in modo assolutamente inedito. È quello che intendeva Nietzsche quando affermava che è necessario «darsi a posteriori il proprio passato». La rimemorazione non consiste nella semplice riproduzione di quello che è già avvenuto, ma nella ricostruzione inedita della propria storia. Il rimpianto non è dunque il solo modo di entrare in relazione con il nostro passato. Ad esso dovremmo contrapporre la gratitudine.
Diversamente dal rimpianto, essa accoglie ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. In questo senso, nella gratitudine il passato non è mai del tutto morto. Non appare come un peso al collo che trascina la vita verso il basso, ma come una nuova linfa: luogo di un insegnamento, di una verità, di un evento ancora vivo. Essere grati nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduti e nei confronti di tutto quello che abbiamo vissuto (il bene e il male, il buono e il cattivo incontro, la gioia e il dolore), significa non lasciarsi inghiottire dal passato, non cedere alla tentazione della nostalgia come rimpianto, ma riscattarlo, redimerlo proprio in quanto esso continua a riscriversi attraverso la nostra vita attuale e futura. È solo nella gratitudine che la memoria resta davvero viva.
In montagna e nella vita
Erri De Luca
1)In montagna camminare lo sguardo fisso a terra, a dove poggiare il passo. Se si vuole guardare intorno il panorama, fermarsi. Non si sta nella zona pedonale di una città d’arte. Si sta da passanti su sentieri che rasentano precipizi. 2) In discesa fare passi corti: permettono di recuperare l’equilibrio in caso di scivolata. Il passo lungo comporta la caduta. Poggiare tutta la pianta del piede anticipando l’appoggio di tallone. La tenuta del passo sfrutta l’intera suola e aumenta l’aderenza. Un adagio ingannevole dice che in discesa vanno pure i sassi. Certo, ma bisogna evitare di andare come loro, i sassi. 3) Fa bene imparare i nomi degli alberi del bosco che si sta attraversando. Distinguerli fa percepire il luogo con maggiore definizione. Lo stesso vale per i fiori, gli animali e i nomi delle montagne intorno. La geografia è parola greca che significa scrittura della terra. È bene percorrerla da lettori. 4) Non guardare quanto manca alla cima, al rifugio o al termine della tappa. Conta il passo seguente non il traguardo. 5) Ridurre al minimo il carico infilato nello zaino. Protezione dalla pioggia, dal freddo, il resto è zavorra. Una gita non è un trasloco. Informarsi sulle previsioni meteo, sapendo che si tratta di probabilità e non di oracoli. Alcuni di questi accorgimenti si possono estendere al di là dell’escursione in montagna.
"La vita è come il tennis"
Alessandro d’avenia
Un poeta non aveva mai visto il mare. Si mise in viaggio. Si fermò in una locanda e confidò all'albergatore la sua ricerca. L'uomo gli rispose che era ormai vicino, avrebbe potuto raggiungere la meta l'indomani. Il poeta passò la notte a rigirarsi nel letto della sua camera nell'insonne attesa. Il giorno dopo l'albergatore lo vide tornare e gli chiese come era andata, ma il poeta rispose che non aveva visto il mare e non aggiunse altro. Come era possibile? La curiosa scena si ripetè per due o tre giorni, fino a quando il poeta tornò raggiante: ce l'aveva fatta! E come? Chiese incuriosito l'albergatore. Da una barca giunta a riva erano scesi dei pescatori: li aveva osservati, aveva parlato con loro fissandoli negli occhi. E finalmente, in quei corpi e in quelle voci, aveva visto il mare.
Così è la verità, sempre incarnata in qualcuno, e per questo esiste la scuola: un luogo pensato per incontrare testimoni credibili di un pezzo di vita a cui hanno dedicato anni, sforzi e sogni. Sin da bambini impariamo il mondo per fiducia, da qualcuno prima che da qualcosa, la pelle («un discorso toccante...») e la voce («...mi ha incantato!») precedono la vista di almeno nove mesi, ed è poi così anche nella vita fuori dal grembo. Si comincia a conoscere solo da soggetto a soggetto: il corpo e la voce di qualcuno ci dicono dove, come e cosa guardare. Ma chi seguire, chi ascoltare tra tante voci?
Maestro viene dal latino magister, versione umana della radice mag, più, da cui molti termini come maggiore, magistrato, maggiordomo... Il «più» al maestro è dato dall'intensità trovata in un ambito della vita, di cui è testimone: un sapere incarnato. Per questo la grande poetessa russa Marina Cvetaeva diceva di imparare da tutti i mastri e maestri: «Presto ascolto a ogni grande voce, a chiunque appartenga. Quando recito una poesia sul mare e un marinaio che non capisce nulla di poesia mi corregge, io gli sono riconoscente. Lo stesso con il guardaboschi, il fabbro, il muratore».
Non c'è trasmissione di parola se la parola non si è fatta carne: gesti, occhi, mani, corpo... La verità ci afferra solo se è viva, cioè se è «sentita» e «sensata»: passa dai sensi, ha senso. Anche Gesù veniva chiamato maestro, rabbi significa infatti «grande» (versione ebraica del «più»). I rabbi di professione non tolleravano quell'attribuzione, perché il falegname di Nazareth non aveva titoli ufficiali per essere definito maestro. Eppure la gente gli riconosceva l'autorità sul campo e per questo lo seguiva.
A proposito di rabbini, uno di loro diceva che la prima domanda che Dio ci porrà nell'aldilà è: «Chi era il tuo maestro e che cosa hai appreso da lui?», perché nell'incontro con i maestri è data a ciascuno l'occasione per una vita riuscita o sprecata, cosa non scontata nell'epoca dei presunti (come se non fossero stati nel grembo materno) self-made. Se fatichiamo a rispondere alla domanda immaginata dal rabbino non abbiamo ancora ricevuto un'eredità, un destino, una vocazione.
Ma passiamo dalla parte dei maestri: non basta conoscere, bisogna testimoniare la vita.
All'opposto della parola mastro/maestro, che viene da «più», c'è la categoria di parole che contengono invece la radice latina minus, «meno»: ministro, minestra, menestrello... e tutti i termini che hanno in comune l'idea di «servire». Se il più del magistro (maestro) segnala il di più di vita da raccontare a molti, il meno del ministro indica invece la capacità di mettersi al servizio di altri perché possano incontrare la vita, con più facilità. In ambito religioso il ministro del culto ha infatti il compito di facilitare l'incontro tra gli uomini e il divino. In ambito politico il ministro della Cultura ha il compito di facilitare l'incontro tra cittadini e beni culturali. Quello dell'Istruzione tra cittadini e maestri. Quello della Salute tra cittadini e cure... E così via. Ogni maestro è quindi ministro (serve altri) e ogni ministro dovrebbe anche essere maestro (nell'ambito di pertinenza), ma nell'uno e nell'altro caso, il più e il meno, entrambi hanno potere su altri, non al fine di sotto-mettere ma di per-mettere la vita, perché, mi piace ripeterlo in questi tempi di fasti tennistici nostrani, come diceva lo scrittore David Foster Wallace «la vita è come il tennis: vince chi serve meglio».
Abitare la vita
Emanuele Borsotti
Abitare è una parola che deriva dal verbo habére che in latino vuol dire: trattenere, occuparsi, possedere e, come forma intensiva frequentativa, continuare ad avere e quindi anche abitare in un luogo, cioè avere una abitudine con quello spazio, farsene quasi un abito, qualcosa che indossiamo e che aderisce radicalmente alla nostra persona. L’uomo è un abitatore di luoghi, di tempi, di storie, di memorie e fa di tutto questo universo il suo habitat, il suo abitare.
Il modo con cui noi uomini stiamo sulla terra è l’abitare (Heidegger).
Bisogna però chiarire come abitiamo o come dovremmo abitare. C’è un abitare improprio che è uno sfiorare il paesaggio, leggere i luoghi come un fondale della nostra vita, come un ambiente palcoscenico che ci resta estraneo, al quale noi non aderiamo intimamente. Ѐ come se il paesaggio fosse un oggetto e noi un soggetto ma senza una profonda relazione fra questi due elementi. L’unico legame fra i due sarebbe una visione superficiale, un aspetto puramente visivo. Pensiamo alla nostra società del selfie: oggi molte volte l’uomo contemporaneo non vede neanche più ciò che sta attraversando, ma frappone fra il luogo e se stesso uno smarphone, un apparecchio fotografico e se va bene rivedrà poi quel luogo nello scatto fatto. Quando però noi scegliamo di fare un passo più in profondità e non ci limitiamo allo sfiorare turistico ecco che viviamo un’esperienza di ancoraggio, cioè abbandoniamo l’esteriorità dello spettatore per entrare in un dialogo. Non si tratta, come diceva Barthes, di limitarci a fotografare il mondo, ma si tratta di rimanere, di percorrere tutta la marezzatura dei luoghi, delle luci, dei momenti.
Questo ancorarsi al luogo è l’esperienza che Cristo fa tante volte. In Marco 10,23 viene usata l’espressione: circumspicere per indicare che Gesù guarda intorno, che ha uno sguardo a 360 gradi ed è questo sguardo che permette a Gesù di amare. Guardarsi intorno è guardare anche dentro l’altro e fare il passo di uno sguardo che ama. Ecco allora l’invito a non fermarsi a posare uno sguardo superficiale sui luoghi, ma ad entrare in una relazione, ad essere implicato dentro l’esperienza di quel luogo.
Ѐ l’esperienza pasquale di Cristo là dove, in Giovanni, si dice che entra nel cenacolo, e “stette in mezzo”, in mezzo non solo dell’ambiente, ma anche del ‘con’ e del ‘fra’ le persone. Ecco allora che nel lasciarsi assorbire da un ambiente e assorbire l’ambiente che ci ospita sta la differenza tra la provvisorietà del turista in transito e l’abitatore del luogo.
Se dunque non sfioriamo i luoghi, ma li abitiamo veramente, dobbiamo confrontarci con l’esperienza di essere costruttori e ricostruttori. L’uomo abita costruendo, costruisce per abitare, ma è proprio perché l’uomo è un abitatore che è in grado di costruire. Vivere è dunque anche questo: costruire e ricostruire luoghi e, attraverso la metafora del luogo, costruire e ricostruire l’esistenza di noi che lo abitiamo. Partiamo da una suggestione che ci viene dalla vecchia sapienza dell’imperatore Adriano - come immaginato dalla Yourcenar, nelle memorie di un grande condottiero - che alla fine della vita fa un bilancio e conclude dicendo: “Io ho costruito e ricostruito”. Costruire come sinonimo di collaborare con la terra, di “lavorare con” e “faticare con” perché labor in latino vuol dire innanzitutto fatica, quindi lavoro. Collaborare con la terra è imprimere il segno dell’uomo in un paesaggio che quindi ne resterà modificato per sempre. E in questo modo contribuiamo a una lenta trasformazione che è la vita delle città, degli edifici, dei nostri spazi vitali. E poi costruire è anche opera di ricostruzione perché bisogna fare i conti con la labilità delle cose e con il tempo, grande scultore, ma anche grande distruttore. Quindi ricostruire è collaborare con il tempo, con il passato, se ne coglie lo spirito, lo si modifica, lo si conserva e gli si imprime un movimento propulsivo cercando di farlo arrivare verso l’avvenire. Ricostruire significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti, l’esperienza sorgiva della vita. Quindi costruire è principalmente un atto di speranza: è dare forma al presente, plasmare la materia, dare una direzione alla vita e sporgerla verso l’avvenire, verso il durevole, verso quello che è il lascito ereditario. Sempre dalla Yourcenar, Adriano dice: “Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno”. Le cose sono sempre costruende, sempre da costruire, sempre da riedificare. Allo stesso modo la nostra umanità, la nostra vita interiore, le nostre profondità spirituali come i nostri legami affettivi sono sempre incompiuti e quindi in costruzione continua. Costruire come speranza e ricostruire come forma architettonica della consolazione è questa l’idea che ci viene dalla Scrittura, dall’AT e dagli scritti profetici.
Sono testi nei quali il verbo ricostruire e il verbo consolare vengono coniugati in parallelo e i paralleli sinonimici dell’ebraico ci dicono appunto che c’è una profonda osmosi fra le due cose.
Ricostruire un edificio, ricostruirsi una vita dopo una frattura significa fare un’opera di architettura della consolazione. Ѐ l’esperienza di Israele dopo l’esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme quando il Signore consola ricostruendola dalle sue rovine, riaprendo un giardino là dove c’era solo un deserto. Questo induce in un canto di gioia. E ancora possiamo dire che la costruzione è un’opera di incontro. Costruire significa incontrare. Quando l’uomo costruisce lo fa a partire da un numero di elementi architettonici basilari limitati.
La novità sta nel numero infinito di combinazioni di questi elementi di base e questo crea l’unicità. Unicità dell’incontro tra l’uomo e un luogo e unicità dell’incontro fra gli uomini all’interno di questo luogo.
E anche nell’incontro tra la mia vita e gli incidenti dell’esistenza perché la vita è anche costruire nonostante gli incidenti, accettando anche un cambio di angolatura che ci porta ad aprire vie nuove.
Le mie città nascono da incontri, dagli incontri dell’uomo con un angolo della terra - imperatore Adriano.
Quando io mi rapporto con uno spazio mi sto sostanzialmente rapportando con del non-umano e paradossalmente il non umano del luogo (vegetale, minerale) riesce a far vibrare le corde dell’umano e tocca il mio intimo. Ѐ il paradosso di un uomo che si umanizza anche in virtù di quel non umano. Sempre che si accetti di compiere l’esercizio dell’attenzione. “L’attenzione è l’apertura dell’essere umano a ciò che lo circonda, un’attenzione non solo ad extra, ma anche ad intra rivolta verso ciò che è in noi” (Zambrano). Attenzione deriva dal verbo tendere quindi significa slanciarsi verso, avere una direzione, voler procedere verso. Ma questa esperienza dell’abitare luoghi concreti, fisici, palpabili diventa sempre porta verso qualcosa che supera la fisicità del luogo. Quando Giovanni dice: “Il vento soffia dove vuole, ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va” ci fa anche capire che, per esempio attraverso lo stormire delle fronde, quel luogo vegetale diventa il luogo di un’esperienza fisica dell’impalpabile. L’esperienza dell’intangibile del vento mi si dà grazie al luogo vegetale che si muove in virtù di quel passaggio. L’impalpabile diventa presenza. (lo stesso si potrebbe dire di un altro impalpabile: la luce). L’esperienza della vita spirituale, ma anche gli affetti, gli amori, i dolori…funzionano come il vento, come la luce. L’uomo fa l’esperienza che qualcosa dell’ordine dello spirituale si sprigiona a partire da ciò che è fisico. Allora la frattura fra il fisico e lo spirituale in certi momenti viene meno e i luoghi diventano dei legami.
In Giovanni 1,14 si legge: “Il mistero di Dio in Cristo è mistero di un Dio, di una Parola che viene ad abitare in mezzo a noi”. “Maestro dove abiti”? e Gesù: “Venite e vedete” e i discepoli fanno un’esperienza. Questa esperienza principale che l’uomo fa dell’abitare si radica in una prima abitazione, che è l’abitazione nel corpo. Il corpo nostra prima abitazione. L’uomo è un corpo abitante e abitato. Il nostro corpo abita innanzitutto nel corpo di una donna, noi veniamo al mondo come abitanti e usciti da quella prima casa incominciamo ad abitare nel mondo esterno, a coabitare con gli altri. E poi l’uomo abita il corpo dell’altro; l’esperienza dell’amore fisico della coppia è l’esperienza dell’abitare realmente le profondità del corpo dell’altro. Questo avviene anche nell’esperienza della fede quando nella comunione il mio corpo diventa l’abitazione del corpo di Dio, e il corpo di Dio che abita nel corpo dell’uomo crea il corpo della chiesa. Noi mangiamo ciò che siamo, noi mangiamo quel corpo che stiamo diventando. Se questo è vero allora l’uomo è il primo luogo per l’altro uomo. Prima di trovare luoghi fisici che lo ospitano, il cucciolo dell’uomo che viene al mondo trova il suo primo luogo in un altro. Per il bambino la figura genitoriale rappresenta il luogo primario, il suo primo orizzonte è lo sguardo della madre che si china sulla culla. Quando poi diventa grande, si stacca dal luogo- corpo- materno e incomincia ad abitare i luoghi fisici dello spazio. E allora ci affidiamo alla sintesi fulminea di S. Agostino: “Amando, noi abitiamo con il cuore” cioè noi abitiamo con il cuore là dove si trovano i nostri affetti e tradotto in un altro modo: dove è il nostro amore, il nostro cuore, là noi abitiamo. Abitare un luogo implica sempre delle scelte e chiede anche di lasciarsi istruire dall’alterità del luogo, lasciarsi educare dagli spazi in cui si abita.
L’uomo come può abitare i luoghi? L’uomo abita la terra con merito perché fa tante cose, ma bisogna aggiungere al merito delle cose che si fanno quella postura poetica dell’abitare che Holderlin e altre personalità del mondo della cultura hanno così sintetizzato: “abitare poeticamente”.
Poeticamente ci rimanda al verbo poiein che significa fare, abitare facendo e facendoci. Poetare significa aiutare noi stessi e gli altri ad abitare la vita. Questa azione dell’abitare poeticamente è per Holderlin l’azione del misurare la distanza tra cielo e terra. Noi abitiamo quando siamo capaci di custodire questa nostra duplice appartenenza alla terra sulla quale appoggiamo i piedi e al cielo verso il quale protendiamo il capo. La grande sfida è vivere in una duplice dimensione: chi impara ad avere una consuetudine buona, armonica con i luoghi fisici può ritrovarsi alla scuola preziosa dove imparare ad abitare amorevolmente, poeticamente se stesso; chi sa abitare se stesso, i suoi spazi interiori è capace di abitare amorevolmente, poeticamente i luoghi esterni. Ma questa è un’arte che si apprende nel tempo, con fatica e con pazienza. Con il coraggio di osare l’originalità di ciascuno.
Sentirmi amato
Alessandro D'Avenia
Da bambino in chiesa vidi l’immagine di un uomo che ne aiuta un altro schiacciato da una trave: si trattava di un contadino di Cirene che sorregge un condannato alla crocifissione, Cristo. Quell’immagine non mi consolava, mi guardava e sfidava. Era il contrario di un tranquillante: Cristo non mi ha protetto dalla vita, mi ci ha spinto dentro o contro.
Per un certo tempo anche io ho vissuto il rapporto con Dio secondo il meccanismo al cuore del sacro in ogni tempo: il sacrificio, cioè io rinuncio a qualcosa per Dio, così lo controllo e mi protegge.
Cristo invece dice: «Misericordia io voglio e non sacrificio»(Mt 9), ponendo fine al rapporto commerciale e sacrificale con Dio (se fai il bravo e ti sacrifichi per lui, Dio ti ama) e inaugurandone uno gratuito (Dio già ti ama, non vuole niente se non che tu lo sappia e lo sperimenti). Cristo è stato ucciso perché metteva in crisi il sistema sacrificale e di potere degli uomini, per restituire all’uomo l’energia creativa e libera dell’amore al posto di quella distruttiva e ripetitiva del potere: non domino dunque sono (qualcuno), fonte di ogni violenza e frustrazione, ma sono amato dunque (vado bene come) sono, fonte di ogni creatività e crescita. Per questo un giorno ho compreso il paradosso di Dostoevskij: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». In una situazione molto dolorosa in cui «la verità» e Cristo si separavano, seguendo Cristo, ho scoperto che quella che ritenevo verità era solo una mia ideologia utile a sentirmi sicuro o migliore, gonfiava il mio ego e copriva la mia mancanza di amore.
Per questo non amo il binomio credente/praticante che riduce la fede da relazione a prestazione. È come chiedere a un innamorato: credi alla tua amata? E la frequenti? O ami o non ami, non è un hobby ma la vita intera: più sei innamorato più diventi attivo, creativo, attento. E si vede, non devi dirlo. Essere amati e amare (cioè ri-crearsi e ri-creare il mondo, ogni giorno, con l’inventiva e l’energia che l’amore ha e dà) è l’unico modo che ho trovato per godermi la vita. Cristo, se è Dio fatto uomo, non è la favola che spinge a puntare sull’aldilà, ma una sfida lanciata all’aldiquà.
Cristiano non significa buono, serioso, angelico, perfetto, ma imperfetto, sveglio, inquieto, innamorato, creativo, combattivo, di buon umore, nei limiti dei propri limiti che diventano bellezza, come il ruscello che feconda i campi correndo negli argini e cantando quando trova un ostacolo.
Come accadde al Cireneo che vidi da bambino non solo mi sento dire: «Dammi una mano, guardati intorno, non scappare, moltiplica la vita in e attorno a te», ma nascono in me energie che vincono la mia pigrizia, indifferenza ed egoismo. E soprattutto la noia. Per me Cristo è adrenalina non oppio, vita che sveglia la vita: inferno, purgatorio e paradiso non sono posti in cui andrò, ma posti in cui sono già in base a quanto amore (vita) ricevo e do. E nessuno come Cristo — e coloro che me ne hanno mostrato il volto, dai miei genitori a don Pino Puglisi (professore di religione della mia scuola, ucciso dalla mafia all’inizio del mio quarto anno di liceo) — mi ha fatto scoprire l’eros della e per la vita. Da Cristo ho imparato la distinzione tra essere vivente ed essere vivo. Mi trovo bene con uno che «salva» il mondo, spendendo trenta di trentatré anni a fare il falegname in un paesino sperduto. Per essere pienamente me stesso non conta che parte io reciti nel teatro del mondo, ma se vivo tutto per amore e per amare. Non è un modo per farmi piacere la vita — ne scorgo e soffro i limiti con il dolore che la passione per la bellezza comporta — ma per non voltarmi dall’altra parte.
Anche in croce Cristo non smette di amare, la sua «passione» è eros per l’uomo e per Dio. E anche io voglio vivere sempre di e con «passione», libero dall’illusione che la felicità consista nel proteggersi dal male e dal dolore, quando è invece vivere tutto, anche il dolore e il male, per e con amore. Così sto a poco a poco imparando a sostituire la domanda «perché mi accade questo?» con «che ci faccio con questo che mi accade?», perché al momento della morte vorrei poter dire: «nulla è andato sprecato». Non so com’è che tutto ciò avvenga, succede grazie alla relazione quotidiana con lui, che più che una presenza è una mancanza: la mia preghiera preferita è «mi manchi». Ma proprio la mancanza mi rende vivo, come testimonia nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea morta nel lager che, ribaltando la prospettiva del «dato questo orrore non si può credere in Dio», scriveva nel 1942: «L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio… E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te». E così si impegna a renderlo presente agli altri in quell’inferno, non usando il male come alibi per fare altro male o per disperarsi, ma per superarlo con un bene, anche minuscolo. Infatti nella stessa pagina Etty annota: «Adesso apparecchio la tavola». Dove qualcuno apparecchia per amore c’è Cristo, cioè Dio che s’incarna in chi glielo permette vivendo con «passione» ogni situazione.
Risolvendo in anticipo il paradosso di Dostoevskij, Cristo ha detto di essere lui stesso la verità, e non perché lo riducessimo a religione, libro o regole, ma perché in lui verità e vita sono la stessa cosa. In che modo? Nel vivere tutto come relazione, che per Lui è la relazione d’amore con il Padre e con gli uomini: egli è sempre generato dal Padre come figlio e uomo, cioè è sempre ri-generato, persino quando muore. Anche io, attraverso i vissuti quotidiani della relazione (gesti, i sacramenti; dialogo, parole e silenzi della preghiera; e amici, la vera chiesa), vengo sempre ri-generatocome figlio e uomo, cioè come uno che riceve, in ogni istante, quello di cui ha bisogno per vivere per amore e per amare, anche quando sono schiacciato dai miei limiti, paure, ferite, fallimenti… Così resto libero perché non mi identifico in qualcosa che rappresento, che ho o so fare (o che non ho e non so fare), o che mi capita, perché so a chi appartengo e chi sono: non devo affermare me stesso, perché sono già «affermato» dall’amore. Devo solo imparare ad amarmi e amare nella misura in cui sono amato.
Per Freud, Marx o Nietzsche forse sono un illuso, ma io Cristo me lo tengo stretto, come Dostoevskij. Non mi serve a farmi piacere la vita, ma a fare della vita un piacere, come quella donna che, in una nazione asiatica dove i cattolici sono un migliaio, si è presentata dal sacerdote chiedendogli il battesimo. Lui, stupito perché la donna non sapeva nulla della fede, le ha chiesto come mai, e lei ha risposto mostrandogli un crocifisso: «Perché con lui mi trovo bene». Nel tempo ho scoperto che mentre si cerca di fare il ritratto al Dio invisibile, come la bambina del disegno, si dà il meglio di sé, perché Dio non è il fine dei nostri desideri ma l’origine, e quindi, in verità, è Lui che fa il ritratto a noi, solo che usa i colori che noi preferiamo. Così il suo ritratto si rivela essere anche il mio e il nostro, come nel sorprendente Autoritratto che Albrecht Dürer dipinse nel 1500 identificandosi con Cristo o come il monaco e pittore Epifanio che, non riuscendo a trovare un modello adatto per dipingerne il volto, decise di prendere il tratto più vero di ogni persona che incontrava: il sorriso di un bambino, la tristezza di una prostituta, la malinconia di un mendicante, la gioia di un’innamorata, il dolore di una madre in lutto, la forza di un contadino… Come posso quindi ritrarre Cristo? Con la poesia che Raymond Carver, scrittore americano morto di tumore a 50 anni, ha voluto fosse incisa sulla sua lapide, poesia che lui stesso aveva scritto: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra».
Trafitto da un raggio di sole
Erri De Luca
Il concorso.. reparto oncologico, tra i malati terminali si sente gridare una giovane donna. Attraverso la cannula dell’intubazione orale, in maniera indistinta la donna continua a ripetere: «Ho vinto il concorso! Ho vinto il concorso!». Non è il tripudio per un prossimo incarico, impossibile da ricoprire. È l’ultima vittoria della sua vita sconfitta. Il concorso: chissà quale, chissà quanto desiderato e meritato. Il concorso, traguardo che inaugura una nuova condizione per chi lo consegue. Per lei no. È la formula del suo addio, l’ottenuto riconoscimento del suo valore. È medaglia appuntata sul petto appena in tempo. In tempo, sì, proprio quando non ce n’è più, quando è scaduto e sgocciola dalle flebo. Ce l’ha fatta, ha vinto il suo concorso. Lo grida da intubata, accorre il personale medico e nel reparto piovono le impensabili congratulazioni. Conosco poesie e preghiere sulla travolgente forza della vita. Una brevissima dice: «Trafitto da un raggio di sole». Il suo concorso vinto, esclamato a gola strozzata, scrive la variante di quel raggio, un verso che non posso dimenticare. Non è stata sconfitta, morendo con un grido di vittoria.
Graziato
di Alessandro D’Avenia
La misura della felicità è la gratitudine. Alla fine di ogni giorno, anche il più difficile, cerco di scegliere qualcosa per cui ringraziare e alla fine di ogni settimana scrivo su un foglio quale è stato il dono più bello, così da avere alla fine dell’anno un «salvadonaio» di una cinquantina di «presenti» che hanno reso unico l’anno «passato». Volevo partire da qui per «riprendere» la rubrica dopo la pausa estiva. La «ripresa» è ben diversa dalla «ripetizione»: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport... vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. Diverso è «riprendere»: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima... Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti «ripetente» è sinonimo di bocciato e «mi sono ripreso» di salute: facciamo una «ripresa» quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia «ripetuto» ma «ripreso»?
Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. Atena interviene sovente per versare su Ulisse la charis, grazia, che lo rende bello e luminoso come un dio (ne rimane traccia nel nostro «carisma»). La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive. Ricordo le parole di una cugina pochi mesi prima di morire, non la vedevo da tempo e, dopo averle raccontato del periodo difficile che attraversavo, lei, con gli occhi di chi vede oltre le apparenze, mi ha detto: «Sei ammaccato, è vero, ma sei molto più bello». Avevo grazia. La grazia quindi non riguarda solo ciò che è piacevole, il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. Per me è stata una grazia scoprire la mia chiamata a insegnare da giovanissimo ma lo è stata anche grazie all’insufficienza nella mia prima interrogazione in greco, che è così diventato la mia passione. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. Nel racconto evangelico, quando Maria riceve l’annuncio, il messaggero divino la chiama «piena di grazia», ma trattandosi di un verbo si potrebbe tradurlo anche «fatta di grazia, riempita di dono». La radice è sempre quella dell’omerico charis. Ne rimane traccia nel nostro «graziato» per chi scampa la morte o in «grazioso», versione per lo più meridionale forse più sopportabile di «carino». In italiano restano poche tracce della potenza salvifica e quotidiana di questo termine, e i «colpi di grazia» non danno la vita ma la morte. La grazia è invece la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. A Maria veniva annunciata la possibilità di rimanere incinta in modo misterioso e quindi di essere considerata da tutti un’adultera. Sembra paradossale ma quella grazia, essere la madre di Dio, avrebbe comportato un’onta allora meritevole di lapidazione. Per questo non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire. Nel recente film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella. L’aragosta quando deve crescere si nasconde, si spoglia della scorza rigida, rimane in carne viva fino a che non si forma una nuova corazza. È un momento di paura, nudità, dolore, ma necessario alla sua vitalità. Il giorno del mio matrimonio un’amica mi ha chiesto di riassumere in una sola parola il mio stato: «Graziato». Stavo ricevendo un dono inatteso, il dono dell’amore che mi ha raggiunto proprio quando mi sentivo a pezzi. Vorrei allora che questo primo ultimo banco dell’anno, sia una vera ripresa e vi invogliasse a fermare, magari su carta, la grazia che riceverete oggi, domani, dopodomani... fosse anche ruvida o piccolissima, perché in ogni grazia si nasconde una via di salvezza, di compimento, di gioia. Per riconoscere una grazia bisogna chiedersi se ci porta a diventare più veri, belli e compiuti. E magari queste righe, per chi è arrivato fin qui, saranno per due o tre la piccola grazia odierna. Io vorrei imparare a tenere gli occhi sempre ben aperti per saper ricevere le mie grazie quotidiane, come afferma senza mezzi termini Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo, Il passeggero: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta».
Franco Arminio e Guidalberto Bormolini "Accorgersi di essere vivi"
Dall'incontro tra il poeta e paesologo Franco Arminio e Guidalberto Bormolini, che si è consacrato alla vita religiosa e alla meditazione dopo aver fatto in gioventù il falegname e il liutaio, è sbocciata l'idea di scrivere insieme un libro, Accorgersi di essere vivi, uscito il 27 agosto per Ponte alle Grazie. È un breviario per chi ha perso la via, in cui con uno stile lirico e coinvolgente i due autori ci guidano in un viaggio alla scoperta non tanto del mondo, ma di noi stessi nel mondo. Il ragionare poetico di Arminio si interseca con le riflessioni in prosa di Bormolini, dando vita a un testo denso di spiritualità e poesia, che aiuta a ritrovare il senso perduto della vita. In un mondo frenetico e competitivo ci dimentichiamo di essere vivi.
Non sono un letterato, non sono un accademico. Sono un artigiano. Anche spiritualmente mi sento un artigiano. Mi piace costruire e ricostruire sia materialmente che spiritualmente, ed è il cuore della mia missione. Lavorare a questo “breviario per chi ha perso la via” rientra appieno nella mia missione di cura, cioè di “prendersi a cuore”. Mi piace tantissimo incontrare persone e far incrociare percorsi di persone diverse, scrivere per me è un modo speciale di stare con le persone: tutti voi lettori di cui cerco di immaginare i volti e i desideri profondi sin da quando scrivo, chi lavora nelle redazioni, gli amici che mi ispirano e correggono. Rifuggo ed evito il più possibile la televisione e i social (e me ne fanno di proposte!), perché lì non mi sembra di “incontrare”.
In un’interessante raccolta di colloqui mistici di due donne, rimaste anonime, che mi donò il mio padre e amico spirituale, trovai questa frase: «Accogli tutti coloro che vengono, come inviati da Me, e dona loro un benvenuto regale. […] Accogli benevolmente con amore tutti coloro che giungono. Tu non devi vederlo come un lavoro. Oggi essi possono non aver bisogno di te. Domani forse sì. Io posso inviarti strani visitatori. Fa’ in modo che ognuno desideri tornare. Nessuno deve venire e sentirsi indesiderato. Condividi il tuo Amore, la tua Gioia, la tua felicità, il tuo tempo, il tuo cibo, lietamente con tutti. Tali meraviglie vanno rivelate». Ormai da lunghissimo tempo nell’incontrare persone non guardo più idee e ideologie, dogmi o credenze, censo e cultura. Guardo le persone e questo mi basta. Certe volte mi sono sorpreso – ma ormai dovreste sapere quanto mi affascina esserlo – ad ammirare persone che avevano idee o storie lontanissime dalla mia. Mi sono perfino domandato se, inconsciamente, andassi a cercare di proposito personaggi che mai avrei pensato avrebbero potuto attraversare la mia strada tanta era la distanza dal mio pensiero. Ma in fin dei conti il mio amore per l’Infinito, per il Tutto dovrà pure lentamente giungere ai tutti che “abitano” il Tutto. E non vorrei essere equivocato: li cerco per arricchire me, non perché penso di aver da insegnare loro qualcosa. Senza questa pluralità la mia vita sarebbe tanto impoverita. Se fossi davvero innamorato del Tutto, dovrei anche innamorarmi di tutti, e poi andare ancora oltre!
Un giorno fu chiesto a Isacco il Siro, straordinario autore monastico: «Cos’è un cuore compassionevole?» Lui rispose: «È un cuore che brucia per tutta la creazione: per gli uomini, per gli animali, per i demoni, per ogni creatura. Quando pensa a essi e quando li vede, i suoi occhi versano lacrime. La sua compassione è talmente forte e violenta e la sua costanza tanto grande, che il suo cuore si stringe e non sopporta di udire o di vedere il minimo male o la minima tristezza in seno alla creazione. Per questo egli prega in lacrime, a ogni istante, per gli animali senza ragione, per i nemici della verità e per tutti coloro che gli fanno del male, affinché essi siano conservati e perdonati. Nell’immensa compassione che si leva nel suo cuore, che è senza misura a immagine di Dio, egli prega anche per i serpenti». Non sono così, purtroppo. Ma vorrei esserlo. Un piccolo passo è questo “breviario” col quale prendendomi cura di chi ha perso la via ricordo di continuo anche a me stesso quale è la Via che ho scelto e che amo. Il mio cuore ha un fuoco acceso, uno zelo che letteralmente è “ardore”, per andare incontro agli “erranti”, avendo io stesso molto errato.
Guidalberto Bormolini
Poesia e spiritualità strumenti di un nuovo umanesimo
Spiritualità e poesia: due parole vaghe, un connubio altrettanto vago. Se ne può parlare in tanti modi, se ne può parlare solo in modo confuso, con passi che somigliano a quelli di un cielo in un bosco fitto. Io posso dire di aver sempre tenuto con me la parola poesia. Mi sono interrogato su cosa fosse. L’ho letta, ho provato a farla.
La poesia mi ha salvato la vita o forse me l’ha rovinata, in ogni caso è una presenza indiscutibile nella mia mente e nella mia carne: la poesia che non ha a che fare col corpo è un’ingegneria letteraria che non ho mai amato. Io posso dire di avere avuto poche confidenze con la parola spirito, con la spiritualità. Mi sembrava di viaggiare in altre zone. Poi a un certo punto, un punto che ho intravisto pochi anni fa, questa parola ha cominciato a zampillarmi intorno. Mi è sembrato di capire che la questione del mondo più che economica era teologica. Mi è parso di sentire che l’eclissi del Sacro aveva creato nell’umanità una pericolosa condizione di miseria spirituale. E qui, forse, si è prodotto il tentativo di innestare il Sacro nella mia poesia. Il primo tentativo è stato un libro che si chiama Cedi la strada agli alberi. Poi ne sono venuti altri, poi è arrivato Sacro minore e infine Canti della gratitudine. Siamo nel cuore dell’intreccio, del travaso dallo spirito della poesia alla poesia della spiritualità. Non mi sono posto il problema se credo o non credo in Dio, mi sono posto il problema che il mondo non può andare avanti se persiste e si accentua il divorzio dal divino.
Il materialismo brutale e nichilista in cui siamo immersi non solo accentua le ingiustizie sociali e danneggia la salute del pianeta, ma è anche un’implacabile assicurazione sull’infelicità: le nazioni più avanzate economicamente sono piene di depressione e solitudine. Non è un caso che il responsabile della sanità degli Stati Uniti qualche mese fa ha elaborato un documento in cui si parla di pandemia di solitudine e in cui si invoca la riconnessione sociale come via d’uscita. La questione è che non ci possiamo riconnettere se rimaniamo quello che siamo adesso: animali spaventati, incapaci di affidarci e di credere. Prima della riconnessione è cruciale la rigenerazione dell’umano.
Serve tornare alla vita profonda se vogliamo tornare alla vita con gli altri. In superficie ci sono solo fuga e conflitto. Il bene esiste ancora, ma va scavato e portato alla luce con un lungo esercizio. Il bene non è un esercizio di stile, non è una vernice, ma un fuoco che sale da sotto e bisogna liberare le vie per farlo salire in alto e farlo incontrare col fuoco degli altri. Se vogliamo abitare degnamente il mondo, dobbiamo dare grande spazio alla poesia e alla spiritualità nella nostra vita. E questo gesto non è un gesto riposante, non ci mette in salvo. Ci rende più agili e vasti, ci fa sentire che confiniamo con l’infimo e con l’immenso. Siamo animali che possono farsi delle gentilezze, siamo un niente che affratellandosi a un altro niente diventa qualcosa: la stella della nostra vita è la relazione, tutto il resto è un pericoloso equivoco che ci porta alla rissa perenne dell’io, alla solitudine dell’individuo che vede gli altri individui come ostacoli alla sua realizzazione.
È chiaro che è necessario un radicale ripensamento dell’umano e un suo allargamento agli animali e alle piante: siamo tutti abitanti del piccolo pianeta del respiro, l’unico che per ora conosciamo in giro. La poesia e la spiritualità forse vanno pensate come strumenti di un nuovo umanesimo, non come feticci di cui farci mercanti. Sono strumenti preziosi in questo tempo, proprio perché ci mancano. Magari in un tempo, ulteriore avremo bisogno d’altro. Non riesco a scollarmi da un’idea di provvisorietà quando penso alle cose che incontriamo. Noi con la poesia e con lo spirito possiamo avere solo delle intimità provvisorie. Il resto, per chi ci crede, si trova in paradiso.
Paesaggio
Erri De Luca
«Questo paesaggio è disposto a fare a meno di me». Il verso del poeta Russo Iosif Brodskij stabilisce un punto di osservazione. Quello che ho intorno, luogo e tempo, di cui mi sento parte, continua, continuerà senza di me. La mia presenza, che per abitudine di esserci mi sembra ovvia, non è necessaria. Il paesaggio può fare a meno di me. Ho l’impressione di avere cercato finora di fare in modo che invece il paesaggio sentisse bisogno di me, per giustificarmi la vita. E se non proprio bisogno, almeno riconoscesse che ne faccio parte. Poi viene un momento, seguito da altri, in cui ci si toglie con l’immaginazione dalla cartolina. Ci si accorge da fuori che non manca niente. Il posto a tavola è tolto insieme al nome sulla buca delle lettere. Viene il momento in cui questo pensiero arriva senza essere invitato e allena alla presa di distanza. Mi capita nei punti panoramici, davanti al mare e al suo alto orizzonte, sulla sommità di una montagna. Di fronte a queste vastità è più facile il pensiero affiorato nel verso di Brodskij: non durare a lungo. Per essere efficace deve passare come un vento in faccia. Subito dopo, rientrato nel paesaggio, resto soprappensiero, come chi cerca di ricordare qualcosa sfuggito di mente.
Dio parla al cuore. L’arte della preghiera
di Enzo Bianchi
Da quando ho smesso di essere infante io prego tutti i giorni: ho imparato a pregare sulle ginocchia di mia madre, ho cominciato poi a pregare la preghiera del cristiano del mattino e della sera e dall’adolescenza in poi ho pregato soprattutto con la liturgia della Chiesa e, dunque, con i Salmi come faccio ancora adesso. La mia preghiera è cambiata negli anni, è diventata sempre più contemplativa, ricorro meno al libro e apro il mio cuore a volte arido, a volte turbolento, a volte sofferente, davanti a Cristo, al Dio di Gesù Cristo. Ormai vecchio ho conservato la fede e più ancora ho conservato e accresciuto un grande amore per Gesù Cristo il Signore, e tra molti dubbi avanzo verso l’incontro finale. Prego, ma ho una sola domanda: chiedo misericordia; prego, ma so che pregano tutte le creature, animate e inanimate; prego, ma so che il Signore ha pregato più me di quanto io abbia pregato lui.
Ho scritto molte pagine sulla preghiera, molti libri, e ho cercato di insegnare a pregare a quanti vivevano con me, ma sempre di più la preghiera m’è apparsa un mistero perché ho capito che nella fede cristiana è innanzitutto ascolto di Dio nel nostro intimo, e perché parlare a Dio è temerario e si rischia proprio di parlare molto per non ascoltarlo.
Non ci è naturale dire: «Parla Signore che il tuo servo ascolta!» (cf 1Sam 3,1-18). Ci è più facile dire: «Ascolta Signore che il tuo servo parla» (cf 1Sam 3,1-18).
E poi la preghiera è eloquenza della fede, ma questa a volte si fa debole, poca fede e addirittura mancanza di fede! Allora la preghiera può sembrare un’illusione, un parlare nel vuoto, un esercizio completamente mentale perché nessuno ascolta. Certo, allora, la preghiera resta sempre un monologo, una ricerca di orientamento, un pensare, un’auto chiarificazione che ha un suo valore umano, ma che non mette in relazione l’uomo e il suo Signore.
Tra la preghiera dei credenti in Dio e quella dei non credenti in Dio c’è un confine non chiaramente tracciato... E il fatto che la preghiera sia un fenomeno antropologico presente in tutte le religioni, in tutte le spiritualità e le culture, è significativo: gli umani pregano, hanno questo incredibile bisogno di gridare rivolgendosi a qualcuno, sentono il bisogno dell’invocazione.
Ma attenzione, soprattutto oggi in cui con superficialità si vorrebbe pregare insieme tra appartenenti a religioni diverse: c’è anche una preghiera idolatrica, una preghiera pagana, che non è secondo il Vangelo.
Il Vangelo di Gesù Cristo giudica anche la preghiera e chiede che sia secondo il canone del rapporto tra un Dio padre misericordioso e un figlio confidente. Non può mai essere ciò che vedeva Lucrezio, un “affaticare gli dèi”, non può essere magica, non può essere pretesa o imposizione a Dio dei nostri desideri e della nostra volontà.
La preghiera che i Vangeli riportano, solo insegnata da Gesù, il Padre nostro, è il canone, la regola della preghiera cristiana, un riassunto di tutto il Vangelo. Noi cristiani abbiamo la consapevolezza che quando preghiamo deve venire lo Spirito santo a pregare in noi insegnandoci, unendoci alla preghiera di Cristo e indirizzandoci al Padre: una preghiera che si apre alla comunione della vita divina! Se la preghiera che facciamo è questa allora lo Spirito santo ci rivela la volontà di Dio, ci sussurra nel cuore una parola avvolta nel silenzio che è la voce di Dio fatta voce della nostra coscienza e noi possiamo con confidenza piena dire “Abba!”, pronunciato in un modo che forse non abbiamo mai usato neppure rivolgendoci al nostro padre terreno.
Comprendiamo bene noi cristiani che pregare in modo autentico non coincide con un fare, un recitare preghiere. La preghiera coinvolge l’essere non il fare, non è un’attività tra le altre ma una dimensione, uno spazio in cui penetrare, è una relazione viva che si nutre di scoperte, nuove conoscenze, crescita dell’amore. È significativo che già nei Salmi l’orante quando vuole individuare sé stesso nel pregare arrivi a dire: «Io sono preghiera» (Sal 109,4) e che di Francesco d’Assisi, il somigliantissimo a Cristo, si sia detto che alla fine della vita non pregava ma era diventato preghiera. Solo così il nostro cuore è vicino a Dio. C’è una iniziazione alla preghiera cristiana? A partire dall’Antico Testamento per entrare in relazione con Dio il primo atteggiamento da assumere è quello dell’ascolto! Se il Dio che si rivela a Israele è “un Dio che parla” allora il credente, e di conseguenza il popolo, è colui che ascolta. Ascoltare significa non solo porgere l’orecchio per sentire ma protendere tutta la persona verso colui che parla.
Rendere la preghiera conforme al Vangelo
Ma attenzione, Dio parla nelle nostre profondità, nel cuore dice la Bibbia, là dove sono generati il parlare, il volere e l’operare. La sua voce è silenzio, e perciò va catturata con il silenzio: dev’esserci silenzio esteriore, ma soprattutto deve tacere l’ego sempre loquace e sempre soverchiante. La voce di Dio non si ascolta se non esercitandosi ad ascoltarla, invocandola, desiderandola, chiedendola e allora sarà originata nel cuore come voce della nostra coscienza.
Questa voce sarà innanzitutto quella che ascoltiamo e leggiamo nelle sante Scritture. L’assiduità
nell’ascolto della Parola ci abilita ad ascoltare la parola di Dio per noi qui e ora. Nell’accoglienza interiore della parola di Dio questa cresce con il lettore, come diceva Gregorio Magno, e apre a un’interpretazione infinita. Accade quel che illustra il Salmo come grazia nella preghiera del salmista: Dio ha pronunciato una parola / due ne ho ascoltate: / a Dio appartiene la forza / a te, Signore, la grazia / e tu renderai a ogni uomo / secondo le sue azioni (Sal 62,12-13). E non si dimentichi che dall’ascolto nasce la fede, dalla fede la conoscenza di Dio, dalla conoscenza di Dio l’amore di Dio!
La parola ascoltata, meditata, pregata e contemplata è la preghiera per eccellenza, per la sinagoga e per la Chiesa! E la lettura orante della Parola è capace di plasmare tutta la vita del credente e della comunità cristiana.
Ma allora possiamo noi parlare a Dio? Se si ha l’avvertenza di rendere la preghiera conforme al Vangelo è certamente possibile. Ma si tenga presente che oggi con facilità, troppa facilità, anche nella liturgia ci sono abusi sedicenti creativi, preghiere che sono debitrici di magia, di riti di altre religioni che deificano la natura, preghiere che pretendono guarigioni e si ammantano di miracoli.
Il cristiano sa che può avere fiducia nel rapporto con Dio, che gli può esporre i suoi bisogni e le sue sofferenze, ma sempre affermando: «Sia fatta la volontà del Signore non la mia!». Gesù ce l’ha insegnato: «Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli tanto più il Padre darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiederanno». Il Padre non darà le cose che i figli chiedono, anche se le cose richieste sono buone, ma darà certamente lo Spirito santo, darà forza e consolazione per attraversare le sofferenze e la morte stessa. Il cristiano nella preghiera porta tutta la sua persona, vi porta le relazioni, gli amori che vive, vi porta l’umanità. Beato chi fa silenzio su Dio, e parla invece di colui che ci ha narrato Dio, Gesù Cristo. Beato chi parla a Dio, perché il nostro Dio è un Padre, un amico al quale si può parlare.
Circa il canto
Erri De Luca
Una volta i minatori portavano i canarini nelle gallerie. Non per sottofondo musicale: per indicatore di allarme. Se smettevano il cinguettio c’era fuga di gas. Si vuole che il canto sia libero. Più spesso non lo è. Gli schiavi deportati dall’Africa nelle piantagioni di cotone in America usavano il canto corale per dare ritmo regolare al lavoro e sopportarlo meglio. Nei lutti, nelle nozze, nelle feste, nelle processioni, nelle schiere militari, nelle lotte politiche il canto è strumento che intensifica la condivisione. Da bambino sentivo salire dal cantiere vicino la voce cantante di un operaio. Tra i rumori delle lavorazioni, nel cerchio della polvere s’alzava la strofa musicale esclamativa. Non era allegria, né spensieratezza, ho saputo e capito più tardi, quando è toccato a me. Era sfogo del corpo che sfruttava le corde vocali per dare un ritmo alla respirazione. Il corpo è uno strumento ad accordatura. Mi capita ancora d’intonare qualcosa mentre sto facendo qualcosa di manuale. Considero benefiche le espressioni e le manifestazioni canore, escluse quelle competitive. Nel rumore meccanico della grande officina mi saliva in gola, in sordina e a contrasto, un contrappunto musicale. Avevo l’impressione di mettere un mio ordine in quel marasma di frastuoni. Mi teneva compagnia, non era libero, ma misteriosamente mi affrancava.
La metà invisibile delle cose
Alessandro D'Avenia
Ho quasi un centinaio di copie del Piccolo Principe, in altrettante lingue e dialetti: una per ogni Paese visitato da me o dai miei amici. Volevo poter dire in tutte le lingue che «l’essenziale è invisibile agli occhi», eppure oggi è diventato un luogo comune ridotto a kitsch emotivo. Ma che cosa è l’essenziale e in che maniera è invisibile? Lo mostra quel racconto in cui un pellegrino, uno dei tanti in cammino verso un santuario nel Medioevo, s’inerpica su una strada tra grandi cave di pietra, in una giornata di sole cocente. Vede uomini impegnati a sgrossare le pietre con i loro scalpelli e si ferma a osservarne uno, coperto di sudore e polvere, le braccia ferite dalle schegge. «Che cosa fai?» gli chiede. «Non lo vedi?» risponde l’uomo infastidito, senza alzare il capo: «Mi ammazzo di fatica». Il pellegrino riprende il cammino e incontra un altro spaccapietre, altrettanto stanco, sporco e stizzito. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? Lavoro tutto il giorno per far mangiare i miei figli». Il pellegrino continua il viaggio e incontra un terzo scalpellino, malconcio come gli altri, ma sereno. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? — risponde l’uomo sorridendo — sto costruendo una cattedrale» e gli indica l’edificio che sta sorgendo in cima alla collina. L’essenziale, invisibile agli occhi del primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo, non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica in lavoro e vita.
Per questo l’incendio di Notre Dame ci ha ferito, credenti o no: vedendo quelle immagini abbiamo sentito bruciare una parte di noi e non «solo» il legno secolare del tetto di un edificio. Le cattedrali sono sempre state la metà visibile dell’invisibile, lo spazio escogitato dall’uomo per fare abitare il divino sulla terra. Con questo spirito Gaudí concepì la Sagrada Familia: voleva che il futuro collaborasse all’opera grazie ai legami tra artisti e popoli del XIX, XX e XXI secolo. Ci sarà l’Europa solo quando avremo lo spirito con cui si costruivano le cattedrali: non basta una moneta comune tra egoisti a fare un europeo, ma ci vuole un valore comune superiore da realizzare con il meglio del genio e dell’impegno di ogni popolo, così come lo spartito per un’orchestra. Il poeta tedesco Heine, vedendo un’imponente cattedrale medievale, rispose a un amico credente che gli chiedeva perché non se ne costruissero più: «I vostri padri avevano dei dogmi. I credenti d’oggi, solo delle opinioni. E con le opinioni non si costruiscono le cattedrali». La religione ha sempre fornito un ordine simbolico che rimanda a ciò che ci trascende e rende significativa ogni cosa: il mestiere di vivere è lo stesso per tutti, ma chi vede la cattedrale nella pietra che sta lavorando può abitare il limite umano come potenzialità feconda. Le nostre «cattedrali» contemporanee (stadi, ipermercati, parchi divertimenti…), per quanto aggreghino e offrano svago, non riescono a soddisfare la sete di senso, perché non rimandano ad altro se non ad oggetti ed emozioni finiti. La secolarizzazione, piaccia o no, è il deserto dei simboli, nel quale poi inevitabilmente seguiamo i miraggi offerti dai manipolatori del simbolico.
Ma il deserto è la condizione provvisoria di chi aspira a una terra nuova. È assenza, mancanza, smarrimento, necessari a spogliarci da certezze che in realtà ci imprigionano. Il deserto non dà punti di riferimento: è una sfida a trovarli dentro e non fuori di noi. Non a caso il Piccolo Principe è ambientato nel deserto. Il protagonista è un aviatore il cui aereo si è rotto, la sua fede nella tecnica e nel progresso è in panne. Nel deserto torna in balia della vita nuda, senza appigli: «Era questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana». Proprio lì incontra il principe che ha dentro, l’uomo interiore che è «bambino» solo perché ha una voce sottile e non si impone, la parte di noi che vede l’ordine simbolico, il senso da dare all’agire quotidiano, la capacità di trovare la cattedrale nella pietra, il tutto nella parte. Simbolico viene dalla parola symbolon (dal greco: mettere insieme): un disco d’argilla spezzato in due, che permetteva ai possessori di riconoscersi, garanzia di autenticità di un legame. Per questo il credo cristiano si chiama simbolo della fede, per indicare l’ordine di senso in cui le persone più diverse e sparse dappertutto si riconoscono in un legame: sono figli dello stesso Padre. L’ordine simbolico della realtà è quindi ciò che dà significato a ogni cosa grazie a un legame. Senza l’ordine simbolico prevale quello «diabolico» (diabolon: separare, è il contrario di symbolon) la vita diventa un dato muto, che rende impossibile elaborare un lutto, un fallimento, o semplicemente trovare un senso alla ripetizione dei giorni. Il pilota trova nel Principe il «simbolico» perduto: infatti il bambino vuole tornare sulla stella dove ha la sua Rosa, l’essenziale, invisibile agli occhi, ma non per questo irreale. La Rosa è infatti la metà del simbolo che orienta tutti i suoi pensieri e azioni. I personaggi che incontra, dal geografo al re, dal lampionaio all’ubriaco, hanno smarrito la metà invisibile delle cose. Sono «uomini del bisogno»: riducono l’essenziale a oggetti e ruoli «visibili» e, per questo, sono malati, cioè prigionieri della sola evidenza materiale, la loro sete d’infinito è sottomessa al potere delle cose e degli altri. Oggi la cultura del «pienessere» ci spinge a essere continuamente colmati, pieni, soddisfatti, per sentirci amati, mentre per esserlo abbiamo bisogno di riconoscerci la metà visibile di una storia più ampia. L’essenziale è perciò anche visibile agli occhi ma come metà incompiuta, come un volto che racconta la persona: «Cari pittori del ’900, di facce ce n’è una gran varietà. Ma solo di nuovo imparando a leggere l’invisibile nel visibile, restituirete loro la dignità che hanno», scriveva Ungaretti un secolo fa, intuendo che senza il simbolico gli altri diventano «facce» mute, privi di dignità.
L’aviatore stesso è uno di quei personaggi che ha dimenticato la metà invisibile delle cose. Con il suo aereo spera di raggiungere ciò che gli manca, ma quel mezzo non basta. Il piccolo principe è invece «l’uomo del desiderio», l’uomo interiore che trasforma la mancanza in ricerca, traduce il desiderio in pensiero e azione: ogni cosa è la metà visibile della Rosa, l’essenziale invisibile agli occhi ma visibile al cuore. Egli salva «i grandi», uomini senza cuore, perché ha il senso dell’invisibile. Per lui assenza e mancanza sono pieni del significato dato dal legame con la Rosa, il suo symbolon. La perdita del simbolo rende muta la metà invisibile delle cose ed inevitabile si apre il deserto di senso. Educare è proprio costruire il simbolico davanti al pane duro della realtà. Solo imparando ad abitare il deserto, il bambino e l’adolescente costruiscono il soggetto e imparano a organizzare il desiderio, che trasformano in iniziativa e creatività, grazie ai legami stabili con adulti non ossessionati dal produrre l’adulto perfetto. Non è un caso che il principe affermi che il deserto è bello perché «nasconde un pozzo in qualche luogo». Le perdite, le mancanze, le cadute, non «simbolizzate», cioè prive di senso e di legami forti, non vengono eliminate ma diventano (auto)distruttive. La vita interiore ha il compito di «simbolizzare», trovare la metà mancante, per vivere. Ammazzarsi di fatica o costruire una cattedrale si riferiscono alla stessa azione, ma la prima, senza oltre, schiavizza, l’altra invece, avendo un senso, libera.
Quando lessi per la prima volta la fine del Piccolo Principe provai il dolore delle verità scomode ma ineludibili. Per riunirsi alla Rosa si lascia mordere dal serpente proprio nell’anniversario della sua caduta sulla terra: va incontro alla morte perché anche la morte è la metà visibile dell’invisibile, una porta sulla Rosa, non un muro. Grazie al simbolo l’uomo riempie le cose del suo spirito e abbandona il vano tentativo di strappare lo spirito dalle cose. Riempire le cose di spirito significa dar loro un senso che le trascende: la volpe scoprirà il colore del grano perché è quello dei capelli del suo amico biondo, l’aviatore vedrà ridere le stelle perché una è quella abitata dal principe e la sua Rosa. Il Piccolo Principe è il piccolo libro della nostalgia di simboli di una cultura che, rinchiusa in «metà» della realtà, spesso ne perde la «meta»: il lavoro diventa schiavitù, la fragilità colpa, i legami limite, il sesso consumo, l’arte narcisismo, il dolore condanna, la morte muro.
Il letto da rifare oggi è cercare il «rabdomante del simbolico», il piccolo principe che trova il pozzo nel deserto, indica il lato invisibile attraverso quello visibile delle cose e guida i prigionieri del «pienessere» nella terra che non è dopo il deserto, ma dentro: di noi, dove nessuno può strapparcela, una terra interiore in cui ogni pietra è la cattedrale, ogni spina la Rosa. Questo principe interiore è nel silenzio, nella lettura, nella preghiera, nell’amicizia, nel dono di sé, nel dolore, come ha imparato l’aviatore: «Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o no il fiore? E vedrete che tutto cambia. Ma i grandi non capiranno mai che questo abbia importanza». In tutte le mie edizioni del libro l’ultima immagine disegnata dall’autore è un deserto sul quale, finalmente, si è accesa una stella.
Prati
Erri De Luca
Su un cartello in montagna è scritto: «Rispettate i prati». Intorno la neve ricopre ogni superficie. Ecco rispettati i prati, sotto protezione dell’inverno e della sua stesura. Così mi viene in mente un pensiero da rivolgere al pianeta intero: invece di reagire alla pressione umana con il riscaldamento globale, provasse con il raffreddamento. La miglior reazione contro un seccatore è ignorarlo freddamente, piuttosto che surriscaldarsi per irritazione. Ghiacci il Mediterraneo, sia piovoso, temperato e fertile il Sahara, l’Africa diventi rifugio del pianeta insieme ad altre aree intorno all’Equatore. Non esista sud e nord, ma solo centro terra. Chi ha strillato all’invasione da parte di profughi allo sbaraglio su relitti, supplicherà asilo alle sponde africane. Auguro loro la massima longevità per poter apprezzare pienamente l’ironia della Storia e della Geografia, che spesso coincidono. Consiglio alla terra di estendere le aree polari, come ha già fatto in altre epoche del suo clima. Non sarà l’innalzamento dei mari a scoraggiare l’umanità costiera, che andrà invece a gravare all’interno. Sarà il ghiaccio a imporre nuove regole di sopravvivenza, costringendo a inventare risorse non provenienti dal saccheggio del suolo. Saliranno in cattedra gli Esquimesi, i Samojedi, scenderanno dal pulpito gli economisti. Per riscaldamento serviranno più abbracci.
L’insalata
Erri De Luca
Una volta ho letto un libro camminando. Era piccolo e stava dentro la passeggiata di un’ora. L’avevo preso in prestito senza chiedere permesso. Sarebbe appropriazione indebita se non l’avessi riportato in giornata al suo posto. Era di Agota Kristov e mi sono appuntato, per non dimenticarla, questa frase: «È diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore». A proposito del prelievo da uno scaffale di altro proprietario, credo che ogni lettura sia un’appropriazione di parole altrui, durata quanto il tempo impiegato a leggere. Dopo la dimentico facilmente, titolo e nome dell’autore. Non per questo è spreco di tempo. Me lo ha fatto capire il prete anziano di un piccolo centro, raccontandomi di un suo parrocchiano. Ritornato a casa dalla funzione domenicale diceva alla moglie che il prete aveva parlato tanto bene. Alla domanda di lei su cosa avesse detto, non aveva saputo ricordare nulla. Lei gli aveva rimproverato di avere perso tempo se già si era dimenticato. Lui si era giustificato all’incirca così: «Quando il prete parla per me è come l’acqua che lava l’insalata. L’acqua scorre via, non la trovi più, ma dopo l’insalata è pulita». Così è per me per i libri che leggo. Lo scorrere delle pagine scivola via, ma la testa, come l’insalata, è stata rinfrescata
Comunicare è conoscersi dentro
Eugenio Borgna
Nell’interiorità matura la conoscenza di ciò che siamo, delle nostre emozioni e, ancora più intimamente della nostra anima. Questo ascolto di sé è alla radice di ogni relazione
Si comunica col linguaggio delle parole, che è la comunicazione verbale, e col linguaggio del silenzio e della solitudine, degli occhi e degli sguardi, delle lacrime e del sorriso, che è la comunicazione non verbale: le due grandi aree semantiche della comunicazione. Negli svolgimenti tematici del discorso vorrei indicare come queste due diverse modalità di comunicare si snodano in alcune emblematiche condizioni di vita, e come dovremmo di volta in volta comportarci al fine di renderle sempre più dotate di senso, e creatrici di umanità, e di solidarietà, di sensibi-lità, e di gentilezza, di attesa, e di speranza, che si intrecciano le une alle altre. La comunicazione è l’espressione del comunicare, e in vita non è possibile non comunicare, la sola cosa che ci consenta di uscire dalla solitudine; ma è necessario distinguere ancora due diverse forme di comunicazione: quella razionale e astratta, estranea ai contenuti emozionali, e quella animata dalla passione. Lo diceva Giacomo Leopardi: solo se la ragione si converte in passione, diviene strumento di conoscenza, e di comunicazione. La comunicazione razionale è quella che, nella vita quotidiana, si limita a trasmettere cognizioni, e informazioni, con un’arida elencazione delle cose. La comunicazione emozionale è quella che espone le cose con slancio, e con viva partecipazione dialogica. Le stesse cose, esposte con freddezza, o con passione, cambiano di significato, e si imparano con una diversa rapidità, e anche con una diversa partecipazione interiore. Una bellissima poesia di Clemente Rebora ( Tempo) è la premessa, la fonte, delle mie riflessioni sulla comunicazione, e sulle sue metamorfosi, e sono grato a Roberto Cicala, che è l’attuale editore delle più belle opere del grande poeta rosminiano, di avermela proposta. Leggiamola insieme: Apro finestre e porte – ma nulla non esce, non entra nessuno: inerte dentro, fuori l’aria è la pioggia. Gocciole da un filo teso cadono tutte, a una scossa. Apro l’anima e gli occhi – ma sguardo non esce, non entra pensiero: inerte dentro, fuori la vita è la morte. Lacrime da un nervo teso cadono tutte, a una scossa. Quello che fu non è più, ciò che verrà se n’andrà, ma non esce non entra sempre teso il presente – gocciole lacrime a una scossa del tempo. Questa fragile e umbratile riflessione sulla comunicazione interiore sgorga, così, da questa emblematica poesia di Rebora. Ne ho sempre letto le poesie, e i testi religiosi, che si intrecciano le une agli altri nei loro bagliori, e nella loro arcana e ardente spiritualità. I versi, che parlano dell’anima e degli occhi, colgono le radici della comunicazione, di ogni comunicazione, non solo in psichiatria, ma nella vita. Nell’ultima strofa il tempo, che è il titolo della poesia, rinasce nel suo germogliare e nel suo svanire. Nel riflettere sulla coscienza interiore, sull’interiorità, come premessa alla conoscenza e alla comunicazione di quello che noi siamo nei nostri pensieri e nelle nostre emozioni, vorrei ricordare quello che sant’Agostino ha scritto sulla conoscenza di sé, in una ( De vera religione) delle sue grandi opere teologiche e filosofiche. Le sue parole celeberrime sono: «Non uscire da te stesso, rientra in te, nell’interiorità dell’uomo risiede la verità». La mia domanda è questa: ci conosciamo, meditiamo, sappiamo isolarci dalle nostre impressioni immediate, dedichiamo tempo e pazienza indispensabili a conoscere le sorgenti profonde, e non solo quelle superficiali, dei nostri gesti e delle nostre azioni, delle nostre emozioni e dei nostri pensieri? Non c’è bisogno di essere psicologi, e psichiatri, per giungere a conoscere quello che noi siamo nella nostra vita interiore. Ci sono libri che ci aiutano in questo, e che non sono solo di matrice psicologica, ma anche di matrice poetica. Le poesie di Giacomo Leopardi, e anche quelle di Clemente Rebora, sono nutrite di una profonda interiorità e ci aiutano nel conoscere la nostra interiorità. Sì, ci sono attitudini personali nel seguire il cammino misterioso che porta alla conoscenza di sé, ma siamo (tutti) chiamati a conoscere le nostre emozioni, e quelle delle persone che la vita ci fa incon-trare, se vogliamo comunicare con noi stessi e con gli altri. Cose non facili, che si devono nondimeno tenere presenti, se vogliamo dare un senso alla nostra vita e conoscere quello di cui gli altri hanno bisogno, e che non hanno magari il coraggio di chiedere. Siamo circondati da persone, che non conosciamo nella loro fragilità e nella loro delicatezza, e che dovremmo sapere riconoscere. Una straordinaria filosofa francese, Simone Weil, autrice di libri di una indicibile bellezza e di una radicale profondità, morendo a poco più di trent’anni, ha scritto: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordo a queste grida». Quando conosciamo una persona non dovremmo mai dimenticare queste parole.
Motivi di gioia
Alessandro D'Avenia
La vita felice è infatti un equilibrio tra lasciar essere e fare. Come trovarlo?
Ossessionati dal controllo, soffochiamo la vita, che è invece una sinergia di fare e lasciar essere, prima in noi stessi e poi nel mondo, come accade in un concerto. L'accordo di voci e suoni è presente in natura in modo sorprendente, come ha mostrato qualche anno fa Davide Monacchi nel premiato documentario Dusk chorus, tratto dal progetto «Frammenti di estinzione» atto a esplorare acusticamente le più antiche foreste equatoriali, registrando i suoni delle aree a più alta biodiversità.
Chi ascolta (l'ho fatto in una sfera buia con audio immersivo durante la settimana del design a Milano) diventa parte della foresta, grazie alla tecnologia del suono 3D che ha catturato i versi di insetti, uccelli, anfibi, mammiferi (e persino degli alberi). Monacchi ha poi tradotto i suoni in uno spettrogramma acustico dell'ecosistema, dove si possono vedere le bande sonore in cui i diversi animali si collocano. Il dato commovente è un'armonia in cui i versi non si sovrappongono, ma creano accordi: o occupano frequenze differenti o si alternano se usano la stessa, secondo uno spartito invisibile. Purtroppo però quando l'inquinamento acustico umano occupa alcune frequenze, gli animali che le usano sono costretti ad abbandonare l'ecosistema, e alcuni si estinguono: dal concerto si passa allo sconcerto, dall'accordo al disaccordo, dal canto al disincanto. In natura quindi ogni «voce» occupa il suo posto e si armonizza con le altre. Questa sinfonia, a cui saremmo più educati se frequentassimo i suoni naturali (è significativo della nostra nostalgia di pace che tra le playlist più seguite sulle piattaforme ci siano proprio quelle che riproducono questi suoni), è ciò a cui aspiriamo, ma spesso noi stessi la distruggiamo. Infatti se potessimo fare lo spettrogramma del nostro contesto acustico, scopriremmo quanto siamo esclusi o scappiamo dalla nostra banda sonora, o magari occupiamo quella altrui.
La comunicazione di oggi, urlata e saturata da chi ha i mezzi per far più rumore, tende a coprire le voci, soprattutto quella dei giovani, perché la frequenza su cui esercitarla è occupata da chi non dovrebbe star lì.
Scivoliamo così nella univocità (che significa «una sola voce») e monotonia («una sola tonalità») del controllo. Per vivere serve invece un'ecosistema umano corale che permetta a ciascuno di scoprire e usare la propria voce, che è il modo in cui abbiamo scelto di indicare, metaforicamente, proprio l'unicità personale: trovare la propria voce (da cui vocazione) è infatti sinonimo di vita autentica. Ma vocazione significa anche convocazione: coralità, lo strumento è orchestra, il singolo comunità. Siamo fatti perché le voci si accordino nella loro diversità in una sinfonia che non è data dalla loro somma ma da un superamento collaborativo, come narra in modo affascinante Tolkien nel racconto che dà origine al suo mondo, il Silmarillion. Protagonisti dell'origine dell'universo sono degli spiriti che abitano prima del tempo insieme a Eru Ilúvatar, il dio supremo. Eru per l'appunto li con-voca e propone un grande tema musicale, chiedendo di svilupparlo per dare vita a tutte le cose. La bellezza si espande e incarna coralmente finché uno di questi spiriti decide di mettersi in proprio tradendo l'armonia del tema e dell'orchestra: il male è uno sconcerto, un fare che impedisce il lascia che sia. Let it be. Anche a scuola proviamo a fare lo stesso aiutando i ragazzi a trovare la propria voce, e nei giorni di maturità mi è particolarmente evidente.
Ma abbiamo noi ancora un tema musicale da sviluppare? Esiste ancora uno spartito?
Alla fine dell'anno i maturandi mi hanno regalato un'edizione dell'Odissea, la stessa che abbiamo usato per la lettura integrale del poema ad alta voce durante il primo dei cinque anni di superiori, quello vissuto a distanza. Quell'esperienza di lettura in cui ciascuna voce incarnava un personaggio da un punto diverso e disperso della città, ci è rimasta nella memoria come un concerto, quando invece l'armonia era distrutta dal distanziamento. Nella prima pagina del libro di un racconto di tremila anni fa hanno apposto le loro firme, quelle che cominciano a usare per le loro nuove responsabilità. All'interno c'erano poi le loro voci.
Ognuno aveva infatti sottolineato il passo più amato affiancando il proprio nome alle parole di Omero. Così alla mia collezione di Odissee ho aggiunto la più bella, fatta di nomi e voci (versi). Quando la apro ascolto una musica “di classe”: volti e vocazioni, cioè la scuola, un luogo in cui, se non fossimo oberati da burocrazia, prestazioni e impegni che poco hanno a che fare con l'educazione, siamo chiamati a cercare proprio l'equilibrio tra il fare e il lasciar essere, per evitare sia il controllo sia l'indifferenza. E non è forse questo il lavoro della vita? Questo libro, divenuto per loro una sorta di tema musicale da sviluppare, sarà per me un Inno alla gioia, in cui ogni voce, unica, come ogni vocazione, per altezza, timbro, intensità e durata, si è legata ad altre in una convocazione che supera le singolarità e il tempo. E l'amore non è forse far essere «la voce a te dovuta», come il titolo del libro di un poeta innamorato? Quando tornando a casa tardi per il pranzo dopo gli orali di maturità trovo un post-it con su scritto «ti amo» e «potresti mangiare questo», non ascolto il canto quotidiano della vita? Un'armonia di fare e lasciar essere come il giardiniere cura le sue piante?
In musica tutto questo accade grazie al silenzio. Il mio augurio è che possiate (ri-)trovare la vostra voce, unica e necessaria al concerto della vita. Lo sconcerto, il disaccordo e il disincanto in cui a volte precipitiamo non sono la realtà, ma un tradimento della voce a noi dovuta e di quelle a cui, per ecosistema, siamo legati. La vita aspira e tende infatti al coro delle foreste vergini e al concerto sui tetti di una rumorosa città.
Paolo Scquizzato: Per far fiorire il «vero sé»
Qui l'introduzione a questo testo.
Limite
Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.
Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo.
Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso.
La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi.
Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti».
Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute.
Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendor fer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile.
Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente.
Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più.
Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.
Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti.
Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime.
«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando».
La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé.
La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali.
Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite.
Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo.
Vuoto
Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui.
Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto».
L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia.
Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti abbiamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre.
Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della disperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo?
Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una considerazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive:
«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico».
Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi.
La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà».
Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”».
La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo intendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil.
La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco).
Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa?
La grazia è senza sforzo, appunto. È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera».
E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea».
Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35).
Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.
Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalienabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare.
Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura».
Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio.
Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo.
Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi.
Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo.
Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accadere. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consapevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive:
«La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stesso, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione».
Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso:
«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente. Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio.
In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13).
Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione.
«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile.
Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco contemporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò abbandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).
Paolo Scquizzato
Ad Amare non si sbaglia mai..
Paolo Ricca
La bellezza è da amare perché è un riflesso della bellezza di Dio. L’amore nelle sue tante forme è da amare perché è ciò che di più bello c’è nella nostra vita, ed è anch’esso un segno di Dio che è amore. L’arte è da amare perché è un modo nobile per cercare di penetrare nell’enigma della vita e del mondo, è anche un modo per rendere loro omaggio e per festeggiarli: in fondo l’arte è celebrazione, quindi una forma di preghiera. La vita è da amare, ma non solo la nostra, anche quella degli animali, dei fiori, delle piante, del colori, dell’acqua, dell’aria, del vento, della terra e del fuoco, di tutte le creature evocate da Francesco d’Assisi nel suo stupendo Cantico, perché la vita è bella, è Dio che l’ha inventata, voluta, suscitata e resa possibile. La natura è da amare sia perché è splendida (benché anch’essa attraversata, come la nostra esistenza, da un «gemito» e da un «travaglio»: Romani 8, 22), sia perché è opera «delle mani» (Salmo 19, 1) e «delle dita» (Salmo 8, 3) di Dio, ed è il teatro della sua gloria. Insomma: non bisogna aver paura di amare. Direi anzi: ad amare non si sbaglia mai. Purché si ami in Dio. In Dio possiamo amare tutto e tutti, non perché il nostro cuore sia capace di tanto, ma perché Dio rende tutto amabile.
Ancora imparo
José Tolentino Mendonça
Uno degli autoritratti più commoventi, e al tempo stesso più riusciti, è quello realizzato dal pittore Francisco Goya (1746-1828). Si tratta di uno schizzo su un minuscolo foglio di carta, tracciato a matita negli ultimi anni di vita, quasi come un testamento. Per decenni è rimasto praticamente inosservato, dal momento che di Goya non mancano le opere monumentali e memorabili. A poco a poco, però, quel piccolo disegno è divenuto una chiave non solo per entrare nella storiografia dell’artista ma anche per penetrare nella sua anima. Vediamo in quell’immagine la fragilità di un anziano, che cammina appoggiandosi a due bastoni, come se per l’ultima volta stesse provando dei passi esitanti come lo furono i primi, accennati nella sua balbettante e remota infanzia. Egli porta una chioma candida e una lunga barba che ci raccontano, senza parole, inverni interi di neve. Il segreto, però, è quello del suo sguardo indimenticabile, dove si indovina certamente la fatica, ma anche un’energia interiore capace di vincere la stanchezza: una curiosità incrollabile, che resta sorprendentemente accesa; un’apertura a continuare il cammino nella scoperta e nella meraviglia. Nell’angolo in alto del disegno si legge infatti: «Aun aprendo» (Ancora imparo).
Portatori di un dono nuovo
Carlo Molari
Ogni situazione della nostra esistenza può essere vissuta in modo da consentirci di crescere come persone autentiche. Noi possiamo vivere tutte le situazioni, anche quelle causate dal peccato e dalla violenza degli uomini, in modo da renderle spazi di novità, stimoli di rinnovamento, occasione di profezie. Da farne cioè luoghi di crescita per noi e per gli altri. Ma non siamo in grado di farlo da soli. Sono i rapporti con gli altri, gli incontri, le esperienze storiche che ci consentono di crescere, offrendoci ogni giorno possibilità nuove. Non è sufficiente essere nati, per poter vivere intensamente e neppure per poter sopravvivere. Occorre che qualcuno ci offra continuamente la possibilità di crescere. Ciò non vale solo per i più piccoli ma per ogni uomo. Anzi più la persona è grande e più esige offerte intense e profonde. Solo che mentre gli adolescenti, i giovani e soprattutto gli adulti sono in grado di cercarsi da soli ambienti di offerte vitali e di muoversi per allargare gli orizzonti e intensificare i rapporti, gli infanti ed i fanciulli sono costretti all'ambiente e quindi necessariamente condizionati dalle offerte di vita che concretamente essi ricevono.
Quando, nell'orizzonte della fede, diciamo che la salvezza è dono di Dio, intendiamo appunto esprimere questa nostra condizione di creature: abbiamo bisogno di accogliere la nostra perfezione dagli altri. L'amore di Dio, infatti, non è efficace per noi se non quando diventa amore di persone umane: gesto e sorriso di madri e di padri, affetto di amici o di sposi. Ognuno di noi porta per gli altri un dono che è più grande di sé, un dono che però non può trattenere nelle sue mani, ma deve saper offrire perché la vita non venga tradita e possa esprimersi in tutte le sue forme.
Soprattutto quando avvertiamo da qualche parte situazioni di emarginazione, di solitudine, ricordiamo che a nessuno è possibile uscire dalla sua condizione se altri non gli tendono la mano.
Oggi, forse, per qualcuno siamo noi i portatori di un dono nuovo. Come altri forse sono pronti ad offrirci la loro presenza, se saremo attenti ad avvertirla e ad accoglierla senza riserve.
Pensiamoci, oggi, quando ci si offrirà un incontro
Cosa ti rende vivo?
Alessandro D'Avenia
Il mondo in cui viviamo ci illude che possiamo essere e volere tutto, che essere liberi sia avere scelte infinite, ma questo accade, illusoriamente, solo al supermercato. Noi i destini non li possiamo comprare, ma solo ricevere. Il consumismo scambia le scelte infinite per libertà, mentre veramente libero è solo chi, messo in condizione di ricevere la verità, poi la sceglie, cioè sceglie di essere chi solo lui può essere. Non è vero che hai illimitate scelte, è vero piuttosto che tu hai un destino da trasformare in destinazione, e il mondo comincerà a splendere, non della luce falsa delle illusioni come era disposto ad accettare, pur di sopravvivere alla noia, il diciannovenne Leopardi nella lettera a Giordani da te citata, ma della luce che hai già in mano e non devi puntare invano sull’intera valle oscura in cui cammini, ma sul prossimo passo. La vita ti verrà incontro nella misura in cui le andrai incontro, con coraggio, perché può aver coraggio solo chi ha paura, così come può guarire solo chi ha dolore. Che cosa puoi essere e fare solo tu? A che cosa sei chiamata? Perché sei venuta al mondo? Non concentrarti su ciò che il mondo si aspetta, ma su ciò che ti rende viva, perché il mondo ha bisogno di persone vive.
E allora, se spiritualità è fare ciò che serve a trasformarsi per vedere la verità, coltiva la tua vita spirituale (o cuore), cioè fai pratica ed esperienza di ciò che ti rende viva. Non aspettare di avere anni di vita, ma metti vita nei tuoi anni. A poco a poco ti trasformerai, cioè abbandonerai le illusioni di destino, per abbracciare il tuo. La vita autentica infatti ha due movimenti: liberazione e scoperta. Elimina ciò che ti fa sentire morta, coltiva ciò che ti fa sentire viva. Due movimenti accompagnati da un inevitabile timore: rinunciare a ciò che rassicura ed esplorare l’ignoto. Posso dirti che in me avviene questa trasformazione verso la verità quando leggo, prego, scrivo, mostro le mie fragilità a chi mi ama o le accolgo, cerco bellezza nel quotidiano, cammino nella natura, faccio sport, cucino per qualcuno, faccio una lezione... Ma per fare queste cose ho dovuto prima liberarmi da altre che mi davano l’illusione di essere vivo, facendomi perdere tempo o avvelenandomi.
Che cosa ti rende viva e rende vivo il mondo attorno a te? Quanto tempo dedicherai oggi a questo? La risposta non la troverai fuori, nel supermercato delle false esistenze felici, ma fiorirà in te e da te, nel tempo, perché avrai coltivato la tua umanità, cioè il tuo cuore. Mentre scrivo i rami spogli di un albero tagliano un cielo grigio e piovoso: la sua vita è solo nascosta, lavora senza sosta. Sembra morto, ma è solo raccolto. È il suo ballo del qua. E anche tu scoprirai, in questo inverno dello spirito, che la linfa che cerchi non è altrove, è nella tua carne. Non scappare, raccogliti. La stagione dei frutti arriverà a tempo debito e nutrirà molti. Tu balla, qua.
Come amare nel rispetto della libertà dell’altro
Valerio Stagno
Molte volte facciamo coincidere con l’Amore un sentimento di proprietà e di appartenenza, saltando il livello della libertà che rappresenta il luogo stesso dove l’Amore vive e ha bisogno di vivere. L’eros vive al suo interno una condizione di continua ambiguità equivocando, all’interno della relazione etica come metafisica, tra l’immanenza e la trascendenza, passando dall’altruismo all’egoismo e rischiando continuamente di trasformare il desiderio metafisico, dell’invisibile, mistero in cui si racchiude l’enigma della femminilità, in bisogno fisico del visibile che si esprime nella voluttà e nel godimento. La partita dell’eros come relazione che mantiene la metafisicità, rischiando continuamente di perderla, viene giocata tutta nel desiderio dell’intimità erotica attraverso la ricerca della nudità senza profanazione.
Come scrive Sergio Labate, ricercatore in filosofia teoretica all’Università di Macerata: “andando incontro all’amata, l’amato desidera di approfondire il mistero, di instaurare una relazione al di là del volto; percepisce che questo desiderio si può esaudire come profanazione […], ma se questa relazione è oltre l’egoismo, nella sfera della gratuità, desidera ancora più fortemente che la relazione con l’infinito mistero celato nella nudità dell’amata avvenga senza profanazione, o come profanazione che pure lascia lo spazio perché ciò che è profanato sia mantenuto nella sua essenza di intoccabilità, di improfanabile”[1].Questa tensione desiderante che muove l’attenzione del desiderio su se stesso “per non decadere in semplice bisogno”[2], si traduce nella concretezza nell’evento della “carezza”. Questa indica a pieno titolo “il movimento dell’amante di fronte alla debolezza della femminilità, che non è, né pura compassione, né impassibilità, ma si compiace di questa compassione”[3], ponendosi come esperienza profonda della relazione erotica, in quanto relazione con la trascendenza, la quale allo stesso tempo cerca continuamente il contatto con l’intimità della nudità.
La carezza come momento della concretezza dell’eros, e come contatto con l‘altro, “è sensibilità”[4] , ma non di una sensibilità qualsiasi tale da restare imprigionata nella forma tutta immanente di un estetismo senza evoluzioni, ma di una sensibilità che attraverso la carezza, “trascende il sensibile”[5], non in un modo tale “che essa senta al di là del sentito, più profondamente dei sensi, né significa che essa si impadronisca di un cibo sublime, […], un’intenzione di fame che si dirige sul cibo che si promette e si dà a questa fame, la scava, come se la carezza si nutrisse della propria fame, al contrario, la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire-mai abbastanza avvenire-nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora”[6]. Amando l’amata, la carezza “ama il trascendente celato nel non-ancora-essere dell’amata”[7] permettendo così all’amato di donarsi all’amata in un “desiderio senza voluttà”[8] proponendosi come un atto profanatore di ciò che non può essere profanato, perché per natura improfanabile. Nonostante questo, la carezza è il segno tangibile della non “rinuncia alla comunicazione segnica corporea, non spirituale”[9] che traccia i confini di “un incontro integrale e paradossale, corpo e trascendenza uniti l’uno come desiderio che desidera la trascendenza, l’altra come trascendenza che si dona al desiderio come nudità o intimità”[10]. Quindi l’eros seppur interpretato in chiave prettamente metafisica, non rifiuta l’esperienza della corporeità che con la carezza viene descritta come “l’azione di una mano diretta dal desiderio verso l’intimità dell’amata, in un contatto del tutto sensibile con la pelle nuda, profanazione dell’intimità di Altri”[11]. Tuttavia se fosse solo questo, la carezza perderebbe di eticità e quindi di metafisicità, avvicinandosi invece sempre più ad una relazione di tipo ontologico, tale che il contatto tra io e Altri perderebbe la nozione di separazione da cui è caratterizzata la prossimità. Senza dubbio ciò che nella carezza è interpretato come voluttà, e cioè l’appetito della soddisfazione sensuale, “non viene soddisfatto nella pienezza di un compimento”[12], in quanto, in questo tipo di relazione che si viene a creare, con la carezza erotica, io non possiederò mai ciò di cui sento il bisogno[13] perché “l’appetito sensuale o il bisogno si soddisfano della nudità dell’amata, ma non si saziano di essa – soddisfazione che non coincide mai con il nutrimento”[14] o meglio coincide con un nutrimento del tutto particolare[15], che resta allo stadio dell’appetito, “che si sazia della sua fame”[16], “di una fame che rinasce all’infinito”[17] in quanto rivolto più che al cibo alla sua assenza, nella quale la carezza come non-ancora-essere trova la sua intenzionalità. Cosi la relazione etica in eros, non solo è salvata, non potendo essere assolutamente compresa, ma l’alterità “resta intatta nella sua nudità”[18], nella misura in cui l’Amata “si mantiene nella sua verginità”[19], nella notte dell’erotico, nella quale nello stesso istante in cui scoperto Eros, Eros sfugge “per esprimere in modo diverso la “profanazione”.
[1] S. LABATE, La sapienza dell’amore, Cittadella Editore 2007 cit., p. 150.
[2] Ibidem.
[3] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book – Milano, 1971, p.264.
[4] Ivi, p. 265.
[5] Ivi, p. 265.
[6] Ibidem.
[7] S. LABATE, La sapienza dell’amore, cit., p. 151.
[8] Ibidem.
[9] Op. cit., p. 151.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 152.
[12] Ibidem.
[13] “La carezza erotica non cerca una comprensione concettuale dell’altro; sull’orlo della profanazione dal di dietro del pudore, appare l’Altro non come oggetto del bisogno, ma come oggetto di un bisogno particolare tracciato dal desiderio dell’Altro, il bisogno voluttuoso.” A. JARNUSZKIEWICZ, Separazione e prossimità, cit., p.116.
[14] S. LABATE, op. cit., p.152.
[15] “L’amore è caratterizzato da una fame fondamentale e inestinguibile”, E. LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 37.
[16] Ibidem.
[17] Il tempo e l’altro, op. cit., p. 58.
[18] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.
[19] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.
Compassione
Chandra Candiani
La pratica della compassione inizia portando al cuore, evocando, un essere (non necessariamente un essere umano) che sappiamo che sta soffrendo. Richiamiamo la sua immagine, non lo pensiamo, lo chiamiamo e lo vediamo, lo sentiamo vicino. Quando c'è, quando è vicino, iniziamo a sentire la bellezza del legame, del filo invisibile, anche quando fa male. E da quel mal di cuore partiamo per inviargli frasi di auguri: «Che tu sia libero dalla sofferenza, che tu possa aver cura di te, che tu possa trovare le giuste cure». Sentire il legame non significa precipitare nell'altro e restarne sommersi, non sarebbe piú un legame, ma un'identificazione, una fusione che non fa bene a nessuno dei due. Sentiamo il leggero filo forte che ci lega, lo onoriamo e poi mandiamo le ampie frasi di auguri che non significano che pretendiamo di salvare, di fare magie, ma solo che trasaliamo e vibriamo per la sofferenza dell'altro. Il Buddha non era un salvatore, ma un uomo che al suo Risveglio si è trasformato in una strada e l'ha lasciata aperta a tutti, ha insegnato a percorrerla. Era una Via antica, piú antica di lui, che conduce fuori dalla sofferenza. La sofferenza di soffrire, di ignorare il dolore e le sue cause, la sofferenza di non smettere di aggrapparci e di respingere quel che ci capita. Uscire dalla sofferenza significa riscrivere la relazione con la gioia e con il dolore, con noi stessi e con gli altri, attraversare, traghettare. Significa piena accoglienza di qualsiasi cosa ci capiti. Questa accoglienza prepara all'azione, è non agire in attesa dell'azione intonata.
...
Proseguendo nella pratica della compassione, passiamo quindi a sentire la nostra sofferenza e ad augurarci di esserne liberi. Sentire la propria sofferenza significa non essere piú identificati, sentirla come un tuono, come un gelo, come un fuoco. Dove? In quali punti del corpo? Senza narrazione, ci inoltriamo sulle sue tracce, nelle sue zone e ascoltiamo, assaporiamo, raccogliamo. Geografi della sofferenza, impariamo l'arte della conoscenza, la sua gioia. Non è piú cosí importante quale sia l'oggetto del conoscere, piacevole, indifferente o spiacevole: conta di piú il movimento della conoscenza del flusso di sapori, fino a quello della vastità in cui tutto si svolge, il cuore smisurato della compassione.
Ovviamente per arrivare a sentire la sofferenza come un oggetto di conoscenza ci vogliono tempo e addestramento, può emergere rabbia, desiderio di vendetta, senso di colpa, disperazione. Vanno sentiti uno a uno, nel loro tessuto, consistenza, tono, non credendo a quello che dicono ma anche non giudicandoli come malvagi e respingendoli negli angoli bui. E c'è il contenitore, c'è lo spazio in cui tutto questo affiora e si muove e prima o poi si dissolve. Lo spazio resta, e assaporare lo spazio sgombro del cuore fa respirare l'illimitato, apre a un'assenza di categorie che è vitalità del silenzio.
Inviare a se stessi le frasi di augurio, «che io possa essere libero dalla sofferenza, che io possa averne cura», e soffermarsi a riceverle, ci porta in dono quello che abbiamo sempre cercato altrove.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 50-53)
Accarezzare la fragilità dell'altro
Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.
Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.
La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.
La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.
Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.
La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.
Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.
Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.
La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.
Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.
È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.
La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.
E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.
Vivo!
Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi restano mesi da vivere.»
- Michela Murgia, il suo nuovo, splendido libro, “Tre ciotole”, si apre con la diagnosi di un male incurabile. C’è qualcosa di autobiografico?
«È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».
- Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?
«Dal quarto stadio non si torna indietro».
- Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?
«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».
- Cosa intende per registro bellico?
«Parole come lotta, guerra, trincea... Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».
- Non può operarsi?
«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».
- Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.
«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».
- L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.
«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi».
- La morte non le pare un’ingiustizia?
«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».
- Una delle sue altre vite la conosciamo: operatrice in un call center. Ne ha tratto un libro, “Il mondo deve sapere”, che ha ispirato il film di Virzì con Sabrina Ferilli “Tutta la vita davanti”. Le altre vite quali sono?
«Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà. Ho fatto la portiera notturna in un hotel...».
- In Sardegna?
«Nel posto più lontano e diverso dal mio paese, Cabras, che potessi trovare: l’hotel Perego al passo dello Stelvio, sull’unico ghiacciaio dove si scia pure d’estate. Ero la sola italiana, con Aisha, marocchina, Mohamed, berbero, Cheik, dell’Africa nera, e Mikhail, serbo. A tavola recitavamo la preghiera cattolica, quella musulmana e quella ortodossa. Il piatto più richiesto dai clienti era lo stinco di maiale e ogni volta era una scommessa: in cucina c’erano Mohamed e Cheik, che non ne hanno mai assaggiato uno...».
- Ora sta studiando il coreano? Come mai?
«Da due anni. Volevo anche andare in Corea, ma le mie condizioni per ora non lo consentono. Tutto nasce da una passione per il k-pop e per i Bts, una musica e un gruppo che mi danno grandissima gioia. Ho iniziato a studiare il coreano per capire i testi. Poi mi sono resa conto che la vera ragione era un’altra».
- Quale?
«Me l’ha spiegata Jhumpa Lahiri. Gli scrittori postcoloniali, che hanno avuto successo non nella loro lingua originaria ma in quella dominante del colonizzatore, tendono a cercare un terzo spazio, una terza patria. Per Jhumpa, che ha origini indiane e scrive in inglese, è l’Italia. Per me, che sono sarda e scrivo in italiano, è la Corea. Forse ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell’oceano, a Busan. Nel coreano cerco parole che nessuno ha mai usato contro di me, e che io non ho mai usato contro nessuno».
- Lei pensa e sogna in sardo?
«Certo. Non soltanto: penso in sardo e traduco in italiano; sono due Michele diverse, una sarda e una italiana. Alla stessa domanda se penso in italiano do una risposta, se penso in sardo un’altra. L’Italia e la Sardegna sono due cose diverse. Per voi la Sardegna è l’isola delle vacanze. Non vi rendete conto che c’è una base militare ogni 150 chilometri, perché d’estate interrompono i tiri per non disturbare i turisti. L’altro giorno ero all’orto botanico, qui a Trastevere. La persona che era con me è trasalita per il botto del cannone del Gianicolo. Io no. Noi sardi siamo abituati ai rumori di guerra».
- Però la Sardegna non è una colonia. È Italia. Uno dei personaggi del suo libro è la donna di servizio di un colonnello, che ha lavorato in un poligono in Sardegna, e dice che non è vero che le morti per tumore in quella zona siano legate alle armi...
«Mi riferisco al poligono di Perdasdefogu, che viene affittato alle potenze alleate: arrivano, pagano, sperimentano armi e tecnologie, se ne vanno, e lasciano la loro scia di morte. Un magistrato coraggioso, il procuratore Fiordalisi, ha fatto riesumare le salme del cimitero e ha portato la Difesa e i vertici militari alla sbarra a rispondere di salute pubblica. Ma la comunità vive di cose non dette. La base dà da mangiare a tutti, ma non consente a nessuno di mangiare in modo diverso».
- Eppure lei affida al suo personaggio, la donna di servizio, il ragionamento contrario. Anche a proposito della sua critica al generale Figliuolo: «Una tipa in televisione ha detto che la divisa del Generale le faceva paura. Centinaia di morti per il virus e questa pazza...».
«La letteratura serve a ribaltare lo sguardo e in quel racconto la pazza sono io. Lo rivendico. Il codice militare applicato a un’emergenza civile è un rischio potente per una democrazia. Nel momento più drammatico abbiamo affidato il governo a Draghi, un tecnico, e la vaccinazione a Figliuolo, un militare. La politica in quel momento si è arresa e ha ceduto il suo ruolo. La facilità con cui abbiamo sospeso le libertà dovrebbe atterrirci».
- Nel suo libro lei cita per nome un solo personaggio, oltre al cantante coreano Jimin: l’ex presidente Cossiga.
«Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli, che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo incalzò. E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei amici... Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”. È un po’ come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha diciassette...” (Michela Murgia sorride)».
- Lei non scriveva un romanzo da otto anni.
«E anche questo libro sarebbe dovuto essere un pamphlet. Invano Marcello Fois mi ripeteva che la letteratura cambia la vita più dei saggi, che Proust ha cambiato il mondo più di Baumann. A me sembrava che un saggio mi consentisse di scrivere più cose autentiche. Poi mi sono resa conto che la letteratura mi permette di dire cose meno assertive; anche cose contrarie a quelle che penso. La donna di servizio giustifica la decisione del Colonnello di sottoporre il figlio malato di cancro a un intervento chirurgico non necessario. Il bisturi come soluzione militare. Radicale. E sbagliata».
- Lei aveva già avuto il cancro.
«A un polmone. Tossivo. Feci un controllo. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale».
- Si era candidata alla presidenza della Sardegna contro tutti i partiti, prese il 10 per cento.
«Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove».
- Questa volta come se n’è accorta?
«Non respiravo più. Mi hanno tolto cinque litri d’acqua dal polmone. Stavolta il cancro era partito dal rene. Ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli».
- Le tre ciotole che danno il titolo al libro sono quelle in cui lei mangia, rigorosamente da sola, un pugno di riso, qualche pezzetto di pesce o di pollo e qualche verdura. Soltanto così ha smesso di vomitare. Un vomito che lei non collega alla malattia, bensì a un abbandono. A una sofferenza d’amore. Anche questa è autobiografia?
«La donna di quel racconto è poco autobiografica. Non sono mai stata lasciata. Sono stata fortunata: ho sempre avuto amori felici, e persone che si sono rivelate in gamba anche quando le ho lasciate. Il vomito l’ho vissuto, ma legato alla mia ostensione pubblica, all’essere diventata un bersaglio. Era la reazione per l’odio che ho avvertito nei miei confronti. È cominciato quando ho visto per la prima volta il mio nome sui muri, quando mi hanno insultata in coda al supermercato. È finito quando ho capito che non dovevo lasciar entrare quell’odio dentro di me».
- Come lo spiega, quell’odio?
«Prima dell’arrivo di Elly Schlein mi sono trovata, con pochi altri scrittori come Roberto Saviano, a supplire all’assenza della sinistra, a difendere i diritti e le libertà nel dibattito pubblico».
- Anche gli esponenti della destra sono odiati.
«Sì. Ma fa parte del mestiere di un leader politico. Salvini e Meloni hanno dietro di sé un sistema di potere. Una macchina. Organi di stampa. Persone che lavorano per loro. Muovono denaro, fanno nomine, decidono carriere. Io nella discussione dovrei essere criticamente terza; invece sono diventata controparte. Ed ero sola, con la forza della mia voce. Mi dicevano: voi... Ma voi chi? “Voi del Pd”. Ma io non ho mai votato Pd in vita mia».
- In un altro capitolo lei racconta di tre ragazzi che uccidono un topo.
«Tre ragazzi che non erano mai stati picchiati dal padre; eppure sanno benissimo come si fa. Io ho avuto un padre violento, come si fa del male lo impari anche quando lo fanno a te».
- Nel libro, il personaggio femminile seppellisce il topo, ma il suo corpo spunta ancora fuori, e lei deve saltarci sopra per pareggiare il terreno.
«Certe cose riaffiorano. Puoi occultarle, superarle, ma mai del tutto».
- Nel capitolo finale la protagonista è già morta, e la sorella appende alle querce da sughero i suoi vestiti, affinché ogni persona cara possa portarne via uno...
«Quella scena c’è stata: nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni e ho appeso alle querce cinquanta vestiti. In questo tempo ho avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un percorso collettivo. Tanti dicono di voler morire all’improvviso, nel sonno, senza accorgersene. Ora ho capito perché mia nonna da piccola mi faceva recitare una preghiera contro la morte improvvisa».
- Perché?
«Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family».
- Come tradurrebbe queer family?
«Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».
- Milioni di persone hanno creduto nella coppia, ci credono, ci crederanno.
«Ma finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna».
- Diceva che ha predisposto tutto.
«Ho comprato casa, con dieci posti letto, dove stare tutti insieme; mi è spiaciuto solo che mi abbiano negato il mutuo in quanto malata. Ho fatto tutto quello che volevo. E ora mi sposo».
- Si sposa?
«Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono».
- Sposa un uomo o una donna?
«Un uomo, ma poteva essere una donna. Nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere».
- Il suo capolavoro, “Accabadora”, è una storia di eutanasia. Però il più grande medico del Novecento, Umberto Veronesi, mi ha detto: «Ho assistito migliaia di malati terminali, e nessuno mi ha chiesto di morire. Tutti mi chiedevano di guarire».
«Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina ai radicali, a Marco Cappato».
- Non le manca un figlio?
«Ma io ho quattro figli!».
- Nel libro scrive che odia i bambini.
«È vero. I bambini rompono i coglioni. Tutti i bambini. Non è vero quel che dicono, che i figli sono maleducati per colpa dei genitori; prima o poi un bambino anche educatissimo piangerà, si lamenterà, disturberà, sconvolgerà il vagone del treno su cui viaggio, prenderà a calci il sedile su cui sono seduta in aereo... Non amo i bambini, ma sono predisposta ad accompagnare gli adolescenti».
- E ha quattro figli.
«Sono figli d’anima. Il più grande ha 35 anni, il più piccolo 20. Tutti maschi, ma è un caso. Uno fa il cantante lirico, uno studia economia anche se speravamo facesse lettere, uno insegna a Yale, l’altro lavora in un grande gruppo della moda».
- Cosa vuol dire madre d’anima?
«La filiazione d’anima in Sardegna esiste da sempre, anch’io ho avuto due madri e due padri di fatto. È insensato dire che di madre ce n’è una sola, una condanna per la donna e anche per chi le è figlio. La maternità ha tante forme».
- Un altro capitolo del libro si intitola “Utero in affido”.
«È la storia di una donna che mette al mondo un bambino e lo affida a una coppia che lo desiderava. Odio sentir parlare di “utero in affitto”, di “maternità surrogata”. Odio la retorica della maternità biologica; meno figli si fanno, più si misticizza la maternità. Forse un giorno nasceremo tutti da un utero artificiale. Quelli che parlano di maternità rubata sono gli stessi che hanno in casa badanti che hanno lasciato i loro figli in Paesi lontani per occuparsi dei nostri bambini e vecchi».
- C’è anche una scena di sesso, molto ben scritta.
«L’ho fatta leggere a Missiroli, Desiati, Saviano. Abbiamo sorriso, l’hanno trovata molto eccitante; ma nessuno si è accorto che lei non viene. Gliel’ho detto: neanche per iscritto vi accorgete che una finge... Vuol dire che funziona».
- Lei ha avuto una formazione cattolica. Crede ancora in Dio?
«Certo».
- L’ha pregato in questi mesi?
«L’ho pregato e lo prego di far accettare alle persone che mi amano quello che accadrà».
- Come immagina l’Aldilà?
«Non un luogo, ma uno stato sentimentale. Dio è una relazione. Non penso che la vita dopo la morte sia tanto diversa. Vivrò relazioni non molto differenti da quelle che vivo qui, dove la comunione è fortissima. Nell’Aldilà sarà una comunione continua, senza intervalli».
- Con gli altri o con Dio?
«È uguale. Sarà il passaggio dal “non ancora” al “già”».
- Quindi non ha paura della morte?
«No. Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio».
- Perché?
«Perché il suo è un governo fascista».
- Il mio giudizio sul fascismo è severo quanto il suo. Proprio per questo non sono d’accordo: il governo Meloni non è fascista.
«Qual è il confine del fascismo? La violenza? La bastonata? Imporre con una circolare che il figlio di due madri sia di una madre sola non è forse violenza? Crede che a una famiglia faccia meno male di una bastonata?».
- Come vorrebbe essere ricordata?
«Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista».
Perchè aiutare gli altri?
Piero Stefani
Non è scontato dare risposta a questa che sino a qualche tempo fa sarebbe parsa una domanda puramente retorica. Oggi, in particolare, è la spinta migratoria che costituisce il contesto «nuovo» in cui interrogativi scontati si ripropongono in termini drammatici, laddove il «come» arriva a mettere in crisi il «perché». Il peso del «come» è grande. Per essere in grado di aiutare gli altri - afferma Piero Stefani - occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche. In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Dobbiamo quindi rinunciare?
No, occorre innanzitutto non lasciare che l'accidia personale e collettiva così come il sentimento della paura o dell'incertezza del futuro abbiano il sopravvento. E, soprattutto, occorre porre come primo imperativo, antidoto d'ogni atteggiamento rinunciatario, quello di cercare di capire.
Per chi avverte nel proprio animo la spinta ad aiutare altre persone, un problema urgente, e spesso delicato e impegnativo, concerne il come farlo.
Quando, nella concretezza delle proprie esistenze, si tocca questo tasto, si comprende senza difficoltà che le buoni intenzioni tante volte non bastano. Ciò vale sia per la dimensione individuale sia per quella collettiva. Di frequente si è costretti a registrare impreviste ricadute negative delle azioni intraprese. Più volte, per scongiurare siffatti esiti, si ricorre a esperti del «come». In questi ambiti acquistano sempre più spazio le competenze tecnico-professionali.
A essere chiamata in causa è praticamente tutta la sfera delle scienze umane colte nel loro versante pratico. Economisti, sociologi, psicoanalisti, psicologi, pedagogisti, consulenti familiari sono le prime, ma non le sole, esemplificazioni che balzano alla mente. Anche sul versante spirituale, per affrontare simili snodi, ci si rivolge a determinate competenze, dalle più tradizionali, come il prete o il confessore, a quelle ispirate ad altre tradizioni religiose, parareligiose o sapienziali. In questi casi il bisogno di aiutare gli altri si intreccia, non raramente, con il sostegno che si cerca per se stessi.
Gli esiti non sono assicurati, a volte si fanno progressi, altre volte si patiscono invece delusioni tanto cocenti da far sì che il fallimento del «come» conduca fino a mettere in discussione il «perché» occorra impegnarsi. La frase colloquiale che suggella questo esito è: «Non c'è più nulla da fare».
L'esperienza attuale ci dice che la serietà della questione del «come» non deve far trascurare il problema del «perché». Non va infatti dato per scontato che prestare aiuto sia una caratteristica tipica della condizione umana. Essa non è presente in ogni circostanza nell'animo di tutti. Risulta quindi urgente trovare risposte alla radicale domanda: «Perché mai dobbiamo aiutare gli altri?».
In realtà, andare alla ricerca di solidi fondamenti per risolvere la questione significherebbe affrontare l'intera sfera della ricerca etica, un compito che va ben al di là della serie di riflessioni qui proposte. Senza alcuna pretesa di conseguire la completezza, ci si limiterà perciò ad avanzare alcune delle molte motivazioni che spingono ad aiutare gli altri.
Secondo una prima approssimazione è dato individuare cinque motivazioni di fondo che inducono a prestare aiuto agli altri. Le elenchiamo senza introdurre alcun ordine gerarchico. Va comunque precisato che esse, pur non escludendo l'aspetto collettivo, tengono soprattutto conto della componente individuale: occorre aiutare gli altri perché conviene; per un moto di compassione o solidarietà presente nell'animo umano; perché è comandato; per la radicale e comune non-autosufficienza della condizione umana; per non espandere il male presente nel mondo.
Al pari di ogni altra schematizzazione, anche quella qui proposta è in parte fallace; essa tende infatti a introdurre confini netti là dove, non di rado, ci sono incroci e sovrapposizioni.
II «proprio interesse»
Vi è un primo modo di declinare il problema che potremmo definire, in senso lato, economico e un secondo classificabile come relazionale (e in questo senso prossimo all'etimo della parola: «con-venire»).
Nell'ambito economico non è dato, per definizione, di prescindere dall'utile. La via da perseguire è mostrare concretamente che il conseguimento del proprio vantaggio implica l'incremento anche di quello altrui. Le formulazioni più tipiche di questo principio si ritrovano nell'ambito dell'economia politica classica. Scrive Antonio Genovesi: «Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti che per la sua felicità, sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l'altrui miseria e, se potete e quando potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse tanto più, purché non si sia pazzi, si debb'esser virtuosi. È legge dell'universo che non si può far la nostra felicità senza fare quella altrui».[1]
Nell'ambito dell'economia il primo fattore che muove a operare è la «propria felicità», il «proprio interesse», il «proprio profitto», il «proprio guadagno». Non può essere che così. La questione è far sì che il proprio tornaconto sia nelle condizioni di procurare vantaggi anche agli altri. L'economia liberale classica era fiduciosa che, per logica interna, nella sfera della produzione e dello scambio non vigesse la regola dell'homo homini lupus.
Secondo un celebre detto di Adam Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che essi hanno per il loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità»;[2] ma facendo i loro interessi i fornitori fanno anche quelli degli acquirenti e viceversa.
Nei due secoli successivi l'ottimistica fiducia tipica della visione economica liberale è largamente saltata; tuttavia resta fermo il fatto che l'ambito economico non è retto dal puro altruismo. Ovviamente è ben possibile, anzi doveroso, porre in discussione la logica liberale pura. È dato impegnarsi per un'«economia civile» e ancor più radicalmente per un'«economia di comunione» [3] ma, «per la contraddizion che nol consente», non è lecito, in campo economico, parlare in termini di pura gratuità e generosità e di assenza di ogni utile, e ciò proprio a motivo del conseguimento di un comune vantaggio.
Tenendo conto di quanto si è appena detto, nasce l'interrogativo del perché spesso non ci si conformi alla legge universale in base alla quale non è dato raggiungere la propria felicità senza fare anche quella altrui. In simili circostanze, argomentare a favore del vantaggio reciproco risulta l'operazione più efficace.
Scrisse David Hume: «Il tuo grano è maturo oggi il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se io oggi lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo alcun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che tu domani mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma sopravviene il maltempo e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di garanzie».[4]
Anche in questo caso l'aiuto dovrebbe avvenire non a motivo di una reciproca benevolenza ma a causa di una palese convenienza. In definitiva, pure se il vicino mi è antipatico traggo vantaggio dall'aiutarlo.
Sono felice se tu sei felice
Intensificando la dimensione dell'utile si può giungere alla posizione espressa nel detto corrente (ma forse oggi un po' meno frequente di ieri): «Fare del bene ti fa bene». Visione attualmente proposta in forma molto schietta da studiosi come la statunitense Barbara Lee Fredrickson (esponente di punta della «psicologia positiva»), secondo la quale essere altruisti rafforza i legami sociali e costruisce la capacità di esprimere amore e sollecitudine, in tal modo la reciproca influenza tra benessere individuale e collettivo consente di raggiungere la felicità e una soddisfazione autentica. Quando aiutiamo gli altri si è felici perché si sperimentano di continuo buone sensazioni fisiche e spirituali.[5]
Con maggiore spessore culturale, un orientamento simile era già stato proposto nel XIX secolo da John Stuart Mill: «Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell'umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa trovano la felicità lungo la strada».[6]
Qui il discorso si raffina, si presuppone infatti che la rinuncia cosciente al conseguimento diretto della propria felicità sia la via migliore per raggiungerla. L'orizzonte rimane comunque quello espresso dalla «regola aurea» dell'utilitarismo stando alla quale il bene coincide con la massima felicità del maggior numero di persone possibili.
Il punto debole della prospettiva sta nel fatto che l'istanza, per realizzarsi appieno, implicherebbe la presenza di una sostanziale parità tra le componenti di una società contraddistinta nella realtà da forti disuguaglianze.
Per conseguire un'utilità comune occorre articolare in modo positivo i rapporti tra uguaglianza e diversità. Tuttavia, se l'utile diviene egemonico, risulta quasi inevitabile che il trattamento riservato alle componenti più deboli della società perda,di consistenza.
La prospettiva emergeva con chiarezza già nei «sacri principi» dell'89. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino recita: «Gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune». Da questa frase è obbligo concludere che l'utile sociale è legato a filo doppio alla disuguaglianza.
Nonostante la loro ispirazione liberale, alle spalle della sfera dei diritti elaborata nel corso della Rivoluzione francese continuava a stagliarsi l'ombra lunga dell'apologo organicistico attribuito a Menenio Agrippa: la società è come un corpo, ogni membro ha una funzione differente da quella degli altri; alcuni sono però indispensabili, altri non strettamente necessari: si può vivere senza una mano, ma non senza cuore o polmoni.
Rispetto al corpo l'unico ambito in cui è dato parlare a pieno titolo di uguaglianza è il fatto che tutte le membra fanno parte di esso. In senso stretto non esisterebbero perciò diritti individuali: è il corpo nel suo insieme che fa sì che tu sia o piede o mano o testa. Per questa ragione il modello antico non è riproponibile alla lettera, esso infatti, nella moderna visione liberale, viene sottoposto a profonda revisione riconducibile a questi termini: ognuno è titolare di diritti e le diversità si giustificano solo in base all'utilità comune. Quest'ultima però rischia di diventare semplicemente l'espressione delle componenti più forti della società che tendono a prendersi cura degli altri soltanto nella misura in cui questa prassi collima con lo sviluppo dei propri interessi.
Tutti nella stessa barca: ovvero le relazioni
L'espressione colloquiale per indicare questa posizione sta nell'affermare: «Siamo tutti nella stessa barca». Nella sua forma più alta il senso della relazione si esprime nel detto secondo cui aiutando gli altri aiuti te stesso e viceversa. In termini complessivi l'elaborazione di questo principio evidenzia che relazione e alterità sono tra loro inversamente proporzionali.
L'«altro» non è una persona che si presenta all'inizio come separata per essere ricondotta progressivamente alla sfera della relazione: fin da principio nessuno è semplicemente un estraneo. Il culmine di questa visione è raggiunto nelle culture che presentano la relazione come il tessuto costitutivo della realtà. Tra esse, per quanto riguarda il risvolto etico, le elaborazioni più pregnanti si trovano nel buddhismo.
A partire da una concezione della realtà relazionale un antico detto sostiene che: «badando a se stessi si bada agli altri; badando agli altri si bada a se stessi (...) E come badando agli altri si bada a se stessi? Con la tolleranza, la non-violenza, l'amicizia, l'indulgenza» (Samyuttanikaya).[7]
Qui il modo di dire «ti fa bene fare del bene» acquista una tale profondità da essere sradicato dal terreno dell'utile per venir direttamente ripiantato in quello ontologico-relazionale (dato e non concesso che il termine «ontologia» sia applicabile al buddhismo). Nella Samyuttanikaya la coincidenza tra il prendersi cura degli altri e di se stessi è esemplificata attraverso l'immagine suggestiva degli acrobati che, allorché formano una piramide umana, si trovano oggettivamente nelle condizioni di far coincidere la propria tutela con quella degli altri e viceversa.
Il detto proverbiale che allude alla barca ha sullo sfondo l'idea, più o meno accentuata, del pericolo: ad accomunarci è la presenza di una minaccia collettiva. Nell'immagine della piramide umana l'idea di un possibile crollo non è evidentemente assente, tuttavia essa non è neppure costitutiva. In questo caso il ruolo decisivo spetta alla relazione. Per costituire un'unica struttura tutti gli acrobati, fin dal principio, si trovano in un rapporto reciproco. Nell'immagine corrente, la barca è un contenitore (fuor di metafora, una situazione accomunante), nel caso della piramide umana invece sono le relazioni stesse a costituire l'insieme. Gli acrobati, quindi, simboleggiano la condizione umana in quanto tale e non già una particolare situazione in cui ci si viene a trovare.
«Rispetto per la vita»
Nella civiltà occidentale sono stati elaborati vari modi per affrontare il tema delle relazioni. Da esse, di solito, non derivano però in modo diretto comportamenti etici rivolti a prestare un aiuto sia agli altri sia a se stessi. Un'esemplificazione particolarmente significativa di questa prospettiva avviene se si guarda all'approccio evolutivo assunto in senso biologico.
Anche prescindendo dal riferirsi a questa o a quest'altra teoria, è dato concludere che tutte le visioni evolutive individuano un legame molto stretto tra i viventi, cosicché di fronte a ciascuno di loro è obbligo concludere che se non ci fosse lui non ci saremmo neppure noi.
Tuttavia questa constatazione descrittiva di per sé non consente di trarre conclusioni etiche univoche: tra XIX e XX secolo si affacciarono sulla scena sia il darwinismo sociale che trasferiva nelle società umane il criterio della struggle for the life, sia visioni che coniugavano in senso positivo e comprensivo l'etica della vita. Tra esse la più celebre è probabilmente quella intuita da Albert Schweitzer nel corso di uno dei suoi soggiorni africani.
«Risalivamo lentamente il fiume (...) cercando con fatica – era la stagione secca – i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Immerso in profonda meditazione sedevo sul ponte della barca, sforzandomi di arrivare al concetto elementare e universale di etica, che non ero riuscito a trovare in nessuna filosofia. (...) Poi il terzo giorno, al tramonto, proprio nel momento in cui ci stavamo facendo strada tra una mandria di ippopotami, balenò nella mia mente, quando meno me lo aspettavo, la frase: "Rispetto per la vita". Il cancello di ferro aveva ceduto; si poteva vedere il sentiero del bosco. Ecco che avevo trovato il modo per arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l'affermazione del mondo e della vita e l'etica. Ora sapevo che l'affermazione etica del mondo e della vita, come pure gli ideali di civiltà, sono fondati nel pensiero».[8]
Il discorso di Schweitzer non è rivolto in modo diretto all'aiuto da offrire agli altri; tuttavia è evidente che il fatto stesso che questi pensieri siano stati per così dire innescati dalla vista di una mandria di ippopotami attesta che il legame tra tutti i viventi è qui assunto come un vero e proprio fondamento; dal canto suo il rispetto della vita, lungi dall'essere inteso come un passivo non intervento, obbliga a fornire un aiuto attivo tutte le volte che ce n'è bisogno.
Compassione e saggezza
«Umana cosa è l'aver compassione agli afflitti» si legge nella prima riga del Decameron. Nell'animo umano compare a volte un forte senso di compassione o di human sympathy nei confronti degli altri. Per quanto in italiano i due termini di «compassione» e «simpatia» abbiano assunto significati fortemente diversi, il loro etimo è, rispettivamente in base al latino e al greco, lo stesso. Esso indica un far proprio il patire e il sentire (nel senso di pathos) altrui.
L'espressione inglese human sympathy si conforma appunto a questo atteggiamento di com-passione attiva. Un problema a questo riguardo è se si tratti di un moto che balena all'improvviso dentro di noi o se, al contrario, sia una presenza costante.
Il buddhismo e il ruolo in esso affidato alla karuna ci prospettano una visione complessiva in cui misericordia, compassione, pietà ed empatia (per cercare una serie di termini che tendono a esprimere i sensi contenuti nel termine karuna) vanno congiunte in modo integrale con la prajna («saggezza»). Non si dà saggezza senza compassione e viceversa.
Ciò fa sì che karuna abbia un carattere universale che trova una qualche corrispondenza in noi tutte le volte in cui proviamo una grande, profonda compassione per la condizione umana in quanto tale (e quindi anche per noi stessi). Ciò non comporta affatto astenersi dall'azione; tuttavia essa è una dimensione profondamente diversa rispetto al moto improvviso che a volte ci spinge a soccorrere gli altri.
Nella maggior parte dei casi questo stato d'animo non dipende da una visione complessiva della realtà, esso scaturisce da sé di fronte a situazioni specifiche. Anche nella Bibbia non mancano episodi che si rifanno a questa dinamica. Per esemplificarla ci limitiamo a solo quattro esempi nei quali il senso di compassione, innescato da un precedente atto di vedere, conduce all'azione.
Iniziamo da un episodio antico, quello in cui la figlia del faraone salva il piccolo Mosè chiuso in un cestino che galleggia tra i canneti del Nilo.[9] Il libro dell'Esodo in questa scena riserva un ruolo decisivo al sentimento umano. La figlia del faraone vede il cestello fra i giunchi e manda la sua schiava a prenderlo. Vi è un primo atto legato al vedere, probabilmente dovuto solo a un moto di curiosità.
Subito dopo si muta però registro: «L'aprì e vide il bambino: eccolo, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: "È un bambino degli ebrei"» (Es 2,6; trad CEI 2008). In effetti il verbo ebraico impiegato in questa occasione (chamal) andrebbe reso meglio con «si commosse». Il pianto della piccola creatura induce alla commozione l'animo adulto. Non si trattò di un puro sentimento passeggero, quel sentimento condusse infatti a prendersi cura di un bambino appartenente a un gruppo perseguitato. Il pianto infantile suscita una risposta attiva.
La successione tra vedere e aver compassione (verbo splagchnizomai, che allude alla componente «viscerale» presente nel linguaggio biblico) compare anche in tre brani presenti solo nel Vangelo di Luca. Il primo è legato a un miracolo. Gesù sta per entrare a Nain. Presso la porta della città scorge un corteo funebre che accompagnava al sepolcro il figlio unico di una madre vedova: «Vedendola il Signore fu preso da grande compassione (esplagchisthe) per lei e le disse: "Non piangere"» (Lc 7,13).
Compassione e commozione muovono Gesù all'azione e lo inducono a richiamare in vita il fanciullo. In questa circostanza il Signore agisce in virtù di un moto interno; nessuno gli rivolse una richiesta, né la vedova compì alcun atto di fede in Gesù. L'azione misericordiosa è unilaterale, essa manifesta una profonda asimmetria tra chi è nelle condizioni di aiutare e chi può essere solo aiutato e qui non si tratta del defunto che, evidentemente, si trovava già in un «mondo altro», quanto di sua madre; è di lei che il Signore ebbe compassione.
Un discorso per più versi analogo è applicabile anche alla parabola del padre misericordioso. Il figlio minore dopo aver dissipato l'eredità torna verso casa. In tutto il tempo del suo smarrimento il padre non l'aveva fatto cercare. Sulla via del ritorno, «quando era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione (esplagchisthe), gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
In alcuni commenti si immagina il padre collocato sulla terrazza nell'atto di scrutare senza posa l'orizzonte lontano. Non è necessario ipotizzarlo. Il vedere può essere stato anche improvviso. Il gesto misericordioso di correre incontro al figlio perduto al fine di ritrovarlo nell'abbraccio e nel bacio non era programmato, scaturisce repentino dalla visione.
La prossimità: frutto di una relazione
L'ultimo esempio è forse il più significativo nel caso in cui si confronti il punto d'arrivo con quello di partenza. Si tratta della parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-36). Di essa conviene sottolineare un aspetto particolare. Il discorso prende avvio da una discussione sui due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Dt 6,4-5; Lv 19,18); rispetto a quest'ultimo comandamento, la parabola estende l'orizzonte mettendo al centro la figura di un uomo (anthropos) che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
Egli non è qualificato in nessun altro modo che in virtù del proprio bisogno. Le componenti identitarie sono presenti dalla parte di coloro che sono chiamati a prestar aiuto (sacerdote, levita, samaritano), non da quella di chi giace mezzo morto ai bordi della strada: egli è semplicemente un uomo.
Il sacerdote, il levita e il samaritano sono nelle condizioni di decidere se diventare prossimo allo sventurato; di contro, al ferito non è dato di scegliere nulla. Per lui chi lo soccorre diviene il suo prossimo, mentre gli altri restano degli estranei. Alla fine della parabola Gesù domanda: «"Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Colui che gli ha fatto misericordia (eleos)"» (Luca 10,36-37).
In questo caso, perciò, occorre affermare non tanto che ogni persona umana è mio prossimo quanto che ognuno può diventarlo se agisco nei suoi confronti all'insegna di una fattiva misericordia. La prossimità è il frutto di una relazione che trasforma l'estraneo in vicino.
Vi è però un aspetto legato all'universalità della motivazione che spinge ad agire. La discussione parte dal precetto e ne esemplifica la portata chiamando in causa un modo di prestare aiuto che non si misura affatto con il comandamento. Data l'ambientazione, bisogna presupporre la conoscenza del precetto del Levitico anche da parte del samaritano (il Pentateuco faceva parte pure della sua tradizione religiosa); tuttavia, egli agisce a motivo dell'estroversione delle proprie viscere e non già per mettere in pratica il comandamento.
Il suo aiuto è mosso da questa motivazione: «Passandogli accanto vide e ne ebbe misericordia (esplagchisthe)» (Lc 10,33). All'universalità del soggetto a cui ci si rivolge («un uomo») corrisponde quella del motivo che induce a operare. Si parte discutendo di un precetto biblico, ma si agisce sospinti da un moto di compassione commossa potenzialmente presente nell'animo di tutti, ma fu solo il samaritano a darvi ascolto.[10]
Rispetto all'uomo privo di identità che giace lungo la strada quanto è richiesto è di passare da un'iniziale estraneità alla costruzione di una prossimità frutto dell'ascolto di viscere estroflesse. Ogni essere umano da estraneo può diventare mio prossimo se segue la voce del frammento di misericordia presente in lui; quanto è decisivo è darvi ascolto e non «passar oltre» come il sacerdote e il levita.[11] Qualcosa di simile successe, per esempio, anche a Henri Dunant quando, nel 1859, arrivò sul campo di battaglia di Solferino.
Di fronte allo spettacolo orrendo – visto non solo da lui ma anche da molti altri – dei feriti abbandonati agonizzanti sul campo, gli sorse l'idea di creare la Croce rossa.[12] Cosa lo spinse a fondare un'organizzazione destinata a occuparsi di tutti i feriti sui campi di battaglia e altrove? Se volessimo impiegare l'immagine evangelica, la risposta sarebbe: egli, a differenza di altri, diede ascolto alla voce delle proprie viscere. Ciò gli consentì di emergere dalla comune indifferenza che attanaglia i più.
«Io sono il Signore Dio tuo»
Nelle considerazioni ora proposte dedicate alla parabola del samaritano, si è evidenziato il passaggio da una discussione legata a un comandamento a un'azione innescata da una compassione commossa. Ora è opportuno compiere il cammino inverso e considerare l'esistenza di un comportamento comandato. Quando si prende in considerazione quest'ambito sorge subito il problema dell'autorità legittimata a comandare.
Per ricorrere a categorie consuete, essa può essere religiosa o civile. Tutti e due gli ambiti sono ricchi di varianti. Nelle nostre considerazioni esemplificative ci concentreremo da un lato su alcuni precetti biblici (senza prendere in considerazione i loro sviluppi presenti nella tradizione ecclesiale) e dall'altro sui contenuti di alcuni articoli costituzionali o legati ai diritti umani (senza occuparsi di leggi positive).
Scegliamo il punto di partenza per molti versi più ovvio; scavando in esso troveremo però aspetti meno scontati, fermo restando che, sul piano della prassi, anche il brano biblico di partenza è già in se stesso assai impegnativo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18); «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19,33-34). In entrambi i casi, la frase è conclusa con un riferimento al Signore posto a fondamento del precetto: non ci sono dubbi sull'autorità a cui spetta di comandare.
«Lo amerai come te stesso (`ahavta lo kamokha)» qui (come in Lv 19,18 in relazione al prossimo) il verbo `ahav, «amare», regge il dativo e non già, come di consueto, l'accusativo. Una traduzione che volesse mantenere la costruzione ebraica potrebbe optare per un «porta amore a...».
Questa resa chiarirebbe che si tratta di una dimensione operativa – la si può comandare appunto per questo motivo – e non già di un appello ai sentimenti. Il suo senso è dunque il seguente: agisci in modo amorevole nei confronti dello straniero.[13] Il comandamento ti ordina di fare a prescindere dal tuo stato d'animo nei confronti della persona che sei chiamato ad amare e aiutare.
Qui non entra in gioco alcuna compassione commossa, si è semplicemente tenuti ad agire in quel modo in ragione dell'imperatività del precetto rivelato dal Signore. Così nella forma presente nel testo biblico. In ogni caso l'appello a un principio fondativo trascendente smorza il ruolo affidato alla soggettività.
La dinamica risulta con particolare evidenza nel caso del comandamento rivolto a favore del nemico. All'inizio del percorso non c'è alcuna istanza riconciliativa, non si ordina di trasformare il sentimento d'avversione in amicizia, semplicemente si comanda un'azione benefica nei riguardi di chi ci è avverso: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico e il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso; mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5; trad. CEI 2008).
La seconda parte della traduzione non appare corretta allorché introduce un «non» (assente in ebraico) che regge un comando («non abbandonarlo a se stesso»). Si tratta peraltro di una resa frequente di un passo oggettivamente difficile da tradurre. E importante precisare sia che «nemico» andrebbe reso, alla lettera, con «colui che ti odia» sia individuare la presenza del comando solo nella parte conclusiva della frase (alla lettera «sciogli, sciogli con lui»); la proposizione precedente esprime invece la scelta iniziale, opposta al soccorso, compiuta da colui che vede la bestia a terra.
La frase andrebbe resa su per giù così: «Quando vedi l'asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico e desisti dal scioglierlo [asino]» proprio allora «sciogli, sciogli con lui [colui che ti odia]».[14]
In conclusione, ci sono due stati d'animo soggettivi di partenza: da una parte l'odio nei tuoi confronti e dall'altro la tendenza a non prestare aiuto; il comando s'innesta in questo plesso di stati d'animo e ordina un'azione positiva a favore di chi prova avversione nei tuoi confronti.
«In spirito di fraternità»
L'oggettività del comando che scavalca gli stati d'animo è ardua da mettere in pratica. Ciò è confermato indirettamente anche dalla Bibbia che in un passo parallelo (Dt 22,1-4) applica al fratello quanto il libro dell'Esodo riferiva al nemico. Nel Vangelo si torna a parlare di nemici. Molti fattori inducono a ritenere che l'amore evocato nei loro confronti debba collocarsi ancora sul piano operativo; bisogna cioè compiere azioni positive nei loro riguardi al fine di non essere presi nella spirale dell'avversione e del rancore.
Il modello citato, quello del Padre celeste, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti, è anch'esso operativo (Mt 5,43-48). Il Padre agisce a favore di tutti, senza che ciò annulli le qualifiche antietiche riservate agli esseri umani. In termini più orientati verso una futura discriminazione, il pensiero torna anche nella Lettera ai romani: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina (...) Al contrario "se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo" (Pr 25,21-22). Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,19-21).
Quando il comando è basato su un'autorità la sua efficacia dipende in larga misura da quanto essa sia riconosciuta. Se la fede in Dio illanguidisce, l'appello all'autorità divina perde efficacia. Lo stesso vale a maggior ragione se non si accredita più al potere divino la capacità di punire. Peraltro la presenza o l'assenza di una componente coercitiva ha una funzione rilevante anche in campo civile.
Per illustrare quest'ambito sono sufficienti pochi riferimenti. Dato l'attuale contesto politico e sociale del nostro paese, il primo esempio da proporre è quasi obbligatoriamente il principio di solidarietà presente nella Costituzione: «La Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
Il principio costituzionale è, per definizione, generale e la sua realizzazione è affidata a leggi positive garantite anche dalla presenza di una componente sanzionatoria. Lo scenario diviene perciò più decisamente connotato o dal rispetto o dalla violazione. Rimane il fatto che anche in sede puramente costituzionale ci si muove nell'orizzonte di un'imperatività basata sull'autorità.
Considerazioni in gran parte simili alle precedenti valgano per la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a Parigi il 10 dicembre 1948. Il suo primo articolo recita: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». A distanza di oltre un secolo e mezzo, e avendo alle spalle due guerre mondiali, le parole ora citate rievocano i diritti cardine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità.
Li dispongono però in una successione diversa: due sono collocati sulla tavola dei diritti, uno su quella dei doveri. È una differenza significativa. La fraternità non è un dato di partenza indiscutibile. Non ogni essere umano è mio fratello, ma ogni persona può diventare fratello o sorella se ci si relaziona reciprocamente «in spirito di fraternità». È una dinamica che richiama quanto avviene nel caso dell'amicizia: l'essere amici è una conquista comune.
La più condivisa formulazione dei diritti umani si apre prospettando l'esistenza di un'obbligazione. Libertà e uguaglianza sono situate sì nella sfera dei diritti, ma sono anche collegate a un termine, «dignità», reso necessario dall'avere assistito, nel corso della prima metà del Novecento, a forme senza precedenti di degradazione attuate dall'uomo nei confronti dei propri simili.
L'obbligazione si fonda sulla coscienza, parola innovativa rispetto alle precedenti dichiarazioni dei diritti. Come indicano i dibattiti svoltisi in sede ONU in vista della stesura del documento, qui per coscienza non s'intende la voce interiore che rende manifesta l'esistenza di una legge divina; il termine attesta piuttosto la presenza nelle persone di un «sentimento che altri uomini esistono».[15]
Il dare ascolto all'apertura antropologica verso l'altro dovrebbe portare ad agire in spirito di fratellanza. Accanto alla ragione è quindi chiamato in causa il sentimento, il quale, però, lungi dall'indossare i panni molli della spontaneità, è rivestito da quelli più degni e impegnativi dell'obbligazione. Il principio perciò è enunciato perché la sua stessa formulazione spinga ad agire in un determinato modo. Anche qui dunque si apre l'alternativa legata al rispetto o alla violazione.
La radicale-comune povertà
Ogni essere vivente che viene alla luce non ha scelto di nascere. L'affermazione non patisce smentita. Essa resta salda tanto nel caso di un concepimento naturale quanto di uno conseguito attraverso metodi più o meno accentuatamente artificiali. La nascita precede ogni volizione del soggetto. Questa radicale dipendenza ontologica si prolunga nel fatto che al momento della sua uscita dall'utero materno (per limitarci alla sfera dei mammiferi) ogni essere vivente è radicalmente non autosufficiente.
Il venir abbandonato a se stesso comporterebbe una sicura morte. L'aiutare gli altri è dunque componente costitutiva dell'esistenza di ciascuno. Ognuno, guardando a se stesso, è obbligato a concludere che se è tuttora in vita lo deve al fatto di essere stato aiutato. Soccorrere gli altri è quindi definibile come una specie di «regola d'oro» affermativa («Tutto quello che gli uomini volete facciano a voi, anche voi fatelo a loro» Mt 7,12) radicata nell'esistenza stessa. Dato e non concesso che si possa trascrivere liberamente in questi termini, il detto evangelico che ammonisce di ritornare come bambini (Mt 18,1-4) comporta la riconquista della struttura base dell'esistenza che pone al centro la relazione di aiuto.
La radicale comune povertà della condizione umana è la fonte primaria della solidarietà tra le creature. Papa Francesco, nella prefazione al libro del card. G.L. Mulller Povera per i poveri, scrive: «Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all'economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo "dai nostri beni" (cf. Lc 12,15).
Originariamente l'uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente del bisogno e dell'aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell'impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere "creature": non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere».[16]
Sostenere che gli esseri umani nascono liberi e uguali è una visione astratta o, se si vuole, un'affermazione di principio. Quando si viene alla luce non si è infatti né liberi, né uguali. Nella concretezza dell'esistenza è invece affermabile quanto le dichiarazioni dei diritti e dei doveri di solito non esplicitano: tutti gli esseri umani nascono bisognosi di essere aiutati, perciò l'obbligo di prestarsi reciprocamente aiuto è legge primaria della convivenza umana.
Non dare al male l'ultima parola
Guardando alle esistenze individuali, a quella collettiva, o, ancora più ampiamente, alla storia umana nel suo insieme, non sono pochi coloro che concludono che il tasso di male presente nel mondo è tale e tanto da non poter essere in alcun modo sanato. Si tratta della categoria di persone colloquialmente etichettate come pessimiste. Se portata all'eccesso, la loro posizione si riveste dei panni di una sfiducia radicale negli esseri umani che porta all'inazione propria di chi dichiara che ormai non c'è più nulla da fare.
In realtà, la conclusione, apparentemente coerente e lineare, è ingannevole e contraddittoria. Lo è nella misura in cui toglie al male le stimmate dell'inaccettabilità. Se il negativo entra nell'ambito delle cose che ineluttabilmente capitano, esso diviene, di fatto, normalizzato. In tal caso perde mordente la più concreta definizione di male che lo qualifica come una realtà che è ma che non dovrebbe essere.
«Una realtà che è» è una constatazione, il «non dovrebbe essere» è un giudizio di valore che spinge a prestare aiuto all'altro anche se si è consapevoli tanto della parzialità delle proprie azioni quanto della vastità umanamente irrimediabile del male presente nel mondo. Se collocata nell'ambito che le compete, è proprio l'inaccettabilità del male a ingenerare un senso di solidarietà con chi dal male è colpito.
Per ricorrere a un'espressione alquanto semplificata, si potrebbe sostenere che l'autentico pessimista è una persona attiva ma non soddisfatta. Egli non fa il bene perché gli fa bene, vale a dire non lo compie per sentirsi meglio; al contrario lo attua nella consapevolezza dell'insufficienza del proprio intervento. Se è persona di fede coniugherà questo suo agire con la fiducia (invero spesso messa alla prova) che la salvezza è da Dio e non dagli uomini.
Nei confronti di quell'«altro» costituito dalla terra, questa posizione è stata ben espressa in una dichiarazione di intenti di uno dei padri della coltivazione biologica in Italia, l'uomo di fede Gino Girolomoni: «Io non penso che l'agricoltura biologica salverà il mondo, ma la pratico per non stare dalla parte di chi il mondo lo distrugge».[17]
La scelta di fondo è esattamente quella di non stare dalla parte di chi compie il male; ciò comporta che nel frammento che ci compete ci si senta chiamati a curare le ferite di chi è colpito dal negativo, un atteggiamento che riguarda le persone, gli animali, la terra e le cose, e i prodotti artistici. Nel caso dei manufatti quest'atto rientra sotto la categoria del restauro, mentre quando si tratta di persone il conseguimento più alto è espresso dal termine «consolazione», un atto che non annulla quanto è stato, ma che si impegna a far sì che al negativo non spetti l'ultima parola.
Perché aiutare è difficile
Riprendiamo in conclusione l'argomento da cui siamo partiti. Il peso del «come» è grande. Per essere in grado d'aiutare gli altri occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche.
In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Basti pensare al ruolo riservato alla conoscenza delle leggi e delle procedure burocratiche spesso ignote ai più deboli, oppure alla profonda situazione di disagio che colpisce persone sprovviste di determinate abilità (il ruolo un tempo svolto dal non saper leggere e scrivere trova oggi un parallelo nell'essere privi di abilità informatiche ormai necessarie per lo svolgimento di moltissime pratiche amministrative e finanziarie).
Assunta nel suo complesso la sfera del «come» mina sempre più l'immediatezza dell'aiuto diretto a favore degli altri. Per sapere non basta volere. Non stupisce perciò che in più casi si asserisca che l'aiuto maggiore che si può dare è quello di fare un passo indietro e di lasciar fare a chi ha le competenze adeguate.
È solo apparentemente banale dichiarare che oggi la prima azione che il samaritano avrebbe compiuto lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico sarebbe stata quella di chiamare il 118! Si tratta di atto tanto efficace quanto dotato di scarso coinvolgimento personale che probabilmente anche il sacerdote e il levita avrebbero compiuto. Va da sé che non è proponibile prescindere dalla sfera delle competenze, ma è altrettanto certo che esse tendono, più o meno sottilmente, a far impallidire l'ambito che spetta al coinvolgimento etico personale e a rendere sempre più raro l'incontro profondo tra le persone basato sulla componente spirituale.[18]
Su tutte le motivazioni da noi prese in considerazione pesano delle controindicazioni. La dimensione economica legata all'utile e al vantaggioso è esposta all'incertezza della previsione. Ogni investimento, anche nel senso lato del termine, si proietta nel futuro e quindi ha a che fare con un ambito per definizione incerto.
Anche quando ci si muove sul piano dell'aiuto bisogna tener conto che alcune azioni sono soggette a mutamenti di segno in ragione di avvenimenti imprevisti. In questo campo l'eterogenesi dei fini è più che mai all'ordine del giorno. Ogni progetto è esposto a un rischio non preso in considerazione. Rispetto alla compassione grava tanto il suo essere di frequente legata all'oscillazione degli stati d'animo in cui ci si trova quanto la difficoltà d'affrontare il peso della reiterazione: se il samaritano avesse percorso quotidianamente quella strada e tutte le volte avesse incontrato un uomo ferito non si sarebbe comportato nella maniera descritta dalla parabola.
L'esistenza di un comando va incontro a tutti i disagi legati a un'imperatività eteronoma che si presenta poco coinvolgente, se non è fatta interiormente propria, e fredda e distaccata se eseguita solo per il timore delle conseguenze derivate dalla trasgressione.
Il senso di povertà proprio della non autosufficienza umana è turbato dai momenti in cui gli individui, le società e le nazioni si sentono forti e destinati a dominare; ne consegue che per essi lo sfruttamento risulta una realtà ben più attestata dell'aiuto.
Cercare di capire
L'inaccettabilità del male è esposta al rischio di scivolare, a poco a poco, nella rassegnazione o ancor più precisamente nell'accidia, parola di uso ormai raro, ma imparentata con il termine frequentissimo d'indifferenza. Quanto la distingue da quest'ultima è soprattutto il fatto che l'indifferenza riguarda in genere gli altri, mentre l'accidia coinvolge anche se stessi.
Che nell'etimo di «accidia» l'«a» iniziale sia un alfa privativo appare scontato. L'attenzione va quindi riservata all'altra parte del sostantivo: alle sue spalle c'è kedos «cura», «sollecitudine», «pensiero» ma anche «affanno». L'accidia è l' alter ego cupo e spento della spensieratezza. C'è chi non si cura di sé e degli altri perché vive con leggerezza senza lasciarsi turbare né dal proprio domani, né dal doloroso oggi altrui.
Di contro, c'è chi vive alla giornata con spossata stanchezza perché la sua triste condizione gli appare un muro invalicabile privo di futuro; la sua indifferenza alla vita è un fuoco spento che nessun aiuto altrui può ormai riaccendere.
Più del malinconico, l'accidioso ha perduto il gusto della vita; per l'uno e per l'altro ciò è avvenuto senza un motivo preciso. Chi è preda dell'accidia è avvolto da una cupezza rancorosa contro tutto e tutti, a iniziare da se stesso. L'accidia è la declinazione in chiave morale di una depressione valutata all'insegna del vizio e non già della malattia. In ciò sta forse la ragione per la quale oggi la depressione riempie la scena, mentre l'accidia è rintanata dietro le quinte.
Un fattore che si presenta come un ostacolo, oggi forse il più rilevante, rispetto all'aiuto da prestare agli altri è costituito dalla paura. Stato d'animo complesso ma, nella sostanza, in larga misura riconducibile all'attesa, conscia o inconscia, di un danno che altri ci possono arrecare. In effetti ciò riguarda a volte anche noi stessi.
Abbiamo paura dei nostri sentimenti e dei nostri desideri, di quello che potremmo compiere, sperimentiamo la sensazione di non avere risorse sufficienti per affrontare l'ostacolo con cui ci si deve confrontare (banalmente: «Ho paura di non farcela») e così via. In relazione agli altri si paventa un danno che un'entità, di frequente non ben conosciuta, potrebbe arrecare a noi stessi, ai nostri cari, alle nostre risorse, ai nostri beni, al nostro stile di vita, alle nostre fonti di reddito, alla nostra tranquillità e via dicendo.
Anche questa volta l'area di riferimento può essere individuale, relativa a un gruppo ristretto o ampia fino a comprendere intere nazioni. Una delle condizioni indispensabili per aiutare gli altri perciò è di vincere la paura, operazione non semplice in quanto coinvolge nel profondo individui e collettività. Essa poi diviene ancora più ardua in un tempo come il nostro dominato dall'incertezza nei confronti del futuro.
In ogni caso una delle risorse più efficaci per contrastare la paura è vivere sulla scorta di quello che Hannah Arendt considerava il massimo imperativo etico: cercare di capire. Non basta, ma è comunque un passo in avanti di notevole spessore.
* L'articolo riprende e sviluppa i temi presentati in una conferenza tenuta presso la parrocchia San Camillo De Lellis di Chieti il 20.11.2018.
NOTE
1 A. GENOVESI, Autobiografia, lettere e altri scritti: Opere scelte, a cura di G. SAVARESE, Feltrinelli, Milano 1963, 449.
2 Cf. A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, A. Millar, in the Strand, and A. Kincaid and J. Bell, in Edinburgh, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995).'
3 Cf. L. BRUNI, S. ZAMAGNI, L'economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.
4 D. HUME, A Treatise of human nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning finto moral subjects, 3: Of morals, Thomas Longman, at the Ship, London 1740 (trad. it. Trattato sulla natura umana, introduzione, traduzione e note di P. GUGLIELMONI, Bompiani, Milano 2001).
Cf. B.L. FREDRICKSON, Positivity. Groundbreaking research reveals how to embrace the hidden strength of positive emotions, overcome negativity, and thrive, Crown, New York 2009.
6 J.S. Utilitarianism, Longman, Green, Longman, Roberts, and Green, Londra 1864 (trad. it L'utilitarismo, Sugarco, Milano 1992, qui 33).
7 Cf. P. STEFANI, «Religioni-società: lo spirito dei diritti», in Regno-att. 22,2005,735; V. TALAMO (a cura di), Samyuttanikaya. Discorsi a gruppi, Ubaldini, Roma 1998.
8 A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Edizioni di Comunità, Milano 21965, 325.
9 P. STEFANI, «Il pianto di Mosè. È per rinascere che siamo nati», in Regno-att. 22,2018,693.
10 Forse può avere qualche significato constatare che il dottore della Legge, nella sua risposta conclusiva, usa eleos senza richiamarsi a splagchnizomai.
11 Cf. T. RADCLIFF'E, «Non passare oltre» in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, EDB, Bologna 2003, 137.
12 Cf. F. GIAMPICCOLI, Henri Dunant. Il fondatore della Croce Rossa, Claudiana, Torino 2009.
13 Cf. P. STEFANI, «Ama l'immigrato. È come te stesso», in Regno-att. 10,2015,705.
14 Sia pure in un italiano involuto, il punto è stato colto dalla seicentesca traduzione italiana del Diodati: «Se tu vedi l'asino di colui che ti odia giacer sotto il suo carico, mentre tu ti rimani di aiutarlo a farglielo andare oltre, del tutto fa' con lui sì che possa andare oltre». Su questa linea si attesta anche la King James: «If thou see the ass of him that hateth thee lying under his burden, and wouldest forbear to help him, thou shalt surely help with hinv›.
15 Cf. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995, 90.93-97.
16 FRANCESCO, «Prefazione» a G. MULLER, Povera per i poveri. La missione della Chiesa, a cura di P. Azzaro, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, 8s.
17 M. ORLANDI, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, EMI, Bologna 2014, 123: cf. Regno-att. 20,2014,725.
18 Il tema della deresponsabilizzazione personale a fronte delle crescenti competenze sociali è stato affrontato più volte, da par suo, da Ivan Illich: cf. per esempio I. Tuffai, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2008; cf. Regno-att., 20,2008,683.
(FONTE: Il Regno 2/2019, pp. 51-60)
Trascendenza
Paolo Zini
Nel pensiero occidentale il termine trascendenza gode di un autentico rilievo sintomatico, per la plurivocità di semantizzazioni che ha saputo condensare, quasi ricapitolandovi i tornanti fondamentali di un’articolata storia della teoresi e del costume.
I referenti privilegiati del termine hanno visto succedersi l’oltremondanità noetico-metafisica nella filosofia classica, il principio soteriologico e il destino escatologico della storia nella filosofia medioevale, i canoni regolativi dell’impresa civile e politica nell’umanesimo, l’inviolabilità della dignità soggettiva nella modernità illuministica e l’ideale della realizzazione del sé nella postmodernità.
A dispetto dell’eccesso di schematizzazione che pare implicato in tale sequenza, le figure di trascendenza che vi si profilano tracciano una parabola che, per il suo valore euristico, potrebbe essere di qualche utilità considerare.
L’abrasività degli aforismi nietzschiani - che restituiscono lo sviluppo del pensiero occidentale attraverso i canoni investigativi di una rigorosa eziopatogenesi - non esita a identificare nel platonismo un’ossessione per la trascendenza, origine ultima di quel vilipendio etico-religioso della vita che avrebbe trovato in secoli di filosofia la propria legittimazione teorica.
Il carattere discutibile dell’ermeneutica nietzschiana non può impedire di riconoscervi un’intuizione pertinente, circa la solidità del vincolo che annoda, nella filosofia occidentale, i destini dell’umano alle forme di identificazione e di ossequio alla trascendenza.
Con Platone – di nuovo il convincimento di Nietzsche qui è irrefutabile - l’istanza metafisica non diviene semplicemente prescrittiva relativamente ad una particolare deontologia della conoscenza, ma giunge ad ispirare una vera e propria assiologia epistemologica, che sancisce per quindici secoli la primazialità cognitiva del sapere circa la trascendenza delle cause ultime.
Il convenire dell’apertura dell’intelligenza umana e dell’intelligibilità ultima del reale definisce un segmento di consostanzialità ontologica e gnoseologica che decide la singolarità personale e discrimina la dignità della sua vocazione storica; sono istruttive al riguardo le parole solenni di Socrate nel Fedone: “Qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano, né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme. Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri, ebbene, vuoi che ti esponga, o Cebete, la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?” (Platone, 2001, 99d).
Con l’avvento del cristianesimo l’identificazione greca della trascendenza ed i suoi riflessi sull’autoidentificazione dell’umano conoscono una trascrizione soteriologica di impatto culturale e civile decisivo. Principio gnoseologico risolutivo per la competenza dell’umano circa la contraddizione storica dell’esistere è la Rivelazione, alla cui luce l’uomo conosce la misura della propria precarietà cognitiva ma pure le ragioni del proprio riscatto e della propria speranza. Alla bios theoretikos della tradizione greca, quale forma dell’esistere dell’umano riuscito, subentra la fede, quale abito intellettuale e volitivo acceso dall’obbedienza all’anticipazione pasquale del destino escatologico della storia. Corrispondentemente, alla trascendenza greca del logos, che eroga consistenza ontologica al cosmo e supera il carattere aporetico della contingenza storica dell’ente, subentra la trascendenza del Verbo, che vince le tenebre dell’ignoranza e della morte e inaugura l’attesa del giudizio escatologico che compirà la trasfigurazione trinitaria della storia. L’identificazione cristiana della trascendenza diventa principio di rideterminazione teologale dell’esistenza all’intersezione di un dono e di un compito che rivelano alla libertà la sua provenienza ed il suo destino.
Ben documentano la potenza della riqualificazione soteriologica della storia da parte dell’evento cristiano le parole di un’opera di Anselmo d’Aosta che così illustra la verità dell’esistere alla luce della fede: “Quale condotta più misericordiosa si può infatti riconoscere di quella del Padre, il quale, al peccatore condannato ai tormenti eterni e privo di quanto potrebbe salvarlo, dice: «Prendi il mio Unigenito e offrilo per te», e il Figlio da parte sua: «Prendi me e redimi te»? Questo dicono in qualche modo, quando ci chiamano e ci attirano alla fede cristiana” (Anselmo d’Aosta, 2007, II.20).
La Stimmung rinascimentale, accreditata da una singolare incisività culturale, revoca alcune fondamentali premesse cristiane della civiltà medioevale; l’osservatorio che consente di registrare la radicalità del cambiamento è quello della disciplina della convivenza civile in ordine alla quale il machiavellismo politico può essere icasticamente riconosciuto come laboratorio di una risemantizzazione della nozione di trascendenza. Il realismo del Principe descritto da Machiavelli, obliterando le giustificazioni metafisiche ed oltremondane del patto civile e della sua tutela istituzionale, svela - attraverso l’autoreferenzialità della ragione politica e il culto antiprovvidenzialistico dell’occasione che tesaurizza l’eccentricità della fortuna - l’assolutizzazione dell’orizzonte mondano quale pertinenza antropologica. In tale orizzonte rigorosamente storico ha un ruolo fondamentale l’eminenza antropologica, che si legittima per riferimento alla trascendenza non più della ragione metafisica dei fini, ma dell’astuzia opportunistica dei mezzi.
La soggettività nata dall’Umanesimo non considera dimidiato il proprio pregio per l’estraneità alle coordinate protologiche ed escatologiche che nella rivelazione cristiana la vedevano eletta a senso del cosmo meritevole il Sacrificio di Dio e la definitività di un destino eterno, piuttosto avverte l’ebbrezza della propria vocazione al dominio storico entro il quale celebra la sua assolutezza. La misura angusta ed immanente di una mondanità che trae da sé le forme della propria disciplina emerge con chiarezza inequivoca dalla deontologia politica del Principe di Machiavelli: “Resta ora a vedere quali devono essere i modi e governi d’un Principe con li sudditi e con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito scrivendone ancor io, non essere tenuto presuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma, essendo l'intento mio scriver cosa utile a chi l’intende, m’è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa: e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverria fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua” (Niccolò Machiavelli, 1858, XV).
Con la modernità illuminista il senso della trascendenza soggettiva, che l’Umanesimo insieme assegna ed affranca dal corso naturale degli eventi per inaugurare nella storia il protagonismo civile, si palesa come coscienza dell’autonomia della ragione e del potere di autodeterminazione della libertà. Il progetto kantiano è, da questo punto di vista, emblematico: la dignità dell’uomo non risiede nella capacità della sua intelligenza di riconoscere ultimativamente il principio trascendente del logos intrinseco alla realtà quale fonte di disciplina morale; piuttosto, il rigoroso ed esclusivo convenire di ragione e libertà nell’autonomia soggettiva subordina, al progetto della solitaria edificazione di sé, senso e valore dell’impresa civile e della sua eventuale referenza religiosa. È la trascendenza della differenza razionale dell’umano, identificata con il suo importo critico, rispetto ad ogni indigenza materiale, ad ogni prescrizione civile e ad ogni sentimento religioso, il fondamento di ogni prescrizione e legittimazione di senso. Le parole di Kant relative allo spirito illuministico sono molto precise: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo. Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. […] Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro. […] A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi” (Kant, 1783).
Con la temperie postilluminista, nella quale viviamo, l’estenuazione del rilievo socioculturale della trascendenza oltremondana conosce, forse a dispetto di numerose apparenze contrarie, la sua radicalizzazione. Non devono infatti ingannare il cosiddetto sacro di ritorno o la sovradeterminazione rituale e pseudoreligiosa dell’esistere cui si dirigono nostalgie individuali e collettive della società dei consumi. Oggetto di sacralizzazione pare infatti essere un ideale del sé caratterizzato da un’omeostasi assoluta, raggiunta attraverso la soddisfazione consumistica dei bisogni e l’esorcizzazione tecnica, mediatica e medica della sofferenza.
La fortunata espressione di Charles Taylor, che caratterizza il nostro tempo come età secolare, rimarca la filigrana immanentistica della figura di trascendenza cui l’uomo postilluminista riserva il proprio culto, annodandovi le costellazioni di significati deputate ad orientare l’esistere.
A caratterizzare, di riflesso, il tipo umano rappresentativo delle convivenze occidentali della contemporaneità, secondo Taylor, sarebbe l’identità schermata, esito di un processo di natura antropocentrica e solipsistica innescato dal senso di superiorità del soggetto sul mondo, dall’intensità di un nuovo rapporto della soggettività con se stessa e da una radicale reversibilità imposta dalla sua libertà ad ogni forma di vincolo con altri: “Quali erano (e sono) i vantaggi di questa identità schermata, antropocentrica? Le sue attrattive sono piuttosto ovvie, almeno per noi. Un senso di potere, di idoneità, derivante dalla capacità di dare ordine al proprio mondo e a se stessi. E, nella misura in cui tale potere era legato alla ragione e alla scienza, anche il senso di aver fatto grandi progressi in termini di conoscenza e comprensione. Oltre al potere e alla ragione, questo antropocentrismo presentava però anche un altro vantaggio notevole: un senso d’invulnerabilità. Vivendo in un mondo disincantato, il sé schermato non è più aperto, esposto a un mondo di spiriti e forze che attraversano il confine della mente e negano, perciò l’idea stessa dell’esistenza di un confine certo. Le paure, le ansie, persino i terrori che caratterizzano il sé poroso sono ormai alle spalle. Questo senso di padronanza di sé, di uno spazio mentale interiore sicuro, risulta ancora più forte, se oltre al disincanto del mondo abbiamo anche intrapreso la svolta antropocentrica e non facciamo più affidamento sul potere di Dio” (Taylor, 2009, p. 383).
Il prezzo però dell’identità schermata, retaggio di una trascrizione immanentistica di ogni trascendenza e di ogni differenza, pare sortire effetti autistici, che l’indagine di Taylor rimarca in modo tagliente: “L’identità schermata è profondamente ancorata nel nostro ordine sociale, nel nostro radicamento nel tempo secolare, nelle discipline distaccate di cui ci siamo fatti carico. Questo ancoraggio garantisce la nostra invulnerabilità, ma può essere vissuto anche come un limite, persino come una prigione, che ci rende ciechi o insensibili a tutto ciò che si trova al di là di tale mondo umano ben ordinato e ai suoi progetti razionali in senso strumentale. Può così facilmente diffondersi l’idea che ci manchi qualcosa, che le nostre vite siano tagliate fuori da qualcosa, come se vivessimo dietro uno specchio” (Taylor, 2009, p. 384).
Se la parabola tracciata nomina le figure di trascendenza divenute ispiratrici dei processi di costituzione e giustificazione degli assetti epistemologici, politici e civili del costume oggi dominanti, va nondimeno riconosciuto che numerose voci continuano a richiamare l’importanza di una diversa elaborazione del vincolo della coscienza all’ulteriorità oltremondana come condizione impreteribile di esercizio nobile della libertà.
Nel panorama culturale contemporaneo non mancano poi diagnosi che attribuiscono il disorientamento postmoderno e il tratto depressivo del suo approccio all’esistere proprio all’immanentizzazione soggettivistica di ogni trascendenza: “La nostra civiltà è la prima che si crede immortale, mentre forse è semplicemente la prima alla quale manchi un consapevole sentimento di limitazione. […] Eppure, fagocitando ogni rispetto del limite assieme a quello per dio e per la morte, la nostra civiltà sembra quasi aver seguito un cammino opposto e regressivo. […] La sua laicizzazione non è stata solo adeguamento a nuove regole esterne, ma metamorfosi interiore e trasmutazione dell’anima in luogo così complesso da farsi sempre più difficilmente esprimibile. Se dio è stato rimosso dai cieli e incorporato sotto forma di aspirazioni come lui infinite, anche la morte, allontanata dagli occhi, si riaffaccia all’interno dei soggetti travestita da depressione non razionalmente motivabile. Il nucleo di tale ripiegamento dello slancio vitale è una colpa assoluta, priva di motivi visibili, cui corrisponde un vissuto di insufficiente giustificazione dell’esistere” (Zoja, 2004, pp. 209-210).
I riflessi preoccupanti della seduzione immanentistica tipicamente occidentale suggeriscono forse di prestare attenzione a quegli autori impegnati a stigmatizzare la ridefinizione antropocentrica della trascendenza che la libertà finita vorrebbe ridurre a riflesso del proprio narcisismo.
Tra questi autori si segnala Levinas, la cui proposta speculativa è una rigorosa declinazione dell’assunto circa il carattere antropologicamente genetico della Trascendenza come Alterità e dell’Alterità come Trascendenza.
“Al di là della fame che si può saziare, della sete che si può calmare e dei sensi che si possono appagare, esiste l’Altro, assolutamente altro, che si desidera oltre queste soddisfazioni, senza che il corpo conosca alcun gesto per appagare il Desiderio, senza che sia possibile inventare una nuova carezza. Desiderio insaziabile, non perché corrisponda a una fame infinita, ma perché non reclama alcun nutrimento. Desiderio senza soddisfazione, che, proprio per questo, prende atto dell’alterità dell’Altro (Altrui) e la colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell’essere” (Levinas, 1989, p. 42).
Levinas ritiene sia compito urgente della filosofia ripensare il realismo della libertà riconoscendovi tanto un’insuperabile serietà storica quanto un’indigenza radicale che interdice all’umano ogni illusione autarchica e prometeica. Forse la provocazione di Levinas potrebbe sostenere una riformulazione dell’interrogativo circa l’origine trascendente del senso che nutre la libertà autorizzandone l’esercizio ed animando la reciprocità della dedizione interumana. Tale interrogativo potrebbe essere posto in ossequio ai guadagni dell’umanesimo e della modernità circa il valore dell’emancipazione civile, dell’autonomia della ragione, della fecondità culturale della libertà; non da tale ossequio viene infatti la necessità di una liquidazione della trascendenza che invece esibisce la persuasività della propria assolutezza mentre assicura tutela all’umano divenuto consapevole del prezzo e del pregio del cimento della propria libertà.
Nessuna coscienza soggettiva potrebbe essere definitivamente all’altezza delle severe esigenze del proprio compito quando patisse senza possibilità d’appello il giudizio della disperante potenza erosiva del tempo; sono sempre gli indizi e i simboli storici della trascendenza del senso e del senso della trascendenza ad erogare alla libertà insieme alle ragioni della propria speranza la coscienza della propria serietà e dignità.
Bibliografia
Anselmo d’Aosta (A. Orazzo ed.), Perché un Dio Uomo? Lettera sull’incarnazione del Verbo, Città Nuova, Roma 2007.
I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo, 1783, reperibile on-line al sito <http://bfp.sp.unipi.it/classici/illu.html> (visitato il 29.12.2011).
E. Levinas, La filosofia e l’idea dell’infinito, in E. Levinas - A. Peperzak (F. Ciaramelli ed.), Etica come filosofia prima, Guerini e Associati, Milano 1989, 31-46.
N. Machiavelli, Il Principe, in Id., Opere complete, II voll., Libreria di Francesco San Vito, Milano 1858.
Platone (G. Reale ed.), Fedone (Il pensiero filosofico), La Scuola, Brescia 200119.
Ch. Taylor (P. Costa ed.), L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009
L. Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Bergamo 20042.
Fedeltà
Carlo Molari
Essere fedeli è un esercizio di fede continuato nel tempo.
Fedele è colui che è costante nella dedizione e nell'amore, che mantiene la parola data, che trasmette senza deformazioni i doni ricevuti, che segue anche nei momenti difficili gli ideali ritenuti autentici.
Tutti siamo pronti a fare propositi, ad assumere impegni, ad enunciare promesse. Ma raramente siamo costanti nella loro attuazione. Perché troppo spesso le ragioni reali delle nostre scelte non corrispondono ai valori che pensiamo o diciamo di seguire.
Esaminiamo un esempio concreto. L'impegno che una persona assume nel matrimonio è di volere il bene del coniuge e dei figli, di farli crescere con la propria dedizione.
Molto spesso però le ragioni vere della promessa sono diverse: o l'attrattiva fisica e quindi il piacere, o la volontà di sistemarsi e quindi il proprio interesse, o la fuga da casa e quindi la propria libertà, o la ricchezza, e quindi il proprio benessere, o altro ancora.
Quando l'oggetto reale della scelta matrimoniale non coincide con il bene altrui l'infedeltà all'impegno preso prima o poi si manifesta. Essa in realtà caratterizza fin dall'inizio il rapporto ma resta mascherata finché non è messa alla prova.
Lo stesso può dirsi di tutti gli impegni umani: di lavoro, di amicizia, di famiglia, di sport, di appartenenza a una comunità civile. Tutti richiedono fedeltà non solo nei comportamenti, ma pure nelle ragioni che li ispirano.
La ricchezza di una comunità si regge sul grado di fedeltà che vi circola, oltreché sull'autenticità degli ideali proclamati.
È urgente che siano sempre più numerosi coloro che per fedeltà alla vita sappiano piegare il loro egoismo, vincere i loro istinti di possesso esclusivo, creare nuovi modelli di condivisione e di solidarietà.
Se vogliamo che la vita si sviluppi proviamoci tutti, amici, a essere oggi fedeli agli ideali in cuí crediamo: nelle piccole cose, nelle scelte di ogni momento.
La fedeltà non si misura dalla eccezionalità degli atti che compiamo, ma dalla adesione totale alle ragioni che li ispirano. Essa può essere incondizionata anche in un minimo gesto di amore.
Una giornata degna dell'uomo è sempre scandita da gesti di fedeltà.
Fede
Carlo Molari
Non c'è uomo, infatti, che non abbia una fede, se riesce a vivere.
Per fede si intende quel complesso di ideali che ispirano le nostre scelte e orientano tutta l'esistenza.
Ognuno di noi per vivere deve necessariamente formulare progetti, percorrere cammini ignoti, rinnovare impegni. Ma per farlo è necessario che si riferisca a valori accolti senza riserve, che abbracci ideali non ancora pienamente verificati, che eserciti una fede.
E ciò avviene inizialmente sempre sotto l'influsso di testimoni: dei genitori, degli amici, dell'ambiente sociale.
Ma per tutti deve giungere il momento in cui le scelte, compiute per testimonianza di altri, diventano soggettive, coinvolgono cioè senza riserve la persona intera e ne orientano l'esistenza.
Finché ciò non avviene, la vita si svolgerà tra entusiasmi ed incertezze, risposte e rifiuti, speranze e delusioni.
Senza ideali personalmente accolti la vita è frammentaria e inquieta, si svolge in balia degli eventi e dell'ambiente.
Ci sono due tipi diversi di fede: quello ateo e quello religioso.
La fede religiosa si differenzia per il fatto che il complesso dei valori abbracciati sono creduti presenti e pienamente realizzati in Dio.
La fede atea invece si esercita verso valori creduti al futuro. Si crede a una società da realizzare, a un programma che porterà felicità o ricchezza, a un avvenire migliore che rende sopportabile un penoso presente.
La differenza è molto rilevante ma praticamente non ha spesso incidenza perché, anche se molti sono convinti che Dio esista, sono pochi quelli che vivono la fede in Dio, cioè che prendono le loro decisioni nella 'propria vita perché si fidano di Lui, che vogliono il Bene anche quando non c'è nessun'altra ragione di amare se non il fatto che confidano in un Bene già presente e a disposizione dell'uomo. E così ricercano la Verità, si impegnano per la Giustizia, credono nella Vita.
Proviamo oggi a compiere anche un solo gesto per fede, abbandonandoci senza riserve al Bene che ci sollecita ad amare, alla Verità che vuole esprimersi attraverso noi, alla Vita che vuole tradursi in forme nuove. Forse inizieremo un nuovo modo di esistere. E soprattutto scopriremo che cosa significhi aver fede in Dio.
Amicizia
Carlo Molari
L'amicizia è una di quelle parole che ciascuno usa secondo la propria esperienza. Ma come di tutte le cose preziose, anche dell'amicizia circolano molti falsi, spesso inconsapevoli.
Prima di essere un rapporto, l'amicizia è un atteggiamento interiore, è un modo di essere persone, è una maniera di incontrare altri. Quando, crescendo, una persona avverte l'esigenza di allargare i suoi rapporti, porta dentro di sé una sete profonda dí possesso, una cronica insufficienza vitale. Sicché i primi rapporti che stabilisce sono caratterizzati da una tipica esigenza di disporre degli altri a proprio favore. Non sa ancora dire: io ti voglio bene, ma solamente: io ti voglio.
La differenza non è secondaria, anzi è molto profonda. Chi dice « io ti voglio » o « tu sei mio », dichiara una volontà di possesso distante dall'amicizia come la brezza dell'alba nelle montagne lo è dall'asfissiante caldo dei tropici. Solamente chi sa dire realmente « io ti voglio bene », cioè voglio per te un bene che ancora non possiedi, ed è disposto a offrire il suo tempo, le sue conoscenze, il suo impegno, la sua vita perché possa acquisirlo, solamente costui sa percorrere i sentieri dell'amicizia.
L'amore nasce come forza obbligata e come stato di necessità. Solo quando fiorisce come scelta gratuita e capacità di offerta, solo quando si traduce in gesti di delicata attenzione, di premurosa cura, di rispetto generoso, acquisisce i tratti dell'amicizia.
L'amicizia è la perfezione dei rapporti amorosi, è la gratuità delle relazioni, la disponibilità integrale alla presenza altrui.
Anche fra due coniugi, come fra genitori e figli, o fra compagni di lavoro, il rapporto, in qualsiasi modo sia nato, finché non fiorisce in amicizia, è carente e facilmente si consuma. La ricchezza umana di una società si misura dal grado di amicizia che caratterizza i rapporti medi delle persone. Una comunità guidata dall'interesse, o dall'arrivismo non è sana e prima o poi viene dilaniata dalla violenza che ha coltivato nel suo seno.
Proviamo oggi, amici, a rivedere i rapporti che viviamo. Non diamo per scontato nessun amore che proviamo. Esso esige di fiorire in forme di amicizia. Programmiamo un gesto gratuito che abbia come unica ragione il Bene che diciamo di volere agli altri.
Questa sera ci ritroveremo tra le mani in modo insospettato il dono che abbiamo fatto.
Tenerezza
Carlo Molari
Non solo la vita individuale acquista caratteristiche diverse secondo la maturazione raggiunta, ma anche l'umanità intera, i popoli hanno stili diversi di esistenza secondo la ricchezza umana acquisita.
In altri millenni, ad esempio, la forza fisica era considerata una qualità superiore e le arti marziali erano le più stimate in molte società. Ci sono voluti millenni per comprendere che queste concezioni riflettevano situazioni ancora infantili di esistenza, immaturità psicologica, inconsistenza interiore.
Allo stesso modo le forme di associazione e di convivenza nelle diverse società hanno assunto forme varie secondo la progressiva maturazione personale.
Le organizzazioni mafiose o la contrapposizione radicale di clan o di gruppi sociali riflettono ancora modalità di esistenza del passato, caratterizzate dalla violenza e dall'incapacità di rispetto altrui.
Una virtù segna oggi il discriminante della maturazione storica dell'umanità: è la tenerezza. Disprezzata in altri tempi, oggi assume una funzione fondamentale nella impostazione dei rapporti e nello sviluppo della comunità. Per questo le forme di crudeltà nei confronti dei fanciulli o il disprezzo dei più deboli oggi suscitano reazioni sempre più ampie.
Non sono certo scomparse le forme di crudeltà, perché ogni uomo comincia da capo il suo cammino e non sempre raggiunge le forme acquisite dal progresso storico. Ogni generazione che nasce ha un cammino più lungo da percorrere prima di assestarsi come generazione adulta nel suo tempo. Vi saranno sempre quindi uomini immaturi o gruppi che assumono ancora atteggiamenti tipici di altri secoli o di fasi più remote di esistenza umana.
Anche oggi vi sono persone che, quando entrano in un ambiente, lo devastano con la loro presenza. Schiacciano i più deboli, offendono i più forti, disprezzano chi ha qualità che essi non possiedono. Ma non sono certo questi gli uomini che fanno la storia anche se riempiono la cronaca dei nostri giornali.
La forma attuale di esistenza è caratterizzata dalla capacità di tenerezza.
È la delicatezza del contatto, è il rispetto nell'incontro, è la sensibilità per la crescita altrui. È l'accettazione dei limiti e dei difetti, è il riserbo di fronte al mistero degli altri, è l'attenzione per la sua sofferenza.
Proviamoci oggi a rivedere i nostri comportamenti. Chiediamoci quale gesto delicato di tenerezza possiamo compiere. Solo piccoli gesti quotidiani possono alla lunga modificare un ambiente.
Esperienza di Dio
Carlo Molari
Il novanta per cento delle conoscenze che oggi noi abbiamo sono diverse da quelle dei nostri antenati, e la stragrande maggioranza di esse sono acquisizioni di questo ultimo secolo. In un sessantennio l'umanità ha accumulato più conoscenze che in tutta la sua storia precedente. Ciò evidentemente ha influito anche sul modo di pensare a Dio e di interpretare la sua azione nel mondo.
Nei secoli scorsi si pensava a Dio come a un architetto dell'universo che interveniva nello sviluppo della creazione, modificava gli eventi, aggiungeva energia vitale, correggeva gli errori degli uomini. Tale modo di pensare è apparso infantile e contraddittorio. Come creatore Dio non opera allo stesso modo delle creature che « intervengono » accanto alle altre per dare forza o sostenere nelle difficoltà. Come creatore Dio opera all'interno della realtà, non fa le cose ma fa che le cose si facciano. È oggi convinzione comune che per pensare rettamente a Dio non si debba mai ricorrere a interventi superiori per spiegare eventi che accadono nell'universo. Questi hanno sempre una causa adeguata nella creazione.
Per l'uomo la scoperta di Dio non avviene nel frastuono di eventi straordinari, ma nella trasparenza della sua interiorità. Solo attraverso questa esperienza anche gli eventi della storia manifestano significati reconditi e i fenomeni della creazione diventano luminosi.
Solo quando giunge al liminare del suo spirito l'uomo coglie la forza di vita che gli perviene, l'amore che lo avvolge, la verità che lo chiama. Voglio portare una semplice analogia: che cosa sa il feto nel seno della madre dell'amore che lo anima e della forza che gli perviene? Eppure qualcuno lo sostiene e un'amore gli comunica energia.
Amici, la nostra vita non ha in se stessa la ragione di ciò che è. Noi non sappiamo esattamente in che cosa essa consista, ma quando viviamo con fedeltà e accogliamo senza riserve le sue tensioni, percepiamo che la vita è fondata. Così come quando incontriamo qualcuno che ha colto il segreto della vita e lo incarna, avvertiamo che essa non è un gioco delle circostanze, ma il fiorire di un amore.
I diversi nomi con cui gli uomini nella lunga storia hanno espresso questa esperienza sono relativi. L'essenziale è la certezza della sua presenza.
Trascendenza
dell'uomo
Carlo Molari
Ho esaminato nei giorni scorsi due componenti fondamentali dell'esperienza umana che ogni religione cerca di interpretare: la condizione di creatura e la chiamata alla morte.
Oggi vorrei continuare questa analisi con l'esame di un'altra componente dell'esperienza religiosa. Essa potrebbe essere descritta così: nessuna situazione, nessuna persona, nessuna cosa risponde interamente alla tensione di vita che ogni uomo porta con sé.
Spesso ci siamo illusi (credo che prima o poi tutti lo abbiamo fatto), ci siamo illusi, dicevo, che raggiunta una situazione, realizzato un progetto, terminata un'impresa i nostri desideri si sarebbero definitivamente acquietati. Invece ciò che prima poteva sembrare definitivo, poco alla volta è apparso provvisorio e insufficiente. Il nostro cuore è diventato più grande delle persone incontrate, le nostre speranze più esigenti delle promesse realizzate. Noi siamo apparsi sempre emergenti da tutte le situazioni nelle quali ci siamo venuti a trovare.
Ma perché questo accade? È una malattia mortale dell'uomo che, prima o poi, verrà cancellato dalla faccia della terra « come sull'orlo del mare un volto di sabbia » (M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 414), o è l'indicazione di una speranza non realizzata?
È una pazzia ingenita che esploderà con il fragore di bombe micidiali? O è l'espressione di una chiamata a una grandezza senza misura? L'amore dell'uomo è suscitato dai beni che incontra ó da un Bene che non ha riscontri? La ricerca della verità è stimolata dalle piccole scoperte di ogni giorno o da una voce profonda che ripete echi di eternità? L'esigenza di giustizia è tutta racchiusa nei precari progetti della sua storia o è riflesso di un progetto che la storia non può contenere ma solamente prefigurare? La morte dell'uomo è il compimento di un cammino concluso o l'annuncio di una promessa da realizzare?
Attorno a queste domande si gioca il valore delle scelte quotidiane. La risposta non può venire dal cielo ma dal profondo della storia. Noi avvertiamo una chiamata a essere più grandi di quello che siamo in ogni tappa della nostra vita.
Prendere coscienza di questo fatto è la condizione per non sbagliare mira, per non assolutizzare quello che è precario, per non erigere idoli sugli altari delle nostre strade.
Anche oggi saremo tentati di farlo e ad ognuno sarà concesso di crescere come persona se risponderà alle piccole richieste della vita. Non tradiamola.
Fondamento dell'esistenza
Carlo Molari
Nei giorni scorsi ho esaminato alcuni elementi dell'esperienza religiosa, come accoglienza gioiosa della condizione dell'uomo: dipendente in tutto, chiamato alla morte come al suo compimento, mai soddisfatto di ciò che la vita gli offre. Terminavo con un interrogativo che ci porta al cuore del mistero dell'uomo: qual è la ragione della sua continua tensione? È una malattia mortale da eliminare al più presto o è la faticosa risposta a una chiamata sensata? È una forma di pazzia inguaribile o la conseguenza di una grandezza non ancora raggiunta? L'uomo risponde a una chiamata o affannosamente arranca per un cammino che non ha traccia e non avrà mai traguardo? In una parola, l'esistenza dell'uomo ha un fondamento o è sospesa nel vuoto?
La risposta a queste domande nasce dal profondo della storia umana e può scaturire dall'esperienza di ogni persona.
Nasce dall'esperienza perché non bastano le parole a farla scoprire. Viene dalla storia perché nessun uomo basta a se stesso: egli deve avere riferimenti sicuri già consolidati dalla verifica di generazioni.
Solo quando, attraverso gesti di un amore non interessato, si aprono orizzonti nuovi all'esistenza, si capisce senza ombra di dubbio che il Bene fonda la nostra vita. Solo quando fidandoci della Giustizia compiamo le nostre scelte con rigorosa onestà siamo in grado di cogliere il senso del nostro cammino. Solo quando abbandonandoci alla verità, superiamo compromessi ed evitiamo inganni, sperimentiamo con evidenza che la nostra ricerca ha una ragione reale.
Che la vita umana sia fondata, abbia cioè una ragione, non lo si può dimostrare argomentando ma lo si può scoprire nella profondità della propria esperienza intrapresa per l'influenza di una tradizione storica e lo si può mostrare agli altri nelle scoperte vitali compiute.
Non ci sono alternative praticabili.
Il valore di una religione sta appunto nella ricchezza della tradizione che può richiamare, nella validità delle esperienze che può offrire. Ogni rito religioso richiama figure di testimoni e invita a una verifica vitale.
Ma ogni situazione quotidiana può consentire questa scoperta: è sufficiente avere riferimenti ideali chiari per viverla intensamente cogliendo a piene mani ciò che essa offre.
È possibile anche oggi amici fare un'esperienza religiosa, scoprire cioè che la vita ha un solido fondamento. Che non siamo sospesi nel vuoto, ma siamo avvolti d'amore
La formazione della coscienza
Carlo Molari
Straordinaria facoltà dell'uomo è la coscienza.
Con questo termine indichiamo la capacità di giudicare il bene e il male della nostra vita. Prima di ogni nostra azione tutti ci poniamo il problema se ciò che intendiamo fare è bene o è male per noi.
Così ogni volta che compiamo il bene avvertiamo un senso di compiacimento; al contrario, quando ci accorgiamo di aver fatto il male avvertiamo un senso di disagio o di rimorso.
Molti pensano che qualsiasi azione compiuta con coscienza tranquilla e che non suscita rimorsi, sia buona.
Non è esatto.
Non sempre seguendo la propria coscienza si fa del bene. Perché la coscienza non è infallibile. Non parlo ora della responsabilità morale che dipende sempre e solo dal giudizio precedente della coscienza, ma del bene e del male reale. Occorre distinguere in merito tra peccato e male. Il peccato, in senso stretto è un male compiuto coscientemente e deliberatamente (con piena avvertenza e deliberato consenso, dicevano le formule del catechismo della nostra infanzia).
Il male che possiamo compiere ha un ambito molto più esteso del peccato (dell'ambito cioè della coscienza).
Se uno beve veleno credendo che sia un elisir di lunga vita muore anche se si era illuso di vivere meglio. Non commetterà peccato di suicidio, ma il male resta.
Se i genitori credono di amare i figli di amore gratuito od oblativo (come sarebbe necessario per farli crescere armonicamente) e invece sono possessivi, i figli subiscono conseguenze notevoli per la loro crescita. I genitori possono riparare non dicendo che credevano di amare, ma solo cominciando ad amare in modo nuovo.
Così noi possiamo farci del male anche senza saperlo. Anzi abitualmente ce ne facciamo tutti i giorni. Quante volte ci accorgiamo di avere compiuto scelte sbagliate: nei rapporti, nell'alimentazione, nel modo di lavorare, nell'esercizio della sessualità, nell'accoglienza di ideali inadeguati! Il politico francese Talleyrand (1754-1838), agli amici che lo venivano a trovare malato diceva: « La salute è come la coscienza, tiene conto severo di tutto ». La ragione di questa impietosa legge della vita è molto semplice: noi diventiamo ciò che facciamo. La vita ci restituisce ciò che introduciamo con i nostri affetti, le nostre esperienze, le nostre decisioni.
Di qui l'importanza di una retta coscienza, la necessità di una sua formazione attenta.
La difficoltà del perdono
Carlo Molari
Spesso si dice che perdonare sia un atto di debolezza e di viltà.
In realtà perdonare è molto più impegnativo, difficile e coraggioso che reagire istintivamente alle offese ricevute. Richiede molta più forza interiore.
Per questo solo pochi riescono a perdonare veramente e sempre.
Altri osservano che la dignità personale è un bene supremo da difendere contro ogni accusa e da proteggere diligentemente contro ogni sopruso.
A parte gli equivoci numerosi che soggiacciono al senso della propria dignità, che spesso viene confusa con il diritto di imporsi agli altri, con i giudizi di superiorità nei loro confronti, di fatto il perdono non solo non contrasta con la dignità di una persona, ma ne è la garanzia più sicura.
Altri sono disposti a perdonare solo quando chi ha sbagliato si pente e chiede perdono. Chi si pente non ha più bisogno di essere perdonato. È già stato salvato dal suo male. Il rapporto che si stabilisce con chi si pente è di solidarietà per aiutarlo a compiere il cammino che ha intrapreso.
Anche il castigo può far ravvedere chi ha sbagliato solo se è accompagnato da un'offerta di vita, da un atteggiamento di amore e di misericordia.
Un'altra difficoltà che spesso viene sollevata riguarda il perdono per conto di altri. In realtà ciascuno perdona sempre per conto proprio, per quel tanto cioè per cui è coinvolto nell'evento accaduto. Una madre che perdona l'offensore di suo figlio non perdona per conto del figlio ma in quanto madre di colui che è stato offeso, e così gli amici o i successori di chi ha subito violenza, perdonano in quanto anch'essi ne sono stati vittime.
Quando perciò un omicida non viene perdonato dai parenti dell'ucciso non può essere addotta la scusa che chi è morto non può perdonare. Noi non siamo chiamati a perdonare per chi è morto, ma per noi che siamo vivi e che possiamo offrire energia vitale a chi, accanto a noi, partecipa della stessa nostra avventura e ha bisogno di essere aiutato per uscire dal suo male.
È difficile certo perdonare, soprattutto quando l'offesa ha toccato gli affetti più profondi e le fibre più intime di una persona. Ma proprio perché il male è grande è necessario che un grande bene venga messo in moto. Il perdono risiede a quei livelli profondi dove si sviluppa la vita che vale realmente.
Proviamoci anche noi, oggi, e forse scopriremo una gioia nuova.
Saper perdonare
Carlo Molari
A mano a mano che l'unificazione dell'umanità procede, è sempre più necessario che gli uomini imparino a perdonarsi, che smettano cioè quegli atteggiamenti di rappresaglia o di rivalsa che sono tipici dello stile infantile, e che fino ad oggi hanno caratterizzato anche i rapporti tra i popoli.
Diversi equivoci sono in circolazione a proposito del perdono. Vorrei chiarirne qualcuno. In primo luogo perdonare non significa scusare o trovare attenuanti all'azione di un altro. Chi ha scuse valide non deve essere perdonato. Il perdono riguarda proprio chi ha sbagliato coscientemente.
Inoltre perdonare non significa dimenticare gli errori di un altro o non aver più la voglia di reagire nei suoi confronti. Il perdono che nasce dalla dimenticanza o dalla stanchezza è un ripiego.
Perdonare, non è un premio al pentimento del delinquente. Il perdono che viene dato solo a chi si pente è ancora molto condizionato e imperfetto.
Il perdono non è una legge che vale solo per il rapporto tra gli individui. Anche i popoli, anche i gruppi sociali, anche le famiglie devono essere capaci di perdonarsi.
Questi equivoci dipendono dall'idea poco chiara che si ha del perdono.
Il perdono è un atto di misericordia, è cioè un atto di amore gratuito, una offerta di vita che consente a chi ha sbagliato di cominciare a cambiare.
Il perdono perciò deve essere offerto a tutti coloro che sono malvagi perché non lo siano più nel futuro.
Il peccatore infatti non è in grado di uscire da solo dal suo male. Solo l'amore gratuito di chi gli sta accanto può permettergli di cambiare vita.
Il perdono non si oppone quindi alle misure di sicurezza per impedire a chi ha compiuto un male grave di ripeterlo nuovamente. Ma si oppone alla volontà vendicativa che spesso accompagna queste decisioni. È desiderio di conversione non volontà di riparazione.
Oggi lo stile del perdono non è ancora molto diffuso. Perdonare non è diventato ancora una caratteristica della comunità umana. È uno di quei salti qualitativi dello spirito che oggi condizionano il cammino del progresso umano.
Per questo è urgente che chi sa perdonare eserciti continuamente la sua capacità e diventi testimone di perdono in tutte le circostanze. Quando uno stile di vita, infatti, è introdotto dalla testimonianza continua di un gruppo, esso può dilagare nella società intera.
Chi sa perdonare perciò deve essere cosciente della responsabilità che ha di diffondere questo stile di vita.
Animo quindi amici, e se oggi ce ne è offerta l'occasione, proviamo a scoprire quale forza sprigioni il vero perdono.
La preghiera comune a ogni uomo
Carlo Molari
Vorrei confutare un luogo comune: non è vero che solo i credenti debbano pregare. Ogni uomo che voglia vivere intensamente deve avere momenti di raccoglimento, di interiorità, di concentrazione, di sguardo profondo. Questo è appunto quella che in termini religiosi viene chiamata preghiera.
Credo di avvertire la difficoltà di molti ad accettare quello che sto dicendo. La ragione pensq stia nella nozione infantile di preghiera che molti si trascinano dietro anche nell'età adulta. La maggioranza pensa che la preghiera sia un modo per far cambiare parere a Dio o per fargli sapere quali siano i nostri desideri o le nostre speranze. Gesù diceva: « Il Padre vostro conosce le vostre necessità » (Mt 6, 8).
Allora cosa è la preghiera?
È il modo per mantenere i canali aperti con la Vita, con il Bene, con la Verità, in una parola per non rifiutare nulla del dono che ogni giorno Dio continua a farci. Qualsiasi interpretazione si dia della vita e della sua fonte, certo è che ognuno di noi deve ogni giorno aprirsi al suo dono ed entrare in rapporto profondo con le sue sorgenti. Chiunque si illuda di essere autosufficiente e non si eserciti all'accoglienza dei doni vitali che gli vengono continuamente fatti, costui prima o poi si isterilisce. Così chi non si esercita a rinnovare continuamente la propria offerta perde progressivamente l'atteggiamento di accoglienza. Gesù, che ha scoperto e vissuto in modo esemplare questa legge fondamentale dell'esistenza diceva: « Chi vuol conservare la vita per sé la perde, solamente chi la dona, la ritrova» (cfr. Mt 10, 39; Mc 8, 34-35; Lc 9, 23-24; 17, 33).
La preghiera è appunto l'esercizio quotidiano per non rifiutare nulla di ciò che la vita quel giorno è disposta a offrirci. E nello stesso tempo è l'allenamento a donare la propria presenza a tutti coloro che attorno a noi ne avranno bisogno.
Vorrei portare un semplice esempio: se mettete un foglio di carta al sole, si riscalda, ma nulla più. Se, invece, tra il sole e la carta ponete una lente che concentri i raggi solari su un punto solo, allora la carta comincia a bruciare. La lente non aggiunge certo energia al sole. Ma permette di utilizzarla al massimo. Così fa la preghiera di ogni nostro giorno: ci consente di valorizzare pienamente il dono quotidiano di Dio.
Auguro a tutti di fare in questo giorno una esperienza, anche se breve, di interiorità profonda. Attingerete energie nuove per la vostra vita.
Uomini nuovi
Carlo Molari
In questi ultimi decenni si sono create le premesse per radicali innovazioni nell'organizzazione della convivenza umana. Strumenti di comunicazione prima impensabili stanno unificando i problemi dell'umanità. Mezzi tecnici straordinari consentono oggi il coordinamento di tutti i complessi sviluppi della vita sociale. Le conoscenze e la tecnica permettono di risolvere definitivamente mali ancestrali che nel passato hanno decimato generazioni. La terra sta diventando per la prima volta nella sua storia un unico villaggio nel quale gli uomini potrebbero vivere in una forma e con una serenità mai fino ad ora rese possibili.
Eppure molti ostacoli sembrano ancora opporsi alla realizzazione di questo programma che è già alla portata dell'uomo.
Gli strumenti tecnici consentono ad alcuni di sfruttare altri in modo molto più profondo e oppressivo che nei secoli scorsi. Le forze a disposizione dell'inganno e dell'ingiustizia sono molto più subdole che in altri tempi. Anche se gli uomini non sono peggiori di ieri, possono oggi compiere disastri di portata molto maggiore.
Pensiamo solamente alla produzione delle armi. Fino ad ora l'umanità aveva potuto sopportare questa cattiva abitudine senza danni eccessivi. Solo da qualche secolo l'infantile tendenza di aggredire il nemico aveva acquistato caratteri preoccupanti. Ora però la parabola è alla fine. O l'umanità esce dalla fase infantile dell'aggressione armata o non può più attendersi un futuro.
Perché il male degli armamenti non sta solo nella distruzione che essi possono produrre, ma prima ancora e, per il momento, molto di più, nella dispersione assurda di immense ricchezze senza rilevante utilità pratica.
Il fatto è che gli uomini hanno camminato troppo in fretta e non hanno cambiato progressivamente il loro cuore e le loro abitudini. È urgente che cresca una diversa generazione di persone, che introducano un nuovo stile di vita e che riescano ad affrontare in modo nuovo questi gravi problemi.
Perché cresca questa nuova stirpe umana tutti debbono dare il loro contributo. Gli adulti che non possono più cambiare radicalmente, hanno però la possibilità di annunciare gli ideali che avvertono realizzabili e di creare quel clima spirituale che consenta la crescita delle nuove generazioni. E i giovani, che hanno ancora la capacità di nuove forme vitali, possono introdurre quelle modificazioni dello spirito che, una volta acquisite, nessuno potrà più annullare.
La giornata che cominciamo sia serena per tutti, amici, e possa registrare numerosi contributi per la crescita di quegli uomini nuovi che faranno il futuro dell'umanità.
Il valore di ciò che l'uomo fa
Carlo Molari
La valutazione che ciascuno dà delle proprie azioni non è sempre confortante. Non sembra che ci sia molta gente pienamente soddisfatta di ciò che fa. E quando lo è le ragioni della sua felicità non sono tali da resistere al tempo e all'usura delle abitudini.
Ci sono molte persone che continuano il loro lavoro solo perché alla fine del mese o della settimana ricevono lo stipendio.
Altri si attendono da ciò che fanno la stima dei colleghi, il riconoscimento della società, il successo.
Altri ancora si impegnano per giungere al potere, per essere in grado, cioè, di dominare nel proprio ambiente.
Altri riescono ad andare avanti solo perché si aggrappano a gioie future che lungamente assaporano nell'anticipazione: come la vittoria della squadra del cuore, l'incontro con una persona cara, la riuscita di un progetto.
Poi avviene che quando ciò che ciascuno attendeva si realizza, i desideri si allargano, le speranze riprendono a galoppare, e un'altra meta si affaccia all'orizzonte come ragione del proprio impegno. Il denaro non basta mai, il potere non è completo, la stima degli altri è limitata, la gioia passata suscita nostalgie e rincorre nuove illusioni.
Eppure qualche tempo prima avresti detto che ottenuto quel posto, raggiunto quel traguardo, avuto quel riconoscimento ti saresti definitivamente acquietato.
Quale conclusione trarre? È inutile sperare? È senza senso impegnarsi? È vano desiderare? Niente affatto.
È necessario piuttosto individuare bene che cosa attendersi dal proprio lavoro, quali sono i beni da sperare, che senso ha quello che facciamo ogni giorno.
Alcuni pensano alla vita futura come ragione del proprio impegno quotidiano. Altri pensano al bene che fanno agli altri, alla gioia che procurano.
Ma questi motivi, pur se validi, non sono sufficienti e soprattutto non sono quelli immediati. Se il nostro lavoro ha un significato, esso deve apparire concretamente nella nostra esistenza e tradursi in stati d'animo, in ricchezza interiore, in modalità nuove di vita. L'uomo vale non per quello che fa ma per quello che diventa attraverso ciò che fa. Ed è questo che egli è in grado di comunicare, ciò che è diventato come persona. Non sono i risultati a rendere grande l'azione dell'uomo ma la crescita personale che essa realizza, la ricchezza di umanità che sviluppa.
Ovunque e sempre ci può essere concesso di crescere come persone autentiche. Raggiunta la maturità nessuno ci può più impedire di vivere pienamente tutte le nostre giornate. Questa è la forza di ogni uomo ed è la sua dignità.
Un verso
Educare alla poesia
Antonio Prete
Un verso, un solo verso. Ramo di un albero, filo di una tessitura. Oppure, petalo di un fiore, se vogliamo rivolgerci alla classica contiguità della poesia con la rosa. Staccare un verso dal corpo di suoni e di silenzi cui appartiene, dall’onda del ritmo che in ogni parte di quel corpo trascorre, è come prelevare poche note da una composizione musicale. Un’azzardata sottrazione. Un arbitrio. Eppure ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, e anche nella loro traduzione in altre lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: schegge che si trasformano in sorgenti luminose, frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono.
Un verso, un solo verso, può corrispondere, sul piano della poesia, a quello che nel campo della prosa Leopardi chiamava “pensiero isolato”. Nello Zibaldone lampeggiano alcuni “pensieri isolati”, sottratti all’ordine discorsivo della trattazione: la loro densità di teoresi è più forte di ogni diffusiva analisi.
Così, accade anche che alcuni versi isolati, pur sottratti alla loro organica appartenenza, finiscano col vivere di una vita propria. Richiamano, per analogia, quel sapere che, nella “cura di sé” consigliata dagli antichi filosofi, era compendiato nel “detto memorabile”, nei “veridica dicta”, per usare l’espressione di Lucrezio. Trattenere quei detti nella propria memoria era come dotarsi di un prontuario che all’occasione poteva suggerire modi di comportamento, orientamento per le scelte di vita. Lessico interiore di una morale. Allo stesso modo, trattenere singoli versi nella propria memoria è custodire un serto di parole che non riposano nella quiete di un senso o nell’armonia di un suono, ma fanno del senso un suono e del suono un senso e per questa loro singolare virtù o acrobazia o grazia irradiano un pensiero aperto, irriducibile a un solo significato, interrogativo.
Di tali versi soli, e splendenti nella loro solitudine, dirò in questa rubrica. Ogni volta un verso ci inviterà a sostare alla sua ombra: per un pensiero al margine, per una annotazione esegetica, per una considerazione che può avere a che fare, più che col commento, con una libera interrogazione, e anche con quel divagare cui invita proprio quella conoscenza per via fantastica che è la lingua della poesia.
Di verso in verso: un cammino nel giardino della poesia. Un giardino nel quale si potrà sentire talvolta, insieme con il profumo dei fiori, il tragico della vita.
Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. E un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
"Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all'erta. Doni che implicano destino.
Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano […] viviamo sotto cieli cupi − e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche.“
“La poesia che viene al mondo vi giunge carica di mondo.”
Paul Celan
Breviario Laico, DARE OMBRA ALLE PAROLE
Riflessioni con Card. Ravasi /
Parla anche tu, /parla per ultimo, /di’ la tua sentenza. /Parla, ma non dividere il sì dal no. / Alla tua sentenza dà anche il senso: / dalle ombra. / Dalle ombra sufficiente, /dagliene tanta.
Paul Celan
Anche chi – purtroppo! – non ama la poesia, legga lo stesso queste righe di un grande e tragico poeta ebreo tedesco, Paul Celan, nato in Romania nel 1920, testimone della fine della sua famiglia nei lager nazisti, morto suicida gettandosi nella Senna a Parigi nel 1970. Di solito i suoi versi, altissimi, sono ardui, ma questa volta il suo è un appello semplice e incisivo. Il poeta non va contro il detto di Cristo sulla sincerità: «Sia il vostro parlare: Sì, sì! No, no!, il di più viene dal Maligno» (Matteo 5,37). Egli vuole, invece, colpire chi pronuncia sentenze definitive quasi fosse l’unico interprete autorizzato della verità. Sono quelle persone che non si lasciano mai frenare da un’esitazione, che asseverano «senza ombra di dubbio».
Ecco appunto l’immagine di Celan, l’ombra che invece dovrebbe alonare le parole. Solo così esse escono dalle labbra quasi in punta di piedi, con discrezione e pudore. Anziché essere un flusso veemente e inarrestabile, sono centellinate e avvolte nella pellicola del silenzio perché sono pesate e pensate. Sono frasi che lasciano spazi ancora bianchi che ammettono approfondimenti e un’ulteriore vita in coloro che le ascoltano, un po’ come accade alla poesia che ha bisogno degli «a capo» così da lasciare un vuoto che l’eco nell’anima del lettore riempie. È proprio l’esatto contrario della chiacchiera che non ammette spazio e interstizi, oppure dell’urlato che impedisce il dialogo. Un personaggio di Pirandello diceva in Ciascuno a suo modo (1924): «quanto male ci facciamo per questo maledetto bisogno di parlare!».
Testo tratto da: G. Ravasi, Breviario laico, Mondadori
Paul Valéry. Il mare, il mare sempre rinascente!
Un verso
Antonio Prete
Quale verso delle ventiquattro sestine che compongono il Cimitero marino di Paul Valéry può raccogliere nel suo specchio i riflessi che vengono dagli altri versi? La configurazione formale, ritmica, immaginativa e teoretica del testo poetico ha tale rigorosa e necessaria e impeccabile tessitura che separare un verso dagli altri versi può mandare in frantumi l’intero mirabile edificio. E tuttavia questo verso della prima sestina – La mer, la mer toujours recommencée – può fare se non altro da avvio ad una breve riflessione che accompagni lo scorrere del poème:, il quale ha esattamente cento anni (uscì nella prima versione sulla “Nouvelle Revue Française” nel giugno del 1920). Perché in questo verso il mare mostra, nel suono della ripetizione, il movimento dell’onda, e allo stesso tempo il suo doppio legame con un tempo fuori del tempo (toujours, sempre) e con un ritorno senza fine (recommencée), un ritorno che è rinascita, partecipazione a una creazione che sempre ricomincia.
Il mare, dunque, e lo sguardo sulla sua superficie, sul suo movimento, sulla sua bellezza, che dischiude la meditazione su quel che più conta, come l’essere, l’apparenza, il divenire, il già stato, la morte, la rinascita, e questo nella musica del verso. Contemplazione non da una riva, ma dal piccolo promontorio su cui sorge un cimitero che un tempo ospitava le tombe di marinai e di pellegrini. Contemplazione che, imitando l’onda marina, istituisce un andirivieni tra il vedere e il pensare, tra lo stupore dinanzi alla bellezza luminosa dell’apparire e l’interrogazione intorno al proprio stare – nella quiete e nell’ardimento, nel dubbio e nell’attesa – dentro un tumulto che è vita: vita consumata, scintillio di vita, vita dinanzi alla morte, morte nella vita. Ma ecco la prima sestina, dov’è incastonato il verso, seguita da una mia traduzione:
Ce toit tranquille, où marchent des colombes,
Entre le pins palpite, entre les tombes;
Midi le juste y compose de feux
La mer, la mer, toujours recommencée!
O récompense après une pensée
Qu’un long regard sur le calme des dieux!
Un tetto calmo corso da colombe
palpita in mezzo ai pini e tra le tombe.
Meriggio il giusto coi suoi fuochi acquieta
il mare, il mare sempre rinascente!
Dopo un pensiero, che dono lucente
guardare a lungo degli dei la quiete!
La seconda sestina inaugura un’alternanza – che rimbalza lungo tutto il testo – tra la visione del mare, delle sue metamorfosi, della sua luce (“Un puro assiduo folgorio consuma /diamanti di minutissima schiuma”) e le trasvalutazioni d’ordine concettuale (“scintilla il Tempo, e il Sogno è sapere”).
Un “monologo del mio io”, dirà Valéry del suo Cimitero marino. Un monologo nel quale prendono suono e forma i temi della sua vita “affettiva e mentale” – questa l’espressione che usa il poeta – così come sin dall’adolescenza si erano definiti, ovvero in una relazione fortissima con il mare e con la luce mediterranea.
Rievocando, molti anni dopo, la composizione, Valéry dirà che il primo movimento verso la scrittura poetica era nato da una sensazione puramente ritmica, vuota di senso, riempita di sillabe vane, che era diventata per un certo periodo un’ossessione: insomma, una frase musicale che s’insedia nella mente, priva di parole, ma che cerca di fissarsi nella misura metrica del decasillabo (il decasyllabe francese, un verso non consueto per la grande tradizione lirica). Allo stesso tempo quella misura, mentre risuonava, mostrava su di sé l’ombra del dodici, il numero sillabico dell’alessandrino, con la sua “potenza”, e a quella soglia tendeva e da essa si ritraeva (per questo la metà del dodici, la sestina, diventa la strofe della composizione, e il doppio del dodici, ventiquattro, diventa l’insieme delle strofe). Per un poeta come Valéry sostare, metricamente, al di qua del dodici significa non cadere nell’eloquenza teatrale dell’alessandrino (l’alessandrino, “il nostro esametro”, diceva Mallarmé); per contro, attivare le sonorità del decasillabo con una mobilità di cesure interne significa guardare all’endecasillabo dantesco, al suo grande esempio di vitalità ritmico-sonora e di modulazione ragionativa e contemplativa insieme. È singolare come questa sorta di ispirazione meramente sonora faccia germinare i movimenti del pensiero, e offra ad essi una dimora musicale.
Accade insomma che la forma metrica, una volta visitata dall’idea, incontra la singolarità vivente e rammemorante e meditante del poeta, la sua storia personale: di ricerca interiore, di formazione dello sguardo, di interrogazione sul nesso vita e morte. Un esercizio metrico si svolge come pensiero poetico. Per questo Oreste Macrì, che nel 1947 diede una traduzione italiana del famoso testo poetico di Valéry, accompagnata da un fitto e coltissimo corredo esegetico, intitolò il suo saggio introduttivo Metrica e metafisica nel “Cimetière marin”.
Opera di Andrew Wyeth.
Quanto alla mia esperienza, ho tradotto Le Cimetière marin dopo che avevo a lungo indugiato nella poesia di Valéry – dai Frammenti di Narciso alla Giovane Parca – e nelle prose, nei dialoghi, nei trattati, e soprattutto in quel meraviglioso Zibaldone novecentesco che sono i Cahiers, un quotidiano corpo a corpo con il sapere di tutte le arti, del linguaggio, delle scienze umane, fisiche e naturali. Avevo a lungo rinviato la traduzione di un testo la cui perfezione formale non poteva che disperdersi e spegnersi, o almeno attenuarsi, una volta traslata in un’altra lingua (anche se molti, e talvolta riusciti, erano gli esempi di poeti italiani che si erano applicati all’impresa). Ma quando mi accadde, sulla metà degli anni Novanta, di sostare per la prima volta a Sète, e salire tra le pietre del Cimétiere marin, in una luce mattutina abbagliante, i versi del poeta mi apparvero con una loro prossimità, come se da quel luogo le immagini abbandonassero la severa dimora del decasillabo francese e si distendessero, con semplicità, diventati parola della luce, pensiero del visibile, intimamente legati alle linee del paesaggio in cui erano nati, da cui erano nati (sarei tornato diverse altre volte sul bel porto di Sète, nei vari soggiorni d’insegnamento a Montpellier e di seminari tenuti in quella Università, appunto detta la Paul Valéry). Fu allora che decisi di avventurarmi nella traduzione. Le pagine di Ispirazioni mediterranee, in cui il poeta, rievocando la sua infanzia marina e portuale, riflette sulle figure di un pensiero meridiano, mi sembrava potessero accompagnare l’atto del tradurre. E tuttavia, come qualche volta accade, sulla prima traduzione sono tornato, dopo alcuni anni, con l’assillo del repentir, della revisione e riscrittura, giungendo infine a una nuova versione. Ogni traduzione poetica è solo una sosta lungo il cammino verso un’impossibile traduzione compiuta.
Torniamo ai versi di Valéry. Per il quale la poesia è suono del pensiero, musica del pensiero: questa è l’eredità mediterranea che il poeta sentiva di dover consegnare alla scrittura. Quanto al verso, esso nasceva nel corso di un raro, preziosissimo stato di grazia, una sorta di inatteso dono che insieme interrompeva e raccoglieva il tempo continuo, quotidiano, del ricercar meditando.
I versi del Cimitero marino, di sestina in sestina, rimodulano, nella tensione del suonosenso, e con la matericità di immagini corporee, le grandi domande sul tempo, anzitutto, ma anche sull’apparenza, sull’assoluto, sulla caducità, sulla mortalità, sul nulla, e questo attraverso la costruzione di figure corporee, attraverso il trionfo del visibile. E tra il bianco marmoreo delle tombe e lo scintillio della distesa marina trascorrono pensieri d’amore e di consunzione, il desiderio e il dolore mostrandosi come lingua propria dell’umano, come l’attesa e il sogno. Sullo sfondo, Lucrezio, Agostino, Pascal. Ma la curvatura del pensare che tra l’addensarsi di immagini rivela il suo nitido profilo è la necessità dell’ombra, l’accettazione della condizione umana, della distanza dall’assoluto, dal principio, l’invito a “rentrer dans le jeu”, rientrare nel giuoco, che è giuoco di vita e morte insieme, rimettersi in giuoco, e intanto opporre al fascino dell’astrazione la vibrazione dei corpi, al richiamo dell’oltre il qui tumultuante dell’esistenza, al gelo della cancellazione l’onda – appunto l’onda – del desiderio. A un certo punto appare, nella XXI sestina, il greco Zenone, col suo paradosso: “Zenone, crudo Zenone Eleata, / m’hai trafitto con questa freccia alata / che vibra e vola ed è priva di moto”. Dirà poi Valéry che introdusse l’argomento di Zenone per indicare, nel discorso sul tempo, la ribellione contro la durata, ma anche per una ragione compositiva, cioè per compensare con una tonalità filosofica il sensuale e “troppo umano” delle strofe precedenti. Ma ecco, in versione italiana le ultime due sestine, in cui si rompe definitivamente la “forma astratta”, la rinuncia all’assoluto è dichiarata, il corpo e la vita gridano il loro essere nel movimento del desiderio, all’unisono con l’energia metamorfica e scintillante del mare:
XXIII
Sì, mare immenso di folli scintille,
pelle di pardo, mantello che mille
e mille idoli del sole scompigliano,
sciolta idra che del tuo azzurro corpo ardi,
e la coda splendente ti rimordi
nel tumulto che al silenzio somiglia,
XXIV
si leva il vento! S’affronti la vita!
Squaderna il libro quest’aria infinita,
franta esce l’onda da rupestri stele!
Volate via, mie pagine abbagliate!
Rompete, onde, con acque rallietate,
quel tetto quieto morso dalle vele.
Lo sguardo torna sul mare, sul suo azzurro corpo vivente. Il tono è in levare, la severità della dizione poetica si apre al canto, il poemetto accoglie i timbri dell’ode, la solennità dell’alessandrino tenuta a distanza con il decasillabo riprende ora il suo campo, la “forme pensive”, l’astrazione, si lascia scuotere dal vento della vita. Il pensiero è invaso dalla luce, dall’aria, dall’infinito dell’aria. E il tetto d’acqua, l’azzurra superficie su cui il primo sguardo scorgeva colombe-onde, riappare con il suo movimento, percorso ora da vele, mordicchiato dal loro beccheggiare. La prima e l’ultima immagine si ricongiungono: il mare sempre ricomincia, nella luce del rinascere che dialoga con l’altra luce, quella che, in alto, tra le tombe del “cimetière marin” fruga interrogativa nelle pieghe del tempo, tra le ceneri di quel che è stato.
Friedrich Hölderlin. Chi pensa il più profondo, ama il più vivo
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso di Friedrich Hölderlin (Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste), che sopra riporto nella traduzione di Giorgio Vigolo, in un’altra traduzione, per dir così più esplicativa, quella proposta da Luigi Reitani nel “Meridiano” dedicato al grande poeta tedesco, suona così: “Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”. Il verso appartiene alla poesia che ha il titolo Sokrates und Alkibiades (Socrate e Alcibiade), una breve composizione di due strofe che è tra le più note e tradotte di Hölderlin (c’è anche una traduzione-imitazione di Giacomo Noventa, nel suo veneziano singolarissimo, che aderisce al testo nella prima strofe e reinventa con leggerezza sorridente il resto).
Il verso di Hölderlin ha la compiutezza aforismatica di un pensiero che intende raccogliere in una sola frase un cammino di teoresi e di meditazione; un verso, insomma, che somiglia ai “detti” della filosofia antica, ai “veridica dicta”, come li definiva Lucrezio. Il verso, che apre la seconda strofe, si pone come risposta alla domanda consegnata alla prima strofe. Ecco il testo della poesia nella traduzione di Vigolo, seguito dall’originale:
“Perché stai sempre adorando, Socrate santo,
questo giovane? Nulla sai di più grande,
che con occhio d’amore
come gli dei lo contempli?”.
Chi pensa il più profondo ama il più vivo,
sublime gioventù intende, chi ha guardato nel mondo,
e finiscono i savi sovente
con inclinare al Bello.
“Warum huldigest du, heiliger Sokrates,
diesem Jünglinge stets? Kennest du Grössers nicht?
Warum siehet mit Liebe,
wie auf Götter, dein Aug’ auf ihn?”
Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste,
hohe Jugend versteht, wer in die Welt geblickt,
und es neigen die Weisen
oft am Ende zu Schönem sich.
Socrate e Alcibiade: le due immagini, il maestro e il discepolo, rinviano ai dialoghi platonici – in particolare al Simposio e all’Alcibiade – e alla questione posta da Socrate sul rapporto tra sapienza e amore, una questione che il poeta qui disloca subito sul piano di una relazione forte tra due elementi: tra il pensiero che si sospinge fino all’estremo, fino al suo stesso confine – e per questo fa esperienza del “più profondo” (das Tiefste) – e l’amore del vivente, laddove questo manifesta la sua essenza, mostrandosi nel punto più alto (das Lebendigste), e cioè rivelandosi nella forma della bellezza. Il pensiero più profondo – di “profunda profunditas” parlerà Agostino – è proprio della sapienza, l’elemento più vivo è proprio della bellezza.
Illustrazione di Cressida Campbell.
Pensare il più profondo, amare il più vivo: ritmo che unisce conoscenza e amore. Diastole e sistole di un battito che fa del pensare una lingua del desiderio e dell’amore un pensiero del vivente. Un’unità – o tensione verso un’unità – che tende a bruciare ogni opposizione tra il sapere e l’amore, tra la conoscenza e la bellezza. Il pensiero, nella sua essenza, è amore della bellezza. Un poeta come Hölderlin, che nella poesia porta, inquietamente e luminosamente, tutta la propria formazione filosofica, mostra, con la cura del verso, della sua forma, del suo suono, come vera sapienza sia fare esperienza della bellezza attraverso l’amore del vivente, del tutto vivente. La Natura è figura prossima, visibile, del tutto vivente. E la Natura è infatti la madre dalla quale il poeta ha appreso la lingua della propria arte: die Mütterarzrtlichkeit (si veda la lirica intitolata Die Stille). Questa consapevolezza è propria del poeta romantico: Keats dice che dal ruggito del leone (the Lion’s roaring) e dal grido della tigre (the Tiger’s yell) il poeta apprende la sua lingua. È un modo per dire della materna pedagogia messa in campo dalla Natura nei confronti del poeta.
Nel Simposio, quando Socrate prende la parola, dopo gli elogi di Eros via via fatti dai discepoli, e racconta di non sapere dell’amore se non quello che gli ha detto un giorno la donna di Mantinea, Diotima, a un certo punto, come osservazione al margine delle considerazioni sulla natura di Eros, dice della equivalenza tra Eros e Poiesis: come Poiesis, cioè la creazione, è movimento che dal vuoto, dall’assenza, fa che le cose siano, così anche Eros, in quanto desiderio, è movimento che dalla mancanza va verso la presenza. Dal vuoto al visibile, dalla privazione alla forma: un movimento che nel suo divenire resta sempre aperto. Nella poesia di Hölderlin l’amore è allo stesso tempo amore della sapienza – il pensare profondo – e amore del vivente. La poesia è la lingua che accoglie questo incontro tra amore della sapienza e amore del vivente.
C’è come un cerchio che nell’Europa della Romantik mette in relazione diverse culture letterarie, diversi poeti, con questa idea forte del vivente: Keats, Novalis, Hölderlin, Leopardi, ed altri. L’onda di questa poesia intesa come ascolto e amore del vivente giunge fino a Rilke. Una singolare corrispondenza: nella traduzione che Rilke fa dell’Infinito leopardiano c’è una particolare attenzione, di natura direi teoretica, proprio ai riferimenti al vivente. Le parole leopardiane “… e la presente / e viva, e il suon di lei”, / Rilke in qualche modo le rafforza, traducendo “und diese/ daseiende Zeit, die lebendige, tönende”. Una traduzione interpretativa (una traduzione “glossematica”, avrebbe detto Contini), che approfondisce anche sonoramente da una parte il limite del visibile, del qui e ora, del questo, dall’altra la presenza appunto del vivente, il suo risuonare.
Hölderlin, Leopardi, Rilke: poeti che con la loro poesia hanno detto dell’essenza stessa della poesia.
Torniamo al verso di Hölderlin. La domanda rivolta a Socrate dice di uno sguardo che è contemplazione – la memoria del verso di Saffo tradotto da Catullo con Ille mihi par esse deo videtur è dichiarata – ma proprio questo sguardo si rivelerà subito come la figura di una contemplazione che ha radice nel pensiero profondo, dunque nella sapienza, e si manifesta come percezione, da parte di tutti i sensi, della bellezza. Questo sguardo sulla bellezza – che è insieme forma del vivente e manifestazione del sacro – si accompagna per il poeta tedesco alla ricerca di un’armonia, al senso di una grande quiete per la relazione con questa armonia. Nell’Iperione c’è un passaggio bellissimo che racconta di questa ricerca:
O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano (trad. di G. V. Amoretti).
La lirica di Hölderlin è in tutte le sue stazioni interrogazione della Natura: della sua presenza, del suo stormire, delle sue voci, dei suoi silenzi. E questo accade nella meditazione poetica intorno al pensiero rammemorante: Mnemosyne, l’An-denken raccolto e dispiegato più volte nell’ermeneutica di Heidegger. Accade nel grande tema del ritorno dopo la peregrinazione, nel tema della notte che è vuota attesa del dio, solitudine per la sua assenza.
E tuttavia il rapporto con la bellezza e la ricerca di armonia con la Natura che i versi del poeta accolgono e descrivono ha in sé l’ombra del tragico. Perché è lontananza dal principio, dalla perfezione, dal sacro, che si manifesta solo in quanto perduto. La prossimità al vivente di cui fa esperienza la poesia nel respiro stesso del suo suono, nelle sue immagini, ha in sé questo tremore: mentre sperimenta la tensione verso il vivente, avverte anche la fragilità e inanità di questo suo vedere e sentire. La fragilità della stessa lingua.
Anche se non diamo, oggi, a questa mancanza il nome del sacro, conosciamo quanto sia diventata profonda la lontananza dal vivente, dal tutto vivente. Il profilarsi di un tempo in cui si estende il dominio dell’artificiale, del virtuale, del robotico, mette in questione la relazione corporea – “sensibile e immaginosa”, direbbe Leopardi – con il vivente, con la Natura vivente. La poesia appare inappropriata, estranea, a questo tempo. Ma sempre la poesia è stata in esilio dal proprio tempo.
Una cosa bella è una gioia per sempre
Un verso.
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso apre il poema di John Keats Endymion: “The thing of beauty is a joy for ever”. La bellezza e la gioia. Keats unisce in un solo verso la forma del visibile cui diamo il nome di bellezza e quel sentimento fortemente corporeo e insieme profondamente spirituale che è la gioia. Per un poeta la bellezza è un fatto anzitutto interiore. Per questo definire la bellezza è una questione che non attiene all’ordine dell’estetica ma all’universo del sentire. Non è necessario evocare categorie che colgono la forma, o la relazione tra le forme, come l’armonia, la proporzione, la misura, ma basta riferirsi alla percezione di sé nel rapporto con il visibile, una percezione che è esperienza di un sentimento, anzi del più impetuoso e vitale dei sentimenti, al quale diamo il nome di gioia.
La bellezza e la gioia: una complicità forte, una sorellanza che sa accogliere il mondo, l’esperienza del mondo, per quel che si mostra come luce e come musica. E che per questo può sfidare la qualità prima del tempo, che è l’irreversibilità, può cioè tentare un patto – certo illusorio, azzardato, estremo – con la permanenza, con il sempre. Senza questa interiore sospensione della caducità, senza questa fantasticata esclusione del declino dall’orizzonte del visibile, le cose non possono salire verso la lingua della poesia e lì essere accolte e custodite. Ma si tratta di una finzione, analoga alla finzione che nell’idillio di Leopardi mette in moto la rappresentazione di un infinito impossibile a sostenersi: “Io nel pensier mi fingo”. Di questa finzione il poeta Keats, come del resto ogni poeta, è consapevole. Una finzione senza la quale non potrebbe esserci quella creazione del mondo che è sempre la poesia. Ed è questa sospensione della caducità che permette il dischiudersi del sentimento della gioia. Un sentimento che cerca i segni per manifestarsi: la gioia è una letizia che chiama i sensi, tutti i sensi, a congiungersi festosamente. Per questo, per dire della gioia ricorriamo ad aggettivi come pura, assoluta, incontenibile, piena. E tuttavia, nonostante la pulsione a manifestarsi, nonostante le forme profane o secondarie in cui la gioia si può manifestare, come l’allegrezza o il riso, il suo movimento più proprio è quello di portare il rapporto con il visibile nel tempo-spazio dell’interiorità. Un movimento somigliante a quello dell’amore. Anche l’amore è esperienza che nei suoi momenti di fulgore sospende la caducità del tempo, fa un patto con l’oltretempo: da qui il legame forte che la poesia d’amore ha con l’elemento lunare, solare, stellare, cioè con quelle figure che appartengono a un tempo diverso da quello umano e storico, un tempo cosmico, che è come dire un oltretempo, o un tempo senza tempo (poesia d’amore e cosmologia è un nesso intorno al quale mi è accaduto più volte di riflettere).
Keats dice in altri memorabili versi di questa sospensione del tempo che la bellezza – la bellezza del visibile e quella dell’arte – può dischiudere. Pensiamo ai versi dell’ Ode on a Grecian Urn, che dicono la sottrazione al declino propria delle figure rappresentate sull’urna (“Ah, happy, happy boughs! That cannot shed / Your leaves, nor ever bid the Spring adieu” – Oh! felici, felici rami, che non potete perdere / le foglie e mai direte a Primavera addio”. E nominano anche, quei versi, la dolcezza suprema di una melodia priva del suo suono, perché consegnata all’immagine dei flauti che continuano a suonare al di là del loro tempo, fuori dallo scorrere del tempo.
Keats qui nasconde quel senso del declino che pure è proprio della bellezza, per mostrare come la lingua del poeta, e prima ancora della lingua il suo vedere e sentire vivano l’esperienza di una lotta contro il passaggio, contro il transitorio, e anche contro l’oblio. Una suprema finzione, in virtù della quale la lingua della poesia può ospitare quel che più non c’è, accogliere il tempo finito, far risorgere quel che è fatto cenere.
Ma Keats non ignora, se pensiamo ad altre sue composizioni, l’altro aspetto della bellezza, quello della caducità: pensiamo al verso di Ode on Melancholy: “She dwells with Beauty – Beauty that must die” (“Lei dimora con la Bellezza – la Bellezza che deve morire”). E subito dopo questi versi compare anche qui, come compagna della Bellezza, la Gioia. La caducità, dunque, come altro elemento della bellezza. È il tema che darà avvio alla riflessione di Freud in Caducità (1915): al poeta che dinanzi allo splendore del paesaggio è malinconico perché vi legge l’ombra del declino si può opporre la preziosa esplosione dell’istante di vita che sospende quell’ombra. È Baudelaire che sul tema della bellezza sempre osserva la compresenza dello splendore e del declino, e lo fa con le sue categorie: la bellezza è composta di due elementi, l’éternel e il transitoir.
Torniamo al primo verso dell’Endymion, che si chiude con for ever, sempre. Anche il primo verso de L’infinito di Leopardi aveva un sempre, anzi cominciava con un sempre: “Sempre caro mi fu questo ermo colle”. Nel giovane poeta inglese il for ever si riferisce a un’appartenenza del visibile a sé che sconfigge il declino, o almeno sospende col linguaggio della poesia – con il racconto lirico ed epico che sta per prendere avvio – lo scorrere implacabile del tempo. Il sempre leopardiano dice invece l’intimità affettiva di un’appartenenza al visibile – questo colle, questa siepe – che è soglia per l’odissea del pensiero. Un’avventura della lingua che vuol dire l’infinito sapendo dell’impotenza del pensiero a dire l’infinito; ed è proprio il mi fu aperto da quel sempre (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”) che sopravviene nel naufragio e raccoglie il sentire, cioè la presenza del corpo, nel m’è dolce dell’ultimo verso: “E il naufragar m’è dolce in questo mare” (e occorrerebbe riflettere sul rapporto tra la dolcezza di Leopardi dinanzi allo spalancarsi dell’indefinito che risarcisce l’impossibile rappresentazione dell’infinto e la gioia di Keats dinanzi al mostrarsi della bellezza).
Il poema al quale appartiene il verso di Keats, l’Endymion, fu composto tra l’aprile e il novembre del 1817, pubblicato nel maggio del 1818. Impetuoso esercizio di scrittura poetica – in quattro libri di mille versi ciascuno – il poema è un trattamento lirico del mito che riguarda il re-pastore Endimione, la sua ricerca dell’amore, i suoi incontri, le sue visioni, il suo sonno, il suo rapporto con la sorella Peona, con una fanciulla indiana, con Venere, con la luna. Il primo verso apre il proemio del poema e unisce alla presenza della natura – il sole, la luna, gli alberi, le ombre, i fiori, i ruscelli – la presenza dei bei racconti (“all lovely tales”) uditi o letti: essenze (“essences”) che sentiamo come appartenenti a noi, al di là della percezione del loro passaggio.
Questo senso di una relazione profonda con il vivente e con il visibile ha a che fare, in Keats, con la sua stessa idea del poeta, che in una lettera a Fanny definiva come “la più impoetica delle creature”: il poeta è colui che sa esporre i suoi sensi all’ascolto, sa lasciarsi “impressionare”. Una dimissione del sapere, un sentire su cui si imprimono presenze e passaggi, che nella loro quieta dolcezza cercano la via della lingua, il nuovo tempo della poesia.
Rainer Maria Rilke. Incerta, dolce, priva d’impazienza
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
È il verso che chiude la poesia di Rilke dal titolo Orfeo, Euridice, Hermes. Novantacinque versi che, con un andamento insieme drammaturgico e meditativo, con rilievi fortemente figurativi, rivisitano e interpretano il mito di Orfeo che scende nell’Ade per tentare di riportare tra i viventi la donna amata, sorgente e vita del suo canto: il cantore, a un certo punto del sotterraneo cammino, infrange il divieto di voltarsi, condizione imposta dagli dei, così Euridice è ripresa nel regno dell’oscuro.
Scritto nel 1904, molto prima, dunque, della grande stagione delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo, il testo poetico muove da un bassorilievo presente nel Museo Archeologico di Napoli che raffigura i tre personaggi del mito. Come nel verso qui scelto, così in tutto il testo poetico, Euridice appare avvolta in una sua lontananza, che è lontananza dal desiderio stesso.
Figura d’ombra: tuttavia abitata da un sentire che è come un’increspatura astratta di quel che è stato. Un dopo-la-vita che è percezione, ancora, della vita, ma da una soglia di sopravvenuta imperturbabile quiete. Un oltretempo che fa venire alla mente la domanda gelida ed estrema del leopardiano Coro dei morti: “Che fu quel punto acerbo /che di vita ebbe nome?”. Il verso che chiude la poesia era già riapparso nel corso della composizione quando il poeta descriveva Euridice, con il passo “costretto in funebri bende”, la mano nella mano del dio, “chiusa in sé come alta speranza”. Ecco la strofe, in una mia traduzione (raccolta nel quaderno L’ospitalità della lingua):
Ma veniva lei a mano del dio,
il passo costretto in funebri bende,
incerta, dolce, priva d’impazienza.
Era chiusa in sé come alta speranza,
immemore dell’uomo ch’era avanti
e del sentiero che alla vita andava,
Era in sé raccolta, colma di morte,
e questo era pienezza.
Come un frutto di dolcezza e di buio,
era piena della sua grande morte,
così nuova che in quella si perdeva.
Il poemetto si era aperto col verso “Das war der Seelen wunderliches Bergwerk” (Era l’oscura miniera delle anime) mostrando con tratti espressionisti l’oltremondo sotterraneo, le anime che come vene d’argento, silenziose, solcano l’oscuro, e il rosso del sangue che sgorga tra radici per salire poi verso il mondo dei vivi, e intorno rocce, morte foreste, ponti sul vuoto, e un immenso grigio stagno, sospeso “come un cielo di pioggia sul paesaggio”. Poi un sentiero, e lungo il sentiero, il dio Hermes che conduce Euridice, più avanti Orfeo, le mani fuori dal mantello azzurro, la lira alla sua sinistra, “radicata / quale cespo di rose sull’ulivo”.
L’ombra qui è materia che si fa immagine, che prende forma, movimento, ritmo. Il mondo ctonio, sul quale si posava con insistenza lo sguardo dei romantici tedeschi, riappare in questi versi di Rilke come regno delle ombre abitato da un mito. Da un mito che è racconto del legame tra canto e amore, tra poesia e amore. Di quel legame è qui messa in scena la perdita, l’irrimediabile perdita. Il tema dell’addio avrà nella lirica successiva del poeta un grandissimo rilievo: l’addio ritmo dell’esistenza stessa.
Orfeo, nella ombrosa figurazione del cammino, è osservato di spalle: sale verso la luce dei vivi, dietro di lui l’eco dei suoi passi, e il vento che muove il mantello. Euridice e Hermes salgono anch’essi verso la luce, silenziosi. Se Orfeo si voltasse, disfacendo l’opera, vedrebbe lei, la silenziosa, chiusa nelle sue vesti, figura d’ombra, il passo lento, personaggio di un rito del quale non intende né la ragione né le forme.
Hermes, il dio dei viaggi e degli annunci che vanno lontano, la conduce tenendola per mano:
Lei, la molto amata, che dalla lira
traeva un lamento più che da donne
in lutto, e dal lamento sorgeva un mondo,
e tutto era di nuovo: selva e valle
e strada e borgo e campo e fiume e belva;
e nel mondo-lamento, come intorno
a un’altra terra, roteava un sole
e un silenzioso cielo stellato,
cielo-lamento con sbalzate stelle:
lei, la tanto amata.
Dal lamento sorgeva un mondo: eine Welt aus Klage ward. Lei, per l’amore ricevuto da Orfeo, muoveva la musica della parola. Di una parola che era creazione. Nel canto il visibile si dispiegava in una nuova esistenza. Il visibile della poesia: tempo-spazio dell’apparire in cui le cose sono intime a sé, si rivelano in quel legame con il tutto che al di fuori della parola poetica è fatto opaco. La poesia evoca un mondo in cui la parola e la cosa non sono disgiunte: selva, valle, strada, borgo, campo, fiume, belva respirano con il respiro della terra, sotto un cielo di stelle, anch’esse figurazione visibile del lamento-canto: “cielo-lamento con sbalzate stelle” (ein Klage-Himmel mit entsteltlen Sternen”). Il lettore avverte, in questa dolente nominazione creaturale messa in opera dalla parola poetica, l’annuncio di quello che sarà il cuore della meditazione di Rilke sulla poesia, una meditazione che nella Nona Elegia sarà affidata a questi versi:
…siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero, finestra,
al più: colonna, torre…ma per dire,
oh! dire così, come le cose stesse mai
dentro di sé sognarono d’essere.
Il mondo si mostra nella sua fisica, preziosa e prossima singolarità: la cosa sta nella parola come nel suo proprio abitare, e nella parola palpita, si conosce, vive. Perché questo avvenga occorre che il dire sia anzitutto una pronuncia interiore, il vedere sia un vedere interiore. Il dicibile è movimento della cosa verso la parola, e dire è compito terrestre e umano. Il tempo dell’esistenza individuale è tempo del dicibile: “qui, delle cose dicibili è il tempo” (Hier ist des Säglichen Zeit). Questo tempo della parola è altro dall’oltretempo stellare, che appartiene all’indicibile, e che solo la morte dischiude: pensiamo ai versi della Settima Elegia: “O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen! “(Oh! Esser morti una volta, e conoscerle all’infinito, / le stelle, tutte: e allora come come come dimenticarle!”). Compito dell’umano, dinanzi all’animale che sta nell’“aperto”, e all’Angelo, che è purezza della conoscenza, è accogliere il visibile nel nome, per trasformarlo nell’invisibile. E poterlo custodire: come si custodisce l’addio, ritmo stesso dell’esistenza.
Ma l’esteso ventaglio del pensare poetico di Rilke, sostenuto, negli anni che precedono le Elegie, dal passaggio attraverso Hölderlin, rischia di apparire contratto e scialbo in queste forzose abbreviazioni. Torniamo allora all’ Orfeo del poemetto. Il suo dire era, nella luce che vestiva i viventi, un dire che accoglieva le cose, le faceva vivere, e questo perché un principio d’amore, una figura d’amore, muoveva la parola della poesia.
Abbiamo lasciato Euridice sul sentiero d’ombra: “colma di morte”, incede con passo lento, “incerta, dolce, priva d’impazienza”; la mano nella mano del dio Hermes, va verso una luce che presto sarà negata.
Euridice, di qua dalla luce, di qua dalla vita, e dal canto che lei faceva sorgere, è come in una “nuova adolescenza”, dimentica delle nozze, è un “nuovo fiore prima di sera”, è turbata, come per troppa intimità, dal lieve contatto della sua mano col dio che la conduce. La sua essenza di vita è come dissolta (“sciolta come una lunga chioma, / abbandonata come pioggia in terra”). Un verso, isolato, quasi epigrafe che nomina un’altra appartenenza, campeggia tra i silenzi: “Lei era già radice”. Tornata a un prima della vita che è fondamento della vita, quiete nell’essenza, in quell’oltre che è l’essenza. Quando il dio ferma il passo e annuncia che lui si è voltato, lei non comprende e piano domanda: Chi? Una domanda che è voce priva di memoria, voce che sale da un corpo d’ombra. Dal profondo di un’altra appartenenza. E Orfeo dall’alto osserva il dio che si volge indietro, al suo fianco c’è lei, “il passo costretto in funebri bende, /incerta, dolce, priva d’impazienza”.
In questa messa in scena del mito – l’energia figurativa dei particolari qui risente dell’amore che il poeta ha mostrato fino a quel momento per Rodin e per Cézanne – mostra come in una sinopia la gravità delle domande ultime, le domande sul rapporto tra la vita e la morte. E la poesia, dando respiro e immagine a queste domande, si fa narrazione scenica, suono che disegna mondi, tappeto di silenzi sui cui sorgono voci. Per dire, ogni volta in modi diversi, il nesso tra amore e lingua. Per dire come il perduto possa trovare una sua nuova vita nella parola, restando nella sua privazione, nel suo già stato. L’addio, il dolore dell’addio, è in ogni passo, in ogni parola.
Mario Luzi. Vola alta, parola, cresci in profondità
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni