Il sacramento del momento presente

“ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul corso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il  mio spirito

 

Card Newman

( Apologia pro vita sua,cit pp381-382)


...Sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboli, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del crocifisso amore.."

 

 

( da I nomi del bello e il mistero di Dio; Bruno Forte)


Dio ti parla ogni giorno

 

 

 

Un aprirsi della porta ed entrar nella luce, vivere in un continuo miracolo del presente, Cristo è presente. Nostra gioia.

 

 

 

 

 

L'uomo vive Dio nel sentimento del tutto. Tu sei tutto,ma anche tu, se Dio è in te. Nulla vi è al di fuori di te, nulla tu puoi cercare, perché quello che cerchi è già un te, se Dio è in te

 

 

Una vita vissuta "per-con-in Cristo" diventa una vita in cui si riscopre la "sacralità di tutte le cose" ed in cui realmente lo Sposo viene ogni giorno, ogni istante, in ogni azione ben ordinata, in tutto e tutti, perché "se crediamo, tutto è segno di Dio".

 

Divo Barsotti

 

Il cristiano è sollecitato così come da tutta la Scrittura, a imitare Dio, il mondo e le sue realtà sono un ostacolo alla sua "divinizzazione", alla sua santità, per il cristiano che vive secondo lo Spirito Amore, il mondo e le sue realtà sono la condizione stessa per divinizzarsi, per entrare per ciò che gli compete, nel disegno e nell'economia della salvezza dell'umanità e del mondo. Così come non v'è salvezza del mondo senza l'opera dell'uomo che lo conduce a perfezione, il cristiano non si salva senza il mondo, poichè è chiamato a santificarlo finchè "Dio sia tutto in tutti", Il mondo è il luogo e il mezzo grazie al quale il cristiano " guidato dallo Spirito" raggiunge la sua santità e il suo essere e vivere nell'Amore"

 

 

Padre Lorenzo Rossi


Il coraggio della Speranza.. far fiorire il divino che è in noi..

Se smarrite la fiducia, cercate i «meravigliatori», coloro che fanno miracoli e vi rigenerano perché vi fanno sentire voluti come figli, appartenenti. Chi sono? Quelli che per amore fanno e quelli che fanno per amore

 

Alessandro D'Avenia

Sentiti come gli altri / Sta con gli altri / Vivi per gli altri

 

 

Dio ha un solo sogno, quello di “ formare casa”. Formare casa dentro la storia. Questo sogno lo condivide con noi e noi raccogliamo questo sogno per poter imparare a fare casa dentro la nostra realtà storica. Per questo dobbiamo prepararci insieme.

Nel momento storico in cui viviamo, questo verbo “ preparare” è importantissimo, perché il tempo in cui stiamo vivendo può trasformarsi solo se lo viviamo come tempo di preparazione.

 

Il termine importante è la vita. Quella che vogliamo recuperare  oggi, che vogliamo ritrovare nella nostra storia, è la vita. Quella che vogliamo sognare insieme è la vita, chiederci quali  sono gli spazi di vita oggi, che tipo di vita vogliamo portare avanti, uomini,donne, giovani, anziani. Tutti insieme sogniamo un progetto profondo di vita. E a partire da questa profondità, riscopriamo che la vita è profondamente religiosa, è una vita profondamente abitata dal mistero.

Per tessere un’altra vita dobbiamo incominciare di nuovo a fare tradizione, imparare un’altra volta a leggere e scrivere.. trasmissione profonda degli avvenimenti presenti. Scambiarci questa narrazione, quello che io vedo, ascolto, tocco

 

Contemplo nel presente.

 

In questo momento per essere fedeli Dio bisogna essere fedeli profondamente al presente, pensarlo e ripensarlo e narrarlo e dire queste meraviglie nascoste che si fanno, che malgrado tutto continuano a esistere dentro questa storia.

In questo senso noi vogliamo incominciare di nuovo a leggere e scrivere la storia. A partire da questa ritraduzione della storia possiamo cominciare a vivere la circolarità, questa capacità di sederci e incominciare a scambiare la vita. 

 

 

Noi tutti 

 

Antonietta Potente

 

L'uomo è chiamato a nascere, venire alla luce, venire al mondo, per tutta la vita.

In ogni ambito, ciascuno nel suo, vivere è creare condizioni di co-nascenza. Solo così smettiamo di oscillare tra voler occupare tutta la scena e voler toglierci di scena, per paura di non esistere abbastanza, e ci apriamo all'unica forma felice di vita, quella che ci permette di nascere fino alla morte: la ri-co-nascenza.

 

Alessandro D'Avenia

"L’essenziale non è nel raccolto, l’essenziale è nella  semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza è nelle lacrime, nel rischio, e nel loro silenzio che finalmente fiorisce di Luce”

 

 

 

 

André Neher

Paolo Scquizzato: Per far fiorire il «vero sé»

 

Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.

Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo.

Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso.

La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi.

Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti».

Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute.

Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendor fer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile.

Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente.

Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più.

Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.

Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti.

Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime.

«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando».

La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé.

La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali.

Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite.

Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo.

Vuoto

Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui.

Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto».

L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia.

Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti abbiamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre.

Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della disperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo?

Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una considerazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive:

«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico».

Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi.

La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà».

Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”».

La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo intendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil.

La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco).

Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa?

La grazia è senza sforzo, appunto. È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera».

E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea».

Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35).

Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.

Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalienabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare.

Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura».

Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio.

Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo.

Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi.

Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo.

Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accadere. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consapevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive:

 «La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stesso, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione».

Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso:

«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente. Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio.

In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13).

Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione.

«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile.

Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco contemporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò abbandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).

 

Paolo Scquizzato

 

Enzo Bianchi Perché dobbiamo imparare a riposare per umanizzarci

 

 

Siamo ormai nel tempo delle vacanze, un tempo vuoto che dobbiamo riempire, un tempo alternativo a quello quotidiano che viviamo e dal quale prendiamo le distanze interrompendolo.

 

Di fatto, la nostra cultura è ispirata dalle prime pagine del Grande Codice, laBibbia, che dichiara che Dio per creare il mondo ha lavorato sei giorni, dalla creazione della luce alla creazione del terrestre, l’Adam, ma il settimo giorno ha riposato, ha fatto shabbat.

Anche per noi, come per Dio, l’azione non è conclusa se non interrompendola per prenderne le distanze, contemplarla e giudicarla.

 

Vacanze, dal latino vacare,significa certamente far niente, ma un far niente per dedicarsi a fare qualcosa. Nel nostro caso, a far cosa? A riposare. Questa dovrebbe essere la vera attività delle vacanze, perché gli umani hanno bisogno di distanziarsi dalla loro azione, devono ritemprare le forze, prendere consapevolezza di quel che sono e di ciò che fanno.

 

Ma riposarsi non è, in realtà, facile, e questo lo sappiamo tutti: siamo sedotti dall’attivismo, siamo preda del lavoro, siamo assorbiti da un vortice di impegni che crediamo urgenti e che ci impediscono il “lasciare la presa”, anche momentaneo. Purtroppo, ognuno di noi si presenta agli altri per quello che fa e non per quello che è, così quando uno fa niente è assalito dall’angoscia: chi sono io?

 

Fare niente per molti è uno sforzo, una fatica e addirittura un vortice di angoscia quando si ritrovano nella solitudine e nel silenzio. È ciò che Pascal nei pensieri giudica essere il più grande male nella vita di una persona. Ma questo riposo, questo far niente può essere in realtà la condizione nella quale si diventa di più sé stessi: un cammino di umanizzazione.

 

Il riposo dunque lo si impara. Per crescere in umanità occorre conoscere sé stessi, imparare a discernere quella voce che abita ogni umano nelle profondità del suo cuore: è una voce reale anche spesso avvolta dal silenzio, ma è una voce che è presente, ed è la voce che appartiene all’umanità.

 

Alcuni la chiamano voce di Dio, altri voce dell’autentica vocazione umana, poco importa, quella voce c’è e va ascoltata. Il catalogo delle virtù del nostro mondo sembra tener conto del lavoro, dell’azione, ma dimentica che le posture per raggiungere risultati umani sono la contemplazione, il raccoglimento, il silenzio e il pensare.

 

Sono queste che permettono agli umani di accumulare l’energia e la verità di cui l’azione necessita.

 

Cerchiamo di essere occupati attraverso il riposo, ma vivendo il riposo, ascoltando il silenzio, contemplando la natura, imparando a conoscere il vento e a distinguere il canto degli uccelli.

 

 

Alberto Moravia in una luminosa raccolta di saggi L’uomo come fine del 1964 affermava che per “ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il posto della contemplazione”. Dunque,vacare, dolce far niente, riposarsi per umanizzarci di più.

ACCONSENTIRE AL VIAGGIO

 

José Tolentino Mendonça

 

 

Ci sono domande che da sempre stanno in agguato. Possiamo evitarle, tentare di schivarle o di non parlarne per lungo tempo, ma dentro di noi sappiamo che questo gioco a nascondino ha un prezzo. Sottrarvisi è sottrarci, mancare alla chiamata che la vita ci fa. Una di queste domande è collegata al desiderio, e nella forma più incisiva e personale può essere formulata così: "Qual è il mio desiderio?". Il mio desiderio profondo, quello che non dipende da nessun possesso o necessità, che non si riferisce a un oggetto ma al senso. "Qual è il mio desiderio?". Il desiderio che non coincide con le quotidiane strategie del consumare, bensì con l'ampio orizzonte del portare a pienezza, della realizzazione di me come persona unica e irripetibile, della consapevolezza del mio volto, del mio corpo fatto di esteriorità e interiorità (entrambe vitali), del mio silenzio, dei miei convincimenti. La domanda "qual è il mio desiderio?" non la incontreremo senza prima aver acconsentito al viaggio che inizia solo quando avremo osato entrare in noi stessi. Quando ci disporremo a comprendere quel che è in noi fin dal principio. Ma questo deve rallegrarci, poiché, come ricordava Françoise Dolto, «quando un essere umano avverte in sé un desiderio abbastanza forte da assumersi tutti i rischi del suo proprio essere, vuol dire che è pronto a onorare la vita di cui è portatore».

Il tempo della lettura

 

 

 

 

di Enzo Bianchi

 

Per molti la grande occasione per leggere viene dalle vacanze, quando riusciamo a “dare del tempo” alla quiete, al silenzio, al fare niente e quindi possiamo dedicarlo anche a leggere un libro. Un libro che abbiamo letto e amato tanti anni prima, un libro che sta da tempo sullo scaffale di casa e attente, come un morto nel loculo, di essere risuscitato e reso eloquente. Un libro acquistato all’ultimo momento prima di partire o in viaggio. Per me, il consiglio di Flaubert – “leggere per vivere” – ha sempre rivestito un significato denso e mi ha sempre spinto a leggere proprio alla ricerca di una vita piena.

 

 

 

Leggere infatti non è tanto un’attività intellettuale quanto piuttosto il faticoso ma fecondo sforzo di interrogare e interpretare se stessi e la realtà che ci circonda: si tratta di leggere non un libro ma il mondo, le situazioni, gli eventi attraverso ciò che già “sta scritto” perché altri lo hanno messo “nero su bianco”. E, più in profondità ancora, di leggere se stessi: se ci pensiamo bene, il corpo stesso della persona che legge diviene sovente icona di interiorità, una garanzia palpabile di raccoglimento, diremmo quasi che il lettore si fa tutt’uno con il libro e che in tal modo coinvolge nell’atto del leggere persino l’autore stesso di quelle pagine.

 

 

 

La lettura, di fatto, è una conversazione, un dialogo con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio: è un ricevere la parola di un altro e farla propria, interpretandola nel dialogo della propria intimità. Marcel Proust, al termine della sua opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto, le apriva nuovi orizzonti, ancor più sconfinati, asserendo che i suoi lettori sarebbero stati «lettori di se stessi» in quanto il suo libro era solo il mezzo offerto loro perché leggessero dentro se stessi. Sì, anche e soprattutto nella nostra società dell’immagine, leggere resta operazione di grande umanizzazione, sorprendente nella sua semplicità: non occorrono tecnologie né complicate strumentazioni, e nemmeno iniziazioni particolari perché, in fondo, come ricordava il poeta Fernando Pessoa, «l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge».  Non a caso i medievali facevano derivare la parola latina intellegere – letteralmente “capire” – da intus legere, “leggere dal di dentro”.

 

 

 

Purtroppo, oggi si legge ancora poco, adducendo tra le scuse il poco tempo a disposizione. Ma le scelte che operiamo nell’impiego del nostro tempo sono rivelatrici di ciò che per noi davvero conta nella vita. Così leggere può divenire antidoto alla monotonia dei giorni, lotta contro il logorio del tempo, manifestazione del nostro essere signori e non schiavi del tempo: in questa sua valenza, è atto anti-idolatrico, gesto di resistenza contro uno degli idoli della nostra epoca, una autentica opzione etica.

 

 

 

Leggere è abbeverarsi a una sorgente che non si esaurisce quando le ci si avvicina. Chi di noi, di fronte a un libro amato non ha fatto l’esperienza di come questi assuma colori nuovi secondo i momenti, di come emani profumi inebrianti, secondo le stagioni? Il libro è un oggetto strano: lo guardiamo, lo valutiamo, lo sfogliamo, lo posiamo, lo ritroviamo. Una frase è riletta, un passaggio familiare o oscuro è nuovamente decifrato. Leggere un libro significa compiere un’operazione tesa a leggere il mondo e la storia e accettare che questo anelito ha già abitato uomini e donne diversi che hanno diversamente vissuto e diversamente scritto.

 

 

 

 

Leggere è percorrere un itinerario potenzialmente infinito perché «se alla fine ho chiuso il libro – scriveva Virginia Woolf – era solo perché la mia mente era sazia, non perché avessi esaurito il suo tesoro».

Respirare la brezza del mattino

 

 

di Alessandro D’Avenia

 

Vacanze, così le chiamia­mo. Dal latino vacatio, ciò che è vuoto. Dopo un anno di battaglie, fatiche, impegni non vogliamo più scadenze, obblighi, ma uno spazio vuoto in cui nessuno ci imponga niente. Lo chiamiamo anche tempo libero, cioè tempo dotato di libertà, a differenza di quello dedicato al lavoro, il tempo dell’obbligo, della produzione, dello ‘schiavo’.

Trovo inadeguati questi nomi, soprattutto per un cristiano. Il cristiano è figlio di Dio, e figlio – in latino liber – è libero, sempre. Il mio tempo libero è sia quando insegno, sia quando faccio un bagno al mare, quando compilo un noioso registro e quando prendo il sole con la brezza che mi accarezza la pelle, perché sono sempre figlio, sotto lo sguardo di Dio che mi dona tutto quello che sono, faccio e ho.

L’ho capito meglio leggendo un bellissimo libro di Mauro Leonardi sul mistero del celibato, dal titolo Come Gesù. L’autore spiega (p.179) che «Adamo ed Eva si riconoscono essi stessi debitori del dono

dell’essere e del dono egualmente grande del loro amore e della loro unità, verso una presenza più grande, Dio, che costituisce l’orizzonte della loro esistenza. Dio non si presenta come un creditore, ma come qualcuno che elargisce doni e gratuità. Dio viene con il solo intento di passeggiare alla brezza del vento lieve: ‘Passeggiava nel giardino alla brezza del giorno’ (cfr Gn 3,8). A ben vedere è proprio questo, in essenza, l’azione caratteristica dell’amicizia: fare una passeggiata».

 

Questo è il progetto originario di Dio: passeggiare con i suoi figli nella bellezza del creato che ha elargito loro e condividere cuore e cuore questa bellezza, lasciando liberi i suoi figli di condividerla fra loro, e il peccato non è altro che il principio di opposizione al ricevere e al donare.

* * *

 

 

Molti si annoiano più in vacanza che al lavoro e altrettanti anelano la solitudine quando lavorano e poi si vanno a infilare in pochi metri quadrati affollati da decine di ombrelloni. Come è possibile?

 

Noi vogliamo il tempo libero, ma in realtà ne abbiamo paura.

 

Perché? Proprio perché è libero, proprio perché è vuoto. Proprio perché è il tempo della libertà, è tempo della scelta. Noi vogliamo tutto il tempo, perché l’unica cosa che il nostro cuore anela è l’eternità, ma poi quando abbiamo il tempo scopriamo il suo paradosso.

Per chi vive nel tempo, il tempo è l’unica cosa che ho a disposizione per amare. Amare è donare tempo e donare nel tempo è morire. Se dedico un’ora a un mio amico, quell’ora non torna più indietro, io faccio vivere di più lui, ma quell’ora non torna più. Il Verbo ci ha dato tutto il suo tempo per salvarci, si è fatto tempo per donarci il senza tempo. Quando arrivano le vacanze e il tempo libero, noi crediamo che sia finalmente venuto il momento di vivere, ma il tempo autoreferenziale, egoistico, senza amore, è un tempo che annoia, perché ci rende più schiavi di quello che abbiamo quando lavoriamo. L’unico tempo liberato e che ci rende felici – sia che lavoriamo sia che riposiamo – è quello dedicato ad amare (noi stessi e il prossimo).

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Vacanza non è svuotarsi e non avere impegni, quello ci stanca più di lavorare, ma è prendere il proprio tempo e decidere a chi e cosa dedicarlo, perché diventi pieno: passeggiare nel giardino con Eva, carezzati dalla brezza del giorno, sotto lo sguardo di Dio. Pieno è il tempo dei figli sotto lo sguardo del padre. Pieno è il tempo dedicato a ciò che il nostro cuore cerca, se lo sappiamo ascoltare.

Abbiamo noi il coraggio, durante le vacanze, di liberare il nostro tempo e di non farne un semplice dato di fatto determinato dal destino: non devo lavorare, allora sono libero?

Solo chi è in vacanza anche quando lavora, sa cosa è la vacanza. Solo chi è libero nella fatica quotidiana, può godere il tempo della festa e viceversa.

Le vacanze parlano del paradiso, luogo in cui avremo tutto il tempo: saremo sempre liberi, perché saremo davvero figli, senza niente che possa offuscare questa condizione. Il nostro tempo sarà solo tempo dell’amore ricevuto e dato. L’amore non vuole durata, ma eternità, a noi non soddisfa che le cose durino (tanto non durano), ma che siano piene, nell’istante. Il paradiso – anche sulla terra – non è durata e immortalità, ma pienezza dell’attimo, eternità. Ecco quale è il vero tempo libero: quello che ha in sé la pienezza e nelle vacanze abbiamo semplicemente più possibilità di sceglierlo. Una chiacchierata con un amico, un bel libro, una passeggiata con la moglie, una nuotata con un figlio, una cantata sotto le stelle, una chiacchierata con Dio. Solo se avremo il coraggio di donarlo il tempo si libererà.

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Se non inseriremo il nostro riposo nella celebrazione del rito della bellezza delle cose che ci sono donate, insieme agli altri, ma lo vivremo come possesso consumistico di beni da ottenere a tutti i costi, inevitabilmente oscilleremo tra l’accidia del non far nulla (noia) e l’agitazione del fare (ansia); consumeremo le vacanze ritrovandoci più stanchi di prima, quasi sperando di ricominciare a lavorare, felici sotto sotto che qualcuno ci strappi via il tempo che non abbiamo il coraggio di vivere, cioè di donare.

Mauro Giuseppe Lepori: Fede è lasciare che Dio si prenda cura di noi

 

di Rossana Campisi

 

C’è che adesso sarebbe bello immaginare il deserto. Che è un luogo – ovvero una distesa di sabbia, senza gente e senza acqua – ma anche una metafora luminosa.

Sarebbe bello ricordarsi che qui, nel deserto, padre Mauro Giuseppe Lepori ha piantato le sue radici personali ma anche quelle che hanno dato il titolo a un bellissimo dialogo con la giornalista Monica Mondo (Tea edizioni) su fede, Chiesa e monachesimo.

 

Radici nel deserto è solo l’ultimo libro di Lepori, che nasce a Lugano nel 1959 e studia all’università di Friburgo e che, prima di diventare (tredici anni orsono) l’abate generale dei Cistercensi, è stato un giovane animato da uno «struggente desiderio di pienezza» che trovava pace camminando e meditando tra boschi e campagne.

 

 

 

Sentirsi chiamati

 

«La mia vocazione risale a due incontri», racconta. «Ho percepito che questa pienezza di vita era nella Chiesa ed era Cristo. A diciassette anni ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione in una famiglia di operai friulani residenti nel mio paese in Svizzera. Quanto a Cristo, mi si è rivelato come un lampo di luce e di gioia ad Assisi, alla Porziuncola, nel giorno della festa del Perdono del 1977. Tutta la mia vita la vedo sgorgare da queste due sorgenti che in realtà sono una sola: Gesù presente e vivo nel suo corpo ecclesiale», aggiunge Lepori che nel 1989 ha emesso i voti solenni presso l’abbazia cistercense di Hauterive, poco lontano da Friburgo.

 

La sorgente torna spesso nelle sue parole ed è quella che «al di là di tutte le apparenze può dissetare l’umanità e i nostri cuori: è Gesù che, incontrando la Samaritana, questa donna così rappresentativa dell’umanità confusa e incapace di vivere l’amore per cui è creato il cuore, la porta a desiderare l’acqua viva che Lui le offre, il dono dello Spirito.

 

Quella donna ha scoperto che nel deserto della sua umanità umiliata e disprezzata c’erano radici ancora capaci di desiderare e assorbire l’acqua viva dell’amore di Cristo», precisa l’abate.

 

 

 

Missione itinerante

 

Da più di dodici anni, padre Lepori sembra più un missionario che un monaco. È sempre in viaggio per visitare le comunità dei Cistercensi sparse nel mondo.

 

«È Gesù che mi chiama a questa vita e per questo non mi ha mai privato della sua amicizia. Forse ora sono più cosciente di ciò che il monastero ha forgiato in me: quel dimorare in Cristo che accoglie la vita, le circostanze, gli incontri, le fatiche nel rapporto costante con Lui. Continuo a pregare l’Ufficio monastico, a praticare la meditazione della Parola e la preghiera del cuore che ho imparato vivendo in monastero, ma forse oggi con un sentimento più acuto», aggiunge lui, che non ha scelto i Cistercensi in modo “ragionato”.

 

«Quando ho incontrato quella realtà ho percepito con chiarezza che era lì che il Signore mi chiamava a stare unito a Lui. Ho capito, meditando il capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni, che questo è l’unico segreto della fecondità della vita: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto”».

 

Essere monaci oggi

 

Ascoltando le sue parole, e cercando le radici in questo spazio che è il deserto, viene da chiedersi cosa significhi essere monaci oggi, al di là della paura che ogni scelta comporta. «La paura in me ha spesso il volto dell’ansia, della preoccupazione di non corrispondere alle attese. Così guardo Gesù negli occhi e Lui ogni volta mi dice: “Uomo di poca fede, perché hai ancora dubitato? Perché non ti sei fidato fin dall’inizio? Perché non hai iniziato mendicando il mio aiuto?”. Ecco, essere monaci oggi vuol dire vivere unificati dal rapporto con il Signore. Anche nei monaci c’è tanto “mondo” da recuperare alla verità originale. Per questo in monastero è cresciuta in me una profonda compassione per il mondo – perché siamo tutti peccatori – ma anche la coscienza del fatto che Cristo ci chiama a sé per consolarci e far nuove tutte le cose. La vita monastica scava in noi un ardente desiderio di comunicare Gesù al mondo, che poi è lo stesso del cuore di Cristo».

 

Un tempo di fragilità

 

L’abate è consapevole del fatto che oggi, almeno in Occidente, predominano comunità monastiche fragili, di numero e di forze, che sembrano sempre in lotta per sopravvivere. «Il monachesimo in fondo è sempre stato il segno di un’umanità che trae tutta la sua forza dalla salvezza pasquale di Cristo.

 

Per questo, il diventare fragili, piccoli, e magari il morire, non è di per sé un venir meno del senso del monachesimo: ne accentua la verità e l’invisibile fecondità. Se il monachesimo oggi aiutasse il popolo di Dio a credere alla parabola del chicco di grano che morendo dà molto frutto, raggiungerebbe la pienezza del suo significato», confessa Lepori, che tra le sue preghiere elenca i Salmi, le letture bibliche e patristiche.

 

«Da quando ero novizio, un monaco mi ha insegnato a pregare col cuore l’invocazione del nome di Gesù, di Maria, domandando lo Spirito Santo e misericordia per me e il mondo intero. Questa preghiera – che potremmo definire giaculatoria, come la preghiera di Gesù della tradizione orientale, quella del pellegrino russo – mi ha sempre aiutato a pregare ovunque, anche ora che sono sempre in viaggio, e mi piace abbinarla coi misteri del Rosario».

 

Ai giovani, padre Lepori consiglia «di ispirarsi a Gesù stesso, visto che è così accessibile e così affascinante. Consiglierei di conoscerlo nel libro del Vangelo, ma anche nel Vangelo vivo che sono i santi, tutti, e tra loro includo i testimoni viventi che la Chiesa sempre manda, magari fra i propri compagni di studio, di lavoro, di sport, come lo fu il beato Carlo Acutis. Gli suggerirei infine di coltivare un aspetto della vita monastica, ovvero quello di fermarsi, ognuno come può e meglio sente, ad ascoltare in silenzio la presenza e la parola di Dio».

 

Non vivere distrattamente

 

«Sa cosa?», mi dice alla fine Lepori.

 

«La fede perde di consistenza quando pensiamo di poter vivere senza. Ovvero quando viviamo distratti, non tanto da Dio, ma da noi stessi, dal vero dramma della vita, dalle profonde esigenze del nostro cuore. Quando siamo superficiali con i rapporti, gli affetti, il lavoro, la festa, il corpo, la malattia, la morte. Chi è serio con la vita diventa sensibile alla fede, che altro non è che essere presi dall’amore di Cristo per la nostra umanità. La fede è permettere al Risorto di prendersi cura di noi come il samaritano dell’uomo ferito dai briganti. Per questo, per coltivarla direi che bisognerebbe cominciare a voler bene alla propria umanità, a guardarla con tenerezza, stupore, in noi e negli altri. Allora, appena ci sorprende lo sguardo del Signore, non possiamo non essere conquistati dall’offerta di vivere con Lui un’amicizia senza fine».

 

 

Comunicare è conoscersi dentro

 

Eugenio Borgna

 

 

Nell’interiorità matura la conoscenza di ciò che siamo, delle nostre emozioni e, ancora più intimamente della nostra anima. Questo ascolto di sé è alla radice di ogni relazione

 

 

Si comunica col linguaggio delle parole, che è la comunicazione verbale, e col linguaggio del silenzio e della solitudine, degli occhi e degli sguardi, delle lacrime e del sorriso, che è la comunicazione non verbale: le due grandi aree semantiche della comunicazione. Negli svolgimenti tematici del discorso vorrei indicare come queste due diverse modalità di comunicare si snodano in alcune emblematiche condizioni di vita, e come dovremmo di volta in volta comportarci al fine di renderle sempre più dotate di senso, e creatrici di umanità, e di solidarietà, di sensibi-lità, e di gentilezza, di attesa, e di speranza, che si intrecciano le une alle altre. La comunicazione è l’espressione del comunicare, e in vita non è possibile non comunicare, la sola cosa che ci consenta di uscire dalla solitudine; ma è necessario distinguere ancora due diverse forme di comunicazione: quella razionale e astratta, estranea ai contenuti emozionali, e quella animata dalla passione. Lo diceva Giacomo Leopardi: solo se la ragione si converte in passione, diviene strumento di conoscenza, e di comunicazione. La comunicazione razionale è quella che, nella vita quotidiana, si limita a trasmettere cognizioni, e informazioni, con un’arida elencazione delle cose. La comunicazione emozionale è quella che espone le cose con slancio, e con viva partecipazione dialogica. Le stesse cose, esposte con freddezza, o con passione, cambiano di significato, e si imparano con una diversa rapidità, e anche con una diversa partecipazione interiore. Una bellissima poesia di Clemente Rebora ( Tempo) è la premessa, la fonte, delle mie riflessioni sulla comunicazione, e sulle sue metamorfosi, e sono grato a Roberto Cicala, che è l’attuale editore delle più belle opere del grande poeta rosminiano, di avermela proposta. Leggiamola insieme: Apro finestre e porte – ma nulla non esce, non entra nessuno: inerte dentro, fuori l’aria è la pioggia. Gocciole da un filo teso cadono tutte, a una scossa. Apro l’anima e gli occhi – ma sguardo non esce, non entra pensiero: inerte dentro, fuori la vita è la morte. Lacrime da un nervo teso cadono tutte, a una scossa. Quello che fu non è più, ciò che verrà se n’andrà, ma non esce non entra sempre teso il presente – gocciole lacrime a una scossa del tempo. Questa fragile e umbratile riflessione sulla comunicazione interiore sgorga, così, da questa emblematica poesia di Rebora. Ne ho sempre letto le poesie, e i testi religiosi, che si intrecciano le une agli altri nei loro bagliori, e nella loro arcana e ardente spiritualità. I versi, che parlano dell’anima e degli occhi, colgono le radici della comunicazione, di ogni comunicazione, non solo in psichiatria, ma nella vita. Nell’ultima strofa il tempo, che è il titolo della poesia, rinasce nel suo germogliare e nel suo svanire. Nel riflettere sulla coscienza interiore, sull’interiorità, come premessa alla conoscenza e alla comunicazione di quello che noi siamo nei nostri pensieri e nelle nostre emozioni, vorrei ricordare quello che sant’Agostino ha scritto sulla conoscenza di sé, in una ( De vera religione) delle sue grandi opere teologiche e filosofiche. Le sue parole celeberrime sono: «Non uscire da te stesso, rientra in te, nell’interiorità dell’uomo risiede la verità». La mia domanda è questa: ci conosciamo, meditiamo, sappiamo isolarci dalle nostre impressioni immediate, dedichiamo tempo e pazienza indispensabili a conoscere le sorgenti profonde, e non solo quelle superficiali, dei nostri gesti e delle nostre azioni, delle nostre emozioni e dei nostri pensieri? Non c’è bisogno di essere psicologi, e psichiatri, per giungere a conoscere quello che noi siamo nella nostra vita interiore. Ci sono libri che ci aiutano in questo, e che non sono solo di matrice psicologica, ma anche di matrice poetica. Le poesie di Giacomo Leopardi, e anche quelle di Clemente Rebora, sono nutrite di una profonda interiorità e ci aiutano nel conoscere la nostra interiorità. Sì, ci sono attitudini personali nel seguire il cammino misterioso che porta alla conoscenza di sé, ma siamo (tutti) chiamati a conoscere le nostre emozioni, e quelle delle persone che la vita ci fa incon-trare, se vogliamo comunicare con noi stessi e con gli altri. Cose non facili, che si devono nondimeno tenere presenti, se vogliamo dare un senso alla nostra vita e conoscere quello di cui gli altri hanno bisogno, e che non hanno magari il coraggio di chiedere. Siamo circondati da persone, che non conosciamo nella loro fragilità e nella loro delicatezza, e che dovremmo sapere riconoscere. Una straordinaria filosofa francese, Simone Weil, autrice di libri di una indicibile bellezza e di una radicale profondità, morendo a poco più di trent’anni, ha scritto: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordo a queste grida». Quando conosciamo una persona non dovremmo mai dimenticare queste parole.

Motivi di gioia 

 

Alessandro D'Avenia

 

 

La vita felice è infatti un equilibrio tra lasciar essere e fare. Come trovarlo?

 

 

 

Ossessionati dal controllo, soffochiamo la vita, che è invece una sinergia di fare e lasciar essere, prima in noi stessi e poi nel mondo, come accade in un concerto. L'accordo di voci e suoni è presente in natura in modo sorprendente, come ha mostrato qualche anno fa Davide Monacchi nel premiato documentario Dusk chorus, tratto dal progetto «Frammenti di estinzione» atto a esplorare acusticamente le più antiche foreste equatoriali, registrando i suoni delle aree a più alta biodiversità.

 

Chi ascolta (l'ho fatto in una sfera buia con audio immersivo durante la settimana del design a Milano) diventa parte della foresta, grazie alla tecnologia del suono 3D che ha catturato i versi di insetti, uccelli, anfibi, mammiferi (e persino degli alberi). Monacchi ha poi tradotto i suoni in uno spettrogramma acustico dell'ecosistema, dove si possono vedere le bande sonore in cui i diversi animali si collocano. Il dato commovente è un'armonia in cui i versi non si sovrappongono, ma creano accordi: o occupano frequenze differenti o si alternano se usano la stessa, secondo uno spartito invisibile. Purtroppo però quando l'inquinamento acustico umano occupa alcune frequenze, gli animali che le usano sono costretti ad abbandonare l'ecosistema, e alcuni si estinguono: dal concerto si passa allo sconcerto, dall'accordo al disaccordo, dal canto al disincanto. In natura quindi ogni «voce» occupa il suo posto e si armonizza con le altre. Questa sinfonia, a cui saremmo più educati se frequentassimo i suoni naturali (è significativo della nostra nostalgia di pace che tra le playlist più seguite sulle piattaforme ci siano proprio quelle che riproducono questi suoni), è ciò a cui aspiriamo, ma spesso noi stessi la distruggiamo. Infatti se potessimo fare lo spettrogramma del nostro contesto acustico, scopriremmo quanto siamo esclusi o scappiamo dalla nostra banda sonora, o magari occupiamo quella altrui.

 

La comunicazione di oggi, urlata e saturata da chi ha i mezzi per far più rumore, tende a coprire le voci, soprattutto quella dei giovani, perché la frequenza su cui esercitarla è occupata da chi non dovrebbe star lì.

 

Scivoliamo così nella univocità (che significa «una sola voce») e monotonia («una sola tonalità») del controllo. Per vivere serve invece un'ecosistema umano corale che permetta a ciascuno di scoprire e usare la propria voce, che è il modo in cui abbiamo scelto di indicare, metaforicamente, proprio l'unicità personale: trovare la propria voce (da cui vocazione) è infatti sinonimo di vita autentica. Ma vocazione significa anche convocazione: coralità, lo strumento è orchestra, il singolo comunità. Siamo fatti perché le voci si accordino nella loro diversità in una sinfonia che non è data dalla loro somma ma da un superamento collaborativo, come narra in modo affascinante Tolkien nel racconto che dà origine al suo mondo, il Silmarillion. Protagonisti dell'origine dell'universo sono degli spiriti che abitano prima del tempo insieme a Eru Ilúvatar, il dio supremo. Eru per l'appunto li con-voca e propone un grande tema musicale, chiedendo di svilupparlo per dare vita a tutte le cose. La bellezza si espande e incarna coralmente finché uno di questi spiriti decide di mettersi in proprio tradendo l'armonia del tema e dell'orchestra: il male è uno sconcerto, un fare che impedisce il lascia che sia. Let it be. Anche a scuola proviamo a fare lo stesso aiutando i ragazzi a trovare la propria voce, e nei giorni di maturità mi è particolarmente evidente.

 

Ma abbiamo noi ancora un tema musicale da sviluppare? Esiste ancora uno spartito?

 

 

 

Alla fine dell'anno i maturandi mi hanno regalato un'edizione dell'Odissea, la stessa che abbiamo usato per la lettura integrale del poema ad alta voce durante il primo dei cinque anni di superiori, quello vissuto a distanza. Quell'esperienza di lettura in cui ciascuna voce incarnava un personaggio da un punto diverso e disperso della città, ci è rimasta nella memoria come un concerto, quando invece l'armonia era distrutta dal distanziamento. Nella prima pagina del libro di un racconto di tremila anni fa hanno apposto le loro firme, quelle che cominciano a usare per le loro nuove responsabilità. All'interno c'erano poi le loro voci.

 

Ognuno aveva infatti sottolineato il passo più amato affiancando il proprio nome alle parole di Omero. Così alla mia collezione di Odissee ho aggiunto la più bella, fatta di nomi e voci (versi). Quando la apro ascolto una musica “di classe”: volti e vocazioni, cioè la scuola, un luogo in cui, se non fossimo oberati da burocrazia, prestazioni e impegni che poco hanno a che fare con l'educazione, siamo chiamati a cercare proprio l'equilibrio tra il fare e il lasciar essere, per evitare sia il controllo sia l'indifferenza. E non è forse questo il lavoro della vita? Questo libro, divenuto per loro una sorta di tema musicale da sviluppare, sarà per me un Inno alla gioia, in cui ogni voce, unica, come ogni vocazione, per altezza, timbro, intensità e durata, si è legata ad altre in una convocazione che supera le singolarità e il tempo. E l'amore non è forse far essere «la voce a te dovuta», come il titolo del libro di un poeta innamorato? Quando tornando a casa tardi per il pranzo dopo gli orali di maturità trovo un post-it con su scritto «ti amo» e «potresti mangiare questo», non ascolto il canto quotidiano della vita? Un'armonia di fare e lasciar essere come il giardiniere cura le sue piante?

 In musica tutto questo accade grazie al silenzio. Il mio augurio è che possiate (ri-)trovare la vostra voce, unica e necessaria al concerto della vita. Lo sconcerto, il disaccordo e il disincanto in cui a volte precipitiamo non sono la realtà, ma un tradimento della voce a noi dovuta e di quelle a cui, per ecosistema, siamo legati. La vita aspira e tende infatti al coro delle foreste vergini e al concerto sui tetti di una rumorosa città. 

Riconciliarsi

 

con la bellezza

 

José Tolentino Mendonça

 

 

«Cos'è che può restituire l'entusiasmo e la fiducia, cos'è che può incoraggiare l'animo umano a riscoprire la sua strada, a volgere lo sguardo oltre l'orizzonte immediato, a sognare una vita degna della sua vocazione, se non la bellezza?». Questa domanda così seria, così esistenzialmente decisiva, è stata posta da Benedetto XVI nella Cappella Sistina, nel novembre 2009, in uno storico incontro con gli artisti. Ovviamente, per sua natura, non è una questione che riguardi soltanto le persone legate alle arti: è una sfida lanciata a tutti. La questione della bellezza è, in effetti, assolutamente centrale nell'esperienza cristiana, nell'esperienza cristiana comune, ripeto, ed è urgente che sentiamo la necessità di riconciliarci con la bellezza.

Forse oggi ci meraviglia sapere che una delle discussioni intessute dai Padri della Chiesa era decidere se Cristo era o non era bello. Non si tratta di una questione minore o futile come, forse, possiamo credere a prima vista. In effetti, è la stessa liturgia che continua ad alimentare questo dibattito. Il Salmo 45, per esempio, l'applica a Gesù:

 

«Liete parole mi sgorgano dal cuore:

io proclamo al re il mio poema,

la mia lingua è come stilo di scriba veloce.

Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo,

sulle tue labbra è diffusa la grazia,

perciò Dio ti ha benedetto per sempre!».

 

Si tratta di un salmo nuziale, dove prima di tutto si descrive la bellezza del re, i suoi valorosi attributi e la sua nobile missione e, successivamente, si passa a esaltare la promessa sposa:

 

«Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio:

dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre;

il re è invaghito della tua bellezza.

È lui il tuo signore: rendigli omaggio!».

 

La tradizione cristiana ha interpretato questo salmo come una prefigurazione della relazione sponsale di Cristo con la Chiesa. Commentava in un articolo su La bellezza e la verità di Cristo l'allora cardinale Joseph Ratzinger: «La Chiesa riconosce Cristo come il più bello fra gli uomini, e la grazia che si diffonde sulle sue labbra rimanda alla bellezza intrinseca delle sue parole, alla gloria della sua predicazione. Non è la mera bellezza esteriore dell'aspetto del Redentore che è glorificata; anzi, in lui traspare la stessa bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso, che a sé ci attrae e, al contempo, ci cattura attraverso la ferita dell'amore, la santa passione che ci permette di procedere assieme – con e nella Chiesa, la sua sposa – per incontrare l'Amore che ci chiama».

La bellezza, e la bellezza di Cristo in particolare, cattura il nostro cuore, ci ferisce intimamente, ci schiude la rivelazione, fa in modo che smettiamo di appartenere a noi stessi, ci obbliga a relativizzare ciò che eravamo, a dimenticare molte volte la nostra patria e la casa paterna, ci attrae a sé. È questo che la Chiesa prega nel Salmo 45.

Ma, mentre la liturgia utilizza ampiamente il salmo, considera allo stesso tempo indispensabile la luce che reca al mistero di Cristo il dramma del «servo sofferente», descritto in Isaia:

 

«Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?

A chi sarebbe stato manifestato

il braccio del Signore?

È cresciuto come un virgulto davanti a lui

e come una radice in terra arida.

Non ha apparenza né bellezza

per attirare i nostri sguardi,

non splendore per poterci piacere.

Disprezzato e reietto dagli uomini,

uomo dei dolori che ben conosce il patire,

come uno davanti al quale ci si copre la faccia;

era disprezzato e non ne avevamo

alcuna stima.

Eppure egli si è caricato

delle nostre sofferenze,

si è addossato i nostri dolori;

e noi lo giudicavamo castigato,

percosso da Dio e umiliato» (Is 53,1-4).

 

Come possiamo, dunque, coniugare spiritualmente i due testi? In uno Cristo è «il più bello fra i figli degli uomini», nell'altro, appare completamente sfigurato, privo di qualsiasi bellezza che attragga il nostro sguardo. Pilato, forse per attirare su di lui un resto di compassione, lo presenta semplicemente come «l'uomo»: «Ecco l'uomo!» (Gv 19,5). Commenta, ancora, il cardinale Ratzinger: «È qui implicita la questione più radicale: sapere se la bellezza è vera o se, al contrario, è la bruttezza che ci conduce alla verità più profonda della realtà. Chiunque creda in Dio, quel Dio che si è manifestato precisamente nell'apparenza sfigurata di Cristo crocifisso come amore fino alla fine (Gv 13,1), sa che bellezza è verità e verità è bellezza; ma, in Cristo sofferente, apprende anche che la bellezza della verità accoglie allo stesso tempo l'offesa, il dolore e persino l'oscuro mistero della morte, e che questa può essere assunta solo quando si accetta la sofferenza, non quando si cerca di ignorarla». In effetti, non esiste bellezza che non sia unita al mistero della croce, che non ci collochi come Maria e Giovanni sotto la croce.

Perché la riconciliazione con la bellezza di Cristo è così decisiva nella maturità di un percorso spirituale? Senza la bellezza, l'esperienza cristiana rimane incompleta. Conosciamo bene i rischi di un cristianesimo puramente sociologico, articolato semplicemente fra convinzioni e pratiche. Come nella storia di quei geologi che nelle loro ricerche scoprirono, sulla vetta di alcuni monti altissimi, un lago, dove riposavano pietre immerse chissà da quante centinaia di anni. Però, quando le spezzarono per studiarne le caratteristiche morfologiche, capirono, con meraviglia, che all'interno erano asciutte. Allo stesso modo, senza la bellezza attraente di Cristo, il cristianesimo rimane «asciutto», funzionale, burocratico, ritualista, un bagno esteriore di convenzioni rispetto al quale il nostro cuore si mantiene impermeabile.

Il nostro cuore, tuttavia, è chiamato a essere ferito dalla bellezza pasquale di Cristo e dall'amore infinito che egli rivela. La nostra vocazione è questa ferita d'amore, questo ampliarsi, questo inzupparsi fino alle ossa nell'amore di Dio, questo vivere un'appartenenza reale che accende nella vita intera il desiderio di Dio, questo sperimentare un sussulto di Dio che si prolunga negli anni: «Io dormivo, ma il mio cuore vegliava» (Ct 5,2), questa passione che non termina se non nell'assoluto di Dio e di Dio soltanto, questa epifania d'amore che quotidianamente ci compromette, trasfigura e trascende, questa inspiegabile luce di Dio che ci abbatte e solleva nel nostro cammino di Damasco.

Platone spiegava così l'impatto della bellezza in noi e la sua spiegazione ci è di grande aiuto, perché essere ferito dalla bellezza è, prima di tutto, un'esperienza antropologica: «Mentre si vede la bellezza, come in un tremore febbrile, si produce dentro di noi un'agitazione, un sudore, un calore insolito. Così è quando gli occhi ricevono il flusso della bellezza. Questo flusso scalda e irriga l'essenza...». Non è la stessa cosa che succede ai discepoli di Emmaus quando domandano: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Il cristiano si definisce come qualcuno che vive «ferito» dalla bellezza singolare di Gesù. E questa «ferita» genera in noi desiderio, volontà, attrazione, disponibilità per quanto può ancora avvenire.

La misteriosa lotta di Giacobbe con Dio (Gen 32,25-32) trascrive, paradigmaticamente, come l'irruzione del divino sia di una bellezza più forte che ci vince, bellezza irresistibile, che non smette mai di essere indicibile. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: "Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!". Gli domandò: "Come ti chiami?". Rispose: "Giacobbe". Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!". Giacobbe allora gli chiese: "Svelami il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?". E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: "Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva". Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all'anca».

«Spuntava il sole». L'incontro con la bellezza è talmente decisivo che esistono un prima e un dopo, è una nuova stagione che comincia per la nostra vita. Ed è interessante il dettaglio di Giacobbe che se ne esce dalla lotta con l'angelo zoppicando. È ferito, perché il bello di Dio ferisce, non ha niente di superficiale. Il bello di Dio convoca l'uomo al suo destino finale, gli rivela la reale grandezza della verità. Il famoso teologo bizantino Nicola Cabasilas ha scritto nell'opera La vita in Cristo (XIV secolo): «È stato lo sposo che ci ha ferito con questa ansia. È stato lui che ha inviato un raggio della sua bellezza direttamente ai nostri occhi. Se l'estensione della ferita dimostra che la freccia ha raggiunto il suo bersaglio, l'ansia dimostra chi è stato a infliggere la ferita».

In effetti, gli altri due elementi trascendenti, «verità» e «bontà», non riescono ad attrarre l'uomo, se questi non si sente toccato da «qualcosa che affascina», come scriveva Plotino. E la bellezza che attrae, fa spostare il cuore, cattura e trasfigura. Dobbiamo, per questo, oltrepassare il silenzio a cui una certa stagione razionalista, persino all'interno della teologia e della spiritualità cristiana, la votava. Riconciliamoci con la bellezza, lasciamoci trasformare interiormente da questa. Dice ancora il cardinal Ratzinger: «Essere colpiti e dominati dalla bellezza di Cristo costituisce una conoscenza più reale, più profonda, che la mera deduzione razionale. È chiaro che non dobbiamo sottovalutare l'importanza della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e preciso; questo continua ed è assolutamente necessario. Ma da qui a disdegnare o rifiutare l'impatto che la risposta del cuore produce nell'incontro con la bellezza, considerata come un'autentica forma di conoscenza, significherebbe impoverirci, esaurire la nostra fede e la nostra teologia. Dobbiamo riscoprire questo modo di conoscere, e si tratta di una necessità urgente al giorno d'oggi».

Nel suo sviluppo storico, l'esperienza cristiana è diventata humus di alcune sorprendenti espressioni della bellezza: l'architettura religiosa, da Michelangelo a Gaudí; le impressioni incandescenti trascritte dai mistici (pensiamo a Ildegarda di Bingen o a san Giovanni della Croce); i registri iconografici che riproducono l'incommensurabile (le moltitudini giornaliere sono la prova che la Cappella Sistina dà i brividi a qualsiasi mortale); le opere musicali che risuonano come inventari dell'anima o come il suo genio; gli immensi dizionari del naturale e del soprannaturale; i simboli, il laboratorio di linguaggi che si sviluppano infinitamente. Ma tutte queste espressioni possono diventare semplicemente equivoche, perché la bellezza non è un patrimonio che la Chiesa ha posseduto, possiede o amministra. La bellezza si lega alla rivelazione della stessa Chiesa, alla sua identità soprannaturale. È questo il «grande mistero» a cui si riferisce la Lettera agli Efesini: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei... per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga» (5,25-26). La Chiesa in Cristo, nel mistero della sua natura e della sua missione, è l'aurora della visione, è questo impeto, storico e infinito, verso il punto di vista di Dio. In modo velato, ma tremendamente efficace, costituisce espressione e dramma della sapienza divina.

Così scrive Dionigi Aeropagita, offrendo l'esempio di san Paolo: «Sublime Paolo caduto sotto il pungolo dell'eros divino e reso partecipe del suo potere estatico, grida con voce ispirata: "Vivo, ma non sono io ormai che vivo. È Cristo che vive in me". Egli parla, dunque, come un vero amante, come qualcuno che, come lui stesso dice, è fuori di sé e vive estaticamente in Dio (2Cor 5,15), in tal modo che non vive ormai la sua vita, ma quella dell'amato, come qualcuno ricolmo d'amore appassionato».

L'affermazione centrale, e tanto citata, di Gesù nel Vangelo di Giovanni (10,11), che ci siamo abituati a vedere, in ogni luogo, tradotta come «io sono il buon pastore», possiede in effetti un'altra possibilità di significato. Si può tradurre con: «Io sono il bel pastore». Nella visita apostolica in Portogallo, durante il discorso al Centro Culturale di Belém, Benedetto XVI ci ha lanciato la sfida: «Fate cose belle, ma soprattutto fate delle vostre vite luoghi di bellezza». Lasciamoci toccare, incantare, innamorare, ferire dalla bellezza che Dio rivela in Gesù.

 

 

(Il tesoro nascosto. Per un'arte della ricerca interiore, Paoline 2011, pp.71-80)

 

 

SPERANZA

 

 

La speranza “sorella più piccola”

Gianfranco Ravasi

 

La speranza non è né inerzia, né impazienza. È invece fiducia e condivisione dell'azione lenta e nascosta di Dio che conduce la storia alla meta simboleggiata dalla mietitura, nella quale grano e zizzania saranno separati e vagliati per quello che sono

 

“E’ sperare la cosa difficile

a voce bassa e vergognosamente.

E la cosa facile è disperare/ ed è la grande tentazione”.

Così, nel poema II portico del mistero della seconda virtù (1911), Charles Péguy celebrava questa “sorella più piccola” della fede e della carità, seconda virtù teologale, dono divino da coltivare con pazienza e fatica. Non per nulla, accanto al greco elpis che la designa, S. Paolo userà per descriverla anche il termine hypomonè, “costanza”, letteralmente un “rimanere sotto” un peso da reggere, un restare sotto un cielo oscuro con la certezza che giungerà il tempo della sosta e della luce. È per questo che ai cristiani di Tessalonica l’Apostolo raccomanderà “l’impegno nella fede, l’operosità nella carità e la costanza nella speranza” (1Tess 1,3).

Il credente, infatti, conosce l'amarezza dell'esistenza e le contraddizioni della storia perché la religione biblica non lo invita a decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici, bensì a camminare per le strade della quotidianità. Anche sulle sue labbra affiorano le domande dei Salmisti:

“Perché, o Signore?... Fino a quando, o Signore, te ne starai a guardare?”. O la confessione di Giobbe: “I miei giorni scorrono veloci come una spola, svaniscono senza un filo di speranza... La mia speranza dov’è mai nascosta? Qualcuno ha intravisto la mia felicità?” (7,6; 17,15). È proprio in questo orizzonte concreto e aspro che deve scattare l’impegno: ritrovare la speranza anche quando si procede in mezzo al trionfo dell’ingiustizia. È quello che ripetono i Salmisti: “Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui; non irritarti per chi ha successo, per l’uomo che trama insidie... Io spero nella tua parola” (37,7; 119,81). Due sono, quindi, le componenti che reggono questa virtù. C’è innanzitutto la certezza che la parola ultima sarà quella di Dio che giudicherà questa sghemba e scandalosa storia umana. Emblematica è la parabola del grano e della zizzania (Matteo 13,24-30). La scena del mondo è comparata a quella di un campo ove grano ed erbacce crescono insieme: bene e male si fronteggiano e il male sembra ben più vigoroso. Si ha, allora, la grande tentazione della rassegnazione, dello scoraggiamento o, al contrario, quella della reazione rabbiosa e violenta. La speranza non è né inerzia, né impazienza. Non è assenteismo dimissionario, né irruzione veemente che, anziché salvare il bene, allarga solo le ferite. È invece fiducia e condivisione dell’azione lenta e nascosta di Dio che conduce la storia alla meta simboleggiata dalla mietitura, nella quale grano e zizzania saranno separati e vagliati per quello che sono.

Ecco, allora, a questo punto, l’altro aspetto, quello dell'impegno umano nella resistenza al male, nella fedeltà al bene, nell’attesa operosa. È ciò che un sapiente biblico, forse di Alessandria d'Egitto, suggeriva: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio... Anche se agli occhi degli uomini subiscono prove, la loro speranza è piena di immortalità” (Sapienza 3,1.4). Si costruisce con pazienza il regno di Dio in mezzo alle prove, tenendo sempre alta la fiaccola della speranza perché ciò che attende l’umanità e l’essere intero non è il baratro del nulla ma è quella città che l’Apocalisse descrive a suggello della sua realistica e severa lettura della storia umana: la Gerusalemme nuova e perfetta ove Dio passerà a “tergere ogni lacrima dagli occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (21, 4).

Il filosofo Ernst Bloch, autore della famosa opera Il principio della speranza (1954-59), suggestivamente ricordava che “finché c’è fede, c’è speranza”, al contrario del motto tradizionale “finché c’è vita, c’è speranza”. L'olio della fede alimenta la lucerna della speranza e ci spinge a trascendere il male, a “rimanere sotto” (hypomonè) il giogo delle prove con fedeltà, a proseguire verso quell’orizzonte di luce che ancora è lontano, ma che è certo e preparato da Dio stesso. È per questo che S. Pietro ripete ai cristiani, oggi come allora, il suo appello: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pietro 3,15).

 

 

Uomini e donne della speranza

Paola Ricci Sindoni

 

Dire laicità significa condividere con tutti l'ansia premurosa per il presente e anche la passione per quanto abbiamo davanti a noi

 

“L’uomo non va capito tanto dal suo passato, quanto dal futuro che egli sogna”, sosteneva qualche anno fa il teologo Ladislaus Boros. Questo non certo perché le ferite del passato e le delusioni del presente debbano esporre l’uomo a una irreale fuga in avanti, ma a motivo della speranza che può e deve diventare una categoria essenziale dell'identità del laico credente.

Dire laicità significa predicare l'amore per il mondo e condividere con tutti l'ansia premurosa per il presente e anche la passione per quanto abbiamo davanti a noi. Non si tratta certo di immaginare idealmente o razionalmente un nuovo progetto di vita, in grado di neutralizzare le inquietudini e le crisi che attraversano ormai le fibre nascoste dell’essere umano nel mondo, quanto individuare nell’uomo vivente la dimensione del suo reale trascendimento. Questo movimento non è altro “che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé, oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando l’impronta di un altro essere, producendo un effetto, agendo oltre se stessi, come se l’essere di ogni cosa terminasse in un’altra” (Maria Zambrano). Esiste, insomma, sul fondo di ogni essere umano un’ansia di trascendenza, che è pura fidatezza nella capacità rivelativa dell’incontro, nella possibilità estrema di intercettare l’alterità, con cui ci si apre con slancio alla compiutezza di ciò che l’uomo vuole essere.

“Il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza”: è sempre la filosofa spagnola Maria Zambrano che parla.

L’essere umano, al contempo solitario e mancante, ha bisogno di una realtà intera in cui vivere, di una terra in cui crescere e dimorare, di un luogo che sia tanto ospitale da condensare la sua totale coscienza temporale. Questa appare, infatti, sempre esposta alla drammatica alternativa di doversi irrigidire in un presente vuoto e assolutizzato, in un passato sterilmente assunto, oppure in un futuro, dato come puro non-essere.

La speranza, in altri termini, non è soltanto per l’uomo la possibilità di realizzare tante opzioni nel presente, ma l’orizzonte aperto verso quell’ulteriorità di “Essere” che preme per un pieno compimento di sé. È anche garanzia di un legame rinsaldato nell’incontro con gli altri uomini, quello che sempre si compie nel presente, nel tempo cioè divenuto luogo originario della presenza dell’Altro.

Un modo per dire che la speranza non è tensione autentica verso un futuro amato e cercato, se non si fa terra presente dell’incontro, luogo che preme, oggi, ora, perché ciò che sta oltre, divenga sogno credibile. Certo, questa non è ancora speranza tematizzata, ma solo innata tensione dell’anima che spinge per ritrovare nel presente il terreno su cui radicare l’attesa, “speranza primordiale”, può essere detta, quella che consente di muovere i primi passi verso il futuro.

La speranza di un futuro migliore è indistruttibilmente fondata nell’umana aspirazione alla felicità, che può rivestire i panni, a volte, dei segni poco appariscenti, ma attraverso i quali può succedere di scoprire i riflessi di una dignità eterna. Ogni credente sa che le sue attese, sempre più grandi delle sue possibilità, possono forzare la realtà e spingerla verso quella sorgente originaria, ancora in parte nascosta. Tale fonte primordiale è indicata in modo grandioso e suggestivo in quel principio di comprensione cristiana dell’esistenza, che Paolo ha così espresso: “Ciò che nessun occhio ha visto, e che nessun orecchio ha udito, e ciò che in nessun cuore umano è emerso, Dio lo ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).

Il Maestro di Nazareth si autopresenta come il “compimento”, il perfezionamento di tutte le promesse, la realizzazione della Speranza, madre di tutte le speranze. Egli è colui che non “passa”; egli resta: “Io resto con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Tutte le promesse hanno in lui il loro adempimento: “Ecco io vi mando la promessa di mio Padre” (Lc 24,49). Ogni anelito dell’uomo sembra, anche inconsapevolmente, puntare su di Lui; ogni slancio impaziente verso il compiersi dell'attesa, che trova espressione nel suo personificare la speranza che implora: “Vieni presto” (Ap 22,17). Una speranza così non delude (Rm 5,5), anzi si pone come dinamica positiva contro le inevitabili ricadute nel dolore e nella disperazione: “Noi sappiamo che il Cristo, una volta risorto da morte, non muore più. La morte non ha potere su di lui(...). Anche voi dovete pensare di voi la stessa cosa” (Rm 6, 9-11). In Gesù “tutti i conti tornano” (L. Boros). Egli realizza pienamente e, quindi, assolutamente comprende la vita umana: “Egli è il giudice dei pensieri e dei sentimenti del cuore: nessuna creatura è nascosta davanti a lui; tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13). La salvezza, già realizzata in Gesù Cristo, attende di compiersi in ciascun uomo, che si pone sulla terra dell’incontro con Lui. Si ha a che fare qui non con una attesa indeterminata, ma con una speranza piena e rivolta a un contenuto di pienezza. Paolo può dire al riguardo: “Gioite nella speranza” (Rm 12,12), anche quando si è travolti dal dolore e dalla delusione.

Senza un pensiero forte sul senso dell’alleanza, capace di istituire l’assolutezza della speranza, non sarebbe comprensibile l’esperienza ebraico-cristiana della delusione e della sofferenza. Questo non significa certo che la lunga pazienza dello sperare annulli d’incanto l’ineliminabile presenza del male nel mondo, là dove il rischio del fallimento è sempre in agguato. E tutto ciò deve diventare carne e sangue del laico credente, aperto alle attese del mondo senza facili ottimismi, ma anche senza consolanti certezze.

 

Non è più tempo, anche all’interno della vita ecclesiale, di facili fughe in avanti, destinate a lasciare inevase le grandi questioni dell’umanità che pure ci appartengono e ci accompagnano. Né è più possibile convivere con progetti di piccolo calibro, quelli che ci rassicurano dentro le pareti chiuse dello spazio privato o della propria comunità di appartenenza. La nostra coscienza di credenti, uomini e donne che vivono la fedeltà alla loro storia, ci conduce sempre al di là, dove la speranza indica, senza fragore ma con urgenza, che è possibile e necessario dare compimento alla nostra apertura verso l’Altro: Altro che è insieme il mio prossimo, vicino e lontano, oltre che il segno di una Trascendenza creduta e amata.

La speranza è come una corda tesa tra due abissi, il mio presente che tende ad un futuro. Speranza è coltivare nel

presente un buon futuro. Coltivare tutte le condizioni di fecondità delle vite e degli spiriti.

La speranza è una cordicella di filo scarlatto, appesa la balcone della mia vita, alla quale mi aggrappo, perché so che

il capo del filo rosso della storia è saldamente nelle mani di Dio. E Dio salva, questo è il suo nome.

Fino a che c’è fatica c’è speranza, scriveva don Milani. La speranza è la fatica del non arrendersi alla sproporzione

tra ciò che ho tra le mani e ciò che attendo, la fatica degli occhi che si aprono.

Dio apre gli occhi anche a noi, e vediamo ciò che già è qui, strade di cui non

ci eravamo accorti, bellezza che c’era sfuggita, vediamo un fratello in chi ci

pareva straniero, la poesia nel quotidiano. Il filo scarlatto della salvezza.

I segni della speranza vengono a noi mansueti come colombe (Camus) La

corda della speranza si tende verso il futuro per lo più con piccole cose: un

incontro, una

telefonata, un amico,

un sms quando

pensavi di non

farcela più, una

parola ascoltata alla

radio, letta in un

libro, una luce

interiore. Una

carezza. Alle volte

non fornisce neppure

pane, ma solo un

pizzico di lievito.

 

Padre Ermes Ronchi

La Speranza ogni cosa della Sua Luce

 

Bruno Forte

 

La speranza è, prima di tutto, una distensione dell’io… Essa entra nella situazione più profonda dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo” (Emmanuel Mounier). Accogliere la sfida della speranza vuol dire allora volersi veramente umani, sanando le ferite dell’anima. Rinunciarvi è rinunciare alla vita. Ne è consapevole Cesare Pavese in questi versi struggenti, scritti poco prima della sua tragica fine, in cui il bisogno di speranza del suo cuore solitario cedette alla disperazione: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla [1] Benedetto XVI, uomo del nostro tempo, pensatore rigoroso e testimone della fede, raccoglie questa sfida, questa sete di speranza, questo bisogno “che ci accompagna dal mattino alla sera”, su cui si gioca la vita o il nulla: sin dall’inizio della sua Enciclica sulla speranza - intitolata Spe salvi, “salvati nella speranza”, con le parole di Paolo nella lettera ai Romani (8,24) - si riferisce alla speranza come all’urgenza decisiva cui corrispondere per vivere e dare senso alla vita: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (n. 1). Solo se c’è in noi una speranza certa potremo dare senso alla vita e riusciremo ad amare al di là di ogni misura di stanchezza. Nasce da qui l’ineludibile domanda con cui si confronta il Papa nella sua Enciclica: “che cosa possiamo sperare?” Si tratta di un interrogativo largamente umano, che ci riguarda tutti, dal momento che tutti abbiamo bisogno di una “speranza affidabile, in virtù della quale poter affrontare il nostro presente”.

La varietà di risposte offerte a questa domanda, ne mostra la radicalità e l’ineludibile ritorno. In un’epoca di passioni ideologiche, Roger Garaudy aveva definito la speranza “l’anticipazione militante dell’avvenire”, con una sottolineatura - tipica di quella stagione - dello sforzo prometeico del soggetto personale e collettivo nella realizzazione del futuro sognato e atteso. In un contesto analogo, anche se in forma alternativa a un’aspettativa solo mondana, il teologo della speranza, Jürgen Moltmann, l’aveva definita come “l’aurora dell’atteso, nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce”, evidenziando come vivere nella speranza significhi “tirare l’avvenire di Dio nel presente del mondo”. In questo senso, egli aveva polemizzato col filosofo della speranza, Ernst Bloch, marcando la differenza fra l’“homo absconditus” del “principio speranza”, risolto nelle sole possibilità dell’umano, e il “Deus absconditus”, il Dio nascosto che viene dal futuro, indeducibile e sorprendente rispetto a ogni calcolo o misura del mondo.

 

Benedetto XVI ci ricorda come alla domanda decisiva “Che cosa possiamo sperare?” la fede cristiana dia sin dall’inizio una risposta chiara: “La salvezza… ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza” (Spe Salvi 1). Certo, dire che la speranza è dono non significa ignorare lo sforzo che essa esige: “Oggetto della speranza - affermava già Tommaso d’Aquino - è un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi”. Sperare, insomma, non è la semplice dilatazione del desiderio, ma l’orientare il cuore e la vita a una meta alta, che valga la pena di essere raggiunta, e che tuttavia appare raggiungibile solo a prezzo di uno sforzo serio, perseverante, onesto, capace di sostenere la fatica di un lungo cammino. Nello stesso senso, Kierkegaard aveva definito la speranza “la passione per ciò che è possibile”, mettendo in particolare l’accento sull’elemento del “pathos”, di quell’amore dolente e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e attesa. E tuttavia il solo sforzo umano non basta per vivere nella speranza che non delude…

La speranza è ciò che può dare senso all’attesa, la rende efficace e ne accelera il compimento, e noi umani portiamo nella nostra interiorità il seme della speranza, di cui siamo dotati fin dalla nostra nascita. È vero che all’origine di ogni nostra virtù c’è la fiducia (fede), ma la speranza la accompagna sempre e resta la più necessaria nei tempi di incertezza e di dubbio, quando la nostra fede si fa debole.

Oggi la speranza sembra essere la virtù più difficile e molti non arrivano neppure a formulare la domanda fondamentale: «Cosa posso sperare?». Non essendoci capacità di ascoltare una promessa, non riuscendo più a intravedere un orientamento, la speranza resta confinata a un sentimento di sopravvivenza.

E i cristiani? Più volte mi sento spinto a ripetere l’interrogativo di Ilario di Poitiers, vescovo e padre della Chiesa del IV secolo: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Eppure Cristo nostra speranza è la forza della nostra vita.

Se Cristo è la nostra speranza, allora «noi attendiamo cieli nuovi e terra nuova» (2Pt 3,13), non nel senso che attendiamo il paradiso, ma che sperando operiamo, ci impegniamo in questa nuova creazione che è già iniziata con la risurrezione di Gesù Cristo.

La speranza è per oggi, per questo è una virtù! La nostra speranza partecipa a quella di tutta l’umanità, è quella della creazione che geme e soffre, nutrendo la speranza della liberazione (cf. Rm 8,20-22).

La speranza – dobbiamo avere il coraggio di dircelo – è speranza che la morte non abbia più l’ultima parola.

Questo è il proprium della nostra fede cristiana: speranza nella risurrezione, nella vita piena, nel risarcimento donato a quanti su questa terra hanno sofferto e conosciuto ingiustizia e oppressione, malattia e povertà.

Quando l’apostolo Pietro, indirizzandosi ai cristiani in diaspora in mezzo ai pagani, li invita alla missione, non chiede loro particolari azioni o strategie, ma solo di essere «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

Sperare è vivere da cristiani, sperare è già evangelizzazione. Non sarà forse che oggi la nostra evangelizzazione è sterile proprio perché negli evangelizzatori manca la speranza?

Certo, occorre esercitarsi alla speranza: deposta come un seme nella vita di ciascuno di noi, deve essere confermata, esercitata impegnando anche la propria volontà. Bisogna decidere di sperare, come Abramo che «ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18).

Esercitare la speranza rende visionari, nel senso che si scruta l’oggi e si intravede il domani, si contemplano le cose visibili ma si vedono quelle invisibili.

La speranza è la virtù dei poveri, dei viandanti e dei pellegrini, è la virtù che chiede di essere vissuta insieme agli altri: solo “insieme”, infatti, si può sperare, e allora si è capaci di sperare per tutti.

Pensiamoci bene: preferiamo sempre lamentarci, ci rifugiamo nelle valli dell’indifferenza e del sonnambulismo spirituale, ci accontentiamo di sopravvivere senza attendere più nulla, e così la nostra vita rimpicciolisce, si fa misera, senza più slanci né passioni.

 

Aveva dunque ragione Charles Péguy quando scriveva in forma poetica: «La virtù che preferisco, dice Dio, è la speranza. La fede non mi stupisce… la carità neppure. Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce: è proprio la più grande meraviglia della mia grazia». Questo è davvero un tempo per impegnarci tutti insieme a sperare.

Il coraggio della Speranza

 

 

 

Eugenio Borgna

 

 

 

 

 

La speranza fa parte della vita, è una esperienza umana che ha molteplici espressioni tematiche e che ha una sua radicale significazione non solo in filosofia e in teologia, ma anche in psichiatria e, cosa ancora più importante, nella vita di ogni giorno; e di speranza vorrei parlare in queste pagine, intessute delle mie esperienze di vita.

 

 

 

La speranza non è l’attesa

 

 

 

L’attesa e la speranza sono esperienze di vita contrassegnate da concordanze tematiche ma che non si confondono l’una nell’altra.

 

Ci sono attese che non finiscono mai e attese che nascono e muoiono rapidamente; ci sono attese che si rievocano con ansia e inquietudine e attese che si rivivono invece con serenità; ci sono attese incentrate su eventi felici e altre su eventi ricolmi di angoscia e di dolore; ci sono attese che sconfinano nella speranza e attese che nulla hanno a che fare con la speranza; ci sono attese che riguardano il nostro destino e attese che riguardano il destino di altre persone; ci sono attese che invece cambiano di giorno in giorno e attese che non si concludono mai.

 

Ma ci sono altre attese: attese terrene e attese metafisiche, attese di qualcosa che ci consente di continuare a vivere, di ritrovare un senso alla vita, e attese disperate che non si realizzano mai.

 

Non saprei come meglio avviarmi alle riflessioni conclusive sull’attesa, e sulla sua ragione d’essere tematica, se non richiamandomi alle cose scritte da Eugène Minkowski, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, in testi di straordinaria importanza, non solo fenomenologica, ma anche psicopatologica. Anche nelle sue più alte e complesse considerazioni, alle quali non sono mai estranee implicazioni filosofiche bergsoniane e husserliane, egli non si allontana mai dalla sua esperienza clinica. Così definisce l’attesa: «Essa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro.

 

Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo». A queste considerazioni Minkowski ne aggiunge altre: «L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà.

 

L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa».

 

L’attesa non si identifica così con la speranza; benché l’una e l’altra siano tematizzate dal loro distendersi nel futuro: nell’orizzonte delle cose che ancora non sono state, e che nondimeno saranno, o potranno essere; ma cosa si può dire della speranza, come definirla nelle sue fondazioni esistenziali?

 

 

 

La speranza nelle sue fondazioni esistenziali

 

 

 

La speranza come categoria esistenziale non può essere intesa nella sua emblematica radicalità se non nel contesto di riflessioni non solo psicopatologiche, ma anche filosofiche, che ci consentano di avvicinarci al nucleo eidetico della speranza: ai suoi infiniti orizzonti di senso. Come è possibile non citare, nel contesto di questo discorso, le parole vertiginose di Blaise Pascal sul tempo e sulla speranza? «Noi non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce con cui predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine.

 

Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai».

 

La dialettica e il mistero della speranza, gli abissi di significato che sono in essa, riemergono da queste parole che sfidano il tempo; e a noi, a chiunque di noi intenda fare una psichiatria fenomenologica e antropologica, non rimane se non di riversare nel solco delle esperienze cliniche il senso di quello che le riflessioni pascaliane racchiudono in sé. Noi non viviamo mai ma speriamo di vivere; e allora, quando la speranza viene meno in noi, quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando cioè la depressione, la malattia che recide drasticamente la speranza, nasce in noi, come è possibile vivere e continuare a vivere?

 

 

 

La speranza nelle sue radici fenomenologiche

 

 

 

Nel suo splendido libro, dedicato al tempo vissuto, Eugène Minkowski ha scritto pagine bellissime sulle radici fenomenologiche della speranza. «La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa.

 

Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me». E ancora: «Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire- ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».

 

Conoscere gli andamenti della speranza nelle aree delle esperienze psicopatologiche è senz’altro utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assenza, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: nelle sue crisi e nei suoi naufragi. La speranza, nella sua trascendenza, ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose, mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell’anima con le loro angosce e le loro lacerazioni.

 

 

 

Ridestare la speranza

 

 

 

Dalle parole di chi sta male, di chi sia immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso, di un qualche senso, nella vita, riemergono l’importanza e i significati della speranza, e dei suoi naufragi.

 

Questi si riflettono nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiarsi e nello svuotarsi degli orizzonti di vita, nel dilatarsi del presente e del passato, nell’inaridirsi dell’avvenire del quale non sopravvivono se non alcuni frammenti che non danno sollievo, e che non creano comunicazione e comunione con il mondo delle persone e delle cose. Dalla evanescenza della speranza discendono poi solitudine e isolamento che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri.

 

Quando questo avviene, quando la disperazione depressiva, psicotica o esistenziale, svuota di senso la vita, e la morte volontaria ne è una delle conseguenze possibili, la cosa essenziale è quella di ascoltare e di valutare se la condizione psicotica, depressiva o esistenziale mantenga aperti gli spazi a una qualche attesa, a una qualche speranza, che possano essere ridestate nel contesto del progetto terapeutico.

 

Confrontandoci, noi che viviamo nella speranza e nelle speranze, con chi non abbia più speranze nel cuore (bruciate dall’angoscia e dalla disperazione), non dovremmo mai dimenticare la debolezza e le ambivalenze delle nostre parole e dei nostri gesti che non sempre sono dotati di una radicale testimonianza terapeutica. Le parole leggere, o le parole pesanti come piombo: quali parole abbiamo nel cuore quando ci avviciniamo al destino, al volto e agli sguardi, ai silenzi e agli scoramenti, alla tristezza e all’angoscia, alla timidezza e alle insicurezze, alle speranze recise di chiunque fra noi sia colpito dalla malattia mortale e dalla disfatta della speranza?

 

 

 

La speranza nella cura

 

 

 

Non solo negli incontri che la vita ci propone ogni giorno, ma anche, e soprattutto, negli incontri che si hanno con pazienti divorati dall’angoscia e dalla disperazione, è davvero necessario intendere il senso misterioso di un dialogare nel silenzio; e questo al fine di intuire cosa questi pazienti sentano, e cosa provino, quali attese e quali speranze inquiete essi abbiano, e quali ombre scendano sugli orizzonti della loro vita.

 

Grande importanza, in ordine alle risultanze terapeutiche, ha la presenza in chi cura della speranza, della capacità e della possibilità di mantenere viva la fiaccola, o almeno la scintilla, di una speranza come atteggiamento interiore; e questo, in particolare, quando ci confrontiamo con le esperienze psicotiche che si esprimano nell’autre monde della follia. La speranza è come l’anima di una psicoterapia che tenda a fare riemergere le risorse nascoste e galleggianti nella vita interiore dei pazienti.

 

 

 

La nostalgia della morte volontaria

 

 

 

La speranza, senza confondersi mai con l’ottimismo, ci conduce a rivivere la sofferenza degli altri da noi come la nostra possibile sofferenza e a partecipare alla loro angoscia e al richiamo in loro della morte volontaria. Non è possibile, in ogni caso, confrontarsi con esperienze oscure e ambiva- lenti, come sono quelle che si correlano in particolare con la nostalgia della morte volontaria, se non si riconoscono le emozioni che sono in noi: la qualità delle nostre relazioni controtransferali che, se sono impregnate di inquietudine e di paura, non ci consentono di svolgere un utile lavoro psicoterapeutico.

 

Se non accettiamo interiormente l’esperienza del suicidio come possibilità radicata nella condizione umana e se la riviviamo come destituita di ogni possibile orizzonte di senso, allora non nascerà mai in noi una speranza capace di trainare una psicoterapia adeguata alla comprensione di quello che avviene nella vita emozionale, e nella storia della vita, di chi sia affascinato dal desiderio del suicidio, dall’anelito a rifuggire da una vita rivissuta come insopportabile e insostenibile. Se la speranza è in noi, se comprendiamo il senso dello scacco esistenziale che c’è nel suicidio, allora ci sarà possibile parlare sinceramente con i pazienti della cosa evitando inutili e vaghe allusioni.

 

Senza dimenticare mai che, quando il suicidio fallisce, essi si vergognano del gesto compiuto e tendono a banalizzarlo e a tacerlo, a rimuoverlo.

 

Il parlarne, in ogni caso, esige una grande delicatezza e una grande discrezione, e anche una grande attenzione alle motivazioni che vengono espresse, e a quelle, magari molto più importanti, che vengono taciute. Le parole con le quali si conclude lo splendido saggio di Walter Benjamin sulle goethiane Affinità elettive dovrebbero essere incise nel cuore di ciascuno di noi quando la vita si fa difficile e non è lontana da noi la disperazione.

 

Le parole sono queste: «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».

 

 

 

La speranza che rinasce

 

 

 

Come si vive la speranza quando la tristezza, la malinconia, il male di vivere, la depressione, che ne è la definizione clinica, scendono nella nostra vita, velandola e immergendola nella notte oscura dell’anima? Non conosco testimonianza più umana e struggente di quella che mi è stata data da una mia giovane paziente, curata in anni lontani e mai dimenticata, che ho chiamata Maria Teresa, nella quale l’eclissi della speranza e la sua rinascita sono state la conseguenza di una condizione depressiva di vita.

 

Ne vorrei ricordare alcune sue parole, che sono state di disperazione prima e di rinascita della speranza poi. «Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa tremenda sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non più alcuna speranza». A queste parole si univa una angoscia lacerante e una stremata tristezza dell’anima, che sembravano non finire mai; e invece dopo alcune settimane di cura un cambiamento radicale: la speranza perduta, a mano a mano si rigenera, e queste sue parole lo dimostrano.

 

«Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo nel miglioramento di mia figlia.

 

Avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ma ieri è nata improvvisamente in me una diversa speranza. Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Una speranza che contiene il futuro ma un futuro che è vita. La presenza di un avvenire. Il futuro mi spaventava, prima, perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente.

 

Ieri, non avvertivo più questo senso negativo. La speranza che si apriva, ed era come una nuova vita ». Sono parole emblematiche della significazione umana della speranza, del suo rinascere dal cuore, come fonte di conoscenza, del suo scomporsi in speranza e in speranze, una differenza di radicale importanza, del suo essere la splendida descrizione di una speranza che si forma muovendo dalla interiorità.

 

Sono parole che sanno dare di questo passaggio dalla disperazione alla speranza una straordinaria evidenza, che si è accompagnata ai cambiamenti delle espressioni del volto, da dolorose e straziate a luminose e ridenti. Sono esperienze che danno un senso alla psichiatria, come scienza umana, che aiuta, direi, ad avvicinarsi al cuore della speranza.

 

 

 

Le ultime cose

 

 

 

La vita dell’uomo è la speranza, e alla speranza vorrei invitare i miei occhi e gli occhi delle lettrici e dei lettori di questa meravigliosa rivista a guardare come alla coda di una cometa che non possa né oscurarsi né spegnersi.

 

Ma non mi è ora possibile dimenticare quello che della speranza dice Giacomo Leopardi in celebri pensieri dello Zibaldone; e in particolare in questi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza»; e ancora: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amore di se stesso.

 

Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita».

 

Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce; e la speranza, come diceva sant’Agostino, è misteriosamente intrecciata alla memoria. Questo ci dice che passato, presente e futuro scorrono senza fine l’uno nell’altro; e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel suo cuore la speranza che è fragile come cristallo e dura come diamante. Sapere testimoniare la speranza, che vive in noi, a quanti l’hanno perduta è una esperienza che ne allarga i confini; e nella speranza si riesce a donare un senso all’infinito del dolore. Ma non potrei concludere queste mie riflessioni se non dicendo che la speranza ha bisogno di coraggio: quello di non lasciarsi affascinare da quello che avviene nel momento in cui viviamo, quello di ricercare senza fine il possibile che si nasconde nell’impossibile, quello di non identificare la speranza con l’ottimismo, che non ha nulla a che fare con lei, quello di non dimenticarsi mai che la speranza è apertura al mistero e che ci saranno sempre più cose in cielo e in terra di quelle che non conoscano le nostre filosofie, e le nostre psichiatrie: le celebri parole, aggiornate, dell’Amleto.

 

Una bellissima poesia di Emily Dickinson sigilla questo mio discorso sulla speranza.

 

 

È la “speranza” una creatura alata / che si annida nell’anima – / e canta melodie senza parole– / senza smettere mai – E la senti dolcissima nel vento – / e ben aspra dev’essere la tempesta che valga a spaventare / il tenue uccello che tanti riscaldò – Nella landa più gelida l’ho udita – / sui più remoti mari – / ma nemmeno all’estremo del bisogno / ha voluto una briciola – da me.

L’esercizio della speranza

 

Enzo Bianchi

 

In Occidente, ma non solo, si percepisce da decenni il segno dominante della “crisi”. Da più parti questo nostro tempo è addirittura letto come tempo della “fine”: fine della civiltà occidentale (Jacques Derrida), fine della modernità (Gianni Vattimo), fine non solo della cristianità ma anche del cristianesimo, che sembra perdere la capacità propulsiva innestata dal tentativo di riforma ecclesiale del concilio e del post-concilio.

Dominano la precarietà del presente e l’incertezza del futuro, e soprattutto per le nuove generazioni vi è un’incognita che desta diverse paure per la sua imprevedibilità e per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano: viviamo in un mondo in fuga, che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di comprendere dove stiamo andando. Per questo nel suo saggio Le nuove paure Marc Augé giunge a denunciare che oggi si teme più il vivere che il morire. In particolare, i nostri ragazzi si lasciano vincere da qualcosa che non sanno neppure nominare e guardare in volto, eppure sperimentano come distruttivo: il nichilismo, che spesso impedisce ogni ricerca di senso e di felicità. Per queste ragioni credo che oggi più che mai occorrerebbe riascoltare la domanda: “Che cosa posso sperare?”. E anche: “Che cosa possiamo sperare insieme?”. È una domanda a volte muta, che con fatica ho sentito e sento risuonare in molti incontri e dialoghi con i giovani. È la domanda più profonda, che essi non sanno neppure facilmente articolare. La speranza, infatti, non è un atteggiamento da assumere o rifiutare tout court, ma è il frutto di un discernimento, di un’attesa fondata sul pensare, sul riflettere, sull’ascoltare, sul confrontarsi, ed è anche un esercizio di grande responsabilità.

L’umano non è un dato una volta per tutte, bensì è un divenire che abbisogna di un orientamento, di una progettualità, di uno scopo per cui operare, in modo da trovare un senso. Ha ragione Fëdor Dostoevskij quando afferma che «vivere senza speranza è impossibile», perché le persone alle quali è sottratta la speranza divengono aggressive, violente, apatiche, fino a cadere in una sorta di angoscia autodistruttiva.

Vi è però un’errata comprensione della speranza dalla quale guardarsi: quella di chi tende costantemente oltre il presente, senza coglierlo nella sua irripetibilità, costringendosi così a un’esistenza vissuta al futuro anteriore. No, non si vive aspettando di vivere, preparandosi sempre, e invano, a una felicità che non arriva mai… Sperare è un’arte, è l’essere pronti a ciò che ancora non è nato, è un atto di fede e un’adesione convinta a una promessa: è una lotta contro la disperazione, ed è per questo che è capace di sperare in profondità solo chi ha conosciuto la tentazione di disperare.

 

La speranza, infine, è il frutto di relazioni vive, si nutre dell’essere insieme: mai senza l’altro! E non lo si dimentichi: si può solo “sperare per tutti”, mai solo per se stessi.

Nel fiore il profumo del frutto..nascere di nuovo

 

José Tolentino Mendonça

 

 

 

 

Sbaglia chi pensa che nasciamo una volta sola. Per chi vuole vivere, la vita è piena di nascite. Nasciamo molte volte durante l'infanzia, quando gli occhi si aprono in gioia e meraviglia. Nasciamo nei viaggi senza mappa nei quali la giovinezza si arrischia. Nasciamo nella seminagione della vita adulta, maturando, tra inverni e primavere, la misteriosa trasformazione che mette sullo stelo il fiore e dentro il fiore il profumo del frutto. Nasciamo molte volte in quell'età avanzata in cui le attività non cessano, ma si riconciliano con i vincoli interiori e i cammini che erano stati posticipati. Nasciamo quando ci scopriamo amati e capaci di amare. Nasciamo nell'entusiasmo del riso e nella notte di certe lacrime. Nasciamo nell'orazione e nel dono. Nasciamo nel perdono e nel conflitto. Nasciamo nel silenzio o illuminati da una parola. Nasciamo nel portare a termine un impegno, e nella condivisione. Nasciamo nei gesti o al di là dei gesti. Nasciamo dentro di noi e nel cuore di Dio. Per questo ti chiedo, Gesù, di insegnarmi a nascere: quando le speranze si rompono come cose logore; quando mi mancano le forze per lo scalino successivo, e io esito; quando della semina mi par di raccogliere solo il vuoto; quando l'insoddisfazione corrode anche lo spazio della gioia; quando le mani hanno disimparato la trasparente danza del dono. Quando non so abbandonarmi in te.

Enzo Bianchi "Ascoltare il silenzio"

 

 

Viviamo in una società rumorosa, siamo vittime addirittura dell’inquinamento sonoro e nel quotidiano siamo invasi dalle chiacchiere.

 

Si comprende dunque perché in questo clima cacofonico molti avvertano il bisogno del silenzio e lo esaltino, ne facciano l’elogio senza conoscerlo nella sua realtà.

Perché il silenzio è plurale. Ci sono silenzi paragonabili ai digiuni del corpo, salutari quando lo esigono il corpo, la psiche e la vita interiore.

Ma ci sono anche silenzi negativi, mortiferi. Sono silenzi che rendono inquieti, incutono spavento, instaurano oppressioni, veri silenzi di morte, come abissi disperanti.

 

E dobbiamo confessarlo: esistono anche silenzi complici, pieni di viltà, che permettono che il male trionfi, e silenzi di ostilità, che penalizzano la comunicazione e possono diventare omicidi. Sono i silenzi più vergognosi, nascosti e inconfessati, neppure considerati nella loro ignominia, eppure consumati con un’indifferenza amara. E non dimentichiamo il mutismo della malattia psichica, quando il silenzio è rigetto di ogni comunicazione perché chi si è chiuso nel mutismo in realtà è imprigionato da grate che non vediamo e che restano un enigma.

 

Elias Canetti ha descritto bene il silenzio cattivo che si nutre di rabbia e di rancore fino al disprezzo dell’altro, fino a volerlo morto.

 

Sì, abbiamo questo grande potere di uccidere anche con il nostro silenzio che con un’ostilità sorda e muta toglie vita ed esistenza.

 

Elie Wiesel, nel suo Testamento di un poeta ebreo assassinato, scrive: “Nessun maestro mi aveva detto che il silenzio poteva diventare una prigione. Non sapevo che si potesse morire di silenzio come si muore di dolore, di fatica e di fame”.

 

Ecco, ci sono uomini e donne che conoscono e vivono questi silenzi e anche noi possiamo a volte nella vita esserne inghiottiti. Non è facile combattere queste potenze.

 

E qui va detto con chiarezza che l’altro è quanto mai necessario perché ci si salva insieme, ci si rialza insieme, si ricomincia a parlare se c’è un “tu” a cui rivolgersi.

 

 

Ai silenzi negativi solo un ascolto attento può essere di vero aiuto, risposta redentiva. Per questo oggi, in una società in cui l’ascolto è morto, frequenti sono i silenzi negativi. Ascoltare... Per essere autentico l’ascolto deve ascoltare i silenzi e il silenzio. Lo dico per esperienza, ma le ore notturne nel silenzio della cella, nella solitudine del corpo, insegnano ad ascoltare i silenzi disperanti e il silenzio che non è muto ma ha anch’esso una voce. Mettere in silenzio il nostro ego per ascoltare l’altro, far tacere i nostri pregiudizi per aprirci all’altro, abilitare l’orecchio del cuore ad ascoltare la voce tenue come un silenzio trattenuto che ci apre alla relazione. Se c’è un invito che oso fare agli uomini e alle donne è solo quello di praticare un tempo di solitudine e silenzio con continuità e perseveranza, come un ritmo della respirazione, accettando di attraversare silenzi a volte enigmatici, disperanti, altre volte capaci di esultanza. Allora anche gli enigmi diventano misteri.

Quali parole diventano destino 

 

Alessandro D'Avenia

 

 

Più abbiamo parole precise più mondo vediamo e meno siamo manipolabili. Credo sia fondamentale allenare l’uso preciso e concreto della parola, ed è quello che chiedo ai ragazzi nella scelta di quella annuale: ne va del loro destino. Ecco alcune delle loro parole: vivere non sopravvivere, resilienza, ambizione, squilibrio, mietitura, fioritura, accettazione, evoluzione, luce, spensieratezza, fuori, paraocchi, avocado... Sono sicuro che quelle che incuriosiscono di più sono le più concrete, per questo ho usato la più strana per titolare l’articolo! Io ho scelto «creazione» che, in una mia personale lingua Yagan, suonerebbe «fare come le api, nutrirsi da buone fonti per fare un buon miele» e se parlassi la lingua di Pormpuraaw starebbe a est, dove sorge il Sole. Avendo sperimentato che nella mia vita c’è tanta gioia quanta creazione, spero che questa sia la parola a incarnarsi, portandone con sé altre come studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità, attenzione, cura, bellezza... proteggendomi da altre ancora come fretta, rumore, approssimazione, pigrizia, invidia, distrazione... E voi a che parola/e vi affidate? Potremmo dedicare qualche minuto a scegliere le cinque più significative e ripeterle ad alta voce. Quella sarà la nostra patria, la nostra bussola, la nostra carne.

Un'esplorazione in cordata

 

Alessandro D'Avenia

 

I quattro indizi provano che la vita è un'esplorazione, spesso paurosa e faticosa, che può avvenire solo nella misura in cui apparteniamo a qualcuno. Che si tratti di un genitore, di un mentore, di un amore, di un autore conosciuto direttamente o attraverso i suoi scritti, per venire al mondo abbiamo bisogno, come nelle traversate difficili in montagna, di una corda, cioè di appartenenza, che non è certo vincolo e possesso, ma legame che rende stabili e permette di avanzare. In fondo la maturità (non l'esame) è diventare capaci, attraverso la cultura, di scoprire che niente e nessuno ci è estraneo, che la vita cresce per legami, dalle molecole alle grandi civiltà. Questo soggettivamente accade solo se diventiamo consapevoli di quando e quanto «apparteniamo»: che cosa mi rende vivo, cioè che cosa mi lega profondamente e stabilmente alla vita, tanto da essere libero poi di avanzare? Essere vivi e non solo viventi è infatti essere in comunione. La cultura del farsi da soli genera individualisti in guerra con il mondo, e invece la vita fiorisce quando partecipiamo (ne siamo parte e facciamo la nostra parte) alla sua trama come uno dei suoi nodi. Kafka aveva la ferita dell'inappartenenza, come scrive nei suoi Diari: «La mia educazione ha fatto più guasti di quanto riesca a comprendere... Questa imperfezione non è innata e perciò è tanto più doloroso sopportarla. Anch’io infatti come qualunque altro ho in me fin dalla nascita il centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo buon centro di gravità, ma in certo qual modo non ho il corpo adatto. E un centro di gravità che non lavori diventa piombo ed è fitto nel corpo come una pallottola» (1910). Da questa ferita ogni sua riga sgorga come sangue: «Non c’è nessuno che abbia comprensione di me nel mio complesso. Oh, possedere qualcuno che abbia questa comprensione, vorrebbe dire essere sostenuto in ogni parte, avere Dio» (1915). Per questo era attentissimo alle relazioni, come racconta Janouch ricordando la propria adolescenza e riassumendo il ruolo di ogni mentore: «Franz Kafka fu la prima persona a prendere sul serio la mia vita interiore, a parlare con me come con un adulto, rafforzando la mia coscienza di me stesso. Il suo interesse nei miei confronti era un regalo». Grazie a questo interesse il diciassettenne Gustav maturò consapevolezza di se stesso e la sua vocazione artistica. Sorprende il ritratto, non privo di idealizzazione, che Janouch confeziona all'autore di storie come La metamorfosi, Il processo, Nella colonia penale, Il castello... eppure la luce, implicita nella minacciosa ombra di questi racconti che hanno richiesto l'invenzione dell'aggettivo «kafkiano», mostra una ricerca di legami, orizzontali e verticali, che è altrettanto «kafkiana». In merito Janouch riporta le parole dell'addetta alle pulizie dell'Assicurazione presso cui lavorava Kafka: «È completamente diverso dagli altri. Lo si capisce da come ti offre le cose. Gli altri te le danno di nascosto, quasi ti feriscono. Non danno qualcosa, ma umiliano. Il dottor Kafka invece ha un modo di donarti le cose che fa veramente piacere. Non mi tratta come una vecchia donna di servizio». Janouch conferma: «Possedeva l’arte del donare. Non mi diceva mai: “Prenda, glielo regalo” ma sempre soltanto: “Non occorre che me lo restituisca”». Un giorno Gustav tra le lacrime confidò allo scrittore la separazione violenta dei genitori: «Ascoltò con calma il mio racconto rotto dall’agitazione, poi si alzò e disse: “Andiamo a fare il giro dell’antica capitale. I passeggiatori che si rispettano solitamente iniziano bevendo un bicchiere di vino o di cognac. Noi però non ci accontentiamo di un’ebbrezza così modesta e abbiamo bisogno di droghe più elaborate. Quindi andiamo da Andrée”». Questi era un libraio: «Il dottor Kafka mi comprò il David Copperfield di Dickens, Prima e dopo di Gauguin e Poesia e vita di Rimbaud». I due passeggiarono a lungo parlando di quei libri e, quando il ragazzo si fu rasserenato, Kafka disse: «“La crisi che è scoppiata a casa sua non fa soffrire solo lei, ma logora e ferisce ancor più i suoi genitori. Divenendo estranei l’uno all’altro, perdono gran parte del bene più prezioso posseduto da noi uomini, gran parte della vita e del suo senso. Così i suoi genitori, come la stragrande maggioranza degli uomini del nostro tempo, sono in realtà mutilati nello spirito... Perciò non deve respingerli, anzi, li deve guidare e sorreggere come si fa con i ciechi e con gli invalidi”. “Come faccio?” chiesi disperato. “Con il suo amore”. “Anche se mi danno addosso?”. “Proprio allora. Con la sua calma, il suo riguardo, la sua pazienza - in poche parole, con il suo amore - deve cercare di risvegliare nei suoi genitori ciò che in loro sta per morire”. Mi accarezzò lievemente e di sfuggita la guancia. “Arrivederci, Gusti”. Si voltò e scomparve dietro la porta di casa. Restai lì come paralizzato. Mi aveva chiamato Gusti, come facevano i miei genitori». Questa è cultura (dal latino prendersi cura): curare la sofferenza, la fragilità, la ricerca, le domande. Essere chiamati per nome fa sentire l'appartenenza che rende capaci, come scriveva la mia studentessa, di amare la bellezza nel e del quotidiano, in incontri che, coltivati, diventano legami, e quindi esplorazioni, come quella del bambino che gattona. Un incontro mancato con la bellezza è un legame mancato con la vita, e senza legami a poco a poco la vita diventa una minaccia, come il ragazzo che chiede come «non essere paralizzati dalla paura». Kafka lo spiega così a Janouch che aveva definito pieno d'amore un suo racconto: «“L’amore non è nel racconto, bensì nell’oggetto della narrazione, nella gioventù”, fece notare Kafka serio. “Sono i giovani a essere pieni di sole e di amore. La gioventù è felice, perché possiede la facoltà di vedere la bellezza. Quando si perde questa facoltà, comincia la vecchiaia, la decadenza, l’infelicità”. “La vecchiaia esclude dunque ogni possibilità di essere felici?”. “No. È la felicità che esclude la vecchiaia: chi mantiene la facoltà di vedere la bellezza non invecchia”». Kafkiano.

L'educazione al vero desiderio

 

 

di Enzo Bianchi

 

Nel nostro vivere quotidiano risuona con insistenza crescente l’invito ad ascoltare, ad assecondare il desiderio. “Segui il tuo desiderio!” è l’imperativo martellante, soprattutto quando ci si rivolge alle nuove generazioni.

 

          Sì, ogni umano è homo desiderans, conosce la forza e l’esperienza del desiderio che lo abita come una pulsione. Il desiderio è un sentimento personale, intimo, che scaturisce dal profondo della persona, ma nello stesso tempo a volte si mostra come una dominante, un daimon che tende a superare la soglia oltre la quale non può più essere governato. Noi siamo abitati dal desiderio e possiamo essere posseduti dal desiderio fino all’alienazione. Il nostro desiderio può accrescersi fino a diventare pretesa di possesso, di consumo, di appropriazione di quelle cose o persone che lo hanno destato in noi. Comprendiamo allora il comandamento: “Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo!” (Esodo 20,17; Deuteronomio 5,21).

 

          Proprio il verbo presente in questo comando, chamed, esprime un desiderio da soddisfare che è già azione, movimento teso a realizzare un desiderio così forte che spinge a possedere, a impossessarsi, e quindi a rubare. La cupidigia è una forza che travolge il soggetto e lo porta a realizzare il suo desiderio senza tener conto degli altri e del limite che contraddistingue ogni azione umana. Avviene in questa seduzione una perdita della libertà: appare il falso antropologico dell’idolo, al quale va la soggezione dell’uomo.

 

          Comprendiamo quindi l’ossessiva predicazione dei profeti contro la cupidigia: da cosa nascono i litigi, le violenze, il furto, l’ingiustizia, l’oppressione del povero e le guerre nei rapporti tra popoli? Il profeta Michea denuncia quanti “sono avidi di terreni e li usurpano, di case e se le prendono”; Isaia maledice “quelli che aggiungono casa a casa e terreno a terreno fino a essere i soli proprietari”; Amos minaccia “quanti vivono nella corruzione e nell’illegalità”. La condanna del desiderio senza limiti, del desiderio che non tiene conto degli altri e della giustizia, attraversa tutta la profezia.

 

          Occorre dunque una vera educazione del desiderio, perché soprattutto da come viviamo il desiderio dipendono le nostre relazioni, le nostre storie d’amore, i rapporti che instauriamo nella società. Nella vita personale come nella vita nella polis occorre saper “desiderare” e occorre saper “non desiderare!”. È significativo che il premio Nobel per l’economia del 2001, Joseph Stiglitz, abbia pubblicato il libro Le trionphe de la cupidité per illustrare l’attuale situazione economica mondiale e la sua crisi: all’origine e al cuore di questa crisi c’è la cupidigia del denaro che richiede al mercato di diventare l’idolo indiscusso. C’è una voracità legittimata, che ha impregnato la mentalità della nostra società e impedisce ogni promozione della giustizia e dell’uguaglianza. Di fronte alla pulsione del desiderio non ci si domanda cosa è giusto fare, ma piuttosto come possiamo soddisfare il nostro desiderio! E così si apre lo spettacolo della corruzione, per un lusso senza freni, per un’ostentata festa dei potenti, per un arrogante esercizio del potere.

 

 

          Il divieto del comandamento non chiede di spegnere il desiderio, ma di discernere sempre se esso, una volta appagato, apporta vita, comunicazione, creatività, o se apporta alienazione e schiavitù; se è desiderio non contro gli altri e senza gli altri, ma desiderio in vista di una vita buona e bella, vissuta nell’onestà e nella giustizia.

Paolo Scquizzato: Per far fiorire il «vero sé»

 

 

Qui l'introduzione a questo testo.

Limite

Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.

Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo.

Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso.

La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi.

Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti».

Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute.

Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendor fer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile.

Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente.

Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più.

Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.

Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti.

Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime.

«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando».

La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé.

La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali.

Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite.

Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo.

Vuoto

Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui.

Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto».

L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia.

Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti abbiamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre.

Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della disperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo?

Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una considerazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive:

«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico».

Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi.

La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà».

Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”».

La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo intendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil.

La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco).

Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa?

La grazia è senza sforzo, appunto. È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera».

E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea».

Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35).

Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.

Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalienabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare.

Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura».

Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio.

Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo.

Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi.

Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo.

Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accadere. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consapevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive:

 «La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stesso, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione».

Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso:

«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente. Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio.

In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13).

Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione.

«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile.

Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco contemporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò abbandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).

 

 

Paolo Scquizzato

 

 

Enzo Bianchi “In mezzo a loro. Riflessioni sulla spiritualità cristiana e non”

 

Messaggero Cappuccino maggio 2024

di Saverio Orselli

 

Enzo Bianchi con grande disponibilità ha accettato di parlare a lungo di spiritualità con la Redazione del Messaggero Cappuccino. Ecco una sintesi del dialogo.

 

In generale, cosa significa spiritualità?

Oggi il mercato editoriale è pieno di autori che trattano di spiritualità: una spiritualità alla fin fine estremamente superficiale, una spiritualità che tende verso il nulla, come le spiritualità orientali oppure panica, cosmica, evoluzione della spiritualità new age. La spiritualità cristiana, che ha al centro non l’uomo ma Gesù Cristo, viene meno per mancanza di fede. È vero, per molti aspetti prosperano le spiritualità, ma non la spiritualità cristiana. È una spiritualità tutta centrata sulla ricerca di sé stessi, che si consuma in maniera individuale, che non ha bisogno assolutamente della comunità: ognuno la consuma per sé e inoltre produce un comportamento molto individualista. Questo mi fa paura.

Anche all’interno della Chiesa cattolica – salvo qualche eccezione – non c’è davvero la ricerca di una spiritualità che sia cristocentrica. Si cerca di entrare in sé stessi, ma per ascoltare il Signore, per ascoltare la sua parola e per conoscere sia Lui che me stesso - che resterò sempre un enigma a me stesso - dovrò riconoscermi in Cristo. Per molti aspetti, devo dirlo, uno dei pochi che ha capito questo è san Francesco, la cui spiritualità è cristocentrica. La grazia è l’amore di Dio, che non deve mai essere veritata e che raggiunge tutti, anche il peccatore nel suo peccato e, anzi, il peccato è occasione per fare esperienza della grazia di Dio. Ci sono persone che non fanno l’esperienza della grazia di Dio perché pensano di non aver mai peccato, e forse non l’avranno fatto col corpo, ma certamente hanno peccato con lo spirito, con l’orgoglio, con la superbia, col disprezzo degli altri. La spiritualità è la vita dello Spirito Santo in noi, è ben qualcosa di più del rientrare in sé stessi.

 

Quale conseguenza ha avuto la pandemia?

Secondo me, è cresciuta l’indifferenza, per cui è aumentato il numero, soprattutto di giovani che non sentono il bisogno di spiritualità. Non sono solo refrattari ai discorsi di Dio ma proprio non sentono il bisogno della spiritualità, vivono nell’immediato, oppure addirittura vivono del nulla, sono nichilisti. Sovente spiritualità per loro, io lo vedo, è piuttosto cultura, cioè se loro partecipano a un evento culturale è cultura ma la chiamano spiritualità, e pensano di essere entrati nella sfera della spiritualità. Molti festival, per me, hanno una grande funzione e certamente fanno ragionare la gente, ma quella non è ancora spiritualità. Ci sono poi gli anziani che vivono una certa spiritualità ma anche la loro è sempre più solo culturale. Se ci pensate, la Chiesa attualmente offre la messa e nient’altro: come può fare uno con la messa e basta?

 

Lei ricordava un adagio: «A ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio». Questo vale anche per la spiritualità?

Secondo me è così, come è vero che cambia la fede, e questo dobbiamo oggi accettarlo perché basta che uno della mia età faccia una anamnesi della sua vita e vede che la fede di adesso non ha niente a che fare con quella dei vent’anni. Poi la difficoltà grossa arriva dopo i quarant’anni: la crisi dei quarant’anni io vedo che è sempre più pesante e faticosa per le generazioni attuali. Poi c’è l’età dell’anzianità, in cui la spiritualità non ha più grosse passioni, non ha più grande slancio, è fatta sovente di molti dubbi, sia sul futuro sia sull’aldilà che ci attende ed è quindi una spiritualità che bisogna combattere perché non diventi una spiritualità segnata dal timore, dalle paure. Dopo i cinquant’anni le persone sono tentate dal cinismo: “non vale la pena”, “a cosa serve?”, “ma perché…”, “finora ho pensato ai figli, adesso è tempo di pensare a me”. Se è il cinismo che domina dopo i cinquanta, dopo i sessantacinque sovente sono le paure a prendere il sopravvento. Ho tanti vecchi che vado a trovare e mi dicono: «Padre, perché nel dormiveglia ho tanti sogni, tante angosce, tanti incubi? Non li avevo prima…». Una volta alla settimana mi piace andare al supermercato, anche se non ho quasi nulla da comprare, perché tra le corsie e alle casse la gente parla e si rivela il vero mondo della gente che altrimenti non avvicini, perché se le avvicini qua e là sono già selezionati, non sono ‘la gente’… e invece anche solo a sentirli parlare al cellulare con la moglie a casa scopri i rapporti che ci sono, e ti accorgi anche solo per acquistare una bottiglia di sugo di pomodoro, quanto sono difficili oggi le relazioni…

 

Lei ha detto che il giovane rischia di vedere le cose da vicino, come un miope che non sa vedere le cose da lontano: capita anche per la spiritualità?

È esattamente così, d’altronde la passione è sempre fatta per qualcosa che è vicino, non è fatta per qualcosa che è lontana. Ma da vecchio tu devi esercitarti a vedere l’invisibile, come Mosè. I giovani cercano proposte di senso, ma credo che la Chiesa continui a proporre soluzioni prefabbricate, mentre i giovani hanno bisogno di empatia, di uno che sia in mezzo a loro, che li ascolti e che risponda alle loro domande, non a quelle prefabbricate che proponiamo noi. È un’illusione che la spiritualità venga dalle giornate della gioventù o nei grandi incontri: una volta finito l’evento, ognuno va per suo conto.

 

Il nostro mondo, sempre più secolarizzato, sembra però attraversato da un’aspirazione religiosa diffusa e fragile.

Bisogna che la Chiesa smetta – ma non ce la fa – di parlare di morale. Deve parlare di fraternità, la quale certo implica una morale, ma si parte dal fatto che mi sei fratello, poi vengono i doveri. La Chiesa ha parlato troppo di morale e soprattutto di morale sessuale… e adesso piglia quello che si merita. La Chiesa lasci perdere la morale e pensi alla fraternità, da cui discende la morale. Noi dobbiamo credere soprattutto che Gesù Cristo è uomo; certo poi diremo che è anche Dio. Lo diceva già Ippolito di Roma, papa del terzo secolo: aveva il coraggio di affermare che Dio per noi cristiani è una parola ambigua e insufficiente, meno la usiamo e meglio è… noi dobbiamo parlare di Gesù Cristo come uomo, vedere come lui ha vissuto, quel che lui ha detto e ha fatto umanamente, perché lui ci ha rivelato Dio con l’umanità, solo con l’umanità: “Dio nessuno l’ha mai visto”, è solo nell’umanità di Gesù che noi possiamo vedere Dio.

 

La dottrina cattolica io spero che sparisca presto e che si tolga dall’orizzonte, perché ha fatto troppi danni. Bisogna ripartire da una grammatica della vita umana di Gesù, far vedere come Gesù vedeva, come Gesù guardava, come Gesù si accostava alla gente, come parlava, come sceglieva i posti in cui andare… Questo soprattutto in città è essenziale, perché in città mancano le relazioni; noi oggi in un mondo senza relazioni, senza fraternità, se vogliamo ricucire la comunità cristiana dobbiamo ricominciare così. Anche la liturgia ha bisogno di aggiornare il linguaggio: un giovane come fa ad andare in chiesa e sentire questo linguaggio assurdo, che parla della tua maestà che deve essere placata… Macché placata! Noi abbiamo ancora un linguaggio che va bene per la curia romana e per i vescovi, ma già per i preti non va più bene: tanti preti dicono che la messa, così come la leggono, non dice niente. Così molte persone se ne sono andate, sono andate a bere dove c’era l’acqua. Da noi non la trovavano più.

Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.

 

Il cacciatore e il consolatore 

 

Alessandro D'Avenia

 

 

«Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non ha il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui attirare l’attenzione di un dio. Di una cosa sono convinto: il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto». Così scriveva l’autore svedese Stig Dagerman in un breve monologo del 1952, in righe laceranti sul paradosso della condizione umana, stretta tra desiderio infinito di felicità e impossibilità di soddisfarlo. Aveva intitolato il testo Il nostro bisogno di consolazione ed è quest’ultima parola che vorrei oggi esplorare, per scoprire se contiene la preda in cui sperava Dagerman: «Sono a caccia di consolazione come un cacciatore. Là dove la vedo apparire, sparo». Possiamo veramente essere consolati? Consolazione, dal latino, è una parola composta da con e solus (solo), da cui vengono termini distanti come solitudine e sollazzo. Come mai? Perché sembra che solus nasconda la radice (ol-) che indicava pienezza, integrità, totalità, rimasta per esempio in ad-olescente (teso alla pienezza), olistico (che abbraccia tutto). «Solo» è quindi «uno» perché integro e saldo, e non perché «isolato», che viene invece da isola. Può stare «solo» chi è «pieno», ma questa totalità, per esseri finiti come siamo, non è alla nostra portata e, quindi, è necessario essere con-solati: resi pieni.

 

Il con-, prefisso della relazione (coniuge, compagno, complice…), conferma infatti che la pienezza di qualcosa si raggiunge «insieme», come si dice anche per la forza, che richiede con-forto, o per il cuore che richiede con-cordia. Per questo ci consola ciò che ci restituisce interezza (si pensi al cerchio dell’abbraccio), ed è invece de-solante ciò che ce la toglie (il de- indica privazione): per Leopardi infatti la ginestra «consola» il deserto che è una terra desolata. La consolazione provoca sollazzo (gioia), perché è come una festa tra amici. Cristo, riferendosi alla sua futura morte per amore degli uomini, dice infatti: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro Consolatore», indicando lo Spirito Santo, di cui ricorreva ieri la festa (Pentecoste: 50 giorni dopo la Pasqua). La traduzione italiana evoca un verbo ebraico che significa «far respirare»: il Consolatore è chi ci fa respirare sempre. Cristo definisce quindi se stesso il primo Consolatore e lo Spirito il secondo e più necessario, perché rende vivi gli uomini di tutti i luoghi e tempi, e non solo i contemporanei di Gesù. Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.

 

Ma lo Spirito dov’è? Al modo della luce è visibile nei suoi effetti. Se infatti vi chiedessi di dimostrarmi quanto amate, ci riuscireste solo portandomi la persona amata, che mi racconterebbe una serie di eventi e parole del vostro amore: una lettera, un gesto, un regalo, un piatto, una canzone… cose molto semplici che però, colpite dal cono di luce della gratuità e unicità del dono, diventano e mostrano l’amore stesso. Allo stesso modo, per chi lo frequenta, lo Spirito trasforma in Amore ogni cosa, anche la più materiale o oscura (come lo scultore rende «viva» la pietra con il suo spirito). Di una persona piena di vita diciamo infatti che è ispirata o di ispirazione (parole derivate da spirito) perché, anche in situazioni difficili, conserva la luce e la leggerezza dell’innamorato. Lo Spirito permette di amare se stessi (non ci si sente mai brutti o abbandonati), il mondo (tutto diventa casa) e gli altri (anche quelli più difficili e lontani da noi). Chi è «con-solato», sentendosi sempre amato, non ha paura di amare: infatti libera attorno a sé energie creative, genera legami e molti sospetti (dov’è la fregatura?), come accadeva a Cristo. Spirituale non è, come purtroppo si intende oggi, chi è lontano dalle cose terrene, ma chi «respira pienamente» in mezzo a quelle cose senza soffocare, perché trova la vita che hanno dentro. Far la lavatrice o la spesa può essere più spirituale di leggere e pregare: non è l’azione in sé, ma quanto amore ci metto (come e per chi lo faccio?).

 

 

Due anni dopo quel monologo, purtroppo Dagerman si tolse la vita, benché avesse intuito la via da percorrere: «Tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso — l’incontro con una persona amata, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino — si svolge al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è indifferente». La bellezza, per quanto a frammenti, ci mostra l’origine della luce di cui andiamo a caccia, ma la luce non si può catturare, solo ricevere. Il Consolatore non è la preda che sfugge ai nostri proiettili, ma l’Amante che, per darci il dono della vita, aspetta solo che lo chiamiamo per nome: Amore.

 

Riparare

 

Chandra Candiani

 

 

 

Lo chiamano «perdono». Ma cosí la giustizia resta indifesa. Il dono, se è per qualcuno, non è piú dono. Nella visione orientale, donare è vero donare solo se non c'è piú né chi dona né chi riceve e nemmeno il dono stesso, solo il puro gesto. Allora la giustizia è trascesa.

Ma sulla terra, nell'immanenza, c'è un gesto magnifico e in via di sparizione: il riparare. Posso ripararmi dal pericolo e dalla pioggia e posso riparare le scarpe come fa il ciabattino, o l'orologio come fa l'orologiaio e cioè posso non buttare via né il danno né quello che è danneggiato. Sono parole che hanno a che fare con il lavoro anziché con il dono. Non hanno trascendenza ma rappezzatura. Stanno qui. Guardano con attenzione il danno, lo studiano, progettano passo passo la riparazione.

E un'andatura che ha a che fare con il passo della compassione, perché si può aver compassione del cosiddetto "nemico", di chi ci ha ferito e danneggiato anche per sempre. Chi è ferito è danneggiato ma chi ferisce è condannato a vivere di fronte a se stesso ogni minuto della sua vita, e sa. Anche se a tutti gli altri è ignoto, sa.

Ripararsi da altro male, non permetterlo piú, fermare la mano anche quando è ben travestita.

Chi sa rammendare, rattoppare, è addestrato a lottare al buio e al buio inizia a lavorare con i fili, a separare, unire, cucire e disfare. Non ha niente a che fare con la superiorità di chi perdona.

Una volta, è stato chiesto a un grande Lama tibetano, sopravvissuto ad anni di torture nelle prigioni cinesi, quale fosse stato il suo momento peggiore. E lui rispose: «Quando sotto tortura odiavo i cinesi, quello era il momento piú brutto, quando cedevo all'odio per il nemico».

E il Dalai Lama, quando gli chiesero se detestasse i cinesi, rispose: «Si sono già presi la mia terra, non permetterò che si prendano anche la mia mente».

Inviare frasi di compassione al nemico significa slegalo da noi. Personalmente, sento il bisogno di inviare: «Che tu possa sapere quello che hai fatto, che tu possa esserne consapevole, che tu possa essere libero dalla sofferenza». Perché credo nel potere guaritivo della consapevolezza, una guarigione ad alto costo, l'unica che non sappia di oblio.

Ha detto Liliana Segre ai giovani a proposito del nazismo: «Io non perdono e non dimentico, ma non odio».

Riparare e ripararsi significa staccare il filo che ci lega al danneggiatore, affidarlo al suo karma, alle conseguenze delle sue azioni, non assomigliargli, non cadere negli stessi sentimenti di distruzione e occuparsi del baratro, il vuoto lasciato dal danno e assaporarne la sconfinatezza, e la libertà di essere diversi. Sentire il male significa che il male è già altro da noi. Non condonare, non perdonare, ma lavorare alla possibilità di nascere di nuovo, di portare con dignità il passato e di rivolgersi al futuro con fiducia nelle proprie strumentazioni. Le strumentazioni di un radar, di una nave che si inoltra nel buio ma sente, avverte ogni pericolo e possibilità di ripeterlo.

Compassione è comprendere che il male va fermato definitivamente. Per noi, per tutti. Inviare compassione al nemico è comprendere il gioco delle parti e augurargli di cambiare posizione grazie alla consapevolezza del male inflitto.

 

 

(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 98-100)

Non sapere

 

Chandra Candiani

 

 

 

Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura, fino a farmi smettere anche solo di provare a colmarle. Restavo allibita dal non sapere.

Lo stesso poi con la letteratura e con la poesia: piú leggevo e piú mi sfuggiva tutto di mano.

Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo piú sperimentavo. E piú tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. Perché il sapere dell'esperienza non si può accumulare, l'esperienza inganna come tutto il resto, se credi di poterla ripetere quando ti addentri nei territori del non conosciuto. Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti, e al massimo ti preparano bende e cerotti per quando sosti un momento e li guardi disperato negli occhi: la disperazione dei cani quando non capiscono i nostri comportamenti discontinui. In ognuno di noi c'è un cane spaventato dalla discontinuità dell'esperienza.

Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora.

La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore piú ferito della terra.

Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c'è sempre, anche in. città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre piú piccole man mano che lo sgitardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.

 

 

(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 8-9)

Soffio!

 

Alessandro D'Avenia

 

Il poeta soldato dice di soffrire non perché «non è» ma perché «non si crede» in armonia, differenza abissale: l'armonia non è un traguardo da raggiungere ma uno stato che perdiamo o dimentichiamo. Se dico ai miei studenti: «Adesso prestate molta attenzione», si mettono in tensione, quando invece dovrebbero chiudere gli occhi e rilassarsi, come nell'abbandono alle acque che fanno sentire il poeta «una docile fibra dell'universo», unito nelle tre direzioni, personale, relazionale e trascendente. Se il nostro corpo è arrivato a credere che l'armonia sia allerta e non abbandono, è perché siamo permeati dalla spossante convinzione che la felicità sia una performance, qualcosa da ottenere, raggiungere, afferrare, e non semplicemente da ricevere, coltivare, liberare. Mi ha spesso guarito da questa idea tossica la doppia (è rivolta alle due categorie sociali degli ascoltatori) parabola che Cristo usa nel vangelo per descrivere non una religione ma la vita: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13).

 

 

Il regno dei cieli o regno di Dio nel vangelo non è un posto sulle nuvole o da raggiungere dopo la morte, ma una metafora per indicare dove Dio regna cioè dove la vita trabocca, una vita viva da subito: la gioia qui, ora e sempre, anche nelle burrasche. E come si legge non è qualcosa da raggiungere ma che ci raggiunge dove siamo, una grazia, un dono. Di fronte a questa «fortuna», si vende tutto, come quando ti innamori e tutto il resto passa in secondo piano. Credenti o no, qui ci si libera dalla felicità-traguardo e ci si apre a una possibilità diversa: la vita ti trova lei, tu lo senti dove e quando sei vivo, fai esperienza di ciò che ti fa crescere, e a quel punto non puoi perder tempo con il resto, perché hai l'essenziale e in abbondanza. Nel compleanno mi sono chiesto a che punto sono con questo essenziale nelle tre dimensioni dell'eros: me stesso, il mondo (cose e persone), dio. A che punto sono con l'esser vivo in ogni circostanza, anche nella tempesta? Lo psichiatra Viktor Frankl, pochi mesi dopo la liberazione dal campo di concentramento, tenne tre affollate conferenze all'Università popolare di Vienna, nella prima delle quali descrisse l'esperienza della prigionia da una prospettiva insolita: «Ciò che rimane è l’essere umano, il mero essere umano. Tutto lo aveva abbandonato: denaro, fama, potere; non c’era più niente di sicuro: non la vita, non la salute, non la felicità; tutto era stato messo in discussione: vanità, ambizione, relazioni. Tutto si era ridotto alla nuda esistenza. Reso incandescente dal dolore, tutto l’inessenziale si era fuso riducendo l’essere umano a ciò che, in ultima analisi, era: o uno qualunque nella massa, cioè nessuno di reale, cioè l’anonimo, nient’altro che il numero di matricola di un prigioniero; oppure riducendolo al suo sé». Se ci tolgono ogni cosa che resta di noi? Nulla o il sé autentico? Il discrimine tra la prima o la seconda opzione per Frankl dipende da «qualcosa di simile a una decisione... perché l’esistenza, alla cui nudità e inermità l’uomo era stato ricondotto, non è altro che questo: decisione». Che cosa intende lo psichiatra viennese per “decisione”? «Compiere un rovesciamento di 180° attraverso cui la domanda non è più “Cosa devo aspettarmi dalla vita?”, bensì “Cosa si aspetta la vita da me?”. Quale compito mi aspetta nella vita? Adesso comprendiamo quanto sia mal posta la domanda sul significato della vita, se la poniamo come si fa di solito: non siamo noi a poter fare domande sul senso della vita, ma è la vita stessa che le rivolge a noi, è lei a interrogarci! E siamo noi quelli tenuti a rispondere. La vita è un essere-interrogati, tutto il nostro essere è un rispondere alla, o della, vita, un esserne responsabili. Assumendo una posizione del genere più nulla può spaventarci, nessun futuro, nessuna apparente mancanza di futuro. Ora, infatti, il presente è tutto, poiché racchiude l’interrogativo eternamente nuovo che la vita ci rivolge. Quello che ci riserva il futuro, invece, non abbiamo bisogno di saperlo» (Sul senso della vita). Parole a cui sono tornato spegnendo le candeline: quante altre ne avrò? In questa prospettiva la domanda è mal posta e senza risposta. Il punto è invece sgombrare il presente, il più grande serbatoio di sorprese, nel bene e nel male, dal rumore, la paura, le illusioni che gli impediscono di farmi la domanda su cosa si aspetta da me. Che cosa mi chiede la vita ora? Che cosa mi rende vivo nei tre spazi del fiorire: me stesso, il mondo, dio? Mi sono allora chiesto quali siano i tesori nascosti trovati sino ad ora in ognuno di questi ambiti, per vendere tutto ciò che è nulla al confronto. Mi è tornato allora in mente che trent'anni fa, il 1 maggio, nel Gran Premio di Imola moriva il più forte pilota della storia: Ayrton Senna. Allora seguivo con passione la Formula Uno con mio padre. Vidi in diretta l'incidente, ricordo tutto. Avrei compiuto 17 anni l'indomani, e sentii il morso di quella fine incombere sul mio inizio da rinnovare. Volevo sapere tutto dell'incidente: se anche Senna muore, figurati io... Lessi che nella tuta che indossava in gara era stato trovato un biglietto con scritto: «Nessuno mi può togliere l’amore che Dio ha per me». Quello era tutto il suo presente, il tesoro nascosto. Più cresco più mi sembra che la vita non abbia un traguardo da raggiungere ma che il traguardo siamo noi se ci lasciamo raggiungere, qui e ora, dalla grazia di essere nati per poi, forti di questo eros, far nascere il presente. Solo quando trovo in me ciò che non può essermi più strappato riesco a vedere nelle candeline non quanti anni di vita compio, ma quanta vita si compie negli anni. E soffio.

Ad Amare non si sbaglia mai..

Paolo Ricca

 

 

 

La bellezza è da amare perché è un riflesso della bellezza di Dio. L’amore nelle sue tante forme è da amare perché è ciò che di più bello c’è nella nostra vita, ed è anch’esso un segno di Dio che è amore. L’arte è da amare perché è un modo nobile per cercare di penetrare nell’enigma della vita e del mondo, è anche un modo per rendere loro omaggio e per festeggiarli: in fondo l’arte è celebrazione, quindi una forma di preghiera. La vita è da amare, ma non solo la nostra, anche quella degli animali, dei fiori, delle piante, del colori, dell’acqua, dell’aria, del vento, della terra e del fuoco, di tutte le creature evocate da Francesco d’Assisi nel suo stupendo Cantico, perché la vita è bella, è Dio che l’ha inventata, voluta, suscitata e resa possibile. La natura è da amare sia perché è splendida (benché anch’essa attraversata, come la nostra esistenza, da un «gemito» e da un «travaglio»: Romani 8, 22), sia perché è opera «delle mani» (Salmo 19, 1) e «delle dita» (Salmo 8, 3) di Dio, ed è il teatro della sua gloria. Insomma: non bisogna aver paura di amare. Direi anzi: ad amare non si sbaglia mai. Purché si ami in Dio. In Dio possiamo amare tutto e tutti, non perché il nostro cuore sia capace di tanto, ma perché Dio rende tutto amabile.

 

 

 L’amore autentico offre tempo e presenza

 

di ENZO BIANCHI

 

 

Vorrei  tentare una rilettura della sua prassi dall’ottica del nostro stile di vita. Ovvero, non citerò brani evangelici, ma vorrei tenerli sullo sfondo, per vedere come essi agiscono su noi suoi discepoli e discepole, nel nostro stile di vita quotidiano. In quale modo lo stile di vita di Gesù plasma e ispira il nostro vivere la comunione?

 

Gesù ha vissuto l’amore innanzituttooffrendo il suo tempo e la sua presenza. Oggi la contraddizione all’amore autentico viene soprattutto dalla mancanza di tempo (prospettiva che si è rovesciata in questo periodo di pandemia!), dal non dare all’altro la propria presenza. I ritmi della vita, gli impegni di lavoro, le molteplici cose da fare, le scadenze che ci paiono inderogabili, tutte queste realtà ci mangiano il tempo; sicché, pur avendo tempo per molte altre cose, non abbiamo più tempo per le cose gratuite, quelle che non ci portano guadagno. Ci manca il tempo dell’incontro: incontriamo le persone che dobbiamo incontrare per ragioni di lavoro, anzi cerchiamo di moltiplicare gli incontri che possono “rendere”, ma non c’è più tempo per l’incontro che non fa parte del nostro lavoro e che non ci fa guadagnare. Dare tempo per amore, dare la presenza all’altro senza fare nulla e anche senza dire nulla, ci sembra tempo sprecato. Eppure non c’è amore dove non c’è presenza dell’uno all’altro.

 

Gesù ha inoltre avuto una grande attenzione per l’altro, a cominciare dal suo corpo. Occorre avere la percezione che l’altro non è un partner ideale davanti a me, né un tu qualsiasi, un altro e basta, ma è un corpo con cui devo relazionarmi, un corpo che aspetta da me degli atteggiamenti, un linguaggio, perché per comunicare i corpi devono esprimersi. Si tratta dunque di riconoscere il corpo dell’altro realmente, non di definirlo solo in base a criteri di bellezza, avvenenza, crescita sana.

 

È normale che un corpo seduca, attragga, interessi, oppure respinga e faccia provare repulsione. Al riguardo, per incontrare l’altro occorrono molta attenzione, molta sapienza, molto esercizio per disciplinare le nostre emozioni e i nostri sentimenti: non possiamo amare l’altro solo se ci piace! È facile provare sentimenti di attrazione per chi è bello, giovane, piacevole, ma per amare l’altro occorre accogliere innanzitutto quel preciso corpo, perché la sua vita che voglio e devo incontrare è inscritta in quel corpo, nei suoi occhi, nelle sue labbra, nelle sue mani… L’altro non ha un corpo: è un corpo! Se è un corpo, allora non posso accendere l’amore senza accogliere il suo corpo. Solo attraverso il corpo passa l’amore.

 

Non esiste un contatto, una relazione con una persona, che non passi attraverso la relazione con il suo corpo. Chiediamoci semplicemente: perché Francesco di Assisi ha baciato un lebbroso? Non ha amato un lebbroso facendogli la carità o pregando per lui: l’ha baciato! Nella relazione è anche il corpo che parla: parla da giovane e da anziano, da sano e da malato, da bello e da brutto. Va detto che ogni corpo è una persona, ogni corpo – dice il cristiano – è “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Ogni corpo è un membro del corpo di Cristo.

 

Gesù ha voluto entrare in relazione con gli altri interrogandoli, conversando e dialogando.Per crescere nella conoscenza e nell’amore occorre avvicinarsi all’altro, accogliere il suo corpo con attenzione e quindi entrare in dialogo con lui, ascoltandolo e parlandogli. Si inizia ascoltando l’altro, restando silenziosi, a volte ascoltando il silenzio dell’altro. Occorre poi intervenire, magari rispondendo o ponendo domande, ma sempre con un atteggiamento che dica l’interesse per la relazione. Solo a queste condizioni si accende la comunicazione: comunicazione di parole, di silenzi, di gesti, di sguardi, di un “toccare” l’altro. La comunicazione è vitale, per questo esige che vi siano impegnati il cuore, la mente, il corpo con i suoi atteggiamenti. Ascolto dell’altro per cogliere dove lui è; ascolto dell’altro per conoscere ciò che lui porta nel cuore e vuole comunicare a me; ascolto dell’altro per far crescere l’amore; ascolto dell’altro per predispormi a riconoscerlo affidabile, in una relazione che ci impegnerà reciprocamente.

 

Se uno non ascolta, non si predispone ad amare, non può accedere all’amore; e se uno non parla, non entra nella dinamica dell’amore, perché non parlare è il primo modo per sottrarsi alla relazione e per negarla. Sincerità e verità diventano allora assolutamente necessarie alla comunicazione e rendono possibile l’edificare la relazione nell’amore. Si pensi solo a una parola semplice eppure così decisiva: “Io ti amo”, parola detta in sincerità, detta come confessione e promessa. Parola che sempre sottintende la domanda: “E tu mi ami?”, attendendo una risposta. In queste parole si gioca “il senso dell’eternità” (‘olam: Qo 3,11) che ogni essere umano porta in sé!

 

In ogni relazione d’amore accade tuttavia che il male prevalga sul bene, che l’amore sia tradito, si ammali, sia contraddetto. Nessuna illusione: nell’amicizia, nella storia dell’amore vissuta nel matrimonio, nei rapporti di amore prima o poi avviene una contraddizione. A volte è uno che viene meno, mentre l’altro resta saldo; a volte entrambi i partner dell’amore diventano infedeli l’uno all’altro. Ciò accade, ma non deve essere così deludente da impedire la relazione d’amore, né essere giudicato quale morte dell’amore. Bisogna prepararvisi, bisogna metterlo in conto anche quando ci si promette reciprocamente la fedeltà, il non venire meno. Anzi, occorrerebbe che chi ama metta in contro che l’altro mancherà e, di conseguenza, si impegni a perdonare per ripartire, per ricominciare, fino a dimenticare il venire meno dell’altro. Qui si misura la maturità dell’amore: amore vissuto concretamente, non idealizzato, amore innestato in ciò che io sono e in ciò che l’altro è.

 

 

Ecco perché è decisiva la capacità, la volontà, la responsabilità del perdonare, sulla quale Gesù ha dato l’esempio fino alla fine. Perdonare è amare con coraggio, è credere che l’amore che si vive è più forte delle contraddizioni che riceve. Chi ha un cuore che sa perdonare, ha un cuore grande, abitato dall’amore, un amore che sa accogliere dall’altro non solo la bellezza, le virtù, i doni, ma anche i difetti, le fragilità, le cadute, anche le cattiverie. A volte il cammino di chi ama è gravemente ferito, quasi impossibile da percorrere: i questi casi occorre fermarsi, sostare, non muoversi, restare in attesa dell’altro che si è smarrito… Ci vuole molta pazienza e poi, sì, la capacità di perdonare, di riprendere con sé l’altro e di ripartire nell’amore. Questa è la vittoria dell’amore sulla morte (cf. Ct 8,6) che possiamo sperimentare qui sulla terra! Questa è la comunione che la chiesa, corpo di Cristo, può vivere e testimoniare al mondo.

Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che da valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla.C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere; vuole soltanto amare.”

 

Herman Hesse

Enzo Bianchi: leggo, voce del verbo vivere

 

 

Sarà anche a motivo del mio iniziare ogni giornata con un’attività chiamata lectio divina, ma per me il consiglio di Flaubert – “Leggere per vivere” – riveste un significato particolarmente denso: non solo perché la parola di Dio contenuta nella Bibbia è per il credente “parola di vita”, ma perché l’esperienza mi conferma che chi non legge fatica a vivere in pienezza e finisce ben presto per accontentarsi di “sopravvivere”.

 

Leggere infatti non è tanto un’attività intellettuale quanto piuttosto il faticoso ma fecondo sforzo di interrogare e interpretare se stessi e la realtà che ci circonda: si tratta di leggere non un libro ma il mondo, le situazioni, gli eventi attraverso ciò che già “sta scritto” perché altri lo hanno messo “nero su bianco”. E, più in profondità ancora, di leggere se stessi: se ci pensiamo bene, il corpo stesso della persona che legge diviene sovente icona di interiorità, una garanzia palpabile di raccoglimento, diremmo quasi che il lettore si fa tutt’uno con il libro e che in tal modo coinvolge nell’atto del leggere persino l’autore stesso di quelle pagine.

 

La lettura, di fatto, è una conversazione, un dialogo con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio: è un ricevere la parola di un altro e farla propria, interpretandola nel dialogo della propria intimità. Sant’Agostino paragonava la scrittura a uno specchio che rivela il lettore a se stesso, Gregorio Magno parlava della «Scrittura che cresce assieme al lettore» e Marcel Proust, al termine della sua opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto, le apriva nuovi orizzonti, ancor più sconfinati, asserendo che i suoi lettori sarebbero stati «lettori di se stessi» in quanto il suo libro era solo il mezzo offerto loro perché leggessero dentro se stessi. Sì, anche e soprattutto nella nostra società dell’immagine, leggere resta operazione di grande umanizzazione, sorprendente nella sua semplicità: non occorrono tecnologie né complicate strumentazioni, e nemmeno iniziazioni particolari perché, in fondo, come ricordava il poeta Fernando Pessoa, «l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge».

 

Non a caso i medievali facevano derivare la parola latina intellegere – letteralmente “capire” – da intus legere, “leggere dal di dentro”. Per fare questo occorre ritirarsi dal “commercio” che ci attornia, dimenticare ciò che è presente ai nostri sensi e concentrarci su ciò che vogliamo leggere, fissare gli occhi e l’attenzione su dei segni scritti – un susseguirsi di spazi bianchi e di lettere disposte ordinatamente sulla superficie di una pagina, cartacea o meno che sia – fino a uscire quasi da noi stessi (o a scendere nelle nostre profondità...) per immergerci nello scritto. Anche in mezzo alla folla, in treno, in autobus, questa operazione rimane possibile e il lettore diviene, anche per chi lo osserva, un’allusione evocatrice del viaggio della mente.

 

Certo, al cuore della vita cristiana ci dev’essere la lettura della parola di Dio, quella lectio divina che permette di assaporare il vino delle sante Scritture, ma la sapienza di Dio è presente anche in tanti libri, a volte ispirati proprio dall’incontro tra la Parola stessa e un suo lettore appassionato. Saggiamente nella sua Regola, san Benedetto prevede che ogni monaco all’inizio del tempo di Quaresima riceva un libro dalla biblioteca e lo «legga di seguito e interamente», ogni giorno, al mattino presto (RB 48,14-15). Disposizione fissata in un’epoca in cui rari erano i libri e, per contro, numerosi i monaci analfabeti: paradossale conferma del fatto che il leggere resta una pratica importante nella vita cristiana, non tanto come operazione intellettuale, ma piuttosto come strumento per approfondire il senso dell’esistenza e la propria fede, per accogliere i doni di una tradizione ricca di conoscenza, per vincere la paura di pensare, per aprire il cuore alla novità e a ciò che è stato cercato dall’altro.

 

Per un cristiano – consapevole che la parola di Dio è contenuta nei libri per eccellenza, la Bibbia – l’operazione del leggere diventa necessaria quasi quanto l’ascoltare: la Bibbia è sacramento della Parola. Purtroppo, oggi si legge poco e anche i cristiani leggono poco, adducendo tra le scuse il poco tempo a disposizione. Ma le scelte che operiamo nell’impiego del nostro tempo sono rivelatrici – che noi ne siamo consapevoli o meno – di ciò che per noi davvero conta nella vita. Così leggere può divenire antidoto alla monotonia dei giorni, lotta contro il logorio del tempo, manifestazione del nostro essere signori e non schiavi del tempo: in questa sua valenza, è atto anti-idolatrico, gesto di resistenza contro uno degli idoli della nostra epoca, opzione etica che accomuna credenti e non-credenti.

 

In questo non dimentichiamo che il libro possiede una qualità che manca ad altri strumenti di comunicazione: sa aspettare. Se il tempo ci manca davvero, il libro ci aspetta, resta lì sul comodino, tra gli scaffali, nella borsa, accanto al giornale e aspetta finché noi troviamo il necessario silenzio interiore, finché accettiamo di ritirarci in disparte, di prendere le distanze da ciò che distrae: esercizio di pazienza, la lettura sa quindi attendere il momento opportuno, ma è anche in grado di suscitarlo, di anticiparlo. Bisogna desiderare leggere, come si desidera un bene prezioso, perché leggere è una scelta ma anche una ricchezza: quella dei tempi riservati, in cui si rivela una parte segreta che appartiene solo a sé ma della quale si può comunicare qualcosa.

 

Leggere è abbeverarsi a una sorgente che non si esaurisce quando le ci si avvicina. Chi di noi, di fronte a un libro amato – e non parlo solo della Bibbia – non ha fatto l’esperienza di come questi assuma colori nuovi secondo i momenti, di come emani profumi inebrianti che danno alla testa o scendono nel cuore, secondo le stagioni, al ritmo dei desideri. Il libro è un oggetto strano: lo guardiamo, lo valutiamo, lo sfogliamo, lo posiamo, lo ritroviamo. Una frase è riletta, un passaggio familiare o oscuro è nuovamente decifrato. Leggere un libro significa compiere un’operazione tesa a leggere il mondo e la storia e accettare che questo anelito ha già abitato poeti, letterati, profeti, musicisti, uomini e donne diversi che hanno diversamente vissuto e diversamente scritto.

 

 

Così annotava Italo Calvino: «Leggere vuol dire spogliarsi di intenzione e di ogni partito preso per essere pronti a cogliere una voce che si fa sentire quando meno ci si aspetta, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell’autore, al di là delle convenzioni della scrittura. Dal non detto, da quello che il mondo non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire». Così la lettura, questo viaggio intrapreso con le parole dell’altro, diviene un cammino per ritornare al proprio cuore, un itinerario potenzialmente infinito. Sì, perché «se alla fine ho chiuso il libro – scriveva Virginia Woolf – era solo perché la mia mente era sazia, non perché avessi esaurito il suo tesoro».

Fede, cultura e società

 

Gianfranco Ravasi

 

 

 

Una premessa

 

L’orizzonte tematico suggerito dal trinomio “fede, cultura, società” è evidentemente immenso e ammette infiniti percorsi di analisi e molteplici esiti di bilancio e di sintesi. È indubbio, perciò, che la nostra potrà essere solo una riflessione emblematica all’interno della quale si aprono spazi bianchi, passibili di ulteriori e ampie considerazioni. Procederemo, dunque, in modo quasi didascalico con una premessa e un corpus successivo di quattro ideali “punti cardinali”, iscritti su una mappa che ammette evidentemente altre definizioni orientative.

Iniziamo con la premessa generale. Lo scrittore cattolico inglese Gilbert K. Chesterton affermava: «Tutta l’iconografia cristiana rappresenta i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l’iconografia buddhista rappresenta ogni essere con gli occhi chiusi». Si tratta, quindi, di due differenti tipologie riguardo al nostro tema. Da un lato, c’è una concezione più squisitamente trascendentale, assoluta, che cerca di andare, chiudendo gli occhi, oltre il mondo, la storia, il tempo e lo spazio, con la sua fragilità, la sua finitudine, i suoi limiti, la sua pesantezza.

Dall’altro lato, invece, c’è la visione cristiana profondamente innervata all’interno della società e della cultura, tanto da costituire una presenza imprescindibile, a volte perfino esplosiva. Infatti, come è noto, la tesi centrale del cristianesimo resta l’Incarnazione: «Il Verbo divenne carne» (Giovanni 1,14). Si tratta di una contrapposizione radicale rispetto alla concezione greca che non ammetteva che il lógos si confondesse, si stingesse immergendosi nella sarx, la carne, ossia la storia. Nel cristianesimo si ha, invece, un intreccio tra fede e storia e, perciò, un contatto tra religione e politica.

Trattare, perciò, un tema simile rientra nei fondamenti stessi dell’esperienza ebraico-cristiana, e quindi della Bibbia, che tra l’altro è anche il “grande Codice” della nostra cultura occidentale. È noto che Goethe riteneva il cristianesimo la “lingua materna” dell’Europa, perché rappresenta una sorta di “imprinting” che noi tutti ci portiamo dietro. Per alcuni forse potrà essere un peso; per altri, invece, rimane un’eredità preziosa. Ebbene, per sviluppare il tema sia pure in modo semplificato, ci affideremo – come si diceva – a quattro componenti o principi emblematici fondamentali, lasciando tra parentesi altri ugualmente rilevanti.

 

Il principio personalista

 

La prima concezione radicale che proponiamo potrebbe essere definita come il “principio personalista”. Il concetto di persona, alla cui nascita hanno contribuito anche altre correnti di pensiero, acquista infatti nel mondo ebraicocristiano una particolare configurazione attraverso un volto che ha un duplice profilo e che ora rappresenteremo facendo riferimento a due testi biblici essenziali che sono quasi l’incipit assoluto dell’antropologia cristiana e della stessa antropologia occidentale.

Il primo testo proviene da Genesi 1,27, quindi dalle prime righe della Bibbia: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Di solito questa frase è incisa all’interno della tradizione – basti pensare a s. Agostino – come dichiarazione implicita dell’esistenza dell’anima: l’immagine di Dio in noi è la spiritualità. Tutto ciò è, però, assente nel testo, anche perché l’antropologia biblica non ha particolare simpatia per la concezione anima/corpo separati, posti in tensione secondo il modo platonico, oppure uniti alla maniera aristotelica.

Qual è, allora, la caratteristica fondamentale che definisce l’uomo nella sua dignità più alta, “immagine di Dio”? La struttura tipica di questa frase, costruita secondo le norme della stilistica semitica, rivela un parallelismo progressivo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina [è, questo, il parallelo di “immagine”] li creò». Ma forse Dio è sessuato? Nella concezione biblica la dea paredra è sempre esclusa, in polemica con la cultura indigena cananea. E allora, come mai l’essere maschio e femmina è la rappresentazione più alta della nostra dignità trascendente? Appare qui la prima dimensione antropologica: essa è “orizzontale”, cioè la grandezza della natura umana è situata nella relazione tra maschio e femmina.

Si tratta di una relazione feconda che ci rende simili al Creatore perché, generando, l’umanità in un certo senso continua la creazione. Ecco, allora, un primo elemento fondamentale: la relazione, l’essere in società è strutturale per la persona. L’uomo non è una monade chiusa in sé stessa, ma è per eccellenza un “io ad extra”, una realtà aperta. Solo così egli raggiunge la sua piena dignità, divenendo l’“immagine di Dio”. Questa relazione è costituita dai due volti diversi e complementari dell’uomo e della donna che si incontrano (rilevante, al riguardo, è la riflessione di Lévinas).

Sempre restando nell’ambito di questo primo fondamentale principio personalista, passiamo a un’altra dimensione non più orizzontale, ma “verticale” che illustriamo ricorrendo sempre a un’altra frase della Genesi: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo». Ciò è tipico di tutte le cosmologie orientali ed è una forma simbolica per definire la materialità dell’uomo. Ma si aggiunge: «e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (2,7).

Per intuire il vero significato del testo è necessario risalire all’originale ebraico: nishmat hayyîm, locuzione che nell’Antico Testamento ricorre 26 volte e, curiosamente, è applicata solo a Dio e all’uomo, mai agli animali (rûah, lo spirito, l’anima, il respiro vitale per la Bibbia è, invece, presente anche negli animali). Questa specifica categoria antropologica è spiegata da un passo del libro biblico dei Proverbi dal dettato originale molto barocco e semitico: la nishmat hayyîm nell’uomo è «una lampada del Signore, che illumina le camere oscure del ventre» (20,27). La versione CEI scioglie la metafora traducendo: «è una lampada del Signore: essa scruta dentro, fin nell’intimo».

Com’è facile immaginare, mediante tale simbolica, si arriva a rappresentare la capacità dell’uomo di conoscersi, di avere una coscienza e perfino di entrare nell’inconscio, appunto nelle «camere oscure del ventre». Si tratta della rappresentazione dell’interiorità ultima, profonda, quella che la Bibbia in altri punti descrive simbolicamente coi “reni”. Che cosa, dunque, Dio insuffla in noi? Una qualità che solo egli ha e che noi condividiamo con lui e che possiamo definire come “autocoscienza”, ma anche “coscienza etica”. Subito dopo, infatti, sempre nella stessa pagina biblica, l’uomo viene presentato solitario sotto “l’albero della conoscenza del bene e del male”, un albero evidentemente metaforico, metafisico, etico, in quanto rappresentazione della morale.

Abbiamo, così, identificato un’altra dimensione: l’uomo possiede una capacità trascendente che lo porta a essere unito “verticalmente” a Dio stesso. È la capacità di penetrare in se stesso, di avere un’interiorità, un’intimità, una spiritualità. La duplice rappresentazione etico-religiosa molto semplificata della persona, finora descritta, potrebbe essere delineata con un’immagine molto suggestiva di Wittgenstein che, nella prefazione al Tractatus logicophilosophicus, illustra lo scopo del suo lavoro.

Egli afferma che era sua intenzione investigare i contorni di un’isola, ossia l’uomo circoscritto e limitato. Ma ciò che ha scoperto alla fine sono state le frontiere dell’oceano. La parabola è chiara: se si cammina su un’isola e si guarda solo da una parte, verso la terra, si riesce a circoscriverla, a misurarla e a definirla. Ma se lo sguardo è più vasto e completo e si volge anche dall’altra parte, si scopre che su quella linea di confine battono anche le onde dell’oceano.

In sostanza, come affermano le religioni, nell’umanità c’è un intreccio fra la finitudine limitata e un qualcosa di trascendente, comunque poi lo si voglia definire.

 

Il principio di autonomia

 

Il secondo principio dell’ideale mappa socio-antropologica che stiamo delineando è parallelo al precedente ed è, come quello, duplice. Potrebbe essere detto “di autonomia” e, per illustrarlo, ricorreremo a un testo che è fondamentale non solo nella religiosità ma anche nella stessa memoria della cultura occidentale, sebbene non sia stato sempre correttamente interpretato. Si tratta di un celeberrimo passo evangelico: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22,21). Una formulazione lapidaria, l’unico vero pronunciamento politico-sociale di Cristo, mentre tutti gli altri sono più indiretti e meno espliciti. Per comprendere correttamente questa affermazione, bisogna entrare nella mentalità semitica che ricorre molto spesso alle cosiddette “parabole in azione” attraverso le quali il messaggio viene formulato con un gesto, con una serie di comportamenti simbolici e non solo con le parole.

Cristo, infatti, all’inizio dice ai suoi interlocutori: «Datemi la moneta», facendo seguire una domanda fondamentale: «Di chi è l’immagine e l’iscrizione?». E la risposta è: «Di Cesare». Di conseguenza: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare». La prima parte della frase di Cristo riconosce, dunque, un’autonomia alla politica. Una vera concezione cristiana dovrebbe sempre escludere qualsiasi tipo di teocrazia sacrale. Non appartiene all’autentico spirito cristiano l’unione fra trono e altare, anche se nella storia, purtroppo, il cristianesimo l’ha favorita in molte occasioni.

La concezione giuridica islamica nella forma più conosciuta della shariyyah è estranea allo spirito cristiano: il codice di diritto canonico non può essere automaticamente il codice di diritto civile o penale, così come la carta costituzionale di uno stato nazionale non può essere il Vangelo. Si tratta di realtà che devono rimanere sempre ben distinte. La politica, l’economia, la società civile hanno un loro spazio di autonomia, al cui interno si sviluppano norme, scelte, attuazioni dotate di una loro immanenza, sulle quali non devono interferire altri ambiti esterni.

Ma le parole di Cristo non finiscono qui: c’è una seconda parte implicita, sempre basata sul tema dell’“immagine”. Gesù, infatti, chiedendo di chi sia l’“immagine” a proposito della moneta, indirettamente fa riferimento al testo biblico sopra citato riguardante l’uomo come “immagine” di Dio. Ecco, allora, una seconda dimensione: la creatura umana deve, sì, rispettare le norme proprie della pólis, della società, ma, al tempo stesso, non deve dimenticare di essere dotata di una dimensione ulteriore. È, questo, l’ambito specifico della religione e della morale, nel quale emergono le questioni della libertà, della dignità umana, della realizzazione della persona, della vita, dell’interiorità, dei valori, dell’amore.

Tutti questi temi hanno una loro precisa autonomia e non ammettono prevaricazioni o sopraffazioni da parte del potere politico-economico. Infatti, se è vero, che non ci dev’essere una teocrazia, è altrettanto inammissibile una statolatria che incomba secolaristicamente sull’altro ambito, svuotandolo o addirittura annullandolo. È facile comprendere quanto sia complessa e fin ardua la declinazione concreta di tale autonomia, come lo è il contrappunto fra queste due sfere perché unico è il soggetto a cui entrambe si dedicano, cioè la persona umana, singola e comunitaria.

 

Il principio di solidarietà, giustizia e amore

 

Giungiamo, così, al terzo principio che è fondamentale per il cristianesimo e per tutte le altre religioni, anche se con accenti diversi.

Ritorniamo al ritratto del volto umano che, come abbiamo detto, ha la dimensione di maschio e femmina, ossia ha alla base il rapporto interpersonale.

Nel capitolo 2 della Genesi la vera ominizzazione non si ha solo con la citata nishmat hayyîm, che rende la creatura trascendente; non la si ha neppure soltanto con l’homo technicus che «dà il nome agli animali», ossia si dedica alla scienza e al lavoro.

L’uomo è veramente completo in sé quando incontra – come dice la Bibbia – «un aiuto che gli sia simile», in ebraico kenegdô, letteralmente “che gli stia di fronte” (2,18.20). L’uomo, dunque, tende verso l’alto, l’infinito, l’eterno, il divino secondo la concezione religiosa e può tendere anche verso il basso, verso gli animali e la materia. Ma diventa veramente se stesso solo quando si trova con “gli occhi negli occhi” dell’altro. Ecco di nuovo il tema del volto.

Quando incontra la donna, cioè il suo simile, può dire: «Costei è veramente carne dalla mia carne, osso dalle mie ossa» (2, 23), è la mia stessa realtà.

E qui si ha il terzo punto cardinale che formuliamo con un termine moderno la cui sostanza è nella tradizione ebraico/cristiana, vale a dire “il principio di solidarietà”. Il fatto di essere tutti “umani” viene espresso nella Bibbia col vocabolo “Adamo”, che in ebraico è ha-’adam con l’articolo (ha-) e significa semplicemente “l’uomo”. Perciò, esiste in tutti noi una “adamicità” comune. Il tema della solidarietà è, allora, strutturale alla nostra realtà antropologica di base. La religione esprime questa unitarietà antropologica con due termini che sono due categorie morali: giustizia e amore. La fede assume la solidarietà, che è anche alla base della filantropia laica, ma procede oltre. Infatti, stando al Vangelo di Giovanni, nell’ultima sera della sua vita terrena Gesù pronuncia una frase stupenda: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13).

È molto più di quanto si dichiarava nel libro biblico del Levitico, che pure Cristo aveva citato e accolto: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (19,18).

Nelle parole di Gesù sopra citate ritorna quell’“adamicità”, ma con una tensione estrema che spiega, ad esempio, la potenza dell’amore di una madre o di un padre pronti a dare la propria vita per salvare il figlio. In tal caso, si va anche contro la stessa legge naturale dell’amare se stessi, dell’“egoismo” pur legittimo, insegnato dal libro del Levitico e dall’etica di molte culture, si va oltre la pura e semplice solidarietà. Evitando lunghe analisi, pur necessarie, illustriamo ora 8 simbolicamente in chiave religiosa le due virtù morali della giustizia e dell’amore con due esempi attinti a culture religiose diverse.

Il primo esempio è un testo sorprendente riguardante la giustizia: «La terra – [è il tema della destinazione universale dei beni, e quindi della giustizia] – è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri. Perché, allora, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? Quando aiuti il povero, tu, ricco, non gli dai il tuo, ma gli rendi il suo. Infatti, la proprietà comune che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi. La terra è di tutti, non solo dei ricchi, dunque quando aiuti il povero tu restituisci il dovuto, non elargisci un tuo dono». Davvero suggestiva questa dichiarazione che risale al IV secolo ed è formulata da Ambrogio di Milano nel suo scritto De Nabuthe.

Questo forte senso della giustizia dovrebbe essere un monito e una spina che la fede innesta nel fianco della società, l’annuncio di una giustizia che si attua nella destinazione universale dei beni. Essa non esclude un sano ed equo concetto di proprietà privata che, però, rimane solo un mezzo – spesso contingente e insufficiente – per attuare il principio fondamentale dell’universale dono dei beni all’intera umanità da parte del Creatore. In questa linea, volendo ricorrere ancora una volta alla Bibbia, è spontaneo risentire la voce autorevole e severa dei Profeti (si legga, ad esempio, il potente libretto di Amos con le sue puntuali e documentate denunce contro le ingiustizie del suo tempo).

La seconda testimonianza che vogliamo evocare riguarda l’amore e, nello spirito di un dialogo interreligioso, la desumiamo dal mondo tibetano, mostrando così che le culture religiose, per quanto diverse, hanno in fondo punti di incontro e di contatto. Si tratta di una parabola dove si immagina una persona che, camminando nel deserto, scorge in lontananza qualcosa di confuso. Per questo comincia ad avere paura, dato che nella solitudine assoluta della steppa una realtà oscura e misteriosa – forse un animale, una belva pericolosa – non può non inquietare. Avanzando, il viandante scopre, però, che non si tratta di 9 una bestia, bensì di un uomo. Ma la paura non passa, anzi aumenta al pensiero che quella persona possa essere un predone. Tuttavia, si è costretti a procedere fino a quando si è in presenza dell’altro. Allora il viandante alza gli occhi e, a sorpresa, esclama: «È mio fratello che non vedevo da tanti anni!».

La lontananza genera timori e incubi; l’uomo deve avvicinarsi all’altro per vincere quella paura per quanto comprensibile essa sia. Rifiutarsi di conoscere l’altro e di incontrarlo equivale a rinunciare a quell’amore solidale che dissolve il terrore e genera la vera società. Qui fiorisce l’amore che è l’appello più alto del cristianesimo per l’edificazione di una pólis diversa (il rimando scontato è al celebre inno paolino all’agápe-amore presente nel capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi).

 

Il principio di verità

 

Il vocabolo “cultura” è divenuto ai nostri giorni una sorta di parola-chiave che apre le serrature più diverse. Quando il termine fu coniato, nel Settecento tedesco (Cultur, divenuto poi Kultur), il concetto sotteso era chiaro e circoscritto: esso abbracciava l’orizzonte intellettuale alto, l’aristocrazia del pensiero, dell’arte, dell’umanesimo. Da decenni, invece, questa categoria si è “democratizzata”, ha allargato i suoi confini, ha assunto caratteri antropologici più generali, sulla scia della nota definizione creata nel 1982 dall’Unesco, tant’è vero che si adotta ormai l’aggettivo “trasversale” per indicare la molteplicità di ambiti ed esperienze umane che essa “attraversa”.

È in questa luce che si comprendono le riserve avanzate dal sociologo tedesco Niklas Luhmann, convinto che il termine “cultura” sia «il peggiore concetto mai formulato», e a lui farà eco il collega americano Clifford Geertz quando affermerà che «esso è destituito di ogni capacità euristica». Eppure, questa genericità o, se si vuole, “generalismo” ci riporta alla concezione classica allorché in vigore erano altri termini sinonimici molto significativi: pensiamo al greco paideia, al latino humanitas, o al nostro “civiltà” (preferito, ad esempio, da Pio XII).

È in questa prospettiva più aperta che la parola “cultura” è stata accolta con convinzione dal Concilio Vaticano II che, sulla scia del magistero di Paolo VI, la fa risuonare ben 91 volte nei suoi documenti. Partendo proprio dal Concilio con la Gaudium et Spes, il tema è stato sviluppato successivamente in vari documenti del Magistero tra encicliche ed esortazioni apostoliche, per approdare ad altre autorevoli pagine ecclesiali di vario genere, capaci alla fine di comporre un vero e proprio arcobaleno tematico nel quale si riflettono le diverse iridescenze di una nozione rilevante, anzi, decisiva per la stessa teologia e per la pastorale.

Il Pontificio Consiglio della Cultura nel 2003 – su impulso dell’allora presidente, il cardinale Paul Poupard, – aveva allestito un’«antologia di testi del magistero pontificio da Leone XIII a Giovanni Paolo II» sotto il titolo Fede e cultura, nella convinzione che, come si esprimeva Giovanni Paolo II nel suo discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite (1995), «qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri, il mistero di Dio».

Al concetto di “cultura” che ha sollecitato infinite riflessioni e precisazioni, si deve associare quello di “acculturazione” o “inculturazione”, che un saggio dell’American Anthropologist del 1935 così delineava: «Si tratta di tutti quei fenomeni che hanno luogo quando tra gruppi di individui con culture diverse intercorrono per lungo tempo dei contatti primari, provocando una trasformazione nei modelli culturali di un gruppo o di entrambi i gruppi».

Tendenzialmente il termine volse verso un’accezione negativa: la cultura egemone non si piega a un’osmosi, ma cerca di imporre il suo marchio a quella più debole, creando uno shock degenerativo e una vera e propria forma di colonialismo.

Se si vuole essere meno astratti, si pensi all’ideologia eurocentrica che ha imposto non solo la sua “eredità epistemologica”, ma anche il suo modello pratico ed economico al “sistema mondo”, rivelandosi spesso in Africa e in Asia come l’interfaccia del colonialismo. In questo processo anche il cristianesimo fu trascinato a diventare una delle componenti acculturanti. Si comprende, così, il fenomeno di reazione costituito dai movimenti “revivalisti” o da forme di etnocentrismo, nazionalismo, indigenismo, fenomeno così vigoroso da aver spinto non pochi osservatori a variare la terminologia da “globalizzazione” in “glocalizzazione”.

È con questo antefatto che si spiega perché la Chiesa contemporanea abbia preferito evitare il termine “acculturazione” sostituendolo con “inculturazione” per descrivere l’opera di evangelizzazione. Giovanni Paolo II, nella Slavorum Apostoli del 1985, definiva l’“inculturazione” come «incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone e insieme introduzione di esse nella vita della Chiesa». Un duplice movimento dialogico di scambio, quindi, per cui – come lo stesso Papa aveva detto ai vescovi del Kenya nel 1980 – «una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano». Il vocabolo “inculturazione” si è, così, connotato soprattutto a livello teologico come segno di compenetrazione tra cristianesimo e culture in un confronto fecondo, gloriosamente attestato dall’incontro tra la teologia cristiana dei primi secoli e la poderosa eredità classica greco-romana.

A questo punto è naturale entrare – sia pure sempre in modo molto essenziale – nella questione del nesso più specifico e delle interazioni tra le diverse culture che vengono a contatto tra loro. Ora, fu proprio in quel Settecento tedesco, nel quale – come si è detto sopra – si era coniato il termine Cultur/Kultur, che si iniziò anche a parlare di “culture” al plurale, gettando così le basi per riconoscere e comprendere quel fenomeno che ora è definito come “multiculturalità”.

Ad aprire questa via, che superava il perimetro eurocentrico e intellettualistico e si inoltrava verso nuovi e più vasti orizzonti, era stato Johann Gottfried Herder con le sue Idee sulla filosofia della storia dell’umanità (1784- 91), lui che tra l’altro si era già dedicato nel 1782 allo Spirito della poesia ebraica. L’idea, però, balenava ancora nel pensiero di Vico, Montesquieu e Voltaire che riconoscevano nelle evoluzioni e involuzioni storiche, negli stessi condizionamenti ambientali, nell’incipiente incontro tra i popoli, al seguito delle varie scoperte, nelle prime osmosi ideali, sociali ed economiche, l’emergere di un pluralismo culturale.

Certo, questo approccio si innestava all’interno di una dialettica antica, quella che – con qualche semplificazione – vedeva incrociarsi etnocentrismo e interculturalità. È stata costante, infatti, l’oscillazione tra questi due estremi e noi ne siamo ancor oggi testimoni. L’etnocentrismo si esaspera in ambiti politici o religiosi di stampo integralistico, aggrappati fieramente alla convinzione del primato assoluto della propria civiltà, in una scala di gradazioni che giungono fino al deprezzamento di altre culture classificate come “primitive” o “barbare”.

Lapidaria era l’affermazione di Tito Livio nelle sue Storie: «Guerra esiste e sempre esisterà tra i barbari e tutti i greci» (31,29). Questo atteggiamento è riproposto ai nostri giorni sotto la formula dello “scontro di civiltà”, codificata nell’ormai famoso saggio del 1996 del politologo Samuel Huntington, scomparso nel 2008, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.

In questo testo erano elencate otto culture (occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slavo-ortodossa, latino-americana e africana), enfatizzandone le differenze, così da far scattare nell’Occidente un segnale d’allarme per l’autodifesa del proprio tesoro di valori, assediato da modelli alternativi e dalle «sfide delle società non-occidentali». Significativa in questa visione era l’intuizione che, sotto la superficie dei fenomeni politici, economici, militari, si aveva uno zoccolo duro e profondo di matrice culturale e religiosa.

Certo è, però, che, se si adotta il paradigma dello “scontro delle civiltà”, si entra nella spirale di una guerra infinita, come già aveva intuito Tito Livio. Ai nostri giorni tale modello ha fortuna in alcuni ambienti, soprattutto quando si affronta il rapporto tra Occidente e Islam, e può essere adattato a manifesto teorico per giustificare operazioni politico-militari di “prevenzione”, mentre in passato avallava interventi di colonizzazione o colonialismo (già i Romani erano in questo maestri).

La prospettiva più corretta sia umanisticamente sia teologicamente è, invece, quella dell’interculturalità, che è un ben differente approccio alla “multiculturalità”. Esso si basa sul riconoscimento della diversità come una fioritura necessaria e preziosa della radice comune “adamica”, senza però perdere la propria specificità. Si propone, allora, l’attenzione, lo studio, il dialogo con civiltà prima ignorate o remote, ma che ora si affacciano prepotentemente su una ribalta culturale finora occupata dall’Occidente (si pensi, oltre all’Islam, all’India e alla Cina), un affacciarsi che è favorito non solo dall’attuale globalizzazione, ma anche da mezzi di comunicazione capaci di varcare ogni frontiera (la rete informatica ne è il simbolo capitale).

Queste culture, “nuove” per l’Occidente, esigono un’interlocuzione, spesso imposta dalla loro presenza imperiosa, tant’è vero che ormai si tende a parlare di “glocalizzazione” come nuovo fenomeno di interazione planetaria. Si deve, dunque, parlare di un impegno complesso di confronto e di dialogo, di interscambio culturale e spirituale, che potremmo rappresentare in modo emblematico – in sede teologica cristiana – proprio attraverso la stessa caratteristica fondamentale della Sacra Scrittura.

La Parola di Dio non è, infatti, un aerolito sacrale piombato dal cielo, bensì – come si è già detto – l’intreccio tra Lógos divino e sarx storica. Si è, così, in presenza di un confronto dinamico tra la Rivelazione e le varie civiltà, dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica, almeno per quanto riguarda l’Antico Testamento, mentre la Rivelazione neotestamentaria si è incrociata col giudaismo palestinese e della Diaspora, con la cultura greco-romana e persino con le forme cultuali pagane.

Giovanni Paolo II, nel 1979, affermava davanti alla Pontificia Commissione Biblica che, ancor prima di farsi carne in Gesù Cristo, «la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche».

La stessa esperienza di osmosi feconda tra cristianesimo e culture – che dette origine all’ “inculturazione” del messaggio cristiano in civiltà lontane (si pensi solo all’opera di Matteo Ricci nel mondo cinese) – è stata costante anche nella Tradizione a partire dai Padri della Chiesa. Basti citare un passo della Prima Apologia di s. Giustino (II sec.): «Del Logos divino fu partecipe tutto il genere umano e coloro che vissero secondo il Lógos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come fra i Greci Socrate ed Eraclito e altri come loro» (46, 2-3).

Giungiamo, così – dopo questo lungo itinerario preliminare nelle varie dimensioni del concetto di “cultura” – al quarto principio, quello che denomineremo con un termine divenuto, se non proprio obsoleto, certamente fonte di equivoci e di contrasto, quello di “verità”. La cultura, infatti, si fonda sostanzialmente sulla conoscenza che comporta appunto l’importante profilo della verità, categoria base del conoscere. Se partiamo dalla concezione contemporanea, anticipata però nei secoli precedenti, si scopre un filo costante che ora cercheremo di semplificare ed esemplificare.

Se noi seguiamo il percorso culturale di questi ultimi secoli, infatti, possiamo dire che il concetto di verità è diventato sempre più soggettivo fino ad arrivare al “situazionismo” del secolo scorso. Si pensi, ad esempio, alla famosa frase abbastanza significativa e spesso citata, attinta al Leviathan di Hobbes: Auctoritas, non veritas facit legem. In ultima analisi è, questo, il principio del contrattualismo, secondo il quale l’autorità, sia civile sia religiosa, può decidere la norma e, quindi, indirettamente la verità, in base alle convenienze della società e ai vantaggi del potere.

Tale concezione fluida della verità è ormai abbastanza acquisita, basti pensare all’antropologia culturale. Il filosofo francese Michel Foucault, studiando le diverse culture, invitava caldamente ad accentuare questa dimensione soggettiva e mutevole della verità, simile a una medusa cangiante, che muta aspetto continuamente a seconda dei contesti e delle circostanze.

Questo soggettivismo è sostanzialmente ciò che Benedetto XVI chiama “relativismo”: è curioso notare come la pensatrice americana, Sandra Harding, faceva il verso alla celebre frase del Vangelo di Giovanni (8,32): «La verità vi farà liberi», affermando al contrario in un suo noto saggio che «La verità non vi farà liberi», poiché essa viene concepita come una cappa di piombo, come una pre-comprensione, come una sterilizzazione della dinamicità e dell’incandescenza del pensiero.

Tutte le religioni, e in particolare il cristianesimo, hanno invece una concezione trascendente della verità: la verità ci precede e ci eccede; essa ha un primato di illuminazione, non di dominio. Anche se il pensiero di Adorno andava in ben altra direzione, è suggestiva una sua espressione tratta dai Minima moralia. Il filosofo tedesco parla della verità comparandola alla felicità e dichiara: «La verità non la si ha, vi si è», cioè si è immersi in essa. Musil, nel suo famoso romanzo L’uomo senza qualità, al protagonista fa dire una frase interessante: «La verità non è come una pietra preziosa che si mette in tasca, la verità è come un mare nel quale ci si immerge e si naviga».

Si tratta, fondamentalmente, della classica concezione platonica espressa nel Fedro mediante l’immagine della “pianura della verità”: la biga dell’anima corre su questa pianura per conoscerla e conquistarla, mentre nella Apologia di Socrate, al di là delle obiezioni che qualche specialista potrà muovere per quanto concerne la traduzione del passo in questione, si legge: «Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta», ed è proprio questo l’itinerario da compiere nell’orizzonte “dato” della verità. Da tale punto di vista le religioni sono nette: la verità ha un primato che ci supera, la verità è trascendente, compito dell’uomo è essere pellegrino all’interno dell’assoluto della verità. E questo è talmente decisivo da far sì che il cristianesimo applichi a Cristo l’identificazione con la verità per eccellenza (Giovanni 14,6: «Io sono la Via, la Verità, la Vita»).

 

Conclusione

 

La tetralogia di principi che abbiamo delineato in modo discorsivo non esaurisce, certo, la complessità delle relazioni e le stesse tensioni che intercorrono tra fede, cultura e società. Altri principi si potrebbero allegare, altrettanto rilevanti e delicati. Pensiamo, ad esempio, a un’altra tetralogia che si potrebbe sviluppare e che condiziona fortemente il dibattito contemporaneo sul tema: la categoria “natura”, il concetto di “bene comune”, la questione del rapporto etica-diritto, la prospettiva progettuale dell’“utopia”.

La nostra è stata solo un’introduzione un po’ scontata attorno a quattro assi antropologici. Al centro, infatti, c’è sempre la persona umana nella sua dignità, nella sua libertà e autonomia, ma anche nella sua relazione all’esterno di sé, e quindi verso la trascendenza. Tenere insieme le varie dimensioni della creatura umana nell’ambito della vita sociale e politica è spesso difficile e la storia ospita una costante attestazione delle crisi e delle lacerazioni.

Eppure, la necessità di tener insieme “simbolicamente” (syn-bállein) queste differenze è indiscutibile se si vuole edificare una pólis autentica, non spezzata “diabolicamente” (dià-bállein) in frammenti fondamentalisticamente opposti l’uno all’altro. È ciò che delineiamo sinteticamente, in conclusione, ricorrendo a un’altra testimonianza di indole etico-religiosa desunta ancora una volta da una cultura diversa dalla nostra occidentale. Ci riferiamo a un settenario proposto da Gandhi che definisce in modo folgorante questa “simbolicità” di valori necessaria a impedire la distruzione della convivenza sociale.

 

«L’uomo si distrugge con la politica senza principi; l’uomo si distrugge con la ricchezza senza fatica e senza lavoro; l’uomo si distrugge con l’intelligenza senza la sapienza; l’uomo si distrugge con gli affari senza la morale; l’uomo si distrugge con la scienza senza umanità; l’uomo si distrugge con la religione senza la fede [il fondamentalismo insegna]; l’uomo si distrugge con un amore senza il sacrificio e la donazione di sé».

Raccontare

 

fatti di speranza

 

Riccardo Tonelli

 

Desidero condividere qualche riflessione sulla speranza. Considero la speranza una esigenza fondamentale per vivere oggi da autentici discepoli di Gesù, nella vita di tutti i giorni, facendo cioè sport, studiando e lavorando, impegnandosi nell’ambito civile e politico per costruire una società migliore dell’attuale.

Mi rendo conto che è un’impresa difficile.

Non nascondiamoci infatti dietro un dito: la parola “speranza” è una di quelle trattate peggio oggi. Ne parlano tutti. Moltissimi promettono rimedi efficaci alla disperazione che ci avvolge come una cappa inesorabile di smog. E poi ci accorgiamo subito che troppi stanno prendendoci in giro. Ci circondano di belle parole solo per vendere i prodotti del loro paniere.

Qualche volta lo fanno anche i cristiani, abusando del riferimento a Gesù per invitarci ad una strana e ingiusta rassegnazione. Un grande teologo ha avuto il coraggio di scrivere che a molti che predicano la croce di Gesù… sarebbe meglio usarla per dare ad essi legnate sulla testa.

La prima cosa da fare è proprio metterci d’accordo sul suo significato.

 

Quale speranza

 

Considero la speranza il corrispettivo della vita. Vita è esperienza di felicità e di senso, capace di assicurare uno spazio dove sia possibile essere restituiti alla gioia, al protagonismo, alla sicurezza, alla responsabilità. Vita è quindi capacità di trovare quotidianamente senso e futuro anche di fronte all’incertezza, alla sofferenza, al dolore e alla morte.

La vita è vissuta nella speranza quando siamo in grado di sperimentare, nell’incertezza della ricerca e nella fatica della quotidiana esperienza, che tutto questo ci è consegnato con quella dose di sicurezza che l’esistenza quotidiana permette. Facciamo i conti con il dolore e la morte. E siamo disposti a gridare forte, anche se con voce rotta dal pianto, che la morte non è l’ultima parola sulla vita ma è una porta da cui transitare - obbligatoriamente proprio per la dignità e l’autenticità della nostra vita – per consolidare, passo dopo passo, felicità e senso nel futuro.

Ci rendiamo conto che tutto questo non dipende da noi: le nostre mani e la nostra potenza collettiva, sono davvero inadeguate per restituirci vita e speranza. Non rinunciamo alla speranza, perché affidiamo ad un mistero più grande, che ci avvolge e che respiriamo (la vita stessa, il suo Signore e Salvatore), il quotidiano consolidamento di una speranza che percorrere i passi concreti del nostro vivere quotidiano.

Speriamo, perché dalla vita alziamo le mani invocando chi ci accolga, ci afferri e ci restituisca alla gioia di vivere e all’esperienza impegnativa del protagonismo esistenziale.

Legando in questo modo vita e speranza, suggerisco che la radice della speranza sta fuori di noi, nelle mani alzate verso un mistero che posso incontrare solo sfondando il mio vissuto. Questo mistero ha un nome, nella testimonianza dei cristiani: Gesù, volto e parola di Dio, unico nome in cui essere pienamente nella vita.

Può sembrare un modo strano di comprendere cosa sia la speranza. Qualcuno può concludere che parlare così di speranza richiede il gesto folle di scoprire che i problemi sono dentro la nostra vita quotidiana e la soluzione va cercata fuori.

Non è proprio questo il mio modello di speranza.

I problemi che portano alla disperazione sono dentro la mia vita. Chi li ignora o fa finta che non ci siano, si consegna con le sue stesse mani alla follia della disperazione.

La radice della speranza non siamo noi stessi. Non ci bastiamo davvero sulle realtà che contano maggiormente. Per questo dobbiamo alzare la braccia verso l’alto, il “fuori” e “sopra” di noi. Ma le braccia alzate sono afferrate da due mani robuste, che ci riconsegnano a noi stessi e ci sollecitano a scoprire di più la nostra stessa esistenza… per trovare, nel profondo di essa, la ragione e il sostegno alla vita piena e alla felicità, facendo i conti con l’incertezza, il dolore, persino la morte.

 

Siamo in buona compagnia

 

A te che leggi – e un poco anche a me che ho scritto queste parole – viene subito spontanea una reazione: tutto sommato è bello… ma sarà poi vero? Non si tratta di un altro, raffinato imbroglio?

Ci ho pensato tante volte: È bello restare critici, soprattutto di fronte alle cose più impegnative.

Ho trovato una risposta nella storia che voglio raccontare. È la storia di quei due amici che abbiamo imparato a chiamare “i discepoli di Emmaus”. Sono un grande progetto di speranza: va dall’entusiasmo alla disperazione, alla conquista di una ragione più profonda e matura che ha cambiato loro la vita, rendendoli capaci di raccontare a tutti la loro avventura.

Ecco la loro storia, come la propone il Vangelo di Luca.

Ci avevano sperato tanto. Avevano accettato l'invito di Gesù con entusiasmo. Avevano lasciato tutto per seguirlo, affascinati dalla sua persona e convinti della sua causa.

Ora però tutto sembrava finito. Nel peggiore dei modi.

I suoi nemici avevano catturato Gesù. L'avevano sottoposto ad un processo che era tutto una presa in giro. L'avevano condannato, come fosse un malfattore, lui che aveva solo fatto del bene a tutti quelli che aveva incontrato. Poi, dopo averlo torturato, l'avevano ucciso. Tutto era finito così. Gesù aveva promesso di vincere anche la morte. L'aveva fatto con quella degli altri. Con la sua però... nulla da fare. Gesù era stato cancellato dagli occhi e dal cuore dei suoi amici. Avevano vinto i suoi nemici. Tutto doveva ritornare come prima.

Pazienza... era stato un bel sogno, finito troppo presto e nel modo più tragico.

Adesso non c'era proprio più nulla da fare. Bisognava tornarsene a casa, con l'amarezza della nostalgia e con un pizzico di vergogna. Era necessario riprendere in mano gli attrezzi del lavoro, abbandonati con troppa foga qualche mese prima.

Ritornare... quelli di prima: come se nulla fosse accaduto, superando persino il sorriso beffardo degli amici di un tempo, che non avevano capito la strana voglia di mettersi dietro quel tipo di Nazareth, che stava facendosi un mucchio di nemici con le sue idee.

Molti discepoli avevano già preso la strada del ritorno. Adesso toccava anche a loro. Buoni buoni, avevano deciso di ritornare ad Emmaus, a casa propria. Come se nulla fosse successo.

Camminavano senza scambiarsi una parola. Non ne avevano più: le ultime si erano spente in gola con il saluto triste agli amici che restavano a Gerusalemme.

All'improvviso, si avvicina un viandante, spuntato quasi dal nulla. Veniva come loro dalla direzione di Gerusalemme. Ma non l'avevano notato prima.

"Buongiorno". "Salve". "Dove andate?". "Veniamo da Gerusalemme e torniamo a casa nostra ad Emmaus. Manca ormai poco, per fortuna".

Insiste il pellegrino: "Posso unirmi a voi? Io vado oltre. La strada è lunga e, di questi tempi, anche un po' pericolosa. Possiamo farci compagnia?".

"Accidenti... che facce tristi avete. Non l'avevo notato prima. Mi sembrate appena spuntati da un funerale. Mi sbaglio?".

La risposta è pronta. Le parole corrono come uno scroscio di pianto. "Veniamo davvero da un funerale. Ne parla tutta Gerusalemme. Come fai a non saperlo? Hanno ucciso Gesù di Nazareth. Era nostro amico e nostro maestro. Noi stavamo con lui, condividevamo la sua passione per la liberazione d'Israele e la sua speranza nel futuro di Dio. L'hanno ucciso, inchiodato sulla croce, dopo un processo che sembrava studiato apposta per condannarlo".

Una pausa per prendere fiato e per riandare agli ultimi bagliori di quella speranza che aveva loro infiammato il cuore.

"Aveva fatto solo del bene: guariva gli ammalati, trattava bene i poveri, aveva una parola buona anche per i peccatori. Ha resuscitato persino dei morti. Hai sentito parlare di sicuro di Lazzaro, quello di Betania. Gesù l'ha riportato in vita, tre giorni dopo che era morto. Purtroppo parlava con eccessiva libertà di Dio e della legge. Voleva troppo bene alla povera gente.

L'hanno ucciso. Chi? Lo sai di sicuro... i romani, ma con la complicità dei nostri sacerdoti e dei dottori della legge...

Prima di morire, aveva promesso che sarebbe ritornato in vita, anche lui, come il suo amico Lazzaro. Ma ormai sono passati tre giorni... e non è capitato proprio nulla".

Il secondo incalza: "Proprio nulla... non è vero. Sai, nel nostro giro c'erano anche delle donne. Stavano con noi per servire Gesù. Un paio di loro dice di aver visto Gesù risorto. Nessuno ci crede. Sono donne fanatiche... Se lo sono immaginato, accecate dal dolore e dall'amore.

I capi, Pietro e i dodici, non hanno visto nulla.

Tutto è finito. Torniamo anche noi a casa".

"Calma. Non correte troppo nelle conclusioni", riprende la parola lo strano compagno di viaggio. "State facendo una lettura scorretta degli avvenimenti. Vi fermate a quello che avete visto con gli occhi. Mi spiace per voi: siete un po' ciechi. Non sapete leggere dentro gli avvenimenti".

"Aiutaci tu... se ci riesci". "Volentieri. Ascoltate".

Un passo dopo l'altro si avvicinano a casa. Un passo dopo l'altro, il compagno di strada aiuta a rileggere gli avvenimenti dal mistero che si portano dentro. Cita brani della Scrittura. Ricorda profezie antiche e nuove. Rende attuali lontani ricordi.

Neppure nei tempi in cui stavano con Gesù, avevano vissuto un'esperienza simile. Allora erano tutti proiettati verso il futuro. Si erano quasi dimenticati del passato. Il presente e i progetti su esso erano troppo importanti per pensare ancora al passato.

Adesso, invece, dal presente vanno verso il passato. Lo ricomprendono, immergendolo nel mistero di Dio. Le cose meravigliose che Dio ha compiuto per il suo popolo, diventano una specie di nuova lettura del presente. Anche il buio, l'incertezza e il dolore cambiano tono. Brillano di qualcosa che non avevano mai scoperto.

Si guardano negli occhi. "Strano... ma allora non hanno ucciso la nostra speranza. Ce l'avevano spenta. Avevano tentato di spegnerla ed eravamo caduti nella trappola. Senza passato il nostro presente diventava disperato. Tornavamo a casa perché eravamo senza futuro. Invece... c'è speranza. Aveva ragione Gesù quando ci parlava del chicco di grano che deve morire per diventare spiga".

"L'hanno ucciso... ma non hanno vinto. Dio vince la morte. Era tutto programmato nei piani misteriosi di Dio".

Spontaneamente sulle labbra affiorano le parole dei Salmi. Hanno un sapore nuovo. Non se n'erano mai accorti prima.

"E se tornassimo a Gerusalemme?". "Domani. Oggi è tardi. Non possiamo rifare il cammino di notte. È troppo pericoloso. Domani".

Poi, ormai, ecco le prime case d Emmaus. Sono arrivati a destinazione: domani mattina, alle prime luci, si torna a Gerusalemme.

Il compagno di viaggio fa finta di salutarli per rimettersi in cammino. "Prosegui? A quest'ora?". Insistono: "Fermati con noi. Nella nostra casa, un posto per te lo troviamo senza problemi. Dai... fermati".

Erano rassegnati a tornare alla vita di prima. Avevano tirato i remi in barca, scoraggiati e delusi. Ma l'esperienza di Gesù li aveva segnati dentro. Respiravano l'esigenza dell'ospitalità, quella vera. Le loro parole non erano di circostanza. Venivano dal cuore. "Sta' con noi. Sei ospite nostro".

Il viandante misterioso si ferma. Qualche resistenza, forse per saggiare l'autenticità dell'invito. Poi si ferma. Accetta l'atto di ospitalità.

Si mettono a tavola.

Ad un certo punto... si aprono gli occhi.

Gesù ha fatto strada con loro. Ha pregato lungo la via con loro, aiutandoli a rileggere gli avvenimenti dal mistero che essi si portavano dentro. Li ha aiutati a pregare contemplando.

Ora la preghiera esplode nella celebrazione. Gesù prende il pane e la coppa del vino. Li benedice e li condivide.

Un grido: "È lui, il crocefisso è risorto. Possibile che non ce ne siamo accorti prima? Eravamo proprio ciechi, di dolore e di rassegnazione".

Non c'è più. È tornato nel silenzio da cui è venuto.

Le poche ore trascorse con loro, hanno lasciato il segno. Li ha guidati per mano in un'intensa esperienza di preghiera, che li ha cambiati profondamente.

La speranza e la passione ritorna prepotente nei loro cuori intorpiditi. La preghiera e la celebrazione si spalancano verso la vita.

Adesso non è più tardi per tornare a Gerusalemme. Non ci sono più i pericoli del viaggio notturno. Partono, di corsa: l'esperienza vissuta va comunicata agli altri.

Ritornano a Gerusalemme, per gridare a tutti: Gesù è risorto, la sua avventura per la vita e la speranza di tutti... continua. Anzi: ricomincia.

(Luca cap. 19)

 

Narrare speranza: fatti + parole

 

Un ultima cosa voglio condividere: la gente che ha trovato la speranza è contagiosa… perché riempie la testa degli amici, il territorio in cui abita, il lavoro che fa… della narrazione della speranza.

Come?

Della speranza parliamo producendo fatti.

I fatti sono quelli di una qualità nuova di vita, che lascia tutti a bocca aperta, perché fa sperimentare che si può vivere come tutti, in uno stile e in una prospettiva tutta originale, come hanno fatto tanti cristiani impegnati e tanti uomini e donne coraggiose.

I fatti però non bastano: abbiamo bisogno di “parole”, che li interpretino e li amplifichino.

Molto lavoro resta da fare per restituire alle nostre abituali parole la capacità di interpretare – in modo consapevole e convincente – i fatti come fatti di speranza, riconducibili all’annuncio del Crocifisso risorto.

Sono convinto che, nell’educazione e nella pastorale, dobbiamo dimenticare la vecchia lingua, che purtroppo abbiamo ormai nel sangue, per imparare una lingua nuova, l’unica che può davvero interpretare bene i fatti di speranza che produciamo.

La lingua da dimenticare è… il “matematichese”: lo strumento linguistico attraverso cui comunichiamo le informazioni, sicure e precise, come sono le nozioni di matematica e le norme giuridiche…

Quella da apprendere e utilizzare è l’ “amorese”: lo strumento linguistico attraverso cui, con parole e segni, diciamo ad altri il nostro amore, la nostra stima, i nostri progetti di vita.

La comunicazione di regole matematiche, le norme giuridiche e quelle economiche esigono formulazioni precise ed esigenti. La scelta di altre modalità risulterebbe a scapito della comunicazione stessa. Le dichiarazioni di amore, la poesia e l’arte si collocano in quello stile di comunicazione in cui prevale il riferimento all’oggetto attraverso giochi di libertà e responsabilità molto personali.

 

Magari, un giorno o l’altro, ne parliamo con più calma. Intanto, ripensa al cammino percorso: in “amorese” ti ho raccontato il “fatto” dei due discepoli di Emmaus.

L'ordinario diventa straordinario rinascita del nostro sguardo

 

Alessandro D’Avenia 

 

 

Sulla polverosa strada verso Emmaus, un paesino a pochi chilometri da Gerusalemme, due uomini parlano animatamente, quando un solitario viandante li affianca incuriosito: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Hanno il volto triste, e uno di loro gli risponde tra lo stupito e l’ironico: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Il viandante chiede: «Che cosa?». I due riassumono i fatti: avevano sperato che Gesù di Nazareth fosse il Messia e ne erano diventati discepoli, ma era stato brutalmente crocifisso e il suo corpo era sparito dal sepolcro. Il 24° e ultimo capitolo del Vangelo di Luca, che ho riletto in questi giorni pasquali, spiazza ogni aspettativa del lettore, credente o no che sia. Il viandante che si fa dare dell’ignorante è proprio quell’uomo: «Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Il mistero è doppio: un uomo morto cammina con i suoi amici che, benché siano in grado di percepirne la presenza, non lo riconoscono. Percepire e riconoscere sono qui posti su due livelli diversi e, pare, incompatibili. Il testo e il mistero che contiene mi hanno sempre intrigato.

 

Il lettore si aspetterebbe adesso la grande luce del lieto fine: lo straniero si rivela e li annichilisce. Ma è già successo in tutte le storie in cui la realtà viene ribaltata con la forza, dai poemi omerici in poi. Qui no, la rivoluzione accade in modo inatteso: lo straniero, invece di rivelarsi apertamente, continua il cammino con loro, perché sono loro a dover rivoluzionare un punto di vista inadeguato. I due infatti speravano in un posto nel regno del Messia, ma «ai loro occhi» Gesù si era dimostrato un sognatore, e così se ne tornano alla solita vita di prima, senza gusto. Il gusto che si perde quando si è malati: tra i cinque sensi è infatti quello che usiamo come metafora per la qualità della vita. Una vita «senza sapore» è priva di «senso»: prova gusto solo chi sa percepire e riconoscere il valore di qualcosa. Per questo il viandante spiega «in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui», e raddrizza le loro aspettative accecate dal desiderio ristretto di auto-affermazione. Così cura la loro delusione: è inevitabile che tutto ciò da cui speriamo di ricevere senso, se è finito, ci deluda, perché il desiderio umano è infinito per definizione e nessun «finito» potrà mai bastargli. Ma è proprio in situazioni (come la attuale) in cui perdiamo le nostre finite o finte certezze che ci disponiamo a riconoscere l’infinito. Lo straniero ripara la loro «svista»: non è la quantità di potere a dare senso alla vita bensì quella di amore. Non possono riconoscerlo perché lui è venuto a servire, non a dominare. Loro si aspettavano il trionfo (che scendesse dalla croce e sbaragliasse i nemici), ma l’amore non domina, si dà e lascia liberi, non vince ma avvince e convince. Spesso cerchiamo di nascondere la povertà di amore ricevuto e dato con maschere auto-rassicuranti. Ma quando cadono le maschere, chi siamo?

 

 

«Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista». Cresce il mistero: quando lo vedono non lo riconoscono, quando lo riconoscono sparisce. Riconoscere non è dato agli occhi, ma allo spirito. Capita anche a noi di dire a chi amiamo: non ti riconosco più! L’altro è sparito alla nostra vista, perché dobbiamo ritrovarlo più in profondità. Infatti la delusione dei due, frutto di false aspettative, viene curata («Non ci ardeva il cuore mentre conversava con noi lungo il cammino?») e trasformata in desiderio: gli chiedono di rimanere a cena. Ed è allora che lo riconoscono. Il luogo in cui c’è «gusto» è nelle cose quotidiane, vissute con l’apertura e la cura di chi invita un amico a cena. I due infatti ripartono subito verso Gerusalemme per raccontare tutto agli altri. Dovrebbero essere ancora più tristi perché l’hanno perso di nuovo, e invece hanno scoperto che è ovunque, a loro disposizione («Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo»), perché la resurrezione è una rivoluzione da ricevere non da fare («Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me»). Quando umano e divino cenano alla stessa tavola, allora l’ordinario diventa straordinario. Risorgere è la ricetta per dare infinito gusto alla vita, perché permette di riconoscere la vita nascosta in ogni cosa: a casa, a lavoro, nel dolore, nella fatica, nelle relazioni, nella luce sulle foglie... in tutto, perché solo ciò che viene fatto con e per amore diventa vivo. Così la «vita di sempre» diventa la «vita per sempre». Solo così «ce la faremo».

Il  consolatore

 

Alessandro D’Avenia

 

 

Il nostro bisogno di consolazione ed è quest’ultima parola che vorrei oggi esplorare, per scoprire se contiene la preda in cui sperava Dagerman: «Sono a caccia di consolazione come un cacciatore. Là dove la vedo apparire, sparo». Possiamo veramente essere consolati? Consolazione, dal latino, è una parola composta da con e solus (solo), da cui vengono termini distanti come solitudine e sollazzo. Come mai? Perché sembra che solus nasconda la radice (ol-) che indicava pienezza, integrità, totalità, rimasta per esempio in ad-olescente (teso alla pienezza), olistico (che abbraccia tutto). «Solo» è quindi «uno» perché integro e saldo, e non perché «isolato», che viene invece da isola. Può stare «solo» chi è «pieno», ma questa totalità, per esseri finiti come siamo, non è alla nostra portata e, quindi, è necessario essere con-solati: resi pieni.

Il con-, prefisso della relazione (coniuge, compagno, complice...), conferma infatti che la pienezza di qualcosa si raggiunge «insieme», come si dice anche per la forza, che richiede con-forto, o per il cuore che richiede con-cordia. Per questo ci consola ciò che ci restituisce interezza (si pensi al cerchio dell’abbraccio), ed è invece de-solante ciò che ce la toglie (il de- indica privazione): per Leopardi infatti la ginestra «consola» il deserto che è una terra desolata. La consolazione provoca sollazzo (gioia), perché è come una festa tra amici. Cristo, riferendosi alla sua futura morte per amore degli uomini, dice infatti: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro Consolatore», indicando lo Spirito Santo, di cui ricorreva ieri la festa (Pentecoste: 50 giorni dopo la Pasqua). La traduzione italiana evoca un verbo ebraico che significa «far respirare»: il Consolatore è chi ci fa respirare sempre. Cristo definisce quindi se stesso il primo Consolatore e lo Spirito il secondo e più necessario, perché rende vivi gli uomini di tutti i luoghi e tempi, e non solo i contemporanei di Gesù. Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.

Ma lo Spirito dov’è? Al modo della luce è visibile nei suoi effetti. Se infatti vi chiedessi di dimostrarmi quanto amate, ci riuscireste solo portandomi la persona amata, che mi racconterebbe una serie di eventi e parole del vostro amore: una lettera, un gesto, un regalo, un piatto, una canzone... cose molto semplici che però, colpite dal cono di luce della gratuità e unicità del dono, diventano e mostrano l’amore stesso. Allo stesso modo, per chi lo frequenta, lo Spirito trasforma in Amore ogni cosa, anche la più materiale o oscura (come lo scultore rende «viva» la pietra con il suo spirito). Di una persona piena di vita diciamo infatti che è ispirata o di ispirazione (parole derivate da spirito) perché, anche in situazioni difficili, conserva la luce e la leggerezza dell’innamorato. Lo Spirito permette di amare se stessi (non ci si sente mai brutti o abbandonati), il mondo (tutto diventa casa) e gli altri (anche quelli più difficili e lontani da noi). Chi è «con-solato», sentendosi sempre amato, non ha paura di amare: infatti libera attorno a sé energie creative, genera legami e molti sospetti (dov’è la fregatura?), come accadeva a Cristo. Spirituale non è, come purtroppo si intende oggi, chi è lontano dalle cose terrene, ma chi «respira pienamente» in mezzo a quelle cose senza soffocare, perché trova la vita che hanno dentro. Far la lavatrice o la spesa può essere più spirituale di leggere e pregare: non è l’azione in sé, ma quanto amore ci metto (come e per chi lo faccio?).

 

 Dagerman si tolse la vita intuì la via da percorrere: «Tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso - l’incontro con una persona amata, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino - si svolge al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è indifferente». La bellezza, per quanto a frammenti, ci mostra l’origine della luce di cui andiamo a caccia, ma la luce non si può catturare, solo ricevere. Il Consolatore non è la preda che sfugge ai nostri proiettili, ma l’Amante che, per darci il dono della vita, aspetta solo che lo chiamiamo per nome: Amore.

Vito Mancuso "La speranza ci rende altruisti"

 

 

È possibile oggi sperare? La situazione è tale che la scritta posta da Dante sulla porta dell’inferno, «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», verrebbe collocata da molti all’interno dei reparti di ostetricia quale benvenuto ai nuovi arrivati.

 

Siamo così in preda all’ansia che avvertiamo il mondo come una nave alla deriva carica di disperazione destinata presto a sprofondare nei gorghi del nulla. Dominati da questi neri sentimenti, è logico che il nostro cuore si restringa e che noi ci rapportiamo agli altri solo in funzione del nostro interesse, lo sguardo avido, freddo, calcolatore: ritorniamo allo stato di raccoglitori-cacciatori, ma senza nessuna meraviglia originaria. Io credo, però, che il compito del pensiero responsabile sia di opporsi a questa disperazione e per quanto mi riguarda nei reparti di ostetricia quale frase di benvenuto per i nuovi arrivati appenderei quest’altra frase di Dante: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto». Occorre tornare a coltivare speranza e ad avere fiducia nella navigazione nella vita.

 

È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Come tutte le cose esistenzialmente importanti della vita, anche questa scelta a favore della speranza non è “razionale”. Lo stesso vale per l’amore, l’amicizia, la passione, l’entusiasmo, il desiderio, l’ispirazione: nessuno di questi ambiti vive di sola ragione. Irrazionale, però, non vuol dire necessariamente falso, perché la verità non coincide sempre con ciò che è razionale, così da poter sempre essere afferrata e definita dalla ragione. È piuttosto l’esattezza a coincidere con il razionale, ma la verità è più dell’esattezza: è anche forza, energia, impeto, passione. È questa condizione onniavvolgente della mente e del cuore a meritare il nome di verità, la quale, quindi, ha strettamente a che fare con la speranza. Ha scritto Adorno nei Minima moralia: «Senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile».

 

Di solito si ritiene che la speranza sia un atteggiamento esclusivamente cristiano, ma non è vero. Gli antichi romani veneravano la dea Spes, le dedicavano templi e ne celebravano la festa il 1° agosto. Per questo Kant collocò la speranza tra le questioni decisive della vita: «Ogni interesse della mia ragione si concentra nelle tre domande che seguono: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?». L’uso della prima persona singolare da parte del filosofo segnala che qui non sono in gioco disquisizioni accademiche, ma l’esistenza concreta. Nella nostra epoca il filosofo marxista dissidente Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza, di Adorno ho già detto e di molti altri non cristiani potrei dire. Quanto al cristianesimo, esso considera la speranza una virtù teologale, altrettanto fondamentale quanto la fede e la carità.

 

Ma è soprattutto una celebre pagina di Eschilo a sottolineare l’importanza della speranza per tutti gli esseri umani: Prometeo è incatenato per ordine di Zeus, un’aquila gli mangia il fegato che di notte gli ricresce per poi essere nuovamente divorato, e una corifea gli chiede il motivo di questa terribile condizione. Prometeo le risponde: «Gli uomini avevano sempre, fissa, davanti agli occhi, la morte: io ho fatto cessare quello sguardo». Domanda: «E quale rimedio hai trovato per questo male?». Risposta: «Ho fatto abitare dentro di loro le cieche speranze». E conclude: «E poi procurai a loro il fuoco». Prima del fuoco Prometeo dà agli uomini le speranze, che sono dette “cieche” non perché fatue, ma perché la speranza per definizione non vede e non sa come andrà a finire e per questo, appunto, spera. Ma per quanto cieca, essa è forte e conferisce forza, come si capisce dal fatto che lo stesso utilizzo del fuoco ne richiede la presenza. Non a caso Aristotele definiva la speranza «il sogno di un uomo sveglio».

 

In cosa avere speranza? Io sono convinto che la stella seguendo la quale possiamo ritrovare speranza sia l’amore. È l’amore la sorgente della speranza nella vita. Ma che cos’è l’amore? Da sentimento privato occorre, molto più profondamente, considerarlo logica cosmica. Novant’anni fa il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, esiliato in Cina dalla Chiesa a causa delle sue idee sul peccato originale, a un amico che gli aveva chiesto di esprimere in sintesi il suo credo, rispose così: «Se a seguito di un qualche capovolgimento interiore, io dovessi perdere la mia fede in Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello Spirito, a me sembra che io continuerei invincibilmente a credere nel Mondo. Il Mondo (il valore, l’infallibilità e la bontà del Mondo), ecco in ultima analisi la prima, l’ultima e la sola cosa in cui io credo. È di questa fede che io vivo. Ed è a questa fede che io, lo sento, nell’ora della morte, oltrepassando tutti i dubbi, mi abbandonerò».

 

La domanda sull’essenza dell’amore trova qui la sua risposta: l’amore è la logica relazionale che ha reso e che rende possibile il mondo, dapprima il formarsi degli elementi e del pianeta, poi il sorgere della vita, dell’intelligenza, della libertà, infine di quella libertà che si dedica gratuitamente a un’altra libertà e così raggiunge la pienezza dell’amore. L’amore esprime la logica della relazione che fa sì che le cose esistano, dato che non esiste nulla che non sia ontologicamente un sistema e in quanto tale risultanza di relazione e di armonia.

 

L’esito più alto del processo cosmico in cui siamo inseriti si chiama mente, pura energia di consapevolezza, e si chiama anche cuore, pura energia operativa che riproduce la medesima dinamica di armonia all’origine dell’esistenza. Mente + cuore: questo è il risultato più alto del processo cosmico. Questo possiamo essere noi: una mente che sa e un cuore che ama. Questo va insegnato ai bambini e ripetuto ai giovani, e mai dimenticato fino all’ultimo giorno dell’esistenza. La sorgente della speranza è la consapevolezza della (possibile) ricchezza della nostra umanità.

 

Questa forza cosmica ci riguarda in quanto oggetto, perché ne siamo il risultato, e ci riguarda in quanto soggetto, perché possiamo a nostra volta esercitarla. Essa è la dimensione generatrice dell’essere, che gli antichi greci chiamavano Logos e l’ebraismo Hochmà, seguendo la quale ognuno di noi da caos può diventare mondo. Lo può diventare anche nel senso dell’aggettivo, mondo cioè nel senso di pulito. Inserito in questo processo, ognuno di noi può essere mondo: lo può essere nel senso del sostantivo che rimanda a organizzazione e nel senso dell’aggettivo che rimanda a pulizia. Il senso dell’esistere viene così compendiato dal termine greco per mondo, “cosmo”, da cui cosmesi: il senso della vita è fare esperienza di bellezza, fisica e morale. Si può ragionevolmente sperare in tutto ciò? Si può. Anzi, oggi si deve, e si deve insegnare a farlo, se non vogliamo naufragare nel nichilismo.

 

 

I problemi di oggi sono tali da sfiduciare chiunque eserciti il raziocinio: la guerra mondiale sempre più incombente il cambiamento climatico sempre più devastante, le migrazioni sempre più massicce, la tecnologia sempre più padrona delle anime, e si potrebbe continuare. Ma, annotava Hannah Arendt, «negli uomini esiste un’inclinazione, forse un bisogno, a pensare al di là dei limiti della conoscenza». È a causa di ciò che si origina la speranza, da sempre connessa all’essenza del pensiero umano. Per Isidoro di Siviglia, un dotto del VII secolo esperto di etimologie, il termine latino “spes” viene da “pes”, piede; fondata o no, l’etimologia è suggestiva: la speranza è ciò che fa camminare nella vita. Senza speranza non si cammina. La speranza, infatti, è performativa: occorre sperare per realizzare. Lo vide già Eraclito: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile». Speranza e fuoco, fiducia e tecnica, sapienza e scienza, devono tornare a essere strettamente connesse nella società e ancor prima nella singola esistenza. Quanto a tecnica, non siamo mai stati così forti. Se ritroveremo una speranza alla sua altezza, forse riusciremo a rivedere la nostra stella e a «non fallire a glorioso porto». 

Ridestare la Speranza

 

 

 

 

 

 

 

Eugenio Borgna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La speranza fa parte della vita, è una esperienza umana che ha molteplici espressioni tematiche e che ha una sua radicale significazione non solo in filosofia e in teologia, ma anche in psichiatria e, cosa ancora più importante, nella vita di ogni giorno.

 

 

 

 

 

 

La speranza non è l’attesa

 

 

 

L’attesa e la speranza sono esperienze di vita contrassegnate da concordanze tematiche ma che non si confondono l’una nell’altra.

 

 

 

Ci sono attese che non finiscono mai e attese che nascono e muoiono rapidamente; ci sono attese che si rievocano con ansia e inquietudine e attese che si rivivono invece con serenità; ci sono attese incentrate su eventi felici e altre su eventi ricolmi di angoscia e di dolore; ci sono attese che sconfinano nella speranza e attese che nulla hanno a che fare con la speranza; ci sono attese che riguardano il nostro destino e attese che riguardano il destino di altre persone; ci sono attese che invece cambiano di giorno in giorno e attese che non si concludono mai.

 

 

 

Ma ci sono altre attese: attese terrene e attese metafisiche, attese di qualcosa che ci consente di continuare a vivere, di ritrovare un senso alla vita, e attese disperate che non si realizzano mai.

 

 

 

 

Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo». A queste considerazioni Minkowski ne aggiunge altre: «L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà.

 

 

 

L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa».

 

 

 

L’attesa non si identifica così con la speranza; benché l’una e l’altra siano tematizzate dal loro distendersi nel futuro: nell’orizzonte delle cose che ancora non sono state, e che nondimeno saranno, o potranno essere; ma cosa si può dire della speranza, come definirla nelle sue fondazioni esistenziali?

 

 

 

 

 

 

 

La speranza nelle sue fondazioni esistenziali

 

 

 

 

 

 

 

La speranza come categoria esistenziale non può essere intesa nella sua emblematica radicalità se non nel contesto di riflessioni non solo psicopatologiche, ma anche filosofiche, che ci consentano di avvicinarci al nucleo eidetico della speranza: ai suoi infiniti orizzonti di senso. Come è possibile non citare, nel contesto di questo discorso, le parole vertiginose di Blaise Pascal sul tempo e sulla speranza? «Noi non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce con cui predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine.

 

 

 

Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai».

 

 

 

La dialettica e il mistero della speranza, gli abissi di significato che sono in essa, riemergono da queste parole che sfidano il tempo; e a noi, a chiunque di noi intenda fare una psichiatria fenomenologica e antropologica, non rimane se non di riversare nel solco delle esperienze cliniche il senso di quello che le riflessioni pascaliane racchiudono in sé. Noi non viviamo mai ma speriamo di vivere; e allora, quando la speranza viene meno in noi, quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando cioè la depressione, la malattia che recide drasticamente la speranza, nasce in noi, come è possibile vivere e continuare a vivere?

 

 

 

 

 

 

 

La speranza nelle sue radici fenomenologiche

 

 

 

 

 

 

 

Nel suo splendido libro, dedicato al tempo vissuto, Eugène Minkowski ha scritto pagine bellissime sulle radici fenomenologiche della speranza. «La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa.

 

 

 

Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me». E ancora: «Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire- ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».

 

 

 

Conoscere gli andamenti della speranza nelle aree delle esperienze psicopatologiche è senz’altro utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assenza, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: nelle sue crisi e nei suoi naufragi. La speranza, nella sua trascendenza, ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose, mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell’anima con le loro angosce e le loro lacerazioni.

 

 

 

 

 

 

 

Ridestare la speranza

 

 

 

 

 

 

 

Dalle parole di chi sta male, di chi sia immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso, di un qualche senso, nella vita, riemergono l’importanza e i significati della speranza, e dei suoi naufragi.

 

 

 

Questi si riflettono nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiarsi e nello svuotarsi degli orizzonti di vita, nel dilatarsi del presente e del passato, nell’inaridirsi dell’avvenire del quale non sopravvivono se non alcuni frammenti che non danno sollievo, e che non creano comunicazione e comunione con il mondo delle persone e delle cose. Dalla evanescenza della speranza discendono poi solitudine e isolamento che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri.

 

 

 

 

 

Confrontandoci, noi che viviamo nella speranza e nelle speranze, con chi non abbia più speranze nel cuore (bruciate dall’angoscia e dalla disperazione), non dovremmo mai dimenticare la debolezza e le ambivalenze delle nostre parole e dei nostri gesti che non sempre sono dotati di una radicale testimonianza terapeutica. Le parole leggere, o le parole pesanti come piombo: quali parole abbiamo nel cuore quando ci avviciniamo al destino, al volto e agli sguardi, ai silenzi e agli scoramenti, alla tristezza e all’angoscia, alla timidezza e alle insicurezze, alle speranze recise di chiunque fra noi sia colpito dalla malattia mortale e dalla disfatta della speranza?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La speranza che rinasce

 

 

 

 

 

Ne vorrei ricordare alcune sue parole, che sono state di disperazione prima e di rinascita della speranza poi. «Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa tremenda sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non più alcuna speranza». A queste parole si univa una angoscia lacerante e una stremata tristezza dell’anima, che sembravano non finire mai; e invece dopo alcune settimane di cura un cambiamento radicale: la speranza perduta, a mano a mano si rigenera, e queste sue parole lo dimostrano.

 

 

 

«Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo nel miglioramento di mia figlia.

 

 

 

Avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ma ieri è nata improvvisamente in me una diversa speranza. Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Una speranza che contiene il futuro ma un futuro che è vita. La presenza di un avvenire. Il futuro mi spaventava, prima, perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente.

 

 

 

Ieri, non avvertivo più questo senso negativo. La speranza che si apriva, ed era come una nuova vita ». Sono parole emblematiche della significazione umana della speranza, del suo rinascere dal cuore, come fonte di conoscenza, del suo scomporsi in speranza e in speranze, una differenza di radicale importanza, del suo essere la splendida descrizione di una speranza che si forma muovendo dalla interiorità.

 

 

 

Sono parole che sanno dare di questo passaggio dalla disperazione alla speranza una straordinaria evidenza, che si è accompagnata ai cambiamenti delle espressioni del volto, da dolorose e straziate a luminose e ridenti. Sono esperienze che danno un senso alla psichiatria, come scienza umana, che aiuta, direi, ad avvicinarsi al cuore della speranza.

 

 

 

 

 

 

 

Le ultime cose

 

 

 

 

 

 

 

La vita dell’uomo è la speranza, e alla speranza vorrei invitare i miei occhi e gli occhi delle lettrici e dei lettori di questa meravigliosa rivista a guardare come alla coda di una cometa che non possa né oscurarsi né spegnersi.

 

 

 

Ma non mi è ora possibile dimenticare quello che della speranza dice Giacomo Leopardi in celebri pensieri dello Zibaldone; e in particolare in questi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza»; e ancora: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amore di se stesso.

 

 

 

Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita».

 

 

 

Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce; e la speranza, come diceva sant’Agostino, è misteriosamente intrecciata alla memoria. Questo ci dice che passato, presente e futuro scorrono senza fine l’uno nell’altro; e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel suo cuore la speranza che è fragile come cristallo e dura come diamante. Sapere testimoniare la speranza, che vive in noi, a quanti l’hanno perduta è una esperienza che ne allarga i confini; e nella speranza si riesce a donare un senso all’infinito del dolore. Ma non potrei concludere queste mie riflessioni se non dicendo che la speranza ha bisogno di coraggio: quello di non lasciarsi affascinare da quello che avviene nel momento in cui viviamo, quello di ricercare senza fine il possibile che si nasconde nell’impossibile, quello di non identificare la speranza con l’ottimismo, che non ha nulla a che fare con lei, quello di non dimenticarsi mai che la speranza è apertura al mistero e che ci saranno sempre più cose in cielo e in terra di quelle che non conoscano le nostre filosofie, e le nostre psichiatrie: le celebri parole, aggiornate, dell’Amleto.

 

 

 

Una bellissima poesia di Emily Dickinson sigilla questo mio discorso sulla speranza.

 

 

 

 

 

 

È la “speranza” una creatura alata / che si annida nell’anima – / e canta melodie senza parole– / senza smettere mai – E la senti dolcissima nel vento – / e ben aspra dev’essere la tempesta che valga a spaventare / il tenue uccello che tanti riscaldò – Nella landa più gelida l’ho udita – / sui più remoti mari – / ma nemmeno all’estremo del bisogno / ha voluto una briciola – da me.

Che speranza diamo agli uomini d’oggi?

 

Enzo Bianchi

 

I cristiani sono chiamati a dare una forma pratica, concreta alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. La carità cristiana esige sempre un’opzione per l’umanizzazione in assoluta gratuità, senza ansie di evangelizzazione o di autoconservazione della chiesa. La concezione cristiana della carità è eversiva e può essere “anormale” (parole di Paul Valadier, gesuita ex direttore della rivista Études), nelsenso che resta sorda alle voci mondane, al miraggio dell’audience, e si distacca da ciò che nella storia è vincente e più facilmente attestato. Non dunque dei cristiani fuori del mondo, ma nel mondo altrimenti, nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17,11-16); senza paure e senza esigere di essere vincitori. La Buona notizia che i cristiani sono chiamati a dare all’umanità è solo quella dell’amore offerto in modo incondizionato, un amore che non va mai meritato. In estrema sintesi, è questo annuncio, fatto con autorevolezza: “Hai visto un uomo, hai visto un fratello? Hai visto Dio” (parole di Gesù tramandate da Clemente Alessandrino).

 

Ma nella missione, quale speranza? Forse questa è la cosa più difficile oggi per il cristianesimo e per la missione. Tutta la storia della chiesa, infatti, è segnata dalla testimonianza della carità, in particolare verso i poveri e i malati. Mai nessuno ha dubitato di questa capacità della carità, anche oggi e anche nelle nostre chiese. Ma quale speranza diamo agli uomini e alle donne di oggi? Viviamo in un tempo segnato da molte paure, un tempo in cui si sono spente e anestetizzate le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate. Il nostro tempo è spesso posto sotto il segno della crisi, o addirittura della fine. La precarietà del presente e l’incertezza del futuro alimentano paure che abitano la nostra convivenza – “nuove paure”, come ha scritto sociologo Marc Augé – indeboliscono la fiducia, paralizzano l’insurrezione delle coscienze. Papa Francesco chiede con insistenza di combattere e di vincere le paure come decisivo antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, asfittico, ripiegato su di sé, e quindi assorbito in un vortice di egoismo.

 

Immerso in questa situazione, il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi innanzitutto in una spiritualità seducente, accattivante ed efficace, una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come benessere individuale. Siamo di fronte a un teismo etico, terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e aspira al conforto interiore. Il primato viene accordato a un Dio “Energia”, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace e calma interiore. Ed è così che la speranza, proprio perché è rinchiusa in dimensioni individuali, non è più speranza, tanto meno quella cristiana: o si spera per tutti, o non si spera! Ma allora quale speranza annunciare nella missione cristiana?

 

Sono sempre più convinto che dobbiamo partire dalla narrazione cristiana per eccellenza: l’amore vince la morte. Nelle diverse culture umane si è sempre giunti a pensare, in varie forme, a un duello tra amore e morte, eros e thanatos, i due nemici per eccellenza. Non è un caso che l’Antico Testamento nel Cantico dei cantici arrivi ad affermare che l’amore può combattere la morte, anche se non si spinge fino a dire che ne è vincitore. Si ferma all’espressione: “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). Ma l’annuncio cristiano testimonia esattamente a questo proposito l’inaudita novità di Gesù Cristo: avendo amato fino all’estremo, fino alla fine (cf. Gv 13,1), essendo vissuto operando il bene e spendendo la vita per i poveri, i sofferenti, gli oppressi, gli esclusi, gli scarti della società e i peccatori, non è restato preda della morte. Dio lo ha resuscitato perché non era possibile che quell’amore vissuto andasse perduto. Così possiamo intendere le parole dette da Pietro a Gerusalemme, nel primo discorso dopo Pentecoste: “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere” (At 2,24).

 

Forte come la morte è l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù. Questo è l’annuncio cristiano, che possiamo rivolgere anche ai non cristiani, ai non credenti, facendo loro capire che la resurrezione è davvero il nucleo incandescente di tutta la nostra fede in Gesù Cristo. La morte non è l’ultima parola, è questo che noi dobbiamo saper comunicare all’interno del nostro annuncio evangelizzatore. Solo così rendiamo ancora Cristo non un maestro di umanità o di spiritualità, ma colui che è capace di salvare realmente le nostre vite.

 

Ecco alcuni tratti radicali di cosa dovrebbero essere la nostra fede, la nostra carità e la nostra speranza, affinché possa germinare lo slancio missionario. Sono convinto che, soltanto andando alla radice e vedendo bene ciò che manca oggi alla chiesa, potremo uscire da questa situazione di sterilità e di crisi di fede. E se la fede è debole, lo è anche la missione. Ammettiamolo, i problemi sono molti: la città è sempre più post-cristiana, noi siamo una minoranza nella società, avvolti dal regno dell’indifferenza nei confronti di Dio e della chiesa, ma non per questo viene meno la speranza, la quale potrà far germinare in futuro dei segni che possano davvero essere all’insegna della fede, della speranza e della carità.

 

Noi abitiamo “la Galilea delle genti” (Mt 4,15), quelle genti che ormai sono qui tra di noi. Il mondo è cambiato. E la mia speranza è che il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia dello scorso ottobre, unitamente a quello che si sta celebrando in Germania, possa fornire delle tracce per tutte le chiese. Il problema, infatti, non riguarda solo quelle chiese, peraltro così diverse, ma riguarda noi: come inculturare la fede in questo mondo globalizzato e post-cristiano? Rispondere a questa domanda richiede di compiere passi nuovi, richiede nuovi modi di far vivere la liturgia, richiede un altro linguaggio, richiede di mettere a fuoco gli elementi essenziali del cristianesimo, senza timori né paure. Ci è chiesta una grande conversione, forse simile a quella che il cristianesimo del primo secolo dovette compiere per aprirsi dal giudaismo a tutte le genti della terra.

 

Un cambio radicale del vivere la chiesa

Negli ultimi tempi c’è una domanda che molti mi rivolgono e che io stesso mi pongo con frequenza: la chiesa è ancora capace di essere missionaria, di rendere eloquente la fede che professa? I mezzi della missione mutano sempre più rapidamente, ma la missione sarà sempre ineludibile perché fa parte dell’essere cristiani: non si è alla sequela del Signore senza essere da lui inviati. Siamo di fronte a un mutamento radicale, che riguarda tutta la vita cristiana, la vita della chiesa, ma in particolare ciò riguarda proprio la missione ad gentes. Abbiamo lasciato la sponda e navighiamo verso un’altra terra che ancora non conosciamo. Le sfide si presentano con una novità inedita e dunque alla chiesa tutta è richiesta un’operazione di discernimento, per attuare il mandato di Gesù risorto, sempre attuale: “Andate, evangelizzate in tutto il mondo, portate la Buona notizia a ogni creatura” (cf. Mc 16,15).

 

Dobbiamo confessare oggi un’astenia delle chiese locali, soprattutto nell’emisfero settentrionale del mondo: un’astenia nei confronti della missione, una mancanza di coraggio nel lasciare la propria terra segnata dal benessere per terre che sono ancora toccate dalla fame, dalla miseria e spesso anche dalla violenza e dalla guerra. È sufficiente constatare la mancanza delle vocazioni alla missione ad gentes; è sufficiente vedere come gli istituti missionari, che hanno dato una testimonianza eroica di evangelizzazione, conoscono, almeno nelle nostre terre di antica cristianità, sterilità e invecchiamento, che rende alcuni di essi addirittura precari. Da quando ha assunto il ministero di Pietro, papa Francesco chiede con frequenza alle chiese di porsi “in uscita”, di volgersi alla missione in condizioni dinamiche, aperte, libere, per poter portare la Buona Notizia del Vangelo. Ma dietro a queste espressioni, che rischiano di essere ripetute semplicemente come slogan, c’è in realtà la richiesta di un cambiamento radicale del vivere la chiesa, ben prima del vivere la missione che le è inerente.

 

Non spetta a me fare un’analisi di queste urgenze, ma occorre almeno mettere in evidenza che si richiede in primo luogo che ogni battezzato e ogni comunità cristiana si sentano responsabili dell’evangelizzazione, cioè del portare ovunque la Buona Notizia del Regno. Le espressioni che si usano per parlarne sono meno importanti, ma a mio avviso occorre una vera e propria conversione della vita cristiana. Bisogna che la vita cristiana ecclesiale sia impegnata in un esercizio, in un’attenzione reale alla sinodalità, affinché popolo di Dio e pastori camminino insieme. Tutti i cristiani sono chiamati ad assumere la responsabilità di essere inviati a uomini e donne che non conoscono Gesù Cristo; devono dunque essere innanzitutto soggetti capaci di esprimere la fede cristiana e, di conseguenza, di edificare la chiesa con il loro specifico contributo culturale, religioso e umano. È la dinamica alla quale il papa ritorna sovente nei suoi discorsi missionari, ricordando parole come ascolto, incontro, dialogo, testimonianza, annuncio.

 

Credo inoltre che sia importante ricordare che oggi la missione non è rivolta solo alle genti ma riguarda le nostre chiese. Se alla fine della seconda guerra mondiale il cardinale di Parigi parlava della Francia come di una terra di missione, oggi siamo tutti convinti che l’Europa è terra di missione, come scrive il teologo Christoph Theobald. Viviamo in un’epoca che non è soltanto secolarizzata: siamo in un’epoca post-cristiana, e nelle nostre terre di antica cristianità ci sono delle situazioni che fanno sì che la missione sia quanto mai urgente. Soprattutto le nuove generazioni, quelle dei millennials, sono segnate da una profonda indifferenza verso la religione, verso la ricerca di Dio, verso l’appartenenza alla chiesa. Sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia profondamente il volto delle nostre comunità, nelle quali le nuove generazioni e le donne sono la chiesa che manca, secondo l’efficace espressione di don Armando Matteo. Sì, sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia e cambierà profondamente il volto delle nostre comunità.

 

Abbiamo sognato una chiesa evangelizzante e invece ci troviamo di fronte a una chiesa in realtà non evangelizzata e con generazioni senza più alcun contatto con la fede cristiana. In questa situazione inedita occorrerebbe da parte nostra una capacità di lettura, un esercizio di discernimento per assumere la responsabilità della mancata trasmissione della fede alle nuove generazioni. Non basta parlare dei millennials, bisogna riferirsi ai loro padri e alle loro madri, cioè la prima generazione che ha veramente tradito la trasmissione della fede, a partire dalla famiglia e dai vari contesti educativi. Risulta evidente che in una chiesa così debole va riconosciuta ormai una crisi di fede: dobbiamo avere il coraggio di dirlo, il problema è la debolezza della fede!

 

Ma allora quale missione e quale evangelizzazione, non nei mezzi, ma alla radice? Occorre innanzitutto prendere coscienza dell’indifferenza regnante nei confronti di Dio e della ricerca di lui. Da anni ormai ripeto che la chiesa deve prendere atto di tale indifferenza, ma sembra che in realtà nessuno ci voglia credere, e così si continuano a studiare le strategie per l’annuncio, nella stessa maniera di prima. Per le nuove generazioni – ma anche per alcuni delle generazioni post ’68 – Dio non è più interessante, non è più necessario per vivere bene, nella felicità. Si continuano a ripetere alcuni slogan ma, se si ascoltano veramente i giovani, si comprende che stanno bene senza ricerca di Dio. Il problema è eventualmente quello della “gratuità” di Dio, il che ci richiede nuovi atteggiamenti per annunciarlo: Dio non sta più nello spazio della necessità! Dio è addirittura una parola ambigua, respinta dalle nuove generazioni, perché spesso è legata al fanatismo religioso, all’intolleranza, alla violenza.

 

Per molti aspetti, fatte le dovute differenze, siamo in una stagione analoga a quella dei primi secoli della chiesa, quando i cristiani per difendere la loro singolarità avevano il coraggio di dire: “La parola ‘Dio’ non è un nome per noi cristiani, è un’approssimazione naturale dell’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile” (Giustino). Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca di senso fatta dall’uomo. Ciò che invece è decisivo nella fede cristiana è la meta di un percorso compiuto alla sequela di Gesù Cristo, “l’iniziatore della nostra fede” (Eb 12,2). Questo richiede che, nella nostra missione ed evangelizzazione, sia davvero Gesù Cristo l’annuncio, l’uomo Gesù Cristo vissuto nella carne: l’uomo come noi, totalmente uomo in una vita mortale, nella storia, dalla nascita alla morte, con tutti i nostri limiti umani, eccetto il peccato, perché è con la vita umana che egli ci ha rivelato Dio e ci porta alla comunione con lui. E Cristo non solo ci rivela Dio: egli infatti si fa conoscere come Dio, Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo.

 

 

Qui sta lo specifico del cristianesimo, anche in un tempo di confronto con gli altri monoteismi e con altre vie religiose. Io amo parlare della “differenza cristiana”, che è una differenza non contro o senza gli altri, ma una differenza che nasce dalla convinzione che Gesù Cristo è davvero colui che ha unito umanità e Dio. Dopo di lui, non si può dire l’umanità senza dire Dio e non si può dire Dio senza dire l’umanità. Questa è la nostra fede: confessiamo che Gesù Cristo è uomo e Dio, Dio fatto carne, Dio sempre vivente nei secoli dei secoli. Benedetto XVI, in apertura dell’enciclica Deus caritas est (2005), aveva il coraggio di scrivere: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con una persona”, Gesù Cristo. Questo secondo me è il punto centrale, a partire dal quale può veramente mutare la situazione astenica della fede e, di conseguenza, quella dello slancio missionario. Il problema della crisi della missione ad gentes in realtà è un problema della missione anche qui nelle nostre terre di antica cristianità, non c’è molta differenza. Le nostre comunità cristiane si sono assestate, spesso per loro sono più decisivi i valori o le prassi etiche che non la passione bruciante e la fede in Gesù Cristo. Al contrario, nell’evangelizzazione siamo chiamati a mettere al centro Gesù Cristo e la sua umanità, rivelazione del Dio vivente, non lo si ripeterà mai abbastanza. E si faccia attenzione: nessuna negazione della divinità di Gesù, ma neppure nessun debito della fede cristiana al teismo, perché è Cristo che ci conduce a Dio, non un qualsiasi dio che ci conduce a Cristo.

Non si risorge da soli

 

di Tomaso Montanari

 

 

La Pasqua è il trionfo di quel salvarsi insieme che don Milani definiva semplicemente ‘politica’. Oggi tutto questo, lo sappiamo, è ribaltato nel suo contrario.

 

 

 

Il mondo povero non scrive la storia, e oggi il copione sembra ripetersi. Ma con una differenza fondamentale, e cioè che le vaccinazioni occidentali potrebbero essere radicalmente vanificate dal ritorno ‘a casa nostra’ delle varianti del virus generate in un terzo mondo abbandonato a se stesso.

 

 

 

Pensiamoci un attimo: se dovessimo finire per il nostro egoismo, se dovessimo morire tutti perché abbiamo pensato a salvarci da soli, chi potrebbe piangere sul nostro egoismo suicida?

 

 

 La Pasqua è resurrezione di uno che diventa resurrezione di tutti. È salvarsi insieme. 

 

 

 

Giovanni racconta che, dopo la resurrezione, Gesù si manifestò ai discepoli nel modo più fraterno e commovente: «Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: “Portate un po' del pesce che avete preso or ora”» (21, 9-10). Gesù cucina per i suoi amici, prepara un fuoco sulla spiaggia, e aspetta che tornino dal lavoro. Un’immagine indimenticabile di convivialità e amicizia, che dice, nel modo più forte e insieme più semplice, cos'è che davvero importa nella vita: condividere.

 

 

 

Gesù, vero uomo, avrà imparato molte cose nella sua vita tra gli uomini. Anche che una vita senza arrostire del pesce per i propri amici, una vita (perfino una vita eterna) da solo non è umana, anzi non è nemmeno immaginabile.

 

 

 

Se vogliamo che l’umanità si salvi, dobbiamo essere umani: scardinando le porte degli inferni che noi stessi abbiamo costruito. Gli umani si salvano insieme, risorgono insieme: o non si salvano, e non risorgono.

 

 

 

 

La Pasqua è la speranza che questo accada. La resurrezione è «la speranza che, nonostante tutta questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola» (Max Horkheimer).

Discendere per risalire 

 

Maria Rattà

 

Il verbo discendere, nella sua etimologia, contiene già la radice del salire: descèndere, composto da de e scàndere, di e salire. Senza discesa non c'è risalita, perché senza chicco che muore nella terra non c'è spiga che sale verso il cielo, senza vita che si perde nel tempo non c'è vita che continua nell'eterno.

Il futuro dell'umanità è tutto racchiuso in questi verbi di movimento, ma – e soprattutto – nella discesa e risalita di Cristo. La sua discesa: quella dalla condizione di Dio per farsi Uomo-Dio; quella dalla gloria terrena di Messia osannato alla fama di malfattore appeso a una croce; quella dalla vita alla morte; quella dal sepolcro fin negli inferi, per liberare chi era in catene.

Da questa discesa, compiuta per amore degli uomini e in obbedienza al Padre, il sangue di Cristo origina la sua discendenza, la discendenza dei redenti in Lui, la discendenza dei salvati dal peccato e dalla morte. Una discendenza di risorti in Cristo.

Scendere non è necessariamente, infatti, sinonimo del percorrere l'ultima tappa, dell'arrivare alla fermata finale. A volte la discesa è un trampolino di lancio, per raggiungere traguardi più alti.

Così è la discesa di Cristo: necessaria per spiccare il salto della risurrezione, dell'ascesa al Cielo, della riconquista della gloria che da sempre Egli aveva quale Verbo di Dio; della rinascita dell'intera umanità.

E la discesa di Gesù ci ricorda che ogni uomo ha la sua "personale" discesa nella morte, il salto senza il quale non si può raggiungere la vita eterna. E ogni uomo ha pure le sue personali piccole discese del vivere quotidiano: quelle dell'umiliazione, dell'ingiustizia, dell'indifferenza subite, a volte anche dell'odio ricevuto... Proprio come nell'esistenza terrena del Maestro, esperto di discese tramutate in rampe di lancio.

 

Queste nostre umane, sofferte, temute discese non sono però dei salti nei buio: Gesù le ha percorse prime di noi, vivendole nella loro interezza, nella loro mistura di paura e dolore, di affidamento e tentazione, di angoscia e speranza. E come ad Adamo, anche a noi quel Cristo disceso negli inferi ricorda la grande, stupefacente verità che la Pasqua è: la Croce non è la fine, ma l'asta per raggiungere il Cielo; non siamo stati creati per essere prigionieri degli inferi, ma abitanti della luce, delle Altezze... atleti del salto in alto, pronti a spiccare il volo verso il traguardo che non ha fine.

Elogio dell'attenzione

 

 

I grandi uomini e le grandi donne di ogni epoca si caratterizzano per la loro notevole capacità di attenzione. È stata proprio l'attenzione a renderli grandi. Non c'è da stupirsene, perché solo grazie a essa vediamo le cose come sono; e in questo, nel vedere che un albero è un albero, una pietra una pietra e un uccello un uccello, consiste l'autentica spiritualità. Non bisogna elucubrare, basta guardare. La realtà non nasconde nessun enigma all'infuori della realtà stessa. Voler scorgere enigmi nelle cose ci priva delle cose stesse.

Nel Sahara ho imparato a stare attento. Le attività quotidiane qui si sono trasformate nella miglior scuola di meditazione. Quando coltivo la terra, coltivo la terra; quando preparo la cena, preparo la cena; quando vado a dormire, vado a dormire. Nulla interferisce col mio lavoro mentre lavoro, perché in quell'istante il lavoro per me è tutto; nulla interferisce mentre mangio, perché il cibo che assaporo per me è tutto in quell'istante; nulla turba il mio riposo quando vado a dormire, e proprio per questo riposo. Dal momento che queste attività sono necessarie, sono anche il cammino più giusto per la realizzazione dell'essere umano.

Se si presta attenzione, è semplicemente impossibile fare male qualcosa. E l'opera ben fatta compensa sempre e generosamente il nostro sforzo di attenzione. Non si tratta nemmeno di uno sforzo; è più che altro un vigilare; ma non un vigilare teso, bensì rilassato e armonico. Lo spirito più vigilante non è il più teso, è il più ricettivo.

Ho scritto questo libro per dirvi che la più grande miseria dell'uomo è la dispersione. Siamo dispersi da molte parti e in nessuna: è così che cominciamo a non trovarci, finendo per non sapere chi siamo.

Vivendo attentamente, si smette di pensare a sciocchezze o futilità. Perché di sicuro ciò che siamo soliti considerare trascendente, è quasi sempre una futilità; i pensieri sulla vita quotidiana, invece, nonostante l'apparente futilità, sono davvero trascendenti. Sì, la salvezza si trova nelle cose elementari. Ecco perché a nessuno è preclusa la possibilità di un'autentica vita interiore. L'attenzione prestata nei confronti di qualcosa è l'indicatore più preciso del nostro amore. L'amore è uno stato di attenzione completa; e l'attenzione totale conduce all'amore. Dio stesso, che è fondamentalmente un mistero di attenzione, esiste solo nella misura in cui gli dedico attenzione. E dunque amiamo solo quello a cui badiamo. Risulta impossibile amare qualcosa a cui non si è prestata attenzione. La compassione o la carità fioriscono spontanee se ci mostriamo attenti nei confronti di chi ha bisogno. Non è possibile prestare attenzione a chi ha bisogno e non essere compassionevoli o caritatevoli nei suoi riguardi. L'egoismo, l'avarizia, l'invidia...: tutto ciò, invece, è frutto della dispersione.

Nessuno riuscirà a concentrarsi nella preghiera se non è stato in grado di farlo nella vita quotidiana. Il miglior indicatore di una vita di preghiera è l'atteggiamento di chi prega mentre svolge le faccende domestiche. Pregare non significa altro se non ringraziare per la vita quotidiana a cui abbiamo riservato la nostra attenzione.

E come possiamo ringraziare per quello di cui non ci siamo accorti? Per questo, il miglior luogo dove imparare a pregare non è l'oratorio, ma la camera da letto, il bagno, la cucina... Tutti questi spazi sono autentici templi per il vero credente. Qualsiasi educazione indirizzata ai giovani dovrebbe basarsi sullo stimolo dell'attenzione.

 

 

(Pablo d'Ors, L'oblio di sé. Un'avventura cristiana (Diario in prima persona di Charles de Foucauld), Vita e Pensiero 2016, pp. 381-383)

Evangelizzazione e ascolto

 

 

Non si può evangelizzare un popolo se prima non lo si è ascoltato. L'evangelizzato deve sempre sentirsi protagonista dell'evangelizzazione. «Di cosa stavate parlando lungo il cammino?» ha chiesto il Risorto ai discepoli a Emmaus. Evangelizzare consiste nell'interessarsi delle storie altrui, ma interessarsi per davvero, e non sperare che il resoconto finisca in fretta per poter diffondere subito la presunta e vera Buona Novella.

Naturalmente non tutte le storie che mi venivano raccontate riuscivano a interessarmi allo stesso modo: all'inizio la maggior parte di esse mi sembravano banali o insignificanti; ma ciò accadeva perché non le stavo ancora ascoltando bene. Non bisogna cercare il nesso tra quanto ci viene raccontato e il Vangelo: la storia stessa, la sua semplice umanità, è già di per sé Vangelo; e l'evangelizzatore non deve fare altro che scoprirlo.

Quante storie ascoltavo in quei giorni! Quanti Vangeli vivi mi regalava Dio in ognuna di quelle frequenti e inopportune visite! Perché nulla al mondo è più eloquente di una biografia. E perché in ogni biografia umana si nasconde – la si scorga o meno – quella di Dio stesso. Non pretendo di trasformare la mia esperienza in una regola, ma non credo che il compito di noi cristiani sia cristianizzare il mondo; il mondo è già cristianizzato senza bisogno della nostra mediazione. A mio parere, dobbiamo solo essere dei testimoni e dire: «È qui, è qui, e anche qui!», per rimanere poi stupefatti e meravigliati di fronte alla discrezione e all'onnipresenza del nostro Dio. Mentre ascoltavo gli sventurati, io, il seminatore solitario, provavo la sensazione non solo di assecondare la volontà di Dio, ma di somigliare – mentre li ascoltavo – come mai prima di allora al mio Signore. Sì, perché ascoltare, ascoltare e basta, senza consigliare o riprendere, senza orientare, senza trarre nessuna conclusione, soltanto ascoltare, è quanto Dio fa di solito con gli uomini. Nel momento in cui riuscivo ad avere quell'approccio così puro con i poveri, mi sentivo come deve sentirsi Dio stesso. Se sono arrivato a essere un buon ascoltatore di poveri è perché Dio mi ha prestato parecchia attenzione, non c'è altra ragione. Dio, nel corso della mia vita, non ha fatto altro se non ascoltarmi, quindi ho dovuto per forza imparare qualcosa dal Suo comportamento.

Il mio cambiamento, che mi aveva consentito di ascoltare per davvero, dipendeva dall'essere diventato, finalmente, un povero come loro. Continuavo a essere lo straniero, ovvio; ma ero anche quasi un oriundo: un tuareg. Per prima cosa avevo imparato, come loro, il nome delle stelle, sapendo che il cielo d'Oriente ne contiene un numero molto più elevato rispetto a quello occidentale; camminavo scalzo, come loro, cosciente finalmente dell'importanza del contatto con la terra; temevo l'invasione dei senussiti quanto loro; e addirittura riverivo l’amenokal quanto il mio vescovo o ancor di più. L'Europa cominciava a sembrarmi, come a loro, lontana.

Anni addietro avevo compreso che se non avessi capito cosa diceva tutta quella gente non sarei stato in grado di amarla, e quindi mi ero impegnato a studiarne la lingua. Adesso potevo parlarla – cosa che, inevitabilmente, li divertiva molto – sapendo però di dover studiare anche la loro cultura e le loro tradizioni. Fu nel prendere questa decisione, e ancor di più nel metterla in pratica, che davvero desiderai essere uno di loro: un tuareg. Non amiamo veramente qualcosa fino a che non desideriamo una piena identificazione. Per questo Dio, che tanto ha amato il mondo, ha desiderato farsi uomo. A mio parere questo desiderio, e la sua realizzazione, è la prova migliore del Suo amore per noi. Dio ha desiderato essere ebreo; io, da parte mia, ho voluto essere un tuareg. Se la Francia è la mia patria naturale, il Sahara è la mia patria soprannaturale: il luogo dove Dio mi stava aspettando, il posto in cui la mia sterilità umana sarebbe potuta risultare divinamente feconda.

 

 

(Pablo d'Ors, L'oblio di sé. Un'avventura cristiana (Diario in prima persona di Charles de Foucauld), Vita e Pensiero 2016, pp. 327-329)

La speranza di un uomo

 

Vito Mancuso

 

 

 

 

Ho scritto che il vero uomo è colui che "ha trovato" qualcosa di più grande di sé per cui vivere. Ora intendo sottoporre ad analisi critica questa mia affermazione: che cosa significa che un uomo ha trovato?

In un celebre passo della Critica della ragion pura Kant presenta le questioni filosofiche fondamentali secondo tre domande, formulate in prima persona:

1. Che cosa posso sapere?

2. Che cosa debbo fare?

3. Che cosa mi è lecito sperare? [1]

L'uso della prima persona è decisivo. Non si tratta di disquisire gratuitamente ma di trovare la prospettiva giusta per dare una forma autentica alla propria vita, a questa esistenza qui e ora, nella sua solitudine e nella sua capacità di relazione con gli altri: è questo che ha a cuore il più profondo pensare, e per questo Kant utilizza la prima persona singolare.

Che cosa posso sapere? Il sapere riguarda l'intelletto e la ragione, e di esso Kant si occupa nella Critica della ragion pura. Il risultato cui approda è che di me e del mio destino non posso sapere nulla di certo, perché sulle questioni essenziali della vita si danno ragioni per sostenere una tesi e il suo contrario, sicché pensare onestamente alla mia identità e al mio destino significa imbattermi in inevitabili paralogismi e antinomie. Che cosa devo fare? Il fare riguarda la morale, e di esso Kant si occupa nella Critica della ragion pratica. La sua risposta è che esiste un dovere sopra di me che io devo compiere, non perché me lo imponga qualcosa di esterno a me (la religione, il libro sacro, la società, il rango sociale, l'appartenenza politica...), ma perché si tratta di un dovere radicato nella mia stessa natura umana; è vero, gli uomini possono vivere rispettando oppure no questo dovere, ma solo chi lo riproduce con giustizia dentro e fuori di sé sarà veramente uomo e non tradirà la sua natura di essere razionale e pensante.

Rimane infine la terza domanda: che cosa mi è lecito sperare? Per poter rispondere occorre sapere quale facoltà venga messa in gioco dalla speranza e la cosa non doveva essere del tutto chiara neppure per Kant che ne tratta nella terza critica, la Critica del giudizio, il cui messaggio centrale è difficilmente sintetizzabile in poche parole. Rimane però il problema sollevato, cioè quale possa essere un legittimo orizzonte di senso per dare energia e voglia di vivere alle mie giornate. Che cosa posso sperare per la mia vita e per quella dei miei cari? Che cosa mi è lecito sperare senza tradire la mia natura razionale? Sono alla ricerca di una speranza legittima, tale che non tradisca la mia ragione, ma insieme tale da salvarmi dal gorgo del cinismo di chi ritiene la vita solo un inganno dove vincono inevitabilmente solo i più furbi. I furbi... Ricordo il senso di ribellione che saliva in me da bambino quando gli adulti mi dicevano che la vita è dei furbi e che dovevo imparare a essere furbo se volevo farmi strada nel mondo. Non so perché, ma ho sempre istintivamente detestato la furbizia, che ritengo un uso distorto dell'intelligenza. Il che naturalmente non significa che si debba essere ingenui, perché, come insegna l'etica classica, la virtù sta nell'equilibrio tra due estremi (anche se tra i due estremi in questione io sento un'istintiva simpatia per l'ingenuità del principe Miškin, il protagonista dell'Idiota di Dostoevskij, e un'altrettanto istintiva repulsione per la furbizia ingannatrice di cui è purtroppo inutile fare esempi, tanto è diventata uno stereotipo dell'essere italiani).

Tornando alla speranza, devo dire che per anni l'ho sempre ritenuta una virtù accanto alle altre, anzi persino inferiore alle altre, di cui gli uomini forti avrebbero anche potuto fare a meno, come riteneva Aristotele. Ora penso invece che si tratti di una virtù che è la sintesi dell'intera personalità, nel senso che ogni uomo è la sua speranza, ogni uomo è definito dall'oggetto del suo sperare. La vita è paragonabile a un viaggio, e l'oggetto della speranza è la meta verso la quale si viaggia. La vita è paragonabile a una caccia al tesoro, e il tesoro che un uomo cerca è ciò che lo definisce, perché è in base a esso che egli interpreta e gerarchizza le persone che incontra e le esperienze che fa. Se il tesoro che cerca è il denaro, farà tutto in funzione del denaro, anche le amicizie e le frequentazioni, persino il matrimonio e l'educazione dei figli vi saranno funzionali. Se il tesoro che cerca è il potere, farà tutto in funzione del potere, persino la fede religiosa potrà essere abbracciata o di-smessa a seconda dell'evenienza, perché chi determina così la propria esistenza sa bene che Paris vaut bien une messe, come ebbe a dire Enrico IV passando dal protestantesimo al cattolicesimo per diventare re di Francia, e come prima e dopo di lui hanno ripetuto molti altri, divenuti cattolici, protestanti, ortodossi, musulmani, atei e via dicendo, a seconda di come il potere avrebbe ricompensato.

Il tesoro che un uomo cerca con la sua vita di ogni giorno è la sua speranza, e quindi ogni uomo consiste nella sua speranza, perché "dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore". La speranza ha a che fare con una dimensione unitaria dell'essere umano, dove l'intelletto e la volontà si uniscono dando origine a qualcosa di superiore che dà il sapore complessivo alla personalità. Un vero uomo è tale non in base a ciò che ha, non in base a ciò che sa, neppure in base a ciò che fa, ma in base a ciò che è; ma ciò che un uomo è, in quanto essere individuale e irripetibile, è sì il suo corpo fisico, è sì la sua professione, ma è ancor più la sua speranza, cioè la tensione complessiva della sua vita e il sapore di fondo che ne deriva all'intera personalità, la musica che fuoriesce quando lui si presenta e che gli altri percepiscono, che lo si voglia oppure no. Se infatti la speranza non si può misurare come l'intelligenza mediante test, e neppure come si misura la volontà per la quale pure vi sono metodi appositi (alcuni dei quali molto singolari come camminare tra carboni ardenti o rimanere chiusi per ore in una bara con solo una minuscola fessura per l'aria), ciò che un uomo interiormente è si può tuttavia percepire lo stesso, forse si può dire che lo si vede con il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza verso la fine della sua Etica [2]. Nessuno sa se ci sarà davvero una pesatura delle anime alla fine del mondo, ma la bilancia della psicostasia esiste dentro ciascuno di noi, perché ciascuno è in grado di capire quanto pesa la propria e l'altrui personalità e di sentire se chi abbiamo di fronte è in vendita, e per quanto, oppure no.

La speranza per cui un uomo vive e che costituisce il suo tesoro ideale definisce la sua più peculiare personalità, dà forma e sostanza alla sua anima. Ed è questo che intendo col dire che il vero uomo ha trovato. Non ha trovato nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. Purtroppo (o per fortuna) la vita è fatta in modo tale da non lasciar sussistere nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. La speranza è destinata a rimanere speranza, a non trasformarsi mai in sapere. L'uomo che definisco vero ha trovato una speranza (non una dottrina né un'ideologia) per la quale vivere, come una specie di luce, lontana, verso cui camminare. Questa speranza non è un possesso che si può materializzare (né come dottrina né come ideologia), perché assomiglia alla manna che pioveva nel deserto al tempo dell'esodo, la quale generava vermi e imputridiva se non veniva mangiata al momento ma si tentava di conservarla (vedi Esodo 16,20). La lotta contro l'idolatria che attraversa la Bibbia ebraica va attualizzata oggi anzitutto contro le strumentali materializzazioni della speranza, il cui ideale purissimo non può essere manipolato a fini terreni, altrimenti imputridisce e si riempie di vermi.

Sostengo quindi che l'uomo compie la sua vita, rendendola oggettivamente autentica e uscendo dalle trappole dell'Io, quando vive per una speranza più grande di lui, in base alla quale egli, a poco a poco, giunge a dare forma a tutto quello che fa e che dice. Ma ritorna la domanda di Kant: che cosa, dal punto di vista del contenuto, è lecito sperare? La risposta è semplice e insieme stupefacente: è lecito sperare che l'ultimo orizzonte dell'essere sia non l'assurdo ma il senso, non il male ma íl bene, non il nulla ma l'essere, non la morte ma la vita. Questo, a un uomo ragionevole, è lecito sperarlo. Saperlo no, ma sperarlo in modo ragionevole sì. Anzi, continua Kant, "io avrò fede nell'esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei principi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi". [3] Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia, cioè vivere l'esistenza all'insegna della più pura prospettiva etica, apre la speranza della mente al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, che esiste una dimensione dell'essere più grande di quella di questo piccolo Io destinato a finire, una dimensione che i popoli di tutti i tempi hanno intuito e chiamato divino, assegnandovi poi il nome particolare di cui erano capaci, tutti comunque inadeguati. Sperare in un senso complessivo dell'essere che si dice come vita e come bene significa aver fede in un Dio.

Un uomo può essere abitato da questa speranza sul senso complessivo della vita, e un altro no, e perché questo avvenga nessuno lo sa. Ma per una vita autentica è necessario credere in un Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però, che non sia possibile una vita pienamente autentica senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell'essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e alla giustizia. Se la logica del mondo non è indirizzata al bene e alla giustizia, perché costruirvi sopra la vita? Ma se vi è indirizzata, facendo sì che valga la pena impostarvi la vita, come chiamare questa direzione verso cui la logica del mondo conduce, direzione che è dentro il mondo ma che è anche più grande del mondo?

Io sono convinto che la dimensione etica, in quanto anelito al bene e alla giustizia, sia il fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana di tutti i tempi. Per questo, anche a prescindere da qualunque fede religiosa, "beati quelli che hanno fame e sete di giustizia" (Matteo 5,6). Infatti, se la speranza per cui uno vive è complessivamente orientata al bene e alla giustizia (intesi anche solo come forma delle relazioni umane e non come senso complessivo dell'essere), essa produce in chi la vive una luce particolare, la luce calma e benevola dell'uomo buono. Dell'uomo giusto. La dedizione della libertà a questa luce interiore rende la vita soggettivamente oggettivamente autentica. Da qui la terza tesi: "L'uomo autentico è l'uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità".

 

 

 

NOTE

 

1. Immanuel Kant, Critica della ragion pura (1781), B 833, A 805; ed. it. a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino 2005, p. 607.

35. "Lo sforzo supremo della Mente e la sua virtù suprema è comprendere le cose con il terzo genere di conoscenza": Baruch Spinoza, Etica, cit., v, 25, p. 362.

36. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, cit., B 856, A 828, p. 621.

 

 

(FONTE: La vita autentica, RaffaeloCortina Editore 2009, pp. 127-137)

Costi quel che costi

 

Alessandro D'Avenia

 

 

Ognuno di noi è chiamato a farsi capolavoro, compiere la sua «forma», il peccato «de-forma» come un vandalo il capolavoro. Io pecco, manco il bersaglio, tutte le volte che mi tradisco, cioè mi illudo di non essere chi sono e quindi tradisco il mio desiderio, che è la chiamata rivolta dalla vita a me e solo a me: principio di animazione che mi conferisce un posto unico al mondo. Dante nel suo lungo percorso d’ascesa a spirale impara a non tradirsi (inferno), a liberarsi da ciò che lo spinge a tradirsi (purgatorio), a volar dritto verso il proprio compimento (paradiso).

 

Il cammino di ogni persona verso il centro di sé: essere e fare ciò che solo io posso essere e fare, vivere la vita autentica da cui mi allontano o a cui mi avvicino per tentativi, anche dolorosi, in ascesa verso me stesso. I miraggi di esistenza, desideri fallaci di esistenza e d’amore, ci de-centrano facendoci vivere vite non nostre: «un vero peccato!». Per con-centrarsi, raccogliere le energie e indirizzarle al bersaglio di cui siamo freccia assetata, è necessario avanzare salendo, cioè riconoscere nell’esperienza quotidiana ciò che porta a tradirsi o a essere «centrati»: disperazione, tristezza e gioia ne sono segni infallibili.

 

 

 

La nostra vita è un inferno se siamo fuori dal centro (disperazione); un purgatorio se, trovatolo, ci dis-perdiamo in altro (tristezza); un paradiso se ogni nostro gesto nasce dalla nostra unicità (gioia).

 

 

 

Lo scriveva già Pavese nel suo Mestiere di vivere: «Come mai, senza saperlo, hai diretto tutto a un centro? Logica interna, provvidenza, istinto vitale?». Qualunque risposta diamo, il centro (originalità e ispirazione: ciò per cui sono al mondo e vengo sempre più al mondo) agisce in noi: se siamo in traiettoria siamo in paradiso, se deviamo in purgatorio, se rinunciamo all’inferno. La vita allora è necessariamente un cammino per capire che cosa ci fa fiorire o marcire, una continua messa a punto del desiderio: il contrario di «peccare» è «fare centro».

 

 

 

 

Ma come capire se siamo (con-)centrati? Diamo frutto («concentrato» si dice di un succo genuino) nel modo di essere che ci rende originali, cioè originari: una mela è il fine del seme ma al tempo stesso l’origine di nuovi semi. Anche a Dante accade così. Alla fine del viaggio, faccia a faccia con Dio, non si dissolve ma si compie, cioè diventa il Dante che solo Dante può essere, e infatti «torna» sulla Terra, cioè a se stesso, rinnovato: è sempre in esilio e senza nulla, ma del tutto centrato, restituito al suo sé autentico, figlio del Dio, creatore e amore, che ha incontrato faccia a faccia. Adesso le energie che lo rendono pienamente uomo, creare e amare, sono libere: noi ci realizziamo dando al mondo ciò che in noi è al mondo già da sempre destinato, costi quel che costi.

Dalle aspettative alla speranza

 

José Tolentino Mendonça

 

 

Un’arte che la vita ci richiede, per vie diverse ma insistentemente, è quella di tramutare le aspettative in speranza. Dobbiamo riconoscere che tante volte, invece di essere un moltiplicatore di vita, le nostre aspettative diventano un’inconfessata spina nel fianco che ci trasciniamo per anni e anni. Siamo lenti a capire che le aspettative corrispondono alla proiezione dei nostri desideri, mentre la speranza si libra su di noi e ci coinvolge in una gestazione più grande, più generosa e polifonica. Facilmente le aspettative diventano creazioni astratte e illusorie, disegnate come forme ideali, determinate dalla nostra visione parziale. Mentre l’esperienza della fede, per esempio, ci fa abbracciare una speranza crocifissa, che si costruisce in direzione contraria al cammino lineare e senza scosse che avevamo previsto, e ci apre alle sorprese a cui l’amore concretamente ci conduce. Le aspettative sono una forma nervosa di intervenire nella realtà e di accompagnare gli altri. Senza rendercene conto, facciamo pressione, condizioniamo, riduciamo la vastità con il nostro stile affannoso. La speranza, invece, ci insegna a prendere il tempo come nostro alleato, poiché crede nel potere vitale di ciò che pare appena una briciola, quasi un niente. Ma ci sono briciole, infine, che si rivelano essere semi prodigiosi: il loro schiudersi riscatta la storia.

Ancora imparo

José Tolentino Mendonça

 

 

 

 

Uno degli autoritratti più commoventi, e al tempo stesso più riusciti, è quello realizzato dal pittore Francisco Goya (1746-1828). Si tratta di uno schizzo su un minuscolo foglio di carta, tracciato a matita negli ultimi anni di vita, quasi come un testamento. Per decenni è rimasto praticamente inosservato, dal momento che di Goya non mancano le opere monumentali e memorabili. A poco a poco, però, quel piccolo disegno è divenuto una chiave non solo per entrare nella storiografia dell’artista ma anche per penetrare nella sua anima. Vediamo in quell’immagine la fragilità di un anziano, che cammina appoggiandosi a due bastoni, come se per l’ultima volta stesse provando dei passi esitanti come lo furono i primi, accennati nella sua balbettante e remota infanzia. Egli porta una chioma candida e una lunga barba che ci raccontano, senza parole, inverni interi di neve. Il segreto, però, è quello del suo sguardo indimenticabile, dove si indovina certamente la fatica, ma anche un’energia interiore capace di vincere la stanchezza: una curiosità incrollabile, che resta sorprendentemente accesa; un’apertura a continuare il cammino nella scoperta e nella meraviglia. Nell’angolo in alto del disegno si legge infatti: «Aun aprendo» (Ancora imparo).

Silvano Petrosino "La perfezione del quotidiano"

 

 

Che cosa c’è di «perfetto» nei giorni che trascorre a Tokio il signor Hirayama, protagonista dell’ultimo film di Wim Wenders (Perfect days, 2023)? Nulla, si potrebbe rispondere. In effetti la storia narrata dal film è in verità una non storia: non ci sono colpi di scena, nessun mistero da risolvere, nessuna tragedia da testimoniare, nessuna storia d’amore da esaltare. Le giornate di Hirayama (il cui nome, è bene ricordarlo, è lo stesso del protagonista de Il gusto del sakè [1962] di Ozu, uno dei maestri di Wenders) procedono lentamente, semplicemente, obbedendo ad una progressione di gesti che è sempre la stessa: il risveglio al mattino (senza l’uso della sveglia), l’attenta sistemazione del futon, il lavarsi i denti e l’igiene personale, il lavoro mattutino presso i bagni pubblici di Tokio progettati da famose archistar, la regolare frequentazione dei sentō (bagni a pagamento pubblici), la cena nel solito locale, il ritorno a casa, la lettura serale, il riposo notturno. Una vita semplice, quasi fin troppo semplice, caratterizzata da una ripetitività senza inquietudine che sembra rasentare la monotonia; non a caso alcuni hanno criticato il film proprio per questa dolciastra sottolineatura della semplicità, per questa retorica delle «cose semplici», che non sarebbe altro che un evidente sintomo dell’intellettualismo del regista tedesco.

 

Ma alla domanda posta all’inizio si potrebbe anche rispondere: tutto. In effetti l’intero film è una sorta di celebrazione di un’idea di «perfezione» liberata da ogni contaminazione con l’«eccezionale» o con lo «straordinario» o con lo «stravagante». All’interno di una simile prospettiva il «perfetto» rinvia ad uno «splendore» che è proprio non di un qualche essere particolare, ma di ogni singolo esistente (ad esempio, anche della fragile piantina di cui Hirayama decide di prendersi cura).

 

Le due risposte ricordate – nelle giornate del protagonista del film di Wenders sembra che non ci sia nulla di particolarmente perfetto, ma al tempo stesso sembra anche che tutto in un certo senso lo sia o lo possa diventare –, queste due risposte non sono in contraddizione tra di loro. L’esperienza dello stupore – e lo stupore è senza alcun dubbio uno dei temi fondamentali attorno ai quali il film ruota – conferma la pertinenza di questo strano intreccio tra il nulla e il tutto. In effetti, di per sé nulla stupisce, o meglio: non c’è qualcosa o qualcuno che abbia in sé la misteriosa proprietà di stupire; al tempo stesso tutto può stupire, ed anzi sembra che proprio gli esseri più «insignificanti» abbiano lo strano potere di attirare la nostra attenzione e di meravigliarci. In Spuren (1936, trad. it. Garzanti 1994) Ernst Bloch afferma che ciò che stupisce può essere «il modo in cui una foglia si muove nel vento […] il sorriso di un bambino, la sguardo di una ragazza, la bellezza di una melodia». D’altra parte, non sempre una foglia che si muove nel vento, o il sorriso di bambino, o lo sguardo di una ragazza, o la bellezza di una melodia stupiscono; bisogna così riconoscere la particolarità del carattere d’eccezione che contraddistingue lo stupore: quest’ultimo, infatti, è senza alcun dubbio un’esperienza eccezionale ma altrettanto certamente non è mai un’esperienza dell’eccezionale.

 

Ciò che il film di Wenders mette in scena è l’evidenza di questa «eccezione non eccezionale»; esso, infatti, da una parte riprende il quotidiano, e, come osserva acutamente Blanchot, «Il quotidiano è ciò che noi siamo innanzitutto e in genere: nel lavoro e nel tempo libero, durante la veglia e il sonno, per la strada, nell’esistenza privata. Il quotidiano siamo noi di solito […]Quali che siano i suoi aspetti, esso ha un carattere essenziale, non si lascia cogliere. Sfugge. Appartiene all’insignificante, e l’insignificante è privo di verità, di realtà, di segreti […] È ciò che passa inosservato, è ciò che non vediamo mai per la prima volta, ma che possiamo solo rivedere dopo averlo sempre già visto […] Il quotidiano sfugge. È la sua definizione» (L’Éntretien infini, 1969, trad. it. Einaudi 2015). D’altra parte, evitando con cura la trappola degli «effetti speciali» e le attraenti sirene del «fantastico» e del «sentimentale», esso mostra lo splendore di tale «insignificanza», mostra come proprio il quotidiano possa essere vissuto e guardato come il luogo dello splendore più concreto, l’unico a poter essere abitato da un’esperienza autenticamente umana. Sempre Blanchot, citando Lukács, osserva: «È questo il confuso quotidiano […] Ma ecco sopraggiungere bruscamente una luce, “Qualcosa si accende, appare come un lampo sulle via della banalità… è il caso, il grande istante, il miracolo”. E il miracolo “irrompe nella vita in modo imprevedibile… senza relazione col resto, trasformando l’insieme in modo chiaro e semplice”. Col suo splendore, separa i momenti indistinti della vita quotidiana […]».

 

L’esperienza dello stupore, dunque, rappresenta una rottura della quotidianità, del «confuso quotidiano», senza per questo essere una fuga dalla realtà; qui non vi è alcuna estasi o rapimento, ma anzi l’istituirsi di un rapporto più interno e intimo con la realtà che ora appare nell’evidenza di uno splendore che va al di là del semplice apparire. Forse i giorni di Hirayama sono «perfetti» proprio perché illuminati, anche se solo occasionalmente, da questo splendore che finisce per trasformare – ecco un miracolo senza allucinazione, ecco il miracolo del cinema stesso quando quest’ultimo, come voleva Bresson, riesce ad essere «cinematografo» – il mondo stesso, tutto «l’insieme in modo chiaro e semplice».

 

Silvano Petrosino (Milano 1955), studioso di filosofia contemporanea, si è occupato prevalentemente dell’opera di M. Heidegger, E. Lévinas e J. Derrida.

Oggetto dei suoi studi sono la natura del segno, il rapporto tra razionalità e moralità, l’analisi della struttura dell’esperienza con particolare attenzione al rapporto tra la parola e l’immagine.

Insegna Filosofia della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano.

 

Il suo ultimo libro, pubblicato da Vita e Pensiero, è "Piccola metafisica della luce".

Dio esiste ed è qui!

 

Divo Barsotti

 

 

Se c’è la fede, tutto nasce da lì: ecco, Dio non è più un Dio

di carta, è il Dio vivente! Lo conosci, ma lo conosci in quanto è

una Persona, non lo conosci perché sai il catechismo, non lo conosci perché conosci la teologia, lo conosci perché l’hai veduto,

perché Egli è entrato nella tua vita, perché Egli si è manifestato a

te, e perché la manifestazione di Dio alla tua anima ha voluto dire

per la tua anima un desiderio incoercibile di essere unita a Lui e,

nello stesso tempo, una grande paura per il senso della tua debolezza, per il senso della tua impotenza, della tua povertà spirituale.

Conoscenza di fede che è molto maggiore, molto più importante

di una conoscenza teologica. Un teologo può parlare della Santissima Trinità fumando una sigaretta, ed è una cosa spaventosa, se

si pensa bene, ma lo può fare perché Dio è un Dio un po’ di carta,

un Dio con il quale si ragiona facilmente: è un Dio senza potenza, che non ha alcuna forza nella tua vita interiore. Perché? Per[1]ché la fede è poca, la fede è poca! Una persona, una donna, una

semplice donna, magari analfabeta, che non conosce altro magari

che un po’ di catechismo può vivere una unione con Dio, può vivere una fede più viva, anche dei teologi. Senza dubbio santa Teresa, o santa Gemma Galgani avevano più fede del vescovo della

loro diocesi. Pensiamo santa Gemma Galgani e il vescovo di Luca del tempo. È impressionante la differenza che vi è fra un vescovo buono ma mediocre, e questa anima che è totalmente presa

dall’amore del Cristo, che non vede altro che Lui, che non pensa

altro che a Lui, che vive una vita in cui veramente viene consumata dall’amore. Certamente la fede di santa Gemma era molto più

grande della fede del suo vescovo, anche se il vescovo era vescovo e Gemma Galgani era una povera scema, come lei si firmava.

Quello che conta nella vita religiosa, dunque, è la fede perché la

fede è l’organo che ci mette in comunione con Dio. Vorrei sapere: è lo stesso guardare una fotografia della montagna o scalare la

montagna? Vi sembra la stessa cosa? Vediamo, vi sembra davvero

la stessa cosa? Non credo davvero, ebbene quelli che vivono, che

parlano anche di Dio possono essere come quelli che guardano una

fotografia. Altro è guardare la fotografia, altro è scalare la montagna, altro è vivere un contatto vero con Dio. Guardate bene che la

 

fede vi deve mantenere in un contatto reale con una persona vivente. Dio è, Dio esiste, Dio è qui!

 

D. Barsotti, Brevi meditazioni, in «Rivista di Ascetica e Mistica» (2002) 1,

pp. 16, 15, 14.

 

23

Don Divo Barsotti

 

Dal libro “La via del ritorno” (capitolo “la Parola di Dio)

 

 

“Nulla è più indifferente all'uomo: la pioggia che cade è il dono che il Signore ti fa, il sole sorge oggi per te, per te fino dall' eternità Egli ha preparato la fragile bellezza del fiore che cogli. Oh! era giusto quello che faceva andare in estasi S. Maria Maddalena de' Pazzi quando aspirando il profumo di un fiore esclamava: «Fino dall' eternità il Signore ha pensato a quest'ora, quando io avrei ricevuto questo fiore dalle sue mani per aspirarne il profumo».

Sì, l'uomo, qualunque cosa faccia, dovunque egli viva, si trova davanti al volto di Dio. Sta a lui scoprirlo e ascoltare attraverso ogni cosa la parola di Dio. Egli è qui, Egli si rivolge a me, mi dice il suo amore, mi manifesta la sua volontà, mi annuncia le sue promesse, si rivolge a me per donarmi il suo amore.

Non soltanto ogni cosa ci parla di Dio, dice Dio, ma attraverso ogni cosa è Lui stesso che parla. Non soltanto la creazione ha come un riflesso della bellezza divina. Ogni cosa è veramente lo strumento di un'azione personale di Dio verso di te, il mezzo onde Egli si comunica personalmente.

 

Dio ha un volto ed è Padre. Si rivolge a te per comandarti, ti invita a sé, ti guida, ti minaccia, ti dice il suo amore. Tu sei davanti a Dio, come nel cielo. Ora tu lo vedi attraverso dei segni, domani faccia a faccia, ma Lui solo in definitiva è davanti a te, non le cose, non gli uomini. Gli uomini, le cose, tutto è occasione onde l'anima viva questo rapporto, e la vita di fatto tutta si raccoglie e si riassume e tutto termina in questa comunione dell'anima con Lui. Non un Dio che è l'immenso, l'infinito, di cui poteva parlare Leopardi, ma un Dio che è Padre, un Dio che ha un nome e un volto; che è una persona, e si rivela al tuo cuore e vuole stringere un patto con te: si chiama Gesù. Non una pura rivelazione di bellezza. Sì, la creazione rivela anche la bellezza di Dio. Più ancora Egli ti parla attraverso la creazione medesima e stringe con te un'alleanza, sicché, anche attraverso la visione dell' alba, il rompere del vento e l'odore della terra è veramente una comunione personale con Dio quella cui il Signore ti chiama.

 

Quando si dispiega davanti a te la meraviglia delle cose, quando ascolti il passare del vento, odi il rotolare del tuono, vedi il balenare dei fulmini, ne intravedi la veste.

 

E Dio stringe con te un' alleanza, vive questa sua alleanza con te; un' alleanza che si esprime precisamente ora in una minaccia, ora in un invito carezzevole, ora in un dono di tenerezza, ora in un castigo; ma è Dio, sempre Dio, Dio solo che vive con l'uomo. In ogni istante Dio esce dalla sua solitudine per venire incontro a te e in ogni istante lo incontri; tutta la vita non è che questo rinnovarsi di un incontro con Lui.

 

 

Portatori di un dono nuovo

 

Carlo Molari

 

 

 

Ogni situazione della nostra esistenza può essere vissuta in modo da consentirci di crescere come persone autentiche. Noi possiamo vivere tutte le situazioni, anche quelle causate dal peccato e dalla violenza degli uomini, in modo da renderle spazi di novità, stimoli di rinnovamento, occasione di profezie. Da farne cioè luoghi di crescita per noi e per gli altri. Ma non siamo in grado di farlo da soli. Sono i rapporti con gli altri, gli incontri, le esperienze storiche che ci consentono di crescere, offrendoci ogni giorno possibilità nuove. Non è sufficiente essere nati, per poter vivere intensamente e neppure per poter sopravvivere. Occorre che qualcuno ci offra continuamente la possibilità di crescere. Ciò non vale solo per i più piccoli ma per ogni uomo. Anzi più la persona è grande e più esige offerte intense e profonde. Solo che mentre gli adolescenti, i giovani e soprattutto gli adulti sono in grado di cercarsi da soli ambienti di offerte vitali e di muoversi per allargare gli orizzonti e intensificare i rapporti, gli infanti ed i fanciulli sono costretti all'ambiente e quindi necessariamente condizionati dalle offerte di vita che concretamente essi ricevono.

 

Quando, nell'orizzonte della fede, diciamo che la salvezza è dono di Dio, intendiamo appunto esprimere questa nostra condizione di creature: abbiamo bisogno di accogliere la nostra perfezione dagli altri. L'amore di Dio, infatti, non è efficace per noi se non quando diventa amore di persone umane: gesto e sorriso di madri e di padri, affetto di amici o di sposi. Ognuno di noi porta per gli altri un dono che è più grande di sé, un dono che però non può trattenere nelle sue mani, ma deve saper offrire perché la vita non venga tradita e possa esprimersi in tutte le sue forme.

 

Soprattutto quando avvertiamo da qualche parte situazioni di emarginazione, di solitudine, ricordiamo che a nessuno è possibile uscire dalla sua condizione se altri non gli tendono la mano.

 

Oggi, forse, per qualcuno siamo noi i portatori di un dono nuovo. Come altri forse sono pronti ad offrirci la loro presenza, se saremo attenti ad avvertirla e ad accoglierla senza riserve.

 

 

 

 

Pensiamoci, oggi, quando ci si offrirà un incontro

Figli della stessa sete

 

Alessandro D'Avenia

 

L’amore nasce da qui: dal riconoscersi figli della stessa sete. La religiosità autentica non corazza l’ego, ma lo smonta per far emergere il Sè, cioè l’uomo compiuto, che è l’io in relazione, aperto alla vita. L’io isolato, amando, esce dalla sua prigione auto-inflitta e genera vita: ci vuole una «egografia» per far nascere l’io che sa amare, che rinuncia all’esclusiva sul mondo perché, solo amando, relativizza la paura della morte che lo porta a volere tutto per sé. Mi ha sempre colpito che in origine i cristiani, per l’eucarestia, non si riunivano in un luogo sacro ma nelle case, senza differenza di classe o cultura. Un gesto quotidiano e necessario, un pasto, rimescolava rapporti di forza e li trasformava in legami: non sorprende che i Romani, pronti pragmaticamente a tollerare tutte le religioni, perseguitarono (la loro violenza viene smascherata) proprio quella che minava un intero sistema di potere e non era disposta ad adorare l’imperatore.

 

 

 

La vita veramente religiosa si mostra come un modo nuovo di vivere le relazioni: non è un’esperienza «esclusiva» come si dice oggi per rendere appetibile qualcosa di costoso, ma è gratis, per tutti, così come sono. Ed è l’Amore. Dio non è onnipotente, onnisciente... ma, dice l’evangelista Giovanni, è Amore, cioè relazione e vita data gratis, che comincia dal riconoscere all’altro il valore assoluto che pretendiamo sia solo nostro, proprio perché in relazione a Dio siamo tutti paradossalmente «fratelli unigeniti», ognuno necessario (unico) e relativo (cioè in relazione, collegato). Dio non è dove c’è il potere religioso e purtroppo spesso la religione si riduce ad apparato di potere, ma dove c’è un modo nuovo di vivere le relazioni con gli altri e con il mondo: non sono dettate dal controllo e dalla paura ma dalla libertà e dalla ricerca comune di senso. La religiosità autentica fa nascere l’io compiuto, aggiunge una d- a -io, perché Dio è la possibilità di creare relazioni vere. Dio c’è solo dove uno diventa custode dell’altro e il sangue di Abele smette di scorrere

 

Cosa ti rende vivo?

Alessandro D'Avenia 

 

Il mondo in cui viviamo ci illude che possiamo essere e volere tutto, che essere liberi sia avere scelte infinite, ma questo accade, illusoriamente, solo al supermercato. Noi i destini non li possiamo comprare, ma solo ricevere. Il consumismo scambia le scelte infinite per libertà, mentre veramente libero è solo chi, messo in condizione di ricevere la verità, poi la sceglie, cioè sceglie di essere chi solo lui può essere. Non è vero che hai illimitate scelte, è vero piuttosto che tu hai un destino da trasformare in destinazione, e il mondo comincerà a splendere, non della luce falsa delle illusioni come era disposto ad accettare, pur di sopravvivere alla noia, il diciannovenne Leopardi nella lettera a Giordani da te citata, ma della luce che hai già in mano e non devi puntare invano sull’intera valle oscura in cui cammini, ma sul prossimo passo. La vita ti verrà incontro nella misura in cui le andrai incontro, con coraggio, perché può aver coraggio solo chi ha paura, così come può guarire solo chi ha dolore. Che cosa puoi essere e fare solo tu? A che cosa sei chiamata? Perché sei venuta al mondo? Non concentrarti su ciò che il mondo si aspetta, ma su ciò che ti rende viva, perché il mondo ha bisogno di persone vive.

 

 

 

E allora, se spiritualità è fare ciò che serve a trasformarsi per vedere la verità, coltiva la tua vita spirituale (o cuore), cioè fai pratica ed esperienza di ciò che ti rende viva. Non aspettare di avere anni di vita, ma metti vita nei tuoi anni. A poco a poco ti trasformerai, cioè abbandonerai le illusioni di destino, per abbracciare il tuo. La vita autentica infatti ha due movimenti: liberazione e scoperta. Elimina ciò che ti fa sentire morta, coltiva ciò che ti fa sentire viva. Due movimenti accompagnati da un inevitabile timore: rinunciare a ciò che rassicura ed esplorare l’ignoto. Posso dirti che in me avviene questa trasformazione verso la verità quando leggo, prego, scrivo, mostro le mie fragilità a chi mi ama o le accolgo, cerco bellezza nel quotidiano, cammino nella natura, faccio sport, cucino per qualcuno, faccio una lezione... Ma per fare queste cose ho dovuto prima liberarmi da altre che mi davano l’illusione di essere vivo, facendomi perdere tempo o avvelenandomi.

 

 

 

 

Che cosa ti rende viva e rende vivo il mondo attorno a te? Quanto tempo dedicherai oggi a questo? La risposta non la troverai fuori, nel supermercato delle false esistenze felici, ma fiorirà in te e da te, nel tempo, perché avrai coltivato la tua umanità, cioè il tuo cuore. Mentre scrivo i rami spogli di un albero tagliano un cielo grigio e piovoso: la sua vita è solo nascosta, lavora senza sosta. Sembra morto, ma è solo raccolto. È il suo ballo del qua. E anche tu scoprirai, in questo inverno dello spirito, che la linfa che cerchi non è altrove, è nella tua carne. Non scappare, raccogliti. La stagione dei frutti arriverà a tempo debito e nutrirà molti. Tu balla, qua.

Le parole che diventano melodia, la lezione di Allevi a Sanremo

 

 

Il pianista e compositore Giovanni Allevi è tornato a suonare davanti a un pubblico dopo due anni di stop per la malattia, il mieloma multiplo, una neoplasia cronica che non si vince mai. Incantando il pubblico dell'Ariston con la sua umanità e il suo sorriso, ha detto: "All'improvviso mi è crollato tutto. Ho perso il lavoro, i capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare”.

 

 

Ha elencato i doni inaspettati che gli ha porto il dolore, e ha raccontato che all’inizio della sua carriera ha suonato davanti a 15 persone ed era felicissimo, perché “dopo la malattia so che è un dono suonare davanti a 15 persone. I numeri non contano perché ognuno di noi è unico irripetibile e a suo modo infinito”.

 

"Quando non c'è più certezza del futuro, ha affermato, bisogna vivere più intensamente il presente. È come se avessi strappato alla mia fine una manciata di anni e voglio viverli più intensamente possibile”. “Se nei mesi scorsi mi avessero detto che sarei stato qui oggi a suonare, non ci avrei mai creduto. E poi, se posso, per dare un po' di forza e speranza agli altri pazienti perché loro me la danno e voglio ricambiare con la stessa forza ed energia. La malattia coinvolge direttamente o indirettamente molti di noi”.

 

Queste parole di sapienza umana, spirate da un’esperienza di dolore, vissuta con speranza e coraggio, non possono non far riflettere. Per Allevi, l'accettazione del dolore non è una scelta di rassegnazione. È una scelta di coraggio, che accetta nella propria vita la presenza di un altro, un “ospite”, come talvolta viene chiamato il tumore.

 

Ma, per chi ha il dono della fede, è anche una scelta di profezia, che, sempre nella stessa vita, accetta la presenza di un Altro, sia nel suo inizio che nella sua fine. La vita non ci appartiene. Essa non ha avuto inizio quando lo abbiamo deciso noi, e non ha termine neppure quando lo stabiliamo noi.

 

L'esistenza umana è come la volta del firmamento sulla quale appendiamo le stelle dei nostri desideri e dei nostri progetti, la tela sulla quale disegniamo i contorni del nostro futuro. Ma questo firmamento, questa immensa tela celeste sulla quale disegniamo il mosaico della nostra vita e della nostra felicità ci sono stati concessi solo in prestito. Non ci appartengono.

 

Questo è il limite fondamentale della creaturalità, che include tutti gli altri limiti, i quali, in qualche modo, sono da esso derivati. Se si accetta questo limite fondamentale, si accettano anche gli altri limiti da esso derivati. Possiamo affermare che, secondo una prospettiva di semplice ragione, l'uomo è ciò che diviene, e, secondo questa prospettiva, egli non accetta la presenza di un Altro nella propria vita. Egli non conosce altro punto di partenza, per i suoi progetti e per i suoi orientamenti esistenziali, che la propria autonoma esistenza.

 

Secondo una prospettiva di fede, invece, l'uomo diviene ciò che è. In questo caso, egli accetta che all'inizio della sua vita ci sia il disegno di un altro. Questo disegno non è attinto nel campo dell'esperienza umana, ma affonda le sue radici nell'eternità, nel cuore stesso di Dio. Divenire ciò che si è significa accettare di realizzare il progetto di un altro, nella convinzione che, nella misura in cui si accetta il progetto di un altro, si accetta il proprio progetto, si è fedeli a se stessi, si realizza se stessi. È proprio vero che per essere se stessi, bisogna essere di un Altro. Ciò significa, però, che non basta essere per vivere, ma bisogna vivere per essere.

 

In ultima analisi, la vita umana è un disegno a quattro mani: le due mani invisibili di Dio e le due mani visibili dell'uomo. Insieme esse disegnano una vita, che è frutto di due amori ed opera di due libertà. Le mani di Dio non operano da sole. Ma nemmeno le mani dell'uomo operano da sole. Dio opera per mezzo dell'uomo, e l'uomo agisce sotto la guida invisibile di Dio. Il mosaico che risulta da questa duplice paternità è contemporaneamente aperto al futuro di Dio e alla libertà dell'uomo.

 

Questa duplice paternità, però, non è facile da accettare e costituisce uno dei più forti misteri della vita umana. Infatti, in base a questa duplice paternità, l'uomo è soggetto ed oggetto allo stesso tempo: soggetto della sua risposta di libertà, oggetto della chiamata creatrice di Dio.

 

La differenza che esiste tra soggetto e oggetto, tra il progetto stabilito dal cuore di Dio e la sua attuazione da parte del cuore dell'uomo, tra quello che si è in realtà e quello che si vorrebbe essere secondo il proprio desiderio, si traduce indirettamente in una nostalgia della trascendenza.

 

Il differire della perfezione nel tempo e il differire dalla perfezione nella concretezza della vita segna la distanza che intercorre tra l'eternità e la storia, tra l'infinito e il tempo, tra Dio e l'uomo. Esso, qualora sia vissuto ed accolto positivamente, contribuisce ad acuire il desiderio e la nostalgia della patria futura più che ad alimentare la rassegnazione del tempo presente.

 

Ignazio Sanna

 

 

teologo e arcivescovo emerito

Alessandro D’Avenia "Toccare il cielo con un dito. Un felice paradosso."

 

 

Chinarsi sulle ferite

 

La scorsa settimana Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò ci ricordava che la dimensione religiosa è necessaria a umanizzarsi, dove c’è trascendenza si diventa uomini (sono le prime sepolture a dirci che qualcosa di mai visto è apparso sulla Terra). Sapere che esistano cose immortali non è difficile, si lamenta il personaggio pavesiano del dialogo Le Muse, ma «toccarle è difficile», cioè trovare l’infinito nel finito, l’assoluto nel relativo, il sempre nel qui e ora. La Musa risponde che il segreto è vivere per esse, avere cuore puro, cioè trasparente, fecondo, gioioso, innamorato, danzante. Il cuore dell’uomo desidera «toccare» ed «essere toccato» dall’eterno per non soccombere allo scorrere del tempo che conduce tutti alla morte.

 

 

 

Dal relativizzare il tempo dipende la fisica della felicità, non a caso diciamo felici i momenti in cui sembra che l’eterno entri nell’istante, quando la vita è talmente viva che dobbiamo ricorrere a un’espressione poetica: il tempo si è fermato. Accade quando ci innamoriamo, creiamo il nuovo, assistiamo al meraviglioso... Beatitudini che vorremmo perenni e paragoniamo al «toccare il cielo con un dito» o al «cielo in una stanza». E se la settimana scorsa Pavese suggeriva di salire simbolicamente in montagna per avvicinarsi a un cielo divenuto distante, mi chiedo oggi: c’è modo di far venire il cielo a noi, che sia lui a toccare noi quando siamo a valle? Per rispondere mi servirò di un testo che ritengo essere un’iniziazione alla vita felice, a prescindere dall’essere o meno credenti.

 

 

 

Alla fine del vangelo di Giovanni, c’è un personaggio, Tommaso, che, assente al momento in cui il risorto sorprende i suoi amici riuniti a compiangerlo, afferma che non crederà mai alla resurrezione di Cristo, a meno di non «toccarne» le ferite. In Tommaso ci siamo tutti noi, vogliamo fare esperienza del metodo per vincere la morte già in vita, solo questo darebbe senso a tutto, persino al morire. E così, narra Giovanni, una settimana dopo, Cristo si mostra a Tommaso, invitandolo a fare ciò che desiderava: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non mostrarti più incredulo ma fiducioso!» (Gv, 20).

 

 

 

Non è un rimprovero da catechismo per bambini ma un invito a toccare l’eterno e la gioia per cui il cuore è fatto, attraverso un paradosso: la porta di scambio tra l’infinito e il finito sono «le ferite». È proprio dove moriamo che il divino si fa toccare. La via di accesso al cielo non è la potenza, e per questo, in una cultura in cui è vero ciò che è potente ed è più vero ciò che è più potente (dall’archibugio alla bomba atomica), è diventato assai difficile toccare Dio, perché le ferite, i limiti, di ogni specie (esteriori e interiori), sono il contrario della potenza, sono divenuti privi di senso, e se gliene diamo uno è purtroppo quello di colpa.

 

 

 

In Giovanni invece c’è una prospettiva spiazzante per la vita quotidiana. Vuoi credere al fatto che le cose morte possano rinascere? Metti il dito nella tua piaga, non cercare la felicità nella potenza, nell’apparenza, nella forza, perché queste cose si procurano a fatica, non sono mai garantite del tutto e svaniscono, mentre i limiti li hai già, a portata di mano, gratis e sino alla fine. Il cielo è lì. Metti il dito nella piaga degli altri, non per farli soffrire, ma per curarli, non cercare la loro influenza, luce, forza, per poter esistere, ma la loro fatica: chiedi come stanno, che cosa li fa soffrire. Il cielo è lì. Le ferite di Cristo sono nelle mani, nei piedi, nel costato, ferite dello stare (chi sei?), del fare (che fai?) e delle relazioni (che o chi ami?). Ma sarà vero che il cielo è nella «ferita» e non nella «potenza», che l’infinito e il finito si toccano in una cicatrice?

 

 

 

Lo sperimento quando mi chino sulle fragilità dei miei studenti, non solo nei momenti di particolare fatica, ma in generale perché l’adolescenza è una «ferita» che brucia alla ricerca del senso delle cose, di un posto nel mondo, della propria identità. In ambito educativo i veri innovatori, da Socrate a Montessori, sono stati infatti quelli che si sono chinati sulle ferite, e lo stesso è accaduto in ambito medico, economico, politico... Lo sperimento anche quando tocco una mia ferita e invece di vergognarmi o disprezzarmi perché non sono «abbastanza», provo ad amare ciò che mi rende unico, per renderlo occasione creativa (un pensiero nuovo, una nuova pagina) o di relazione (chiedo aiuto o riconosco amico chi ha la stessa fragilità). Chi sono gli artisti se non persone che si sono tuffate nelle proprie e altrui ferite per capirle e magari curarle? Come Etty Hillesum.

 

 

 

La settimana scorsa, nella Giornata della Memoria, ho riletto alcune righe del Diario di questaragazza ebrea morta ad Auschwitz, righe in cui mostra ciò che cerco di dire: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». Non incolpa Dio, attribuendogli il male o il silenzio che per molti è prova della sua inesistenza, indifferenza o crudeltà, ma parte proprio dall’impotenza di Dio per trovarlo, è lì dove lei è. Il Dio che tace, una parola l’ha detta: te. Infatti Hillesum, riferendosi al ruolo di educatrice per i figli dei deportati, prosegue: «Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere. E io, sono io già abbastanza avanti da poter dire sinceramente: spero di andare al campo di lavoro, per poter essere di appoggio alle ragazze di sedici anni che ci vanno? Per rassicurare i genitori rimasti indietro: non siate inquieti, io vigilerò sui vostri figli».

 

 

 

 

Lei diventa la parola di Dio. Eterno e finito si toccano e le parole si rinnovano dove l’amore è portato nel mondo attraverso la nostra carne: è l’amore a relativizzare il tempo, a fermarlo, proprio dove «siamo». Il divino è nell’impotenza che interpella e risveglia la nostra libertà e creatività, possiamo essere noi il cielo per molte dita. Cristo infatti dice che se diamo (o no) un bicchiere d’acqua a chi ne ha bisogno lo diamo (o no) a lui stesso: dissetare Dio, negli altri, è essere uomini. E nel farlo diventiamo noi eterni, cioè capaci di stare nelle situazioni senza soccombere, anzi riempiendole di senso e di miracolo. Di fronte a uno studente in crisi che cosa invento? Di fronte a una mia crisi che cosa invento? Cioè come posso ricevere e tradurre in azione l’amore che può entrare nel mondo proprio da questa frattura nella superficie uniforme dell’indifferenza? Ogni ferita è una potenziale porta di scambio con il cielo, perché l’amore è l’unica forza capace di relativizzare la morte. Lo dice l’ultimo pensiero scritto da Hillesum: «Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa? Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Erano così affamati... Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». E se il tempo si è fermato, leggendo le sue parole, è perché lei «ha creduto» in una vita nuova, proprio lì dov’era, come Tommaso: «Perché non mi hai fatto poeta, mio Dio? Ma sì, mi hai fatto poeta, aspetterò pazientemente che maturino le parole della mia doverosa testimonianza: cioè che vivere nel Tuo mondo è una cosa bella e buona, malgrado tutto quel che ci facciamo reciprocamente noi uomini».

Piccola fenomenologia della carezza

 

(a mio padre)

 

Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.

Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.

La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.

La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.

Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.

La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.

Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.

Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.

La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.

Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.

È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.

La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.

E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.

 

Mario Domina

 

 

Una dimensione dell'invisibile nel visibile: la carezza

 

Emmanuel Lévinas

 

“La carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire mai abbastanza avvenire nel sollecitare ciò che si sottrae come se ‹non fosse ancora›. Essa ‹cerca›, fruga. Non è un’intenzionalità di svelamento, ma di ricerca: cammino nell’invisibile. In un certo senso ‹esprime› l’amore ma soffre per un’incapacità di dirlo. Ha fame di questa espressione stessa, in un continuo incremento di fame. Va dunque al di là del suo termine, è tesa al di là di un ente, anche futuro, che, appunto in quanto ‹ente›, bussa già alla porta dell’essere. Nella sua soddisfazione, il desiderio che l’anima rinasce, alimentato in qualche modo da ciò che ‹non è ancora›, e ci riporta alla verginità, eternamente inviolata, del femminile. Questo non significa che la carezza cerchi di dominare una libertà ostile, di farne il suo oggetto o di strapparle un consenso. La carezza cerca al di là del consenso o della resistenza di una libertà ‹ciò che non è ancora›, qualcosa che è «men che nulla» che sta come rinchiuso e sopito al di là dell’‹avvenire› e, quindi, sopito in modo completamente diverso dal ‹possibile› che si offrirebbe all’anticipazione. La profanazione che si insinua nella carezza risponde in modo adeguato all’originalità di questa dimensione dell’assenza. Assenza diversa dal vuoto di un niente astratto: assenza che si riferisce all’essere, ma vi si riferisce a modo suo, come se le «assenze» dell’avvenire non fossero avvenire, tutte allo stesso livello e uniformemente.”

 

EMMANUEL LÉVINAS (1906 – 1995), “Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità” (1961), introduzione di Silvano Petrosino, trad. di Adriano Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2006 (sesta ristampa della II ed. 1990, I ed. 1980), Sezione quarta ‘Al di là del volto’, B. ‘Fenomenologia dell’eros’, p. 265.

  Come amare nel rispetto della libertà dell’altro

Valerio Stagno

 

 

Molte volte facciamo coincidere con l’Amore un sentimento di proprietà e di appartenenza, saltando il livello della libertà che rappresenta il luogo stesso dove l’Amore vive e ha bisogno di vivere. L’eros vive al suo interno una condizione di continua ambiguità equivocando, all’interno della relazione etica come metafisica, tra l’immanenza e la trascendenza, passando dall’altruismo all’egoismo e rischiando continuamente di trasformare il desiderio metafisico, dell’invisibile, mistero in cui si racchiude l’enigma della femminilità, in bisogno fisico del visibile che si esprime nella voluttà e nel godimento. La partita dell’eros come relazione che mantiene la metafisicità, rischiando continuamente di perderla, viene giocata tutta nel desiderio dell’intimità erotica attraverso la ricerca della nudità senza profanazione.

Come scrive Sergio Labate, ricercatore in filosofia teoretica all’Università di Macerata: “andando incontro all’amata, l’amato desidera di approfondire il mistero, di instaurare una relazione al di là del volto; percepisce che questo desiderio si può esaudire come profanazione […], ma se questa relazione è oltre l’egoismo, nella sfera della gratuità, desidera ancora più fortemente che la relazione con l’infinito mistero celato nella nudità dell’amata avvenga senza profanazione, o come profanazione che pure lascia lo spazio perché ciò che è profanato sia mantenuto nella sua essenza di intoccabilità, di improfanabile”[1].Questa tensione desiderante che muove l’attenzione del desiderio su se stesso “per non decadere in semplice bisogno”[2], si traduce nella concretezza nell’evento della “carezza”. Questa indica a pieno titolo “il movimento dell’amante di fronte alla debolezza della femminilità, che non è, né pura compassione, né impassibilità, ma si compiace di questa compassione”[3], ponendosi come esperienza profonda della relazione erotica, in quanto relazione con la trascendenza, la quale allo stesso tempo cerca continuamente il contatto con l’intimità della nudità.

La carezza come momento della concretezza dell’eros, e come contatto con l‘altro, “è sensibilità”[4] , ma non di una sensibilità qualsiasi tale da restare imprigionata nella forma tutta immanente di un estetismo senza evoluzioni, ma di una sensibilità che attraverso la carezza, “trascende il sensibile”[5], non in un modo tale “che essa senta al di là del sentito, più profondamente dei sensi, né significa che essa si impadronisca di un cibo sublime, […], un’intenzione di fame che si dirige sul cibo che si promette e si dà a questa fame, la scava, come se la carezza si nutrisse della propria fame, al contrario, la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire-mai abbastanza avvenire-nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora”[6]. Amando l’amata, la carezza “ama il trascendente celato nel non-ancora-essere dell’amata”[7] permettendo così all’amato di donarsi all’amata in un “desiderio senza voluttà”[8] proponendosi come un atto profanatore di ciò che non può essere profanato, perché per natura improfanabile. Nonostante questo, la carezza è il segno tangibile della non “rinuncia alla comunicazione segnica corporea, non spirituale”[9] che traccia i confini di “un incontro integrale e paradossale, corpo e trascendenza uniti l’uno come desiderio che desidera la trascendenza, l’altra come trascendenza che si dona al desiderio come nudità o intimità”[10]. Quindi l’eros seppur interpretato in chiave prettamente metafisica, non rifiuta l’esperienza della corporeità che con la carezza viene descritta come “l’azione di una mano diretta dal desiderio verso l’intimità dell’amata, in un contatto del tutto sensibile con la pelle nuda, profanazione dell’intimità di Altri”[11]. Tuttavia se fosse solo questo, la carezza perderebbe di eticità e quindi di metafisicità, avvicinandosi invece sempre più ad una relazione di tipo ontologico, tale che il contatto tra io e Altri perderebbe la nozione di separazione da cui è caratterizzata la prossimità. Senza dubbio ciò che nella carezza è interpretato come voluttà, e cioè l’appetito della soddisfazione sensuale, “non viene soddisfatto nella pienezza di un compimento”[12], in quanto, in questo tipo di relazione che si viene a creare, con la carezza erotica, io non possiederò mai ciò di cui sento il bisogno[13] perché “l’appetito sensuale o il bisogno si soddisfano della nudità dell’amata, ma non si saziano di essa – soddisfazione che non coincide mai con il nutrimento”[14] o meglio coincide con un nutrimento del tutto particolare[15], che resta allo stadio dell’appetito, “che si sazia della sua fame”[16], “di una fame che rinasce all’infinito”[17] in quanto rivolto più che al cibo alla sua assenza, nella quale la carezza come non-ancora-essere trova la sua intenzionalità. Cosi la relazione etica in eros, non solo è salvata, non potendo essere assolutamente compresa, ma l’alterità “resta intatta nella sua nudità”[18], nella misura in cui l’Amata “si mantiene nella sua verginità”[19], nella notte dell’erotico, nella quale nello stesso istante in cui scoperto Eros, Eros sfugge “per esprimere in modo diverso la “profanazione”.

 

[1] S. LABATE, La sapienza dell’amore, Cittadella Editore 2007 cit., p. 150.

[2] Ibidem.

[3] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book – Milano, 1971, p.264.

[4] Ivi, p. 265.

[5] Ivi, p. 265.

[6] Ibidem.

[7] S. LABATE, La sapienza dell’amore, cit., p. 151.

[8] Ibidem.

[9] Op. cit., p. 151.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 152.

[12] Ibidem.

[13] “La carezza erotica non cerca una comprensione concettuale dell’altro; sull’orlo della profanazione dal di dietro del pudore, appare l’Altro non come oggetto del bisogno, ma come oggetto di un bisogno particolare tracciato dal desiderio dell’Altro, il bisogno voluttuoso.” A. JARNUSZKIEWICZ, Separazione e prossimità, cit., p.116.

[14] S. LABATE, op. cit., p.152.

[15] “L’amore è caratterizzato da una fame fondamentale e inestinguibile”, E. LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 37.

[16] Ibidem.

[17] Il tempo e l’altro, op. cit., p. 58.

[18] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.

 

[19] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.

Attesa e speranza

 

Jean D'Ormesson

 

 

 

 

Se non avessimo la certezza, o l'illusione, di essere liberi, se non avessimo comunque la sensazione di esserlo, cosa faremmo? Niente di niente. L'uomo è libero di agire. Di essere Alessandro o Diogene, Diderot o Marie Curie. O, più spesso, M. Homais, M. Pipelet, M. Prudhomme o Mme Verdurin. Non viviamo nel passato. Viviamo a malapena nel presente.

 

Viviamo nell'attesa e nella speranza del futuro.

 

Quando non c'è futuro e non c'è speranza, la morte è già qui.

Viviamo nel futuro perché viviamo. Tutta la vita è magnetizzata, attratta dal futuro. Il passato ci sostiene e ci tiene al limite, ma il futuro ci risucchia.

Siamo solo memoria e siamo solo progetto.

Il tutto non è mai stato altro che un'immensa speranza. Il Big Bang spera nella Terra, nel Sole e nella Luna. La Terra attende e spera nella vita. La vita attende e spera nell'uomo. L'uomo, che è emerso dal tutto, dalla Terra, dalla vita, si aspetta tutto dalla vita, dalla Terra e dal tutto. Forse si potrebbe sostenere, non so, che l'eternità aspetta e spera nel tempo? Il tempo attende l'eternità.

La speranza è la più grande e la più bella delle virtù, più grande della fede che solleva le montagne, più grande della carità che dà senso a tutto, perché è la speranza che ci lega alla vita. È la traduzione metafisica e morale della forza che abita e anima tutti gli esseri: il desiderio. L'uomo ha il desiderio di mantenersi nell'esistenza e di perseverare nell'essere. Quando questo desiderio scompare - e di tanto in tanto scompare - la disgrazia si abbatte su di noi. Finché c'è, invece, guardiamo al domani. Nonostante i dispiaceri, le sofferenze, le lezioni del passato, la stanchezza di una storia sempre nuova e sempre uguale, ci buttiamo con avidità nel futuro. Questo è ciò che chiamiamo speranza.

La malinconia suscitata da un presente che crolla continuamente nel passato è riscattata dall'impazienza e dall'euforia di vedere finalmente il futuro diventare presente. Nonostante l'angoscia della prima vita e la sua improvvisa disperazione, questa euforia e questa impazienza sono proprie soprattutto della gioventù, che è il sale della terra: si aspetta tutto dal mondo. Implacabile e così bello, il mondo è fatto solo di mattine e solo di bambini.

La giovinezza, l'impazienza, il desiderio e la speranza danno all'insieme il suo splendore.

C'è una tristezza straziante e una bellezza serale. In verità, non c'è nulla nell'insieme che non sia bello. Anche i ragni, le vipere, le meduse, il tradimento, la menzogna, l'ingiustizia e il crimine hanno la loro bellezza. Lucifero era bello. E la morte è molto bella. Ma non c'è niente di più bello del desiderio di vita e della speranza dei figli a cui passiamo un testimone che a loro volta passeranno ai loro successori. La speranza è come un riflesso dell'eternità. Un riflesso ironico. Ma pur sempre un riflesso. Se il futuro non fosse speranza, il mondo sarebbe un inferno. E si fermerebbe. Ma crudele, ingiusto, spesso disperato, quasi sempre deluso, il mondo, nonostante tutto, è prima di tutto speranza. E va avanti.

 

(Da: Presque rien sur presque tout)

 

(traduzione, ahimé, con deepl.com... ma sembra sensata)

Riscattarsi da ogni avvilimento ma senza passare sopra gli altri

 

Pierangelo Sequeri

 

 

 

Nella nostra memoria, ancora risuona l’associazione dell’onore con la violazione sessuale della donna, che ne porta lo stigma persino quando ne è vittima (“disonorata” non come participio passato che rinvia la censura all’aggressore ma come aggettivo che getta una macchia indelebile sulla vittima!).

 

E non ne siamo ancora fuori, a quanto pare. Questa memoria della perversione dell’onore, non del tutto estinta, continua ad avere riscontro in molte retoriche e in molte pratiche. Non riguarda solo le donne (Anche se la violenza sulle donne continua a rappresentare un punto di attrazione – reale e simbolico – che salda, paradossalmente, l’umiliazione e la riparazione sotto il “delitto d’onore”). Le ferite dell’onore hanno un raggio assai ampio di pertinenza: nella sfera dei rapporti individuali e familiari, come nei rapporti fra i popoli e le nazioni. L’onore, insomma, porta con sé l’ombra oscura – ma per alcuni luminosa – di una questione di vita e di morte. Questa ombra appare nella storia di tutte le civiltà e culture, intercettando inevitabilmente la dimensione del sacro. Le guerre di religione sono guerre d’onore. L’oltraggio iscritto nella profanazione dell’inviolabile, la lesa maestà dell’offesa irreparabile del dio, si identificano automaticamente con il peccato mortale, nel senso più letterale del termine. (La sua sanzione – ancora oggi! – giustifica automaticamente la pena capitale). Infine, il delitto d’onore del Faraone è sempre giustificato: a priori e a prescindere.

Nella nostra società mediatica, l’onore è attribuito e tolto ancora più facilmente: con poco, e anche per futili motivi. La complicità mimetica ed esplosiva dell’anonimato degli impuniti (i “leoni da tastiera”) ne moltiplica gli effetti devastanti: affina le tecniche, modifica i mercati, genera mostri (come se non ce ne fossero già abbastanza). E comportamenti disonorevoli, che incitano alla perse-cuzione e all’odio degli indifesi, si conquistano facile seguito: producono assuefazione, e persino ammirazione con un semplice clic. La novità contemporanea – non l’abbiamo neppure vista arrivare, ma ormai è qui – sta proprio nella straordinaria abilità con la quale la retorica postmoderna mescola l’ideologia del rispetto universale e il dogmatismo dell’opinione persecutoria. Il prestigio e l’impunità si avvicinano molto: fino a scambiarsi i ruoli. Nello stesso tempo, nessuno è al riparo dalla gogna del disonore: la circolazione del disprezzo produce le sue conseguenze molto al di là dell’accertamento di merito. Insomma, per quanto possa essere imbarazzante – e persino doloroso – ammetterlo, “onore”, “dignità” e “ rispetto”, sono diventati radicali molto liberi, per così dire: attendono di saldarsi con il riconoscimento, prendono distanza dalla giustizia. Lo spostamento era stato puntualmente previsto (Hegel). Nella tarda modernità, la lotta per la giustizia ha incominciato a mostrare una forte tendenza a essere sostituita dalla lotta per il riconoscimento (Nietzsche). Il diritto al riconoscimento è certo anche il tema di una nobile battaglia civile: ma, associato all’abbandono della ricerca di una giustizia condivisa, esalta la competizione per l’affermazione di sé e rende insensibili all’avvilimento dell’altro. Nella nostra attuale fase culturale, anche i grandi temi dell’emancipazione moderna e progressista, tradizionalmente legati al riscatto sociale dell’avvilimento umano, hanno subìto una grande erosione. La ricerca della giustizia di una convivenza solidale ha incominciato a spostarsi verso il riconoscimento legale del desiderio autoreferenziale. Il diritto all’affermazione di sé, che non si cura minimamente della giustizia per l’altro, si lascia facilmente declinare nella retorica della giustificazione di condotte possessive e aggressive, prevaricanti e predatorie. E così è successo. Il crescente anonimato burocratico delle regole di convivenza civile consente una larga diffusione di forme perfettamente legali di legittimazione della prepotenza dei forti e della umiliazione dei deboli. (Nella mia personale scala gerarchica dell’insopportabile non c’è la rapina in banca per ottenere denaro facile: c’è l’umiliazione del cameriere, solo perché è un cameriere. Un paradosso, lo so: ma la madre di tutti gli avvilimenti, dal conflitto domestico alla guerra religiosa, nasce così).

 

 

 

Vi faccio qualche esempio semplice e un po’ rozzo (ma non insignificante, per me, dell’insidia strisciante dell’avvilimento). Siamo orgogliosi del nostro progresso nelle scienze della cura. Bene. E come mai è cresciuta la vergogna sociale di essere “molto” malati, che ci costringe a nasconderlo (perché forse “ce la siamo cercata”, con uno stile di vita sbagliato)? Dobbiamo dissimulare il disagio, per non essere tagliati fuori dal consorzio dei più sani e più belli (oppure a esibire con spavaldo stoicismo la nostra assicurazione che stiamo lietamente togliendo il disturbo). Lo stigma di una maledizione divina non era una cosa arcaica? La sua versione secolarizzata è forse meno umiliante? Un altro esempio. Siamo fieri del nostro progresso nella minuziosa organizzazione della sfera pubblica. Bene. E come mai ci accade di essere commossi fino alle lacrime per un raro funzionario che si intenerisce delle nostre inutili peregrinazioni agli sportelli, senza mostrare disprezzo per la nostra inettitudine a comprendere istruzioni deliranti e modulistiche kafkiane? Un ultimo esempio, di casa nostra. La nostra coscienza ecclesiale è piacevolmente evoluta: l’uguale dignità battesimale, la partecipazione comunitaria, e ora lo stile sinodale. Molto bene. Ma è proprio necessario incalzare la moltitudine di coloro che già considerano un miracolo trovare nella fede un sostegno per la vita e per l’amore, che sentono a rischio ogni giorno, ossessionandoli per una fede mai abbastanza matura e per un amore mai abbastanza eroico? L'onore viene, in primo luogo, dal contrasto dell’avvilimento: dovunque si nasconda. Se manca questo, è sicuramente sospetto. Nella nostra costellazione sociale è sempre più facile che un riconoscimento privo di ogni giustizia offra legittimazione ad ambizioni che non lo meritano. L’onore va riservato a quelle doti relazionali che rendono abitabile ai più indifesi l’umanità che ci è comune. L’evento fondatore della fede cristiana va a stanare l’equivoco – spesso intenzionalmente aggravato – dell’onore di Dio mal riposto, collocando la giustizia del voler-bene di Dio proprio nei luoghi in cui l’avvilimento estremo dell’umano è ignorato, conculcato, disprezzato persino. La povertà insanabile, la malattia incurabile, la marginalità sociale, l’estraneità religiosa, sono sospinte (anche oggi!) verso la soglia della colpa, di cui vergognarsi. Capite allora che cosa significa “opzione preferenziale” per i poveri, gli abbandonati, gli invisibili della comunità? Non è un programma sociale di redistribuzione della ricchezza (obiettivo per altro più che apprezzabile, intendiamoci). Piuttosto, è l’annuncio – impensabile – di una redenzione dell’umano, che – in nome di Dio – ne combatte l’avvilimento: ossia il marchio di una vita senza dignità e senza speranza. La giustizia dell’amore di Dio, predicata e praticata da Gesù, non si limita ai segni forti della liberazione dal male. Cancella l’avvilimento, che annienta il soggetto. L’avvilimento, che toglie dignità all’umano, è un buco nero. La mortificazione che esso aggiunge alla privazione e all’abbandono è il delitto più grave dell’uomo sull’uomo. La disposizione a godere dell’avvilimento dell’altro è l’ombra oscura dell’intera condizione umana: capace di trascinare l’intera storia verso l’abisso. Il cristianesimo non potrebbe ritrovare l’ironia fulminante di Gesù nei confronti dei lapidatori ipocriti della donna adultera? E testimoniare la passione con la quale il Cristo crocifisso onora il gesto del ladrone che ha compassione del suo avvilimento? L’onore della comunità umana non si decide forse nei luoghi dell’umano avvilimento? L’onore di Dio, Gesù lo decise proprio lì.

"Quali parole diventano destino? Lo decidiamo noi?"

 

 

Alessandro D’Avenia

 

 

 

Nel primo appello dell’anno 2024 ho invitato ciascuno dei miei studenti di quinta al consueto gioco di scegliere una parola per l’anno nuovo.

 

Le parole che ci abitano diventano nell’ordine: pensieri, azioni, carattere, destino, in una parola, carne. Quindi scegliere la parola che deve farsi carne mi sembra essenziale per difendersi dalle parole che la cultura dominante ci impone. Dove c’è il vuoto interiore è lo spirito del tempo a occuparlo, perché abbiamo bisogno di legami con il mondo, ma così rischiamo di accettare i fili di cui cantava Bennato nel 1977: «E’ stata tua la colpa allora adesso che vuoi/ volevi diventare come uno di noi/ e come rimpiangi quei giorni che eri/ un burattino senza fili/ e invece adesso i fili ce l’hai!». Le parole possono essere fili che soffocano, come mostrano i recenti fatti di cronaca, parole dette con superficialità e ampliate da un sistema mediatico vorace e spietato. Quale parola avrebbe guidato ognuno dei miei studenti nell’anno che li porterà nella tappa di vita per cui sono serviti 13 anni di scuola? È stato interessante raccogliere le loro scelte per poterle magari rispolverare lungo i prossimi mesi. La parola è chiamata a farsi vita, ma se la parola che domina la mia interiorità è «successo» la mia vita sarà di un tipo, se è «gioia» sarà di un altro. Quali parole si stanno facendo carne in noi? Ma poi hanno veramente questo potere?

 

 

Bruce Chatwin racconta nel libro «In Patagonia» che il missionario anglicano Thomas Bridges per spiegare il vangelo agli aborigeni della Terra del Fuoco compilò un dizionario della lingua Yaghan, popolo di pescatori di quei fiordi. Si rese presto conto che mancavano i concetti astratti di cui aveva bisogno, perché in quella lingua tutto era concreto: la monotonia si indicava con l’assenza di amici maschi; la depressione con la fase vulnerabile del granchio che, perso il guscio, aspetta che cresca il nuovo; pigro deriva da un tipo di pinguino; adultero da un falchetto che svolazza qua e là per scagliarsi poi sulla vittima; il singhiozzo è un groviglio di alberi caduti; la vecchiaia è come le cozze (il loro cibo base) fuori stagione. Fu proprio Bridges a chiamarli «Yaghan» dal nome di un luogo, ma loro si riferivano a se stessi come Yámana che, come verbo, significa «vivere, respirare, essere felice, guarire o essere sano» e, come nome, «persone» in contrapposizione ad animali. Concludeva Chatwin, per spiegare l’assurdità di sottrarli ai luoghi natii: «le associazioni metaforiche che formavano il loro terreno mentale incatenavano gli indios alla loro terra natale con legami che non potevano essere spezzati. Un territorio della tribù, per quanto scomodo, era sempre un paradiso». Lingua e parole che usiamo ci ancorano a una terra simbolica che è la nostra patria. Come è la terra delle nostre parole? Che patria abbiamo? Mi è tornato in mente l’articolo in cui Lera Boroditsky, professoressa di scienze cognitive a Stanford, mostra come la lingua modella il pensiero: «Sono accanto a una bambina di cinque anni a Pormpuraaw, comunità aborigena nel nord dell’Australia. Quando le chiedo di indicare il nord lo fa con precisione e senza esitare: la mia bussola conferma. Tornata in un’aula alla Stanford University, faccio la stessa richiesta a un pubblico di eminenti studiosi: chiudere gli occhi e indicare il nord. Molti si rifiutano o non sanno rispondere. Coloro che lo fanno ci pensano a lungo e poi puntano il dito in tutte le direzioni possibili. Ho ripetuto l’esperimento a Harvard e Princeton, a Mosca, Londra e Pechino, ottenendo sempre lo stesso risultato. Una bambina di cinque anni in una cultura può fare con facilità ciò che eminenti scienziati faticano a fare in altre. È una gran differenza nelle abilità cognitive. Come si spiega?». La risposta sembra essere la lingua: «A differenza dell’inglese, la lingua parlata a Pormpuraaw non utilizza termini spaziali relativi come sinistra e destra. Ci si esprime in termini di punti cardinali assoluti (nord, sud, est, ovest). Anche in inglese li utilizziamo ma solo per scale spaziali più vaste. Non diremmo, ad esempio: ”Hanno messo le forchette per l’insalata a sudest di quelle da cena!”, ma in Kuuk Thaayorre i punti cardinali si usano in tutte le scale. Si dirà ”la tazza è a sudest del piatto»” o ”il ragazzo in piedi a sud di Mary è mio fratello”. A Pormpuraaw è necessario rimanere sempre orientati» (Scientific American, febbraio 2011).

 

 

 

 

Questo perché la comunità abita in un territorio dove perdersi è fatale e bisogna sapersi orientare in ogni istante e circostanza. Fuor di metafora, le parole che usiamo ci permettono di abitare il mondo e orientarci nella vita? Già anni fa Italo Calvino si scagliava contro l’anti-lingua, che non dice le cose con precisione rifugiandosi in perifrasi e approssimazioni che rendono le parole prive di energia e sostanza (avete presente il politichese, o quello che chiamo il «temese»: quando allungavamo i temi per fingere di aver qualcosa da dire?). Scriveva in «Esattezza»: «Mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze... la letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio» (Lezioni americane). Più abbiamo parole precise più mondo vediamo e meno siamo manipolabili. Credo sia fondamentale allenare l’uso preciso e concreto della parola, ed è quello che chiedo ai ragazzi nella scelta di quella annuale: ne va del loro destino. Ecco alcune delle loro parole: vivere non sopravvivere, resilienza, ambizione, squilibrio, mietitura, fioritura, accettazione, evoluzione, luce, spensieratezza, fuori, paraocchi, avocado... Sono sicuro che quelle che incuriosiscono di più sono le più concrete, per questo ho usato la più strana per titolare l’articolo! Io ho scelto «creazione» che, in una mia personale lingua Yagan, suonerebbe «fare come le api, nutrirsi da buone fonti per fare un buon miele» e se parlassi la lingua di Pormpuraaw starebbe a est, dove sorge il Sole. Avendo sperimentato che nella mia vita c’è tanta gioia quanta creazione, spero che questa sia la parola a incarnarsi, portandone con sé altre come studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità, attenzione, cura, bellezza... proteggendomi da altre ancora come fretta, rumore, approssimazione, pigrizia, invidia, distrazione... E voi a che parola/e vi affidate? Potremmo dedicare qualche minuto a scegliere le cinque più significative e ripeterle ad alta voce. Quella sarà la nostra patria, la nostra bussola, la nostra carne.

L’amore è tutto

 

Pierangelo Sequeri

 

 

 

 

L’amore è tutto. Figurati se ci tiriamo indietro noi, testimoni del vangelo dell’amore. Eppure. Non sentite anche voi un nuovo bisogno di decifrare un po’ meglio la nebbia lattiginosa di questa avvolgente nuvola dell’amore totale, che inghiotte nell’indistinto le case e le cose, le persone e le strade? L’aura dell’amore nobilita tutto. E il contrario di tutto, anche. Noi siamo pronti ad andare dove ci porta il cuore: ma portiamo realmente il cuore, là dove stiamo andando? (Lo so che tocco un tasto delicato: la conversione narcisistica dell’amore romantico, grazie alla pubblicità commerciale, resiste alla grande. Però vedete anche voi che, nella vita reale, sta prendendo corpo il doppio pulsionale e distruttivo di quello che, nondimeno, si continua spensieratamente a chiamare amore. Qualcosa vorrà dire). L’amore chiede giusto attaccamento, certamente: ma senza giusto distacco rischia sistematicamente la con-fusione col narcisismo (e se religioso, con il fanatismo). Impressionante, vero? Ebbene, se vogliamo giocare a carte scoperte, non si tratta delle due maggiori fonti di destabilizzazione del nostro tempo?

 

Il narcisismo “del sé” e il fanatismo “del dio” rovesciano l’imperativo dell’amore nel suo contrario, cercano l’assoluto: a costo di abbattere persone e cose, case e chiese, persino. È questo l’amore, quando diventa illimitato? Tu dici che non è vero amore, ma loro dicono di sì, che lo è. Il deliramento dell’amore arriva a non riconoscere più, neppure emozionalmente, i propri passi verso l’abisso: e a lambire la soglia del nichilismo suicida e omicida. (Con preferenza per il femminicidio, perché il narcisismo e il fanatismo sono vili: colpiscono preferibilmente il più debole; e al tempo stesso, si scatenano contro il fantasma della sconfitta di un io che si è abituato a concepirsi come significante-padrone).

 

L’illimitato è una brutta bestia, quando vuole abitare il cuore dell’io, che finisce per confondere l’amore di sé con l’adorazione di Dio. La declinazione del narcisismo autistico e del fanatismo religioso nelle figure del “patriarcato” e del “clericalismo” non è priva di senso, certo (anche se non è esente da equivoci). In ogni caso, mi appare persino più debole che utile). La realtà è più avanti, ormai. I figli che vengono al mondo ora sono già “orfani” del padre e del prete, le cui figure residuali, anche con tutta la buona volontà di molti, mancano largamente la presa. Magari c’è pulsione di affetto, ma non c’è lavoro di intesa. La sconfitta del narcisismo autistico e del fanatismo religioso, dato che si tratta proprio di contro-figure dell’amore, non si produrrà rinforzando moralmente la norma e contrattando democraticamente l’alleanza. L’intesa del voler bene deve andare più a fondo, molto più a fondo.

 

I ragazzi e le ragazze, che ora patiscono l’analfabetismo affettivo e il vuoto progettuale in cui sono sospinti dalla ricerca pulsionale di identità nell’intransigenza emotiva dell’odio-amore, sanno già di non poter contare sulla comunità adulta. L’effetto paradossale di questo disorientamento, senza linguaggio neppure per nominarsi, è proprio lo sviluppo di un movimento regressivo di imitazione – persino inconsapevole – della rigida disciplina paternalistica e clericalistica che doveva essere superata. Lo si osserva agevolmente nelle dinamiche di parti significative della vocazione-identità religiosamente orientata, come anche del rigorismo della censura-social mediaticamente praticata. (Entrambe, naturalmente, si rovesciano poi nella realtà, con effetti inevitabilmente conflittuali che inibiscono ogni intesa). Il fatto è che si sono moltiplicati discorsi (laici e anche religiosi) gravidi d’amore e sterili di intelligenza. La povertà di intelligenza dell’amore lo riduce a un grumo di pulsioni e di sogni: ne fa una maionese impazzita. Pretende di spalmarsi su tutto, non dà sapore a niente. Incapace di affinarsi e di trasmettersi culturalmente, non ha alcuna speranza di incidere socialmente e di rallegrare comunitariamente. E rimane del tutto vulnerabile alle sue contraffazioni (persino a quelle più orribili). La perversione dell’amore, che contraddice orribilmente il fascino e la profondità della sua giustizia, è parassitaria, si occulta, si giustifica. E cova a lungo le sue uova di serpente. L’intuizione del limite, l’attenzione all’interiorità, l’intenzione del rispetto – tutte figure lessicalmente imparentate con l’intesa – sono un corredo di sapienza essenziale per l’amore.

 

La sapienza dell’amore, che lo riabilita come fine esercizio di intesa, riscopre la bellissima varietà delle forme del voler bene. Ecco quello che ci manca. La maturazione personale e comunitaria di questa sapienza, che apprende la delicatissima arte di conciliare dedizione dell’attaccamento e delicatezza del distacco, è certo al limite delle nostre possibilità. Ma non così impossibile. Vorrei evidenziare brevemente i tratti che mi lasciano pieno di incanto e di stupore nello stile delle affezioni di Gesù. L’elegante minimalismo dei suoi segni miracolosi (“Datele da mangiare”, si limita a dire ai parenti della fanciulla risuscitata); la libertà paradossalmente restituita ai discepoli (“Volete andarvene anche voi?”). E penso anche allo struggimento per la ricerca di una sorta di “intesa nell’intesa”, che viene definitivamente – e assolutamente – alla luce nella rivelazione di Gesù. L’amore incondizionato di Dio non vuole essere “subìto”, vuole essere “capito”: proprio in questo modo desidera essere amato (“Vi ho chiamati amici perché vi ho detto tutto. E lo Spirito vi spiegherà tutto il resto”). Insomma, proprio Dio – che potrebbe – non travolge la creatura con la passione di un amore sovrano e possessivo, che non cerca l’intesa. Dio cerca il riconoscimento del voler bene, ne conosce la fragilità, ne sopporta il limite, tiene il punto. E vorrebbe che noi credenti, anzitutto, fossimo suoi alleati nello smascheramento dell’amore che impone sé stesso per il godimento di sé.

 

Incanta l’attaccamento, incanta il distacco. Niente di appiccicoso, niente di possessivo, niente di esibizionistico, niente di enfatico. Eppure, l’entusiasmo quasi infantile per l’eleganza dei gigli che Dio semina in terra, dandoci l’esempio di come si tiene la casa; la passione persino veemente per l’inviolabile privilegio concesso ai bambini, i cui angeli sono i più vicini a Dio. Non vi sembra straordinaria questa combinazione di passione ed eleganza della sapienza d’amore? Quando sarà necessario, questo amore non si sottrarrà al sacrificio, non scioglierà il legame.

 

La fine intelligenza dell’amore è la lezione più alta del “vangelo” dell’amore: però, la sua capacità di ispirare “civiltà” dell’amore non è così surreale come sembra. Siamo sicuri che la nostra generosa concentrazione sull’amore io-tu, che lascia nell’indistinto ogni altra forma del voler-bene (come se fosse versione debole, meno eroica, della coppia erotica), sia stata una mossa risolutiva? L’amore, io-voi, noi-voi, per esempio, che non passa necessariamente attraverso l’identifica-zione e reciprocità duale dei singoli, è forse meno alto, meno intelligente, meno profondo? Come si farebbe una comunità d’amore, fatta di soli io-tu? La famiglia stessa, in cui l’amore personale ed erotico della coppia è essenziale, non si riduce alla sua replica in tutti i rapporti d’amore (anzi, la interdice). L’invenzione dell’amore paterno, materno, filiale, fraterno, in questo senso, è semplicemente strepitosa, per l’espansione sociale della creatività intelligente e differenziata del voler bene. La nostra intelligenza di questa potenza simbolica – dei suoi attaccamenti, dei suoi distacchi – è vecchia. Non all’altezza dell’intesa oggi richiesta.

 

 

Una migliore intelligenza dell’amore, che cerca l’intesa, neutralizza malinconiche ossessioni di possesso e genera felici abitudini di scambio: di grande intensità e a vasto raggio. Se abbiamo imparato questa passione d’intesa da Dio, che poteva fare eccezione, figurati se non ci deve diventare normale tra umani.

 

 

 

  Dove sono i tuoi occhi?

 

Alessandro D'Avenia

 

Ma che cosa comporta «rispettare», avere occhi, per qualcosa? Suscitare la vita che ha da donare. Non basta imbattersi (letteralmente «scontrarsi») in qualcosa o qualcuno, anonimo meccanismo di azione e reazione. Per incontrare occorre invece accogliere volontariamente cose e persone, lasciarsi sedurre dalle loro particolarità; perché ci sia incontro, bisogna impegnare la propria libertà e il proprio tempo, cioè quell’attenzione che il poeta Paul Celan definiva «la preghiera spontanea dell’anima» e, senza la quale, smettiamo, prima, di meravigliarci, e poi, di amare. Sì, di amare. Incontrare qualcosa o qualcuno infatti spinge a prendere posizione nei suoi confronti: una volta percepita la vita unica che ha dentro, non possiamo rimanere in-differenti (chi appunto non coglie le differenze). Prendere posizione è l’inizio dell’amore per l’altro, ci sentiamo «toccati» dal suo valore e il nostro cuore «si apre». Questo non è garantito con ciò che è dietro uno schermo: non è incontro, ma una preparazione («virtuale» non vuol dire falso o irreale, ma potenziale), che può portare a un incontro vero e proprio. L’incontro avviene solo nello spazio-tempo del rispetto: siamo, qui e ora, un tu e un io e io non mi aspetto nulla da quella cosa o persona, ma ne amo la semplice presenza. In rete non cerchiamo l’altro da noi, ma l’altro per noi, per divertirci e rilassarci; l’incontro invece è cogliere l’unicità corposa della presenza, proprio perché non ci aspettiamo nulla, come accade ai poeti: si allontanano da sé per ritrovarsi nello stupore per l’altro. Non impongono se stessi ma servono la vita che tutti diamo per scontata, la guardano da amanti ed essa corrisponde: dalle creature del Cantico di Francesco alla Ginestra di Leopardi. Dimenticano se stessi e si ritrovano accresciuti dalla vita a cui si sono aperti. Il rispetto è sguardo poetico, non possiede ma riceve, fa un passo indietro per avere più orizzonte: Cézanne si faceva bastare una mela per svelare il mondo intero. Vivere è l’arte di riceversi da quel che incontriamo, mettendo in gioco la nostra vita, il contrario del giocare con la vita altrui, cercando nello «specchio-schermo» la nostra immagine proiettata su tutte le superfici che contattiamo.

 

 

 

I nemici dell’incontro sono quindi Abitudine, Indifferenza, Pienezza di sé, Pregiudizio, Comodità, che spengono la vista e quindi la vita. Senza cambio di centro di gravità, che è il rispetto, non incontriamo nulla. Entriamo in «connessione» con milioni di cose, ma di nessuna «sentiamo» la vita: tocchiamo (lo schermo è touch) senza essere toccati, e la nostra vita interiore, apparentemente gravida, è soltanto gonfia. Una cultura senza «rispetto» è fatta di anonimi in lotta fra loro per farsi un nome più grande. L’incontro invece ci permette di ricevere quel nome: «Quando tu mi hai scelto/- fu l’amore che scelse -/sono emerso dal grande anonimato/di tutti, del nulla», come scrive Pedro Salinas. Dare il nome è entrare in relazione con le cose e amarle: dirle bene è bene-dirle, dirle male è male-dirle, come sanno bene i poeti, e tutti coloro che non scappano dalla realtà.

 

 

 

 

 

Proponiamoci almeno un «esercizio di rispetto» al giorno, fissando l’attenzione su una «vita» (anche la nostra) che abbiamo sotto gli occhi per incontrarla, fino a sentire il peso luminoso della sua unicità per poi difenderla e accrescerla. Basta chiedere a chi abbiamo vicino ogni giorno quale sia la sua gioia o il suo dolore più grande; prendersi cura di una pianta; chiedere «come stai» e ascoltare la risposta senza interrompere; leggere una poesia; pregare; camminare senza cellulare e senza meta se non tutto ciò che incontriamo; toccare la corteccia di un albero; osservare un volto durante una chiacchierata, tenendo spento il telefono… Rispetto: fare un passo indietro, prestare attenzione, nel silenzio aprirsi, per ricevere la presenza corposa di cose e persone, senza scappare per paura di lasciarsi ferire. Potrebbe allora accadere un incontro. Dove sono i tuoi occhi?

 Ogni giorno è unico

 

 

Alessandro D’Avenia 

 

 

 

 

 

Nell’ultimo banco della scorsa settimana cercavo nel primo lunedì ordinario dell’anno quella Luna a cui è dedicato, addirittura un po’ di luna di miele. Oggi è un lunedì qualsiasi e quelle parole sono già lontane. Non resta allora che fare un gioco, perché giocare è la scorciatoia per rinnovare la vita, nel gioco infatti si cerca, come nel vivere, l’introvabile equilibrio tra destino (le regole) e libertà (le scelte), per questo diciamo della vita che «ce la giochiamo».

 

 

 

Cerco allora il 15 gennaio su Wikipedia e scopro che non è stato un giorno qualunque. Scelgo a caso. Parlando di politici, nel 69 d.C., anno in cui Roma ebbe quattro imperatori, fu ucciso Galba, acclamato pochi mesi prima per sostituire il folle Nerone. Le sue scelte furono inevitabilmente impopolari e fu ammazzato mentre chiedeva: «Ma che male ho fatto?». In questo giorno Elisabetta I fu incoronata regina di Inghilterra: regnò dal 1558 al 1603, il periodo più sorprendente della storia inglese. Nel 1970 Gheddafi fu proclamato premier della Libia e nel 1975 il Portogallo rese indipendente l’Angola. Parlando di edifici: nel 1759 fu inaugurato il British Museum e nel 1943 fu completato il Pentagono, sede del Dipartimento della difesa Usa. In ambito sportivo nel 1892 il professor James Naismith creò le regole della pallacanestro e nel 1967 fu disputato il primo Super Bowl. È solo l’inizio: che altro?

 

 

 

Nel 1945 fu fondata l’agenzia di stampa ANSA che in quello stesso giorno, ma nel 1968, diede la notizia del tremendo terremoto del Belice, in Sicilia. Nel 1971 fu inaugurata la Diga di Assuan sul Nilo e nel 1973 il presidente Nixon annunciò la fine delle azioni offensive in Vietnam; un anno dopo Happy Daysdebuttò in tv. Nel 1987 uno spot fu inserito in un film in videocassetta. Nel 1993 fu catturato il boss Salvatore Riina, dopo una latitanza che durava dal 1969. Nel 2001 apparve in rete proprio Wikipedia, l’enciclopedia collaborativa da cui sto traendo questi dati. Nel 2005 arrivarono sulla Terra le foto della sonda Huygens su Titano, satellite di Saturno. Nel 2008 alcuni studenti e docenti dell’università La Sapienza di Roma manifestarono contro papa Benedetto XVI che annullò la lezione che era stato invitato a tenere. Nel 2009 il volo USAirways 1549 riuscì in un ammaraggio di emergenza nel fiume Hudson, a New York, senza morti (forse ricorderete Sully, film di Clint Eastwood con protagonista Tom Hanks).

 

 

 

Si tratta solo di alcuni esempi tratti dalla storia ufficiale, utili a mostrare che, in qualche modo, quello che poteva sembrare un giorno qualunque ha influito o influisce ancora su di noi: chi non usa Wikipedia o, anche senza saperlo, l’Ansa? Chi non ha visto Happy Days? Chi non ha giocato a pallacanestro? Proprio la pallacanestro mi riporta all’essenza del giocare. Gli antropologi spiegano che giocare ci appassiona perché amiamo essere creativi e lottare all’interno di limiti precisi: che divertimento ci sarebbe nel calcio se tutti cominciassero a prendere la palla con le mani?

 

 

 

Nel gioco i limiti esaltano l’abilità. Ed è così anche nella vita. Infatti nel gioco che stiamo facendo adesso al posto del comandante Sully o di Nixon ci siamo noi come attori di questo lunedì 15 gennaio 2024, l’unico che ci sarà nella storia dell’umanità: che cosa faremo di «immortale» nei limiti di queste 24 ore? Con immortale intendo ciò che cambierà il corso della storia. Non parlo di gesta epiche ma di qualsiasi azione in cui siamo insostituibili, da una carezza che solo noi possiamo dare a una frittata che solo noi possiamo cucinare. Ogni scelta infatti dà alla storia un corso differente. Qualcuno forse ricorderà il furbo film dal titolo Lola corre(1998), un esercizio di stile che all’inizio recita così «Ogni giorno dovete prendere una decisione che può cambiare la vostra vita». Nel film una ragazza deve infatti decidere che cosa fare in una situazione tragicomica di vita o morte, e la stessa narrazione si ripete per tre volte con finali molto diversi perché ogni volta Lola, la ragazza, fa una scelta differente, una trovata che dal famoso Ricomincio da capo (1993) con Bill Murray al fantascientifico Edge of tomorrow (2014) con Tom Cruise ha nutrito molte trame.

 

 

 

Il momento della scelta è infatti l’appuntamento con la felicità, quando la libertà viene impegnata in modo insostituibile e irripetibile. Tutte le scelte in cui sono sostituibile non sono vere e proprie scelte: per questo spesso amiamo sparire nella massa, per starcene tranquilli, salvo poi volerne emergere a tutti i costi, per soffocamento o noia.

 

 

 

E allora immaginiamo che oggi sia il giorno in cui grazie a un lungo lavoro il governo potrà varare una riforma decisiva per rendere il sistema sanitario più accessibile, e il sistema scolastico meno burocratizzato, una di quelle riforme che passano alla storia con il nome del ministro che l’ha voluta. Così oggi un professore potrà dedicarsi ad aiutare uno studente in difficoltà invece di compilare un modulo che nessuno leggerà e un paziente otterrà una visita urgente per la settimana successiva.

 

 

 

Dei capi di Stato firmeranno un armistizio in una delle guerre in corso. Qualcuno darà dell’acqua alla pianta morente o raccoglierà la cacca che il proprio cane ha lasciato anche se nessun altro l’ha visto. C’è chi scriverà una lettera a una persona a cui vuol bene ma con cui il dialogo si è interrotto. E qualcun altro inizierà a leggere il libro che aspetta sul comodino da mesi; cucinerà una cena che nessuno si aspetta; metterà via il cellulare per il tempo di quella cena concentrandosi sul viso degli altri e sui loro racconti. C’è chi inventerà qualcosa di nuovo o parlerà un po’ con il cassiere/a, farà meglio l’amore o anche solo un sorriso.

 

 

 

 

Insomma, oggi, lunedì 15 gennaio 2024, si potrebbe vivere in modo unico, perché di fatto è l’unico lunedi 15/01/24 della storia, e quindi l’adagio «vivi come se questo giorno fosse l’ultimo» non dice altro che «questo giorno è l’ultimo perché è l’unico». Cerchiamo gioie senza fine ma siamo mortali, e così l’infinito è nella profondità con cui facciamo esperienza del finito: la quantità di senso che ha qualcosa che impegna libertà e creatività in uno spazio-tempo limitati (due ore di social o due ore con un amico?). Questo è «giocarsi» la vita. E anche se non dovessimo finire su Wikipedia, potrebbe essere un lunedì di indimenticabili gesta e memorabili gesti. Saranno tali magari non perché eclatanti o perché abbiamo vinto, ma perché l’unico insostituibile protagonista che avrebbe potuto compierli non si è tirato indietro dal gioco: tu.

 “La poesia è una questione di vita o di morte”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça

 

 

 

Di primo acchito, sorride. Gli occhi sembrano colibrì dietro la voliera delle lenti. Pare innocuo, un parroco di campagna – per questo bisogna stare in sospetto, tendere le gambe e le orecchie, come archi. José Tolentino è nato a Madeira, in Portogallo, a metà dicembre del 1965; ha quattro fratelli, lui è il più giovane. “Mio padre faceva il pescatore”, mi dice. È la seconda cosa che dice. La prima è una domanda. “Qual è il senso che usa quando scrive una poesia?”. Forse l’udito, dico. Mi piace sentire il rumore di un verso: a volte è un legno che si spezza, a volte un barrito, a volte anelli che ragliano in un secchio. In un paio di poesie, José Tolentino si chiede Cos’è una poesia. “Una poesia è una forma di apostasia. Non c’è vera poesia che non faccia del soggetto un fuorilegge”. E poi: “Una poesia segue le premesse della guerriglia urbana”. In portoghese la parola permissas mi rimanda a “promessa”: la poesia come promessa di guerriglia.

In Portogallo José Tolentino è riconosciuto come uno dei poeti più importanti di oggi: per quel che conta, ha ottenuto molti premi. Il primo libro, Os dias contados, esce nel 1990, l’anno in cui è ordinato presbitero. Di fronte a San Pietro: canonica fila di visitatori, aureolati da impermeabili dai colori sgargianti. Il colonnato di piazza San Pietro può sembrare un abbraccio – o un giogo. Il palazzo in cui ci ospita José Tolentino è enorme, vuoto, con vasti corridoi che danno su decine di stanze e uffici, decorati con severa eleganza. Sono insieme a Nicola Crocetti, l’editore di Tolentino; a me questa traboccante bellezza ricorda alcune scene di Shining.

 

José Tolentino, il poeta, è stato nominato arcivescovo da papa Francesco nel 2018; dal 2022 è Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione, che, tra l’altro – così leggo nella Praedicate evangelium –, “promuove e sostiene le relazioni tra la Santa Sede e il mondo della cultura”. Nel suo stemma campeggia un giglio giallo su scudo rosso, con questo motto, Considerate lilia agri; è tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Matteo: Gesù invita a non occuparsi “di quello che mangerete o berrete”, di non domandarsi “che cosa indosseremo?”, ma di cercare “il regno di Dio e la sua giustizia”. Il resto verrà di conseguenza.

 

Il cardinale – celato sotto la bonaria gentilezza di un parroco di campagna – ama Pier Paolo Pasolini, ricorda la Prima lettera ai Corinzi tradotta da Giovanni Testori, cita Eugenio Montale e Ungaretti. Non frequenta i poeti italiani, fa una vita ritirata, improntata alla solitudine e all’austerità: preferisce Milo De Angelis, di cui ha apprezzato anche la traduzione del De rerum natura di Lucrezio. Parliamo di Elizabeth Bishop in Brasile e dei suoi amici poeti, portoghesi, Ana Luísa Amaral, Eugénio de Andrade. La sua curiosità per la poesia di oggi è inesauribile. Ogni giorno, per mestiere, parla in almeno quattro lingue: non ha mai pensato di scrivere in inglese, o in italiano? “È più difficile liberarsi della propria madre che della lingua madre”, mi dice, laconico. “A me piace guardarle…”, mi dice. Siamo a tornati a parlare dei cinque sensi – o forse sei, forse sette, come le virtù – della poesia. “Le parole, intendo. Mi piace guardarle. Mi piace osservarle. Come fossero un presagio, un sortilegio”. Un gioco di prestigio, vorrei dirgli.

 

Prima di rispondere, allo scoccare di ogni domanda, il cardinale poeta fissa il vuoto, organizza la topografia del pensiero. Le sedie sono fin troppo comode.

 

Lei insiste spesso sui legami tra poesia e fede, elementi che possono apparire in contraddizione. La fede, intendo, è come se uniformasse, orientasse la direzione della poesia. Qual è il punto di giunzione che lega poesia e fede?

 

Questa è per me una domanda centrale. Noi siamo una rivelazione a noi stessi, ci sveliamo nel tempo. Ecco, per me l’espressione letteraria è affine all’esistenza: la poesia è cioè una questione di vita o di morte. La poesia ha fatto ingresso durante il mio cammino di ricerca spirituale. Sono entrato in seminario a undici anni: nella costruzione di me stesso poesia e fede hanno trovato una forma di coesistenza, di unità. Non è un caso se nell’anno in cui sono stato ordinato prete, nel 1990, ho pubblicato la prima raccolte di poesie. D’altronde, se un avvocato, un medico o un calciatore possono essere poeti, non si vede perché non lo possa essere un prete…

 

…ma poesia e fede non sono la stessa cosa…

 

Le dico di più: poesia e fede non convivono pacificamente. Secondo il cardinal John Henry Newman il discorso della fede riguarda l’aderire a una particolare grammatica. La poesia, invece, chiede solitudine e deserto, uno svuotamento radicale. La pagina bianca non è altro che una metafora della nudità che un uomo deve sperimentare davanti alle domande fondamentali della vita. Per quel che mi riguarda, non sono capace di scrivere una poesia “confessionale”, non mi interessa una poesia dottrinale o catechetica. Nella mia poesia Dio non è mai esplicitato: è una presenza, una domanda, all’orizzonte. Quando per me sarà facile parlare di Dio, lo avrò tradito in ciò che profondamente è.

 

Eppure, c’è chi ha fatto della poesia una forma di fede, ha eletto la poesia a proprio dio.

 

Provo a rispondere alla sua domanda formulandola in questa maniera: la poesia è in grado di salvare l’uomo? No, perché nessuna parola umana è sufficiente. Ma è questa insufficienza la ragione della sua grandezza. Questa insufficienza ci pone sulla soglia di qualcosa. Poesia e letteratura, in fondo, fondano l’uomo come una figura dell’attesa. La poesia non redime l’uomo, non risponde al suo enigma. La poesia fa di ciascuno di noi un’attesa: ci colloca in prossimità di qualcos’altro, ed è tanto, tantissimo. Sono certo che cancellare la trascendenza sia un errore, una dannazione.

 

Lei ha detto, durante un incontro pubblico, che “Gesù è un poeta”: cosa voleva dire?

 

La figura di Gesù provoca in me uno stupore senza fine perché Egli è veramente estraneo alla terra, eppure è il più vicino all’umanità, il più umano tra le creature. Le sue parabole aprono cammini e possibilità prima inesistenti, suo è il potere rigenerante della parola. Gesù incarna nel suo stile la potenza del Verbo: sa andare oltre le frontiere, porta in sé una visione più ampia, solitaria e autentica. Controcorrente. In questo senso è davvero poeta: guarda alla realtà dislocando il suo senso in un oltre. Anche quando la poesia parla del presente, non coincide mai con questo presente, viene da più lontano e va più lontano. Gesù esprime una poetica chiara nei suoi gesti: segna la realtà con vigore poetico. I miracoli esistono perché esiste una poetica di Gesù, che vuol dire rifare il mondo e il suo detto.

 

Quando parla di poesia, mi accorgo che usa spesso le parole “deserto” e “solitudine”, come mai?

 

C’è pure quel brano di Osea, paradossale, in cui Dio dice “la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”. È il movimento che fa la poesia. La poesia lavora sempre in ciò che ignoriamo di noi, mai in quello che abbiamo già visto; la poesia odia il facile, ci fa abitare in una complessità austera che si rispecchia nell’immagine del deserto. A un primo livello, è vero, nella mia poesia c’è la descrizione della vita comune: un critico, a questo proposito, ha scritto che con i miei versi le buste del supermercato sono entrate per la prima volta nella lirica portoghese. Eppure, la poesia chiede di andare oltre la realtà: pretende il deserto, il silenzio.

 

Nei suoi lavori, usa spesso la letteratura per rischiarare alcuni problemi teologici: cita Pessoa, Clarice Lispector, i poeti contemporanei…

 

Paul Claudel credeva che la poesia fosse una propedeutica necessaria al discorso teologico. Ringraziava Dio dell’esistenza di Rimbaud perché senza la sua “mistica selvaggia” non sarebbe mai arrivato a Dio. Voglio dire: la poesia e la letteratura affinano i nostri sensi naturali per attivare i sensi soprannaturali. Offrono una capacità di ascolto, di ospitalità, che l’orecchio di per sé non possiede. La letteratura è il veicolo privilegiato della vita, pone questioni disarmanti: se la teologia la ignora rischia di ingarbugliarsi in un discorso autoreferenziale, incapace di incidere sulla realtà.

 

Quali sono i libri che la hanno formata?

 

Naturalmente la Bibbia, che è grande letteratura. La Bibbia è una grande mistagogia spirituale, ma anche letteraria. Capiamo davvero la poesia quando rileggiamo il Cantico dei cantici, i Salmi, il libro di Giobbe. Amo molto i lirici greci e mi sento vicino ai poeti portoghesi del nostro tempo, senza i quali sarei una persona molto diversa da quella che sono. Pessoa ha avuto un grande impatto su di me, ma anche Ruy Belo ed Eugénio de Andrade, di cui sono stato amico. Non mi convince chi preferisce leggere i poeti del passato, ignorando quelli del proprio tempo. Il dialogo con i contemporanei mi ha nutrito sempre; come l’ordinarietà priva di pompa che trovo leggendo i classici, che mi seduce sempre.

 

Lei ha tradotto in portoghese le poesie di Cristina Campo e ha fatto tradurre Gli imperdonabili per l’editore Assírio & Alvim. Come giudica la lotta di Cristina Campo per la tutela della liturgia latina, la sua vicinanza a Monsignor Marcel Lefebvre?

 

Cristina Campo è un poeta, e un poeta è sempre una figura del dissenso. Il poeta ha il dovere di portare in sé la domanda, deve parlare di ciò di cui non si può parlare. Ho conosciuto Cristina Campo leggendo la sua magnifica introduzione ai Detti e fatti dei padri del deserto, poi ho scoperto le sue poesie. Non ho dubbi che con il tempo la Campo sarà vista sempre di più come una madre del Concilio Vaticano II. Intendo dire che in ciò che allora era un’opposizione scorgo ora un richiamo alla fedeltà alla tradizione, a conservare qualcosa di essenziale, che la Chiesa non può permettersi di perdere. La sua figura ha rafforzato il cammino della Chiesa contemporanea, ricordandoci cose decisive: il concetto di inattualità, ad esempio. La missione della Chiesa non può non ascoltare il nostro tempo: eppure, non può ridursi a un mero aggiornamento coi tempi, che appiattisce la missione stessa. Il cristianesimo deve restare inattuale. Non perché ancorato nel passato, ma perché ha in sé una carica profetica: la forza essenziale del cristianesimo arriva dal futuro.

 

Ricordo, ancora, l’intransigente battaglia della Campo per la bellezza della liturgia: siamo passati dai cori gregoriani alle schitarrate, ai preti “al passo coi tempi”.

 

Dobbiamo dire che c’è stato un diffuso mutamento culturale, un abbassamento generalizzato, nella cultura comune, della comprensione musicale. Tuttavia, io resto in una prospettiva ottimistica: ancora oggi nelle chiese si canta insieme; ancora oggi si conserva nella liturgia una qualità della parola e della musica. La liturgia, cioè, è ancora tradizione umana di alto valore. Le parole della Campo, così, precisano una esigenza profonda: dobbiamo fare di più nel custodire la liturgia. Ricordo quanto diceva Romano Guardini: per capire la liturgia dobbiamo capire il rapporto di un bambino con il suo giocattolo, quella forma allo stesso tempo inutile e decisiva. La preghiera non è “utile”: come non sono utili le rose o il blu del mare o le dichiarazioni d’amore. Eppure, proprio queste eccedenze, che non coincidono con i bisogni primari, sono ciò che pertiene alla nostra umanità.

 

Benedetto XVI la ha nominata consigliere del Pontificio consiglio della cultura; Francesco la ha eletta Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione: esiste una differenza di ‘poetica’ tra i due papi?

 

Ogni papa porta con sé delle differenze, di cui non dobbiamo avere paura. Papa Ratzinger trascinava la monumentalità di una visione teologica del cristianesimo in rapporto al contemporaneo. Interpretava la contemporaneità intuendola, da una parte, come una chance, dall’altra scorgendone i pericoli, i riduzionismi, i relativismi. Capiva con capillare potenza gli incubi del nostro tempo. Papa Francesco incorpora un’altra poetica. A me, ad esempio, affascina il suo modo di ragionare. Mentre Benedetto XVi ragionava come un maestro, squadernando concetti, Francesco ragiona per immagini. In questo è davvero straordinario. Quando gli pongono una domanda, il papa inizia il ragionamento in questo modo: “mi vengono in mente due immagini…”. Ragionare per immagini ha una forza impressionante, che tutti capiscono, perché più universale, tocca livelli non solo concettuali ma anche emozionali.

 

Nella Chiesa di oggi vige una “poetica” o piuttosto una “politica”?

 

La politica esiste sempre: riguarda il rapporto delle persone con la storia e con il mondo. Credo però sia prevalente una visione poetica, che è il campo dello spirituale. Penso ad esempio alla capacità di Francesco di costruire parabole indimenticabili: tutti ricordiamo il papa durante la pandemia, in un momento di grave crisi planetaria, che prega in una piazza San Pietro vuota…

 

Lei cita la figura del papa durante il Covid; io controbatto dicendole che proprio in quel periodo i fedeli si sono sentiti soli, con le Chiese chiuse, l’impossibilità di celebrare i funerali, in una specie di dismissione del mondo cattolico.

 

La forza del cristianesimo, penso in questo all’epistolografia paolina, è che non dipende da uno spazio ma dalla qualità di un rapporto. In condizioni estreme l’umanità può pregare? Sì, questo è possibile. La pandemia è stata una situazione estrema, che ci ha sorpresi impreparati e di cui sappiamo ancora poco. Io sono meno pessimista di lei: lo spirituale non è venuto meno durante il Covid, anzi, ha proliferato nei gesti minimi, in un cristianesimo minimo, nella riattivazione della Chiesa “domestica”, ad esempio. Un cristianesimo bocca-a-bocca, mi viene da dire, dal contagio diverso, ma dall’intensità abbacinante. Un cristianesimo che guardava alle origini, che sempre aiutano a decostruire tante paure.

 

Quali sfide attendono il cardinale, quali il poeta?

 

Ero poeta prima di diventare cardinale: rimango poeta. Cerco di abitare questa tensione, una tensione di cui io in primo luogo devo essere cosciente. Devo, cioè, vivere con autenticità il fatto di essere un uomo di Chiesa, con molte responsabilità, restando però allo stesso tempo me stesso. La poesia, che porto nella Chiesa, non è una minaccia: ha in sé una visione, una forma diversa di ascolto.

 

Cosa del Vangelo, oggi, continua a folgorarla?

 

In questi tempi leggo, in modo ricorrente, i passi del Vangelo che valorizzano le briciole. Siamo sempre più consapevoli che il banchetto che ci è destinato è fatto di una moltitudine di briciole: dobbiamo raccoglierle. Nelle briciole si scopre il sapore della totalità. Viviamo nella frammentazione, ma il frammento ci permette un percorso elitario, spirituale; la donna cananea insegna che “i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (Mt 15, 27): Gesù valorizza, elogia la fede di quella donna. Per me, poi, il grande libro del nostro tempo è il Cantico dei cantici, un vademecum dell’innamoramento. Il futuro esiste soltanto se sappiamo innamorarci ancora, abbiamo bisogno di cuori innamorati.

 

Eppure, nel Cantico Dio appare forse una volta sola…

 

…è vero, ma è sempre presente, anche quando non sembra che ci sia. Dio preferisce entrare a casa nostra quando non ci siamo. Non è male che sia così.

 

Cos’è l’ispirazione? Esiste un rapporto tra poesia e profezia?

 

Secondo Rimbaud, il poeta è un veggente. Credo che sia così. Non esiste poesia senza visione. Il poeta deve catturare per primo i segni dell’invisibile, dell’inudibile, e restituirne l’ampiezza, la forma, l’opportunità. Credo nella dimensione profetica della poesia. Quando si riduce a status quo, la poesia è morta: la poesia, al contrario, deve parlare di mondi mai visti, di cose che non hanno avuto ancora luogo, di cammini che si possono ancora percorrere. Offre immagini che non si trovano nei media o nei social. La poesia non deve coincidere con il suo tempo, tanto meno con il linguaggio del tempo. La sua frattura, però, è feconda.

 

Lei è stato archivista della Biblioteca vaticana, ed è, in sostanza, un uomo del libro: come si relaziona con i social?

 

Capisco che i social e la rete rappresentano una sfida decisiva: viviamo un cambiamento epocale. Il digitale non è soltanto un mezzo, un canale: prevede un nuovo pensiero, un nuovo modo di abitare il mondo, una nuova lingua. Per questo, abbiamo bisogno di traduttori. Penso al cristianesimo, nato come una realtà rurale ed ebraica: in Paolo ha trovato il primo geniale traduttore di concetti. Il nostro compito è accompagnare questa umanità in un tempo nuovo, in un mondo che ancora ignoriamo. Forse siamo la prima generazione nella storia che vive in prossimità dello sconosciuto, che non sa cosa accadrà domani. Questo ci fa tremare, ma ci obbliga a vedere l’ignoto come una opportunità. Siamo gli ultimi, ma al tempo stesso i primi. Abitare questa soglia richiede coraggio e saggezza.

 

In questa soglia, tuttavia, il poeta resta l’indifeso assoluto, il puro inutile, recintato nell’indifferenza: tutti hanno qualcosa da dire, con ogni mezzo, ovunque, mentre al poeta è reiteratamente tolta la parola.

 

Oggi il poeta è la figura dell’idiota. Si guarda alla poesia come a un’idiozia. Il poeta è una figura che fa ridere, considerata minore, ai margini della cultura dominante, priva di rilevanza. Mi viene in mente quanto scrive San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: “siamo stolti a causa di Cristo” (1 Cor 4, 10). Eppure, il mondo è salvato dagli idioti. Il Vangelo, dal punto di vista del buon senso, è un fallimento; le figure redentrici della storia sono figure che hanno costellato di “idiozie” il loro passaggio. Cristina Campo diceva che è proprio nel periodo in cui l’anima viene meno che dobbiamo guardare ai gigli del campo. Proprio questo tempo, in cui la poesia è uno spreco, non si può fare a meno dei poeti. Tornando dal viaggio apostolico in Giappone, nel 2019, Papa Francesco ha detto: “credo che all’Occidente manchi un po’ di poesia”. Abbiamo bisogno di poeti per ricostruire il reale. La clandestinità del poeta è una risorsa per il contemporaneo, un patrimonio di sete. Nella poesia noi non troviamo acqua, ma sete; non troviamo dolcezza, ma aridità; non ricaviamo una soluzione, ma uno spazio aperto, l’esordio di un cammino.

 

 

Davide Brullo

 

Chiara Giaccardi "Generatività: dalle radici ai fiori"

 

 

 

Perché anche generare è un processo antropologicamente originario: non mettere dentro, bensì mettere fuori, far esistere, dare inizio. Niente a che vedere con la morale, il dover essere, la normatività sociale: si tratta di assecondare il movimento della vita. Una spinta traboccante, che non rimane ingabbiata nel perimetro angusto del nostro io, ma lo forza dall’interno, lo apre, lo sbilancia oltre se stesso in un movimento che lo fa crescere e sentire vivo.

 

L’eccedenza che sovrabbonda è pulsione di vita, per scomodare Freud, e non va confusa con la pulsione di morte che si cela dietro i nostri tanti eccessi: quando non siamo più capaci di sentire la vita, protetti dietro ai nostri muri difensivi e ai nostri schermi, per riuscire a sentire qualcosa abbiamo bisogno di andare vicino alla morte. Lo cantava già Battisti già nel 1970: “e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire”.

 

 

 

La via generativa è la via dell’eccedenza.

 

 

 

Del prendersi dei rischi, ovvero dello scommettere sulla vita senza lasciarsi paralizzare dalla paura di perdere, di fallire, di non farcela. E non è un caso che nella società che sogna il rischio zero e la messa in sicurezza di tutto, la fiamma vitale sia così bassa.

 

Generare non è riducibile né a procreare né a fabbricare (realizzare uno scopo materiale in modo sempre più efficiente e standardizzato), e nemmeno si riferisce alla intelligenza artificiale generativa di cui sempre più si parla (e che è tutt’alpiù una estrazione di informazioni dai dati già disponibili) ma ha a che fare con tutte le forme del creare, del lavorare, del produrre, dell’agire che, nel loro significato antropologicamente più ampio, sono riconducibili a questo movimento vitale e originario.

 

Etimologicamente, generare è collegato a tutta una serie di termini come ‘generosità’, ‘genialità’, ‘genitore’, ‘genesi’, ‘gente’, ‘genuino’, ‘originale’.

 

Parole e concetti che condividono la radice latina gen, che esprime l’idea di qualcosa che ‘viene alla luce’, ‘germoglia’ e che è capace di durare nel tempo lasciando un segno, fino a creare una tradizione (come nel caso di una gentes, cioè di una famiglia).

 

La stessa parola felicità deriva dal latino ‘fecundus’ che indica appunto la capacità della vita di generare altra vita. “Ciò che è vivo dà frutto”, scriveva Schelling. E per capire se una pianta è viva o morta guardiamo se anche da rami apparentemente secchi riesce a spuntare qualche nuovo germoglio.

 

Ma ancora più espressiva è la radice greca. Il gen latino, infatti, viene dal verbo greco gignomai che significa essere, far essere, far accadere, e anche diventare. Perché, come scriveva Paul Valéry, “ciò che facciamo, ci fa”: generare è ciò che, facendo essere, ci fa essere.

 

 

 

Il circolo virtuoso

 

 

 

Generare, dunque, non é l’effetto di un imperativo morale. Al contrario, è espressione di quella energia interna che apre le persone al mondo e agli altri, alla ricerca di un senso, così da metterle in grado di agire efficacemente e contribuire creativamente a ciò che le circonda.

 

Generare tende a instaurare un circolo virtuoso, in cui ciascuno raggiunge la soddisfazione personale mentre arricchisce il contesto sociale. Un gioco a somma positiva in cui tutti, in una certa misura, escono avvantaggiati: chi agisce – diventando autore a tutti gli effetti della propria vita – e il contesto circostante – che beneficia del lavoro di ricostituzione del legame sociale, che tende sempre a spezzarsi.

 

La generatività è un modo di riconoscersi nel legame: non siamo individui che fanno e fanno e disfano relazioni, ma siamo individui in quanto relazione: la relazione ci precede, gli incontri (ma anche gli scontri, le eredità, i maestri, i traumi, tutto ciò che da fuori di noi ci convoca) ci sollecitano a diventare ciò che siamo, e ciò che facciamo modifica il contesto circostante e condiziona altri. L’individuo è un’astrazione (che vuol dire separazione) e la concretezza è che noi siamo relazione.

 

E questa non è una minaccia per la nostra realizzazione (anzi, ne è la condizione) e tantomeno per la nostra libertà. In una concezione individualistica l’altro è uno strumento da usare o un ostacolo da rimuovere (con le drammatiche conseguenze che abbiamo sotto gli occhi).

 

 

 

Generatività: atti di liberazione

 

 

 

In una prospettiva generativa la mia libertà si realizza non scegliendo tra ciò che già, ma facendo esistere ciò che ancora non c’è. Poiché siamo unicità irripetibili, siamo nati per incominciare, scriveva Hannah Arendt: per dare inizio, per portare qualcosa di inedito nel mondo. La libertà non è il gioco infinito delle possibilità, dove per restare aperti a tutto non facciamo esistere niente: il “vuoto di una libertà negativa, puro essere possibile, aumento quantitativo e sterile delle possibilità, che genera solo equivalenza in cui nulla ha valore davvero”, come scriveva Maria Zambrano.

 

Piuttosto, è capire per cosa siamo fatti, cosa poter far esistere, a cosa ci possiamo affezionare (cioè legare): perché senza legame la libertà è vuota. Lo scriveva W.H. Auden: “L’Uomo deve innamorarsi di Qualcosa o di Qualcuno, o altrimenti ammalarsi”.

 

Contro il senso comune individualista, da cui cui discendono società sospettose e spente, valgono le parole di Miguel Benasayag, nel suo libro L’epoca delle passioni tristi, che rimane sempre attuale:

 

“La mia libertà non è ciò che finisce laddove comincia quella dell’altro, ma anzi comincia dalla liberazione dell’altro, attraverso l’altro. In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono soltanto atti di liberazione che ci connettono agli altri.”

 

Mi libero liberando, perché tutto è connesso (persone, ambiente, generazioni future): siamo una comunità di destino.

 

Generare non è prescrizione di comportamenti specifici, ma una matrice di infinite possibilità vitali, basata su un dinamismo fatto di una spinta (il desiderio, da non confondere con le pulsioni o la brama di oggetti, persone, potere) e tre movimenti: il mettere al mondo, come atto supremo di libertà creativa; il prendersi cura, come dinamismo trasformativo e capacità di affezione; il lasciar andare, per far transitare la libertà su altri, per far vivere, anziché soffocare o voler controllare, ciò a cui abbiamo dato inizio, per rafforzare il legame di fiducia (da fides, che vuol dire corda, legame) con le generazioni che verranno.

 

Perché, come scrive Maria Zambrano,

 

 

 

 

“le radici devono aver fiducia nei fiori.”

Per una spiritualità

 

dell’Incarnazione

 

 

 

Mario Delpiano

 

 

 

Qualche premessa

 

Che senso ha parlare di spiritualità?

 

Parlare o riflettere sulla “spiritualità” non è questione da prete o da suora. La nostra cultura oggi è così matura che riconosce che la risorsa umana “spiritualità” è una risorsa dell’uomo, di tutto l’uomo. Ogni uomo o donna, persona vivente e consapevole, possiede e coltiva una propria spiritualità.

La spiritualità ci serve per vivere degnamente da “umani”: essa consiste in un insieme di simboli, di memorie, di significati che danno “senso” (gusto e sapore) alla vita di tutti i giorni e indicano “una direzione” verso cui orientare e regolare la vita stessa (sistema di valori e progettualità, sogni, speranze).

 

Quale spiritualità

 

Ma quale spiritualità? In un tempo di pluralismo, esistono modelli diversi di spiritualità, ma non possiamo dire che uno vale l’altro. L’esigenza e la ricerca è quella di una spiritualità per essere uomini e donne di oggi, credenti nel Signore Gesù e suoi “discepoli” senza dover essere uomini e donne di altri tempi.

 

Ci sono alcuni modelli circolanti:

- una spiritualità “disincarnata”, che non fa i conti con la storia di oggi, con i nostri problemi e la speranza; una spiritualità per la quale è irrilevante la “vita”, e in particolare la “vita quotidiana” come insieme di trame di relazioni, di esperienze, di simboli, di significati, di interrogativi che emergono dalla vita.

- una “spiritualità dualistica”, che separa l’anima dal corpo, che separa l’al di qua dall’al di là, la salvezza dell’anima dalla felicità e la giustizia sulla terra, e dunque tutta concentrata sull’aldilà e che poco presta attenzione alla vita dell’aldiqua. Una spiritualità che usa le categorie dell’orizzontale e del verticale, una spiritualità che distingue tra “immanente” e “trascendente”, una spiritualità che distingue tra sacro e profano, per cui tutto quello che facciamo è “al di fuori del tempio” o solo sulla soglia, e quello che c’è dentro manco lo sfiora; una spiritualità autoritaria invece di una spiritualità che responsabilizza e affida a ciascuno la responsabilità sulla vita e sulle sorti del mondo dell’uomo.

In questo senso è quanto mai urgente, per l’uomo e la donna di oggi che vogliono essere credenti nel Signore Gesù, riscoprire le radici e i fondamenti evangelici di una spiritualità che voglia dirsi cristiana.

 

L’evento dell’Incarnazione

 

Alla radice della spiritualità e della vita cristiana: l’Incarnazione

 

L’Incarnazione è un evento, cioè un insieme di fatti storici interpretati, e un punto di vista, e perciò di lettura/interpretazione della vita e della vita quotidiana alla luce della fede.

L’evento si riferisce alla figura, persona e storia di Gesù di Nazareth, come Lui l’ha vissuto e compreso, e come è stato vissuto, incontrato, conosciuto, compreso, interpretato dai discepoli che lo hanno seguito e dalle prime comunità dei credenti che hanno riscoperto la fiducia=fede in Gesù dopo l’esperienza “straordinaria e sorprendente” della resurrezione.

- Dunque l’Incarnazione dice la lettura con “sguardo credente” della storia di Gesù e dell’esito di questa storia (è il vivente, è risorto, ha vinto la morte …), oltre che immediatamente del suo ingresso nella storia dell’uomo come Dio che si fa uomo.

- Questo “sguardo di fede” che legge oltre, coglie l’invisibile nel visibile, è soprattutto e anzitutto un “dono dello Spirito del Risorto”, a chi crede, o meglio, ad ogni uomo e donna che si aprono alla fede in Gesù il Signore della vita. Senza lo Spirito donato a noi e accolto, non possiamo nemmeno confessare nella fede che Gesù è risorto ed è il Signore, e meno che meno anche che egli è “Emanuele”, cioè Dio-con-noi.

 

In che cosa consiste questo evento e come ci è giunto?

 

Ci è giunto da comunità semplici di discepoli che hanno dato anche la vita per questa “bella notizia” e ce l’hanno raccontata e tramandata.

La bella notizia è che Dio nella persona di Gesù, uomo come noi, non solo ci parla a nome di Dio, ma la bella notizia è che nella persona di uomo, nel vissuto, nella storia di un uomo chiamato Gesù di Nazareth, Dio ci mostra il suo volto umano, la sua voce, il suo sguardo, le sue carezze, la sua mano tesa, il suo abbraccio riconciliante.

Ricordiamo due testi molto noti:

- Gv. 1,14 “Colui che è “la Parola” (dabàr, logos) è diventato uomo, ha vissuto in mezzo a noi uomini. Noi abbiamo contemplato il suo splendore divino”.

- 1 Gv. 1, 1-3: “La parola che dà la vita esisteva fin dal principio: noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani. La Vita si è manifestata e noi l’abbiamo veduta. Siamo i suoi testimoni e perciò ne parliamo… “

 

Al centro dell’evento sta Gesù di Nazareth: una persona umana, che ha una storia, un nome, una patria, un territorio, che ha vissuto la sua vicenda umana entro un segmento di tempo preciso, per di più 20 secoli fa!

Questo Gesù ha suscitato una esperienza di sconvolgente e radicale novità in molti uomini e donne. Lo confessano nella fede il Cristo, il Messia atteso, il Signore della vita, l’unico Nome in cui è possibile ottenere la salvezza (cioè avere vita piena e abbondante). Riuniti nel suo nome si riconoscono come Chiesa, che continua la sua causa, in ogni tempo e in ogni luogo. La vita nuova che vivono e la prassi che attivano, per continuare ciò che Gesù ha detto e fatto, fanno parte dell’Evento stesso.

L’incarnazione, l’umanità di Gesù e la presenza di Dio nella sua vita, sono l’esperienza centrale e fontale della sua vita e della fede che ha suscitato nei discepoli.

L’evento dell’Incarnazione è dunque un fatto preciso della vita di Gesù: Dio per salvare l’uomo ha deciso di farsi uomo, uno di noi, ed è diventato uomo con la collaborazione di tante altre creature (pensiamo a Maria e Giuseppe, al linguaggio misterioso e straordinario per raccontare che Dio assume la propria vita umana in una donna semplice e sconosciuta… come tutti i nati di donna).

 

Una prospettiva per la vita

 

Ma l’incarnazione non è solo questo, un “evento”. Essa è la prospettiva da cui leggere e comprendere in modo più preciso tutto quello che Gesù ha detto e fatto per rivelarci quanto Dio ha da dirci e da offrirci. Essa ci fa comprendere chi è Gesù e chi è per noi. Ed è anche la prospettiva da cui leggere e comprendere il senso della nostra stessa vita, della vita quotidiana.

 

Gesù ci rivela il vero volto di Dio: chi è e cosa vuole: un Dio per l’uomo, presente e nascosto

 

Gesù. Le sue parole, la sua storia, in particolare il suo esito nella croce e risurrezione, ci dicono qualcosa su Dio e su che cosa vuole e pensa Dio dell’uomo, della vita di ciascuno.

Anzitutto Gesù ci rivela un nuovo volto di Dio, perché finora nessuno mai l’aveva visto né incontrato. Gesù, ci dice Giovanni, è colui che ce lo rivela in pienezza.

Se analizziamo tutto quanto Gesù ci dice e ci racconta di Dio, il volto di Dio che ci rivela nella sua stessa umanità, non ci vuole molto nel concordare che il Dio di Gesù (quello a cui si rivolge come a un Padre da Figlio) è il Dio della vita, che vuole la felicità per l’uomo. È un Dio-per-l’uomo, e che fa della vita dell’uomo l’espressione più radicale della sua “gloria” (cioè la cosa che a Dio sta più a cuore).

Gesù capovolge l’idea di “gloria di Dio” dominante, sottesa all’uso che ne facciamo.

Sant’Ireneo esprime ciò con un linguaggio irrepetibile: “La gloria di Dio è l’uomo che vive”. Ancora di più la Conferenza episcopale latino americana, quando a Puebla esprime la comprensione di questa affermazione a partire dalla scelta dei poveri “la gloria di Dio è il povero (cioè il non-uomo) che vive in pienezza”.

Tornando alla storia di Gesù, pensiamo alla disputa con i farisei a proposito della guarigione avvenuta di sabato di quel povero uomo dalla mano secca (Mt 12,1-14): Per la teologia dominante Dio andava onorato prima di tutto rispettando il sabato. L’uomo paralizzato poteva aspettare; sei giorni della settimana erano a sua disposizione, il settimo invece era tutto e solo per la gloria di Dio. Per il Dio di Gesù il sabato è onorato quando chi è menomato viene restituito a tutta la sua piena abilità di vita. Gesù propone una visione di Dio molto diversa. La vita e la felicità dell’uomo sono la grande passione di Dio e la proclamazione della sua gloria. Anche le regole, i precetti, la legge sono solo ed esclusivamente in funzione della vita dell’uomo e di ciascuno in particolare. Gesù non chiede di scegliere tra Dio e la felicità dell’uomo. Afferma senza mezzi termini che la gloria di Dio sta nella felicità dell’uomo. Potremmo dire: “Dio è felice solo quando ciascun uomo, ciascuna donna è felice!”

Ma le parabole e gli incontri di Gesù ci rivelano alla fine un volto così radicale di Dio che i suoi contemporanei stentano a riconoscere e ad accettare: pensiamo alla storia della donna adultera, o alla storia di Zaccheo, lì Gesù svela un volto e uno stile di relazione con chi ha sbagliato e vive fuori della legge dell’amore che stupisce, affascina e disarma, ma che fa anche arrabbiare i benpensanti: il volto di un Dio misericordioso la cui gioia più grande è quella dell’abbraccio del peccatore e della fiducia che egli viene cambiato nell’esperienza sorprendente dell’amore.

Quando l’uomo si sente amato non resta più come è, ma inizia il suo cammino di cambiamento! (pensiamo al valore pedagogico per i nostri ragazzi!!!).

 

Ma questo non basta. Ciò che Gesù ci rivela di Dio è ancora oltre, perché Gesù rivela e manifesta Dio secondo modelli comunicativi che ripetono la logica fondamentale di ogni parola umana. Gesù pone dei gesti, messaggi, parole che hanno un loro preciso spessore e sapore storico. Possono essere compresi e decifrati attraverso gli schemi interpretativi con cui ogni giorno valutiamo le nostre esperienze.

Nel profondo di questi gesti, parole, messaggi, Gesù è Dio che si manifesta all’uomo.

Le parole umane, i gesti e le realtà della vita quotidiana del suo tempo diventano segni della presenza di Dio nella storia dell’uomo. Segni di una presenza che è anche assenza.

Il passaggio da quello che si percepisce nella comunicazione umana di Gesù, al “mistero che si porta dentro” e che il segno esterno (parola, gesto) intende rivelare, richiede sempre uno sguardo penetrante, che sa leggere nel profondo, fatto di intreccio di amore e fantasia: richiede la fede. Solo nella fede dell’interlocutore i gesti, i messaggi, le parole di Gesù esprimono totalmente il mistero di Dio e ne svelano il mistero.

Qualche volta la fede è facile, perché il segno esterno è tutto trasparente del mistero di Dio: così è capitato per la madre di Naim che ha scoperto chi è Dio per lei quando, stringendo tra le braccia il figlio morto che aveva pianto, se lo è visto restituire vivo. Così per Lazzaro e le sorelle, l’amico risuscitato da Gesù. E tanti altri gesti stupefacenti di Gesù che hanno facilmente aperto gli occhi al mistero che questo uomo di Nazareth portava con sé.

Altre volte la lettura è molto più complessa. Avranno faticato non poco i venditori del Tempio che si sono trovati le bancherelle rovesciate e la merce sparpagliata in ogni dove… Per non parlare dell’evento culmine della vita di Gesù, il fallimento della sua vita, morto sulla croce e abbandonato. Quanto tempo c’è voluto perché gli apostoli, il circolo degli amici più vicini a Gesù, cogliessero in quell’evento la “presenza” nella assenza di Dio.

La conclusione è questa: Gesù ci rivela il volto di un Dio che è tutto per l’uomo e che non gliene importa proprio di sé!

La “gloria di Dio” non è un concetto narcisista, ma esattamente il suo rovesciamento: la dimenticanza di sé perché l’altro viva in pienezza.

 

Gesù, volto e parola di Dio, rivela all’uomo chi è l’uomo

 

L’incarnazione ci fa scoprire il significato e il valore dell’umanità dell’uomo, il valore della nostra umanità.

Dio, facendosi uomo in Gesù, ha manifestato quanto è grande il suo progetto sull’uomo e la sua grandezza.

L’uomo, la sua umanità possono diventare capaci di rivelare Dio, di esserne specchio, simbolo, icona.

In Gesù Dio ha assunto un volto umano. L’umanità di Gesù è Dio con noi: l’evento nuovo e insperato in cui Dio stesso, rimanendo Dio, si è fatto vicino, volto e parola, per incontrare l’uomo e offrirgli la possibilità di vivere da Dio.

La sorprendente novità testimoniata da Fil 2, 6-8 sta proprio in questo: “Dio non ha abbandonato la forma di Dio per prender quella di “servo” ma è diventato pienamente uomo, pur continuando ed essere Dio, facendosi servo dell’uomo”.

Per questo l’incarnazione è anche la rivelazione più piena dell’uomo; rivela la sua sconfinata grandezza.

La umanità di Gesù e la nostra possono manifestare, rendere presente ed esprimere il volto di Dio, perché l’umanità dell’uomo è stata fatta radicalmente capace di manifestare Dio, ciò che è e ciò che gli sta a cuore. L’incarnazione è cominciata proprio dalla creazione: questo primo gesto di chiamata alla vita, di salvezza, indica che Dio ha creato un uomo e una donna capaci di essere “volto”, sguardo, gesto, parola, carezza di Dio.

Se l’uomo non fosse stato costruito così, Gesù di Nazareth non avrebbe potuto essere Dio con noi, perché la sua umanità sarebbe stata incapace di offrire “una tenda” a Dio.

C’è chi nella storia della fede ha preso così sul serio l’umanità di Gesù fino ad arrivare a dire che non era né poteva essere Dio; e chi invece sottolineandone la sua divinità è arrivato a cancellare e negare l’umanità di Gesù.

Sono i due paletti che la fede consolidata della chiesa ci pone di tanto in tanto per non perdere il tesoro di questo Evento dell’incarnazione.

 

Qualche precisazione

 

Quale tipo di umanità è in grado di svelare il volto di Dio in maniera più trasparente?

 

Ma dobbiamo leggere in profondità l’umanità e la storia così scandalosa e disorganizzante dell’umanità di Gesù: Gesù ci dice anche quale uomo diventa icona di Dio. Egli è stato radicalmente l’uomo per gli altri, votato pienamente perché l’uomo viva in pienezza, e per questo ha affrontato anche la consegna fiduciosa della sua vita a perdere, sotto la violenza delle istituzioni e degli uomini. “Fidandosi”. Egli è colui che raggiunge tutte le più estreme possibilità di esistenza umana, raggiungendo in pienezza l’abbandono totale al mistero di Dio proprio nel momento del fallimento e del rifiuto da parte degli uomini. E qui sta il dramma della storia di ciascuno di noi. Una umanità che si sottrae al progetto di Dio sull’uomo, e che nella tragica libertà, sceglie la via del non-uomo, della “dis”-umanità.

In questo Gesù rivela quale vetta di umanità l’uomo può raggiungere: consegnare con fiducia la propria vita per la vita degli altri perché ci sia vita, per amore: “nessuno ha un amore più grande di chi consegna la propria vita per il fratello che ama”. E da questo amore radicale sboccia il per-dono.

 

Allora Gesù rivela anche il “senso” della vita dell’uomo e lo propone a noi: vivere la vita come dono e perdono.

La vita come dono è la consapevolezza che tutto abbiamo ricevuto gratuitamente, una immensità di doni (e il Natale è il tempo dei doni) e che la nostra vita è la responsabilità a far sì che “dono” continui a essere: la nostra vita dono per gli altri. Essere uomini vuol dire scoprire di essere “donati” e acconsentire a che la nostra vita sia “donata per gli altri”.

Ma la vita di Gesù registra amaramente anche il rifiuto del dono. Il rifiuto della vita come dono. In questo senso la vita diventa accaparramento, rapina, violenza sull’altro, e l’uomo diventa lupo/nemico dell’altro uomo.

Qui è l’ultima scommessa della vita di Gesù: con il per-dono egli scommette che, attraverso l’abbraccio misericordioso e la restituzione al dis-umano della fiducia, l’altro (il dis-umano, il non-uomo), accolto nella sua miseria, può cambiare e può riprendere a far dono della sua vita. Questa è la più alta scommessa sull’uomo, la fiducia di Dio su quello che l’uomo è capace di fare. E il dono dello Spirito, che è nient’altro che l’Amore di Dio, può davvero restituire all’uomo il suo volto originario di icona di Dio che perdona. Gesù ha vissuto così. Gesù come uomo ha presentato questo volto umanissimo di Dio che vince anche il negativo, il male, attraverso il per-dono.

 

Verso l’altro

 

Gesù rivela che l’umanità dell’uomo diventa sacramento/simbolo di Dio per l’altro uomo

 

Adesso allora possiamo giungere ad una spiritualità in cui ciascuno di noi diventa consapevole che “io, la mia, la tua umanità” ma anche l’umanità dell’altro, diventano il luogo concreto dove Dio ci parla e ci chiama, dove possiamo raccogliere il suo appello attraverso l’altro.

Gli educatori possono essere il volto umano, accogliente, perdonante, pieno di fiducia, di Dio per i ragazzi e per i giovani di oggi. La bontà, la pazienza, l’accoglienza, la fiducia sempre rigenerante, la voglia di relazione e di incontro, la costanza, fanno sì che l’educatore può essere icona/volto di Dio per i giovani che Dio non l’hanno mai incontrato. I ragazzi e giovani non debbono necessariamente fuggire nei monasteri, nei santuari, nelle chiese, nei “luoghi” o dalle persone del “sacro” per incontrare Dio. Essi possono incontrarlo attraverso la nostra umanità.

L’educatore dei giovani, dei ragazzi ritrova nella sua umanità e nella umanità dei ragazzi e giovani il luogo concreto in cui Dio gli parla e lo chiama a vivere la radicalità dell’amore: essere per gli altri fino a consegnare la propria vita senza misura e senza tenere nulla per sé.

I ragazzi e i giovani per noi, i compagni di viaggio prediletti, diventano luogo sacro, roveto ardente, spazio dove Dio - con le parole e i gesti dell’uomo/giovane di oggi - ci chiama ad essere uomini e donne sulla statura dell’uomo/Dio Gesù, e questo per noi sulla strada di don Bosco, come “educatori”.

 

Non si tratta della scalata all’Everest

 

Vivere l’incarnazione di Dio nell’umanità dell’uomo, a partire dall’uomo Gesù di Nazareth, per un discepolo significa non un impegno irraggiungibile, non una fatica di Sisifo; non siamo chiamati a reggere il mondo sulle nostre spalle.

Perché tutto ciò, la consapevolezza, la passione, la responsabilità che fioriscono, sono anzitutto “dono dello Spirito di Gesù Risorto”.

È Dio che ci plasma e ci fa suoi figli, e lo siamo veramente! A noi non resta che benedire, ringraziare, e rispondere con il livello della libertà e della responsabilità che ci sono donati. Perché tutto è dono, Tutto è perdono.

 

Ma sarà possibile tutto questo, e come? La risposta di Maria è stata – e sarà ancora per noi: “Nulla è impossibile a Dio. Lo Spirito farà diventare te sua tenda con la sua ombra”.

 

Bellezza e salvezza

 

Giuliano Zanchi 

 

 

 

 

Se dovesse avere un qualche fondamento la convinzione che «la bellezza salverà il mondo», quantomeno nella diffusione forfettaria del suo luogo comune (l’ho visto scritto a lettere cubitali sulla vetrina di una parrucchiera), noi dovremmo sentirci nel migliore dei mondi possibili. Non esiste civiltà quanto quella eretta sui paradigmi dell’attuale occidentali’s karma che abbia tanto innalzato la «bellezza» a precetto performativo di così estesa influenza. La «salvezza» dovrebbe già avere trasfigurato questa terra così animata dai suoi pervasivi standard estetici. Naturalmente i dubbi in merito sono molti.

Oggi tutto deve essere bello, dalle unghie delle signore al manico di un cucchiaino da caffè. La cura della forma ha assunto dignità di conferimento del senso. La nostra civiltà sembra aver reso strutturale e programmatica quella specie di profezia che Nietzsche, un attimo prima di impazzire, ha depositato a futura memoria nei Frammenti postumi: «La verità è brutta: abbiamo l’arte per non perire a causa della verità» (1888, 16[40]6). Il suo significato è immediato e terribile. La condizione umana, a questo portano gli sviluppi dei suoi saperi, è totalmente priva di senso, venendo dal caso e dirigendosi verso il nulla. Possiamo solo accettare di conferirgliene uno modellandoci esteticamente. La verità è brutta, costruiamocene una bella. Sembra il grande comandamento in vigore nella città-mercato postmoderna. Il «profilo» delle nostre soggettività, proprio come accade nei social, scaturisce sempre più dalla somma dei suoi adempimenti estetici, nel look, nel food, nei cult, nei mood, e in tutte le varie forme di life styling promosse dal nostro creativo mercato del benessere.[1] Il design non è più semplicemente una qualità del prodotto industriale, quanto proprio una categoria dell’esistenza. Quella dell’«essere» sembrerebbe una forma indissociabile dalla sua intrinseca necessità di «apparire». Come Jessica Rabbit, ci disegnano così.

Il tratto tirannico di questo primato comincia a rendere palesi i suoi effetti collaterali. Il suo potere ingiuntivo, ancora più dispotico delle vecchie morali di cui ci siamo liberati, anima le molte euforie pubbliche dell’homo cosmeticus ma alimenta anche la frustrazione endemica indotta dagli standard di questo regno della beautitudine. Beati i belli, perché se sei brutto ti tirano le pietre, cantava Antoine nel 1967. Il sottobosco del disagio giovanile e il brusio neotribale dei social traboccano di evidenze circa la ferocia bullistica che si scatena regolarmente, e con la brutalità primaria di un villaggio arcaico, attorno agli inabili, ai mancanti, ai diversi, ai disfunzionali, ai ciccioni, alle bruttine, ai molti «brutti anatroccoli» che tirerebbero un sospiro di sollievo se fosse almeno loro concesso di vivere in solitudine in un angolo dello stagno. Al netto degli stanchi dibattiti che finiscono per far parte dello stesso spettacolo, non sembra che tutto questo abbia ha a che fare con una giustizia dell’essere fatta coincidere, in mancanza d’altro, con la perfezione della forma? Esiste una «bellezza» in nome della quale si colpevolizza senza remissione e in modo più inesorabile dei vecchi scrupoli religiosi. Nella pur asfissiante morale cattolica, se eri peccatore potevi confessarti; nel regno dell’attuale imperativo estetico [2] se sei «brutto» non c’è rimedio. Non esiste assoluzione. Nelle periferie di certe metropoli asiatiche o sudamericane questa sorta di giudizio universale anticipato sulla terra è clamorosamente visibile nella spartizione dantesca di quartieri reciprocamente alieni. Di là il glamour dei prati all’inglese e l’high-tech dell’architettura contemporanea; di qua le baracche, il fango e le fogne a cielo aperto. Una linea sottile divide, già in questo mondo, il paradiso dall’inferno. I segni della «bellezza», intesa come artificiale e ingiuntiva cura della perfezione, sono spesso indici di «sentenze definitive» proclamate nell’aldiquà. «Lasciamo le belle donne agli uomini senza immaginazione» ammoniva già quasi cento anni fa Marcel Proust.

Questa egemonia sociale di uno standard preordinato della perfezione formale, che agisce come una bolla ornamentale avvolta attorno al nulla del senso, rende oggi meno riconoscibili e meno nominabili quelle emergenze della «bellezza» che si rendono percepibili in forma di esperienza e si manifestano come qualità visibile delle forze che animano la giustizia della vita. Il teologo lo direbbe in questo modo: «La bellezza fa la sua comparsa, originariamente, in tre costellazioni di eventi: lo splendore della forza che assicura protezione senza contropartita, la tenerezza della cura che riscatta l’intimità senza assoggettamento, l’incanto della grazia di un ordine spirituale dell’essere sensibile»[3]. Metti la scena dello sconosciuto che ti soccorre in una difficoltà che per sé non lo riguarda; oppure quella di chi accudisce a oltranza i vecchi con una leggerezza che non fa pesare il dispendio della propria dedizione; ma pensa anche alla carezza data per limpida manifestazione di una affezione senza secondi fini (e per contrasto pensa a quella che al minimo sfioramento senti inequivocabilmente lasciva); metti la scena, formidabile e tremenda, della madre afgana che consegna suo figlio al soldato americano; ma anche quella, elementare e ricorrente, di chi lascia a un vecchio il suo posto a sedere; pensa al corpo che la donna accetta di consegnare alle sue mutazioni per dare vita a un figlio; focalizza la scena di un tramonto che, per quanto edotti dei processi naturali che lo generano, non smette di afferrare i nostri sguardi e attrarre nella sua misteriosa fascinazione; metti l’attimo in cui lei e lui, essere un attimo prima confuso nell’uniforme molteplicità dell’umanità comune, improvvisamente ti appare sotto l’illuminazione di quell’alone di unicità che tocca perdutamente il tuo desiderio. Metti queste e altre scene di cui traboccano le nostre esperienze effettive. In esse si dà qualcosa che non appare né dovuto né prescritto, quindi sorprende e meraviglia, ma quando si realizza ha la forma del dover essere proprio così, e per questo sembra la cosa più naturale del mondo. In ognuna di quelle situazioni, la prima cosa che viene da dire è che «dovrebbe essere sempre così». Sembra straordinario, ma fa apparire quello immediatamente sembra giusto, dovuto, normale. Il giovane straniero che si butta in acqua per salvare un bambino, intervistato alla televisione come un eroe dichiara timidamente di aver fatto solo quello che in quel momento sembrava normale compiere e che tutti avrebbero fatto al suo posto. Il fascino emanato dal riconoscimento di questo dover essere si chiama «bellezza» e il suo contenuto è principalmente di natura etica. Non è un rivestimento, è una qualità intrinseca alla realtà.

Questa differenza è tenacemente difesa dalla spontaneità del nostro linguaggio. Quando si desidera manifestare esplicitamente a qualcuno il proprio assentimento per un gesto o un’azione ritenuta effettivamente degna e adeguata, normalmente non si dice «bravo, hai fatto una buona cosa», ma si dice immancabilmente «bravo, hai fatto una bella cosa». Noi nominiamo nei termini dell’estetica quello che inequivocabilmente ha densità nel regime dell’etica. La sostanza etica di questo genere di bellezza normalmente viene esaltata e indicata dalle opere dell’arte che rendono tangibile questa connessione. Dipingendo due scarponi sformati Vincent Van Gogh fa toccare con mano e offre al colpo d’occhio la densità spirituale che si può concentrare nei momenti sensibili della vita ben oltre la contingente imperfezione del loro darsi. Tu cerchi l’anima chissà dove e poi la riconosci negli scarponi che hanno preso la forma dei tuoi sforzi. Ma questa intensità etica può essere mille volte contraddetta da quella cura programmata della forma che agisce proprio con lo scopo di rimuoverne la densità. Una «bellezza» che non ha prezzo, in entrambi i sensi dell’espressione: da un lato perché, come accade oggi, anima il mercato e muove l’economia in una crescente circolazione di denaro; dall’altro perché non costa niente sotto il profilo di una qualità del senso e di una giustizia dell’essere. È solo un travestimento. Senza questa densità etica, l’estetica si riduce a cosmetica. Non deve sorprendere se l’arte contemporanea tende spesso a disertare i registri della forma piacevole e conciliante, per dedicarsi alla testimonianza di un «senso» che per essere credibile deve apparire spoglio e provocante; se ha smesso di occuparsi di paesaggi, ritratti e convenzionali scene religiose per dedicarsi ai lati oscuri della vita, alla disarticolazione di linguaggi uniformanti e all’enigma umano che nel corpo sembra avere la sua trincea di combattimento.

Se in questo le arti del nostro tempo sono sembrate fin troppo insistenti, fino a spingersi verso un quasi-culto della degradazione (molti segnali però mostrano una crescente affezione per una nuova congiunzione coi segni della bellezza), il loro ‘sacrificio antiestetico’ ha in fondo fatto socialmente sopravvivere quella idea biblica e cristiana della bellezza che nel suo massimo splendore appare nella forma compromessa del Servo sofferente e del Cristo crocifisso, emblema di quella dedizione che corrisponde alla giustizia delle cose e che, quando pienamente realizzata, non può mostrarsi che rompendo la perfezione della forma. «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» scrive Isaia (53, 2) tracciando il ritratto del servo del Signore nel quarto dei canti dedicati a una figura di lucente eminenza. È la ragione per la quale il vangelo di Giovanni chiama «gloria» non la resurrezione ma la morte di Gesù, apice della sua dedizione e culmine della sua grandezza, talmente vistosa e limpida da avere il potere di «attirare tutti» a sé (Gv 12, 32). Un tale vertice di fascino fa da matrice a mille evidenze che possono costellare i momenti della nostra esperienza minuta. Tutti sanno che anche una ferita può essere «bella», anche una ruga, un difetto, un’imperfezione, una cicatrice, perché tutti possono vedere le qualità incondizionate di cui sono un evidente sigillo.

 

Peraltro, questa è una bellezza che «si vede», non si lascia assimilare ai miti retorici della «bellezza interiore», e oltretutto «si distingue», non si lascia confondere con quella ‘confezione del positivo’ di cui sono divenute maestre le strategie dell’attuale predicazione pubblicitaria. La vera bellezza è come la sapienza di cui parla il vecchio testamento, la vedi per le strade e se vuoi la riconosci subito, come ti accorgi immediatamente della volgarità delle sue contraffazioni. Certo, devi farti l’occhio. Ma anche qualche buon pensiero. In mancanza di queste dotazioni può succedere, come mi sembra accada in questo momento negli ambienti di chiesa, che ci si affidi con ingenua esaltazione a quella elevazione sociale della cultura artistica che oggi funziona da sostitutivo dello spirituale, sia pure tra i più nobili, in epoca di incredulità programmata. La corsa ai prodigi comunicativi dell’«Arte sacra», specie se quella ammantata dalla mitizzazione del suo passato, può certamente avvantaggiarsi di qualche momento di eccitazione favorevole, ma ha già fatto le sue concessioni a una idea della «bellezza» confinata nello stereotipo dell’Arte e una concezione dei suoi frutti spirituali identificati con la didattica del catechismo. Finendo per scomodare Dostoevskij, equivocandone profondamente le intenzioni, anche per benedire il più clamoroso cattivo gusto. Le questioni sono molto più serie. La posta in gioco molto più alta. Quello che ci salva è il bene, non altro. La «bellezza» è il riflesso di quando la sua giustizia, in un modo o nell’altro, riesce a toccare questa terra.

La parola e l’ascolto

 

 

 

di Enzo Bianchi

 

Forse mai come in questi tempi si parla e si presta tanta attenzione all’ascolto perché siamo ammorbati da troppe parole, messaggi e rumori che ci impediscono una comunicazione autentica. Ciò che viene richiesto in ogni situazione e in modo ossessivo è l’ascolto, lo spazio da apprestare per rendere feconda la parola. L’ascolto, che non è semplicemente “sentire”, è un atto intenzionale che nasce dalla volontà ed è frutto di una decisione che comporta il chiamare a raccolta le forze per essere in grado di accogliere e recepire una parola.

 

          Ma va assolutamente detto che la parola che precede l’ascolto deve avere un suo statuto, una sua grammatica proprio per essere parola, evento creato solo dall’uomo. Oggi, in una stagione culturale contrassegnata da diverse “crisi”, abbiamo bisogno di interrogarci nuovamente su cosa è l’uomo, cosa è l’umano. Com’è possibile ascoltare ed essere frequentemente testimoni di “parole doppie”, menzogne proclamate da chi pensa in modo diverso da come parla, senza sentire l’esigenza di una grammatica della parola che le restituisca veridicità e autorevolezza, così da poter essere concretamente strumento di comunicazione e dialogo tra di noi?

 

          Secondo la tradizione ebraico-cristiana il peggiore sintomo di malessere sociale è la corruzione della parola, quando “non c’è più un uomo sincero, è scomparsa la trasparenza fra gli umani, si dicono menzogne l’un l’altro e le loro false labbra parlano mosse da un cuore doppio” (Salmo 12).

 

          Chi di noi non sottoscriverebbe queste parole del salmista sulla società del suo tempo? Sì, noi oggi siamo consapevoli che la comunicazione è particolarmente malata, che il chiacchiericcio si è fatto invadente, che la manipolazione attraverso la parola è frequente e praticata nel quotidiano anche da persone semplici, ma soprattutto che si ha paura della parresìa, virtù che pure dovremmo aver ereditato da Socrate come arte di dire sempre la verità, anche a caro prezzo e senza timore. Il parlare come atto di comunicazione e di testimonianza è molto faticoso e richiede la disponibilità a trovarsi in contrasto con la posizione della maggioranza. E invece nella società e nella chiesa si favorisce più che mai l’ipocrisia, l’apparire non come si è ma in modo tale da ottenere successo e potere. È significativo che nel Vangelo Gesù abbia perdonato tutti i peccati, anche i più gravi secondo la legge, ma non abbia mai avuto una parola di comprensione e di misericordia verso gli ipocriti, i religiosi che sono doppi per vocazione demoniaca, ignavi e timorosi nei confronti del potere, aguzzini nei confronti degli ultimi.

 

          Ma oggi “la gente” ha capito, anche se non ancora fino al punto da indignarsi, che soprattutto quelli che sono al potere e sono “doppi”, non dicono quello che pensano ma solo ciò che li aiuta a perseguire il loro interesse: per questo non sono credibili, non hanno autorevolezza. Certo, dovremmo tutti crescere nella consapevolezza che la parola, che contraddistingue l’uomo da tutti i viventi, precede ogni comunicazione e quindi ogni ascolto! “In principio era la Parola!”.

 

 

          La parola che noi diciamo non è più nostra, ma è consegnata a chi ascolta e non può essere richiamata indietro perché appartiene a chi l’ascolta. Come dicono i contadini del Monferrato: “Ricordati, le parole sono come pietre!”. Non c’è vero ascolto senza etica della parola!

 

 Resi pieni 

 

 

Alessandro D’Avenia

 

«Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non ha il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui attirare l’attenzione di un dio.

Di una cosa sono convinto: il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto». Così scriveva l’autore svedese Stig Dagerman in un breve monologo del 1952, in righe laceranti sul paradosso della condizione umana, stretta tra desiderio infinito di felicità e impossibilità di soddisfarlo. Aveva intitolato il testo Il nostro bisogno di consolazione ed è quest’ultima parola che vorrei oggi esplorare, per scoprire se contiene la preda in cui sperava Dagerman: «Sono a caccia di consolazione come un cacciatore. Là dove la vedo apparire, sparo». Possiamo veramente essere consolati? Consolazione, dal latino, è una parola composta da con e solus (solo), da cui vengono termini distanti come solitudine e sollazzo. Come mai? Perché sembra che solus nasconda la radice (ol-) che indicava pienezza, integrità, totalità, rimasta per esempio in ad-olescente (teso alla pienezza), olistico (che abbraccia tutto). «Solo» è quindi «uno» perché integro e saldo, e non perché «isolato», che viene invece da isola. Può stare «solo» chi è «pieno», ma questa totalità, per esseri finiti come siamo, non è alla nostra portata e, quindi, è necessario essere con-solati: resi pieni.

Il con-, prefisso della relazione (coniuge, compagno, complice...), conferma infatti che la pienezza di qualcosa si raggiunge «insieme», come si dice anche per la forza, che richiede con-forto, o per il cuore che richiede con-cordia. Per questo ci consola ciò che ci restituisce interezza (si pensi al cerchio dell’abbraccio), ed è invece de-solante ciò che ce la toglie (il de- indica privazione): per Leopardi infatti la ginestra «consola» il deserto che è una terra desolata. La consolazione provoca sollazzo (gioia), perché è come una festa tra amici. Cristo, riferendosi alla sua futura morte per amore degli uomini, dice infatti: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro Consolatore», indicando lo Spirito Santo, di cui ricorreva ieri la festa (Pentecoste: 50 giorni dopo la Pasqua). La traduzione italiana evoca un verbo ebraico che significa «far respirare»: il Consolatore è chi ci fa respirare sempre. Cristo definisce quindi se stesso il primo Consolatore e lo Spirito il secondo e più necessario, perché rende vivi gli uomini di tutti i luoghi e tempi, e non solo i contemporanei di Gesù. Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.

Ma lo Spirito dov’è? Al modo della luce è visibile nei suoi effetti. Se infatti vi chiedessi di dimostrarmi quanto amate, ci riuscireste solo portandomi la persona amata, che mi racconterebbe una serie di eventi e parole del vostro amore: una lettera, un gesto, un regalo, un piatto, una canzone... cose molto semplici che però, colpite dal cono di luce della gratuità e unicità del dono, diventano e mostrano l’amore stesso. Allo stesso modo, per chi lo frequenta, lo Spirito trasforma in Amore ogni cosa, anche la più materiale o oscura (come lo scultore rende «viva» la pietra con il suo spirito). Di una persona piena di vita diciamo infatti che è ispirata o di ispirazione (parole derivate da spirito) perché, anche in situazioni difficili, conserva la luce e la leggerezza dell’innamorato. Lo Spirito permette di amare se stessi (non ci si sente mai brutti o abbandonati), il mondo (tutto diventa casa) e gli altri (anche quelli più difficili e lontani da noi). Chi è «con-solato», sentendosi sempre amato, non ha paura di amare: infatti libera attorno a sé energie creative, genera legami e molti sospetti (dov’è la fregatura?), come accadeva a Cristo. Spirituale non è, come purtroppo si intende oggi, chi è lontano dalle cose terrene, ma chi «respira pienamente» in mezzo a quelle cose senza soffocare, perché trova la vita che hanno dentro. Far la lavatrice o la spesa può essere più spirituale di leggere e pregare: non è l’azione in sé, ma quanto amore ci metto (come e per chi lo faccio?).

 

Due anni dopo quel monologo, purtroppo Dagerman si tolse la vita, benché avesse intuito la via da percorrere: «Tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso - l’incontro con una persona amata, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino - si svolge al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è indifferente». La bellezza, per quanto a frammenti, ci mostra l’origine della luce di cui andiamo a caccia, ma la luce non si può catturare, solo ricevere. Il Consolatore non è la preda che sfugge ai nostri proiettili, ma l’Amante che, per darci il dono della vita, aspetta solo che lo chiamiamo per nome: Amore.

 

 

Se conosci te stesso,

 

trovi l'altro

 

Enzo Bianchi

 

La vita interiore è quell'esperienza essenziale per umanizzarsi e per realizzare la propria verità profonda. È quella vita che inizia con il movimento di presa di distanza da sé e sfocia nella domanda decisiva: «Chi sono?». Scrive Platone: «Il più grande bene per l'uomo è interrogarsi su sé stesso, e indegna di essere vissuta è una vita senza tale attività». La riflessione su questo tema, cara alle culture di ogni tempo e latitudine, in Occidente ha trovato la sua formulazione più pregnante nel famoso adagio «Conosci te stesso» (gnôthi sautón), scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi e richiesto da Socrate ai suoi discepoli.

La conoscenza di sé, ossia la consapevolezza, è come il respiro della propria persona e della propria vita, il cuore del proprio cuore. In questo vero e proprio lavoro a giornata non è sempre facile né possibile distinguere tra lo spirituale e lo psicologico. Alcuni hanno la tendenza a confondere queste due dimensioni, riducendo l'una all'altra; ma va ammesso che, in verità, vita spirituale e vita psicologica si intersecano a tal punto che nelle manifestazioni esterne della prima resta impossibile operare una distinzione.

L'osservazione attenta del reale ci testimonia inoltre che errori di spiritualità possono diventare patologie psichiche (qualche volta anche con esiti somatici) e che, viceversa, patologie psichiche possono influenzare la spiritualità. L'essere umano è più unito di quanto crediamo: corpo, psiche e spirito hanno una profonda relazione reciproca, e i confini tra loro sono molto fluidi. Oggi abbiamo la grazia delle scienze umane, che forniscono all'esperienza spirituale un grande aiuto: possono infatti guidare la persona a una giusta conoscenza di sé e possono essere veicoli di sapienza e strumenti di liberazione. E tuttavia non va dimenticato che la psicologia lavora nel registro dell'analisi e dell'interpretazione dei fenomeni psicologici, collocati nello spazio delle scienze umane, mentre la spiritualità vive di un altro livello di senso: l'orientamento ultimo della vita umana e il suo significato.

In tale cammino infinito è fondamentale aderire alla realtà, alla terra (humus), conoscere cioè con realismo il proprio rapporto con la storia, gli altri, il mondo, perché è così che ciascuno di noi esiste ed è in relazione: questa è la vera umiltà (humilitas)! Molti cammini spirituali appaiono sterili, quando non negativi e disumanizzanti, perché mancano proprio di tale adesione alla realtà. Nella mia anzianità lo comprendo sempre di più e sempre meglio: è estremamente pericoloso iniziare il cammino interiore o spirituale senza sentirsi come gli altri, in mezzo agli altri, bisognosi degli altri e mai senza gli altri! Gli altri, infatti, non sono l'inferno, come affermava Sartre: sono la nostra beatitudine possibile su questa Terra.

Conoscere sé stessi è davvero un compito, una fatica, un esercizio quotidiano e richiede di guardare, scrutare, esaminare il proprio sentire, parlare e agire, tenendo conto del proprio respiro e di quello di chi mi è accanto, o meglio, al quale io mi faccio prossimo. Senza una certa conoscenza di sé è quasi impossibile lo sviluppo della vita interiore, ma lo stesso vale anche quando manca il dialogo fecondo con l'alterità, l'arte dello scambio fraterno: io sono ciò che sono, ovvero anche tutto ciò che ha contribuito alla formazione della mia persona, che gli altri hanno fatto di me.

 

È così che il mio respiro si intreccia con quello dell'altro, nella nostra comune ricerca di senso. Solo chi cerca la comunione con gli altri, chi non si vergogna di chiamare tutti fratelli e sorelle, pur nella fatica del duro mestiere di vivere, è capace di percorrere con fecondità il cammino della vita interiore e spirituale, che è sempre un cammino umano: nel comune respiro, via verso la gioia condivisa.

 

 

L'incanto

 

della porta aperta

 

Angelo Casati

 

 

 

Mi sto caricando di anni, ma non finisco di incantarmi davanti ai "percorsi del cuore". Davanti ai "percorsi del cuore" mi sento ancora come un bambino. E continuo, impenitente, a sognare una comunità che si incanti davanti ai "percorsi del cuore".

Anche la fede, quella vera, il tesoro che ci è più caro, appartiene a questi percorsi segreti. Se non entra in questi spazi del cuore è, per lo più, frastuono e blabla religioso: costretti a urlare la fede, quasi per autoconvincersi di credere. I "percorsi del cuore" sfuggono alle statistiche; rifuggono dalla nostra pretesa di racchiudere in numeri e diagrammi anche il mistero.

Più che nella moltitudine delle parole li sorprendi in un brivido degli occhi, nella tenerezza di una stretta di mano. Chiamo "percorsi del cuore" le emozioni , le intuizioni, le riflessioni, gli smarrimenti e le aperture, i sussulti e le decisioni: fanno la storia delle nostre giornate e diventano cammino interiore, il nostro mondo segreto.

C'è una condizione che ti introduce ai "percorsi del cuore" e ti dà l'emozione di scoprirne o solo forse intuirne le tracce. La vorrei descrivere con alcune parole, purtroppo imprecise. Condizione è "guardare l'altro immaginando l'inimmaginabile". Oltre la superficialità, oltre i luoghi comuni, oltre l'apparenza, immaginando dell'altro il cuore, la terra segreta.

A chi oggi parla di "percorsi del cuore" può succedere - non è un mistero - di essere guardato con sufficienza, quasi fosse uno "fuori", fuori della realtà, impenitente sognatore. Non devono aver guardato con occhi molto diversi, penso, il Signore Gesù, quel mezzogiorno di grazia, al pozzo di Sicar. Anche lui incantato davanti ai "percorsi del cuore" di una donna samaritana. A tal punto preso, che più non sentiva fame.

Parlava di campi biondeggianti e ancora mancavano quattro mesi al tempo della mietitura: "Levate i vostri occhi " - diceva - "guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura " (Giov. 4,35).

Ad aprirti il cuore è infatti lo sguardo di chi immagina l'inimmaginabile che è in te, lo sguardo di chi ti accarezza "dentro", come ti accarezza Dio con la sua luce e il suo calore. "Non basta" - diceva Danilo qualche sera fa in una riunione - "non basta aprire le finestre, accorre aprire la porta". La finestra aperta ti consente sì di osservare. Ma dall'alto. E dall'alto giudicare.

Aprire la porta significa invece coinvolgersi. Anzi rimanere porta aperta: la gente entra e esce, nel respiro della libertà. Che cosa privilegiamo nella vita la finestra o la porta? Come partecipiamo a un'Assemblea? Con quale spirito viviamo un incontro? Osservando e giudicando , cioè stando alla finestra, o immaginando che cosa vive dietro quel volto, cioè aprendo la porta?

Le osservazioni di chi sta alla finestra per lo più portano poco lontano, spesso sono di una monotonia e di una ovvietà insopportabili: quanti inviti, quante risposte; quanti credenti, quanti non credenti; che cosa abbiamo detto, che cosa non abbiamo detto; quale l'organizzazione, quali i risultati. I risultati - quelli palpabili, quantificabili - sono l'ossessione, la fissazione di coloro che stanno alla finestra.

Gli uomini e le donne della finestra passano al setaccio minuziosamente ogni parola - per loro manca sempre qualcosa all'ortodossia - ma sono sempre in ritardo all'appuntamento con il cuore. Raramente nei loro occhi cogli stupore: hanno immancabilmente l'aria di chi ti dice: "Tutto qui?".

Gli uomini e le donne della porta si perdono dietro i percorsi del cuore, si incantano per i minuscoli, impercettibili, germogli. Si incantano dietro l'emozione di una voce. Basta a incantarli - tanto sono sensibili - la nudità di una presenza: che qualcuno abbia varcato una soglia, per loro sa già di miracolo. Gli uomini e le donne della porta vivono sì un'inquietudine: li fa inquieti lo zelo - spesso in buona fede ma poco illuminato - di chi si illude di aprire germogli rovesciando sui fiori tinozze d'acqua.

Hanno da Dio un dono: quello di immaginare - tanta è la familiarità - la misura d'acqua che aprirà, senza soffocarli, i teneri germogli. Glielo va suggerendo lo spirito, la fonte segreta del loro immaginare l'inimmaginabile. Quanti i percorsi che potrei ricordare: ne accenno solo alcuni, cosciente purtroppo che già il parlare ne impoverisce l'emozione.

 

Ricorderò innanzitutto alcune voci dell'ultima nostra assemblea, voci per timbro diverso, ma accomunate dall'unico desiderio di schiudere una porta. Tenera e intensa quella femminile, più concreta, quasi pragmatica quella maschile. Ricorderò poi alcuni percorsi del cuore, nati dalla lettera che ci aveva invitati all'assemblea: "tracce di una comunità desiderata".

Bene

 

Chandra Candiani

 

 

Cosa intendo, mi chiedo, con la parola «bene» quando lo invio a me stessa o agli altri? Certamente, lo stare bene nella propria pelle, nel corpo e nella mente. Trovare un proprio punto d'appoggio nel mondo, come fanno gli uccelli con i rami e lí trovarsi a proprio agio, intonati al luogo e al momento, e fare un dono agli altri. Avere la forza della consapevolezza: non solo ricevere le sue visite, ma saperne reggere la sfida, la sua forza rivoluzionaria, il suo sguardo sovversivo su se stessi e sul mondo. Seguire le invisibili linee. Vedere con limpidezza e profondità dentro di sé e dentro gli eventi e i fenomeni che incontriamo. Avere la risolutezza di tenere fede alle visioni profonde che sorgono e tradurle in azioni. Saldarsi alle parole, non lasciarle uscire da sole, non lasciarle orfane nel mondo, ma legarle al respiro, al cuore pensante, alla riflessione. Essere gentili senza scadere nella compiacenza, senza venir meno al proprio profondo sentire, ma condividerlo senza imposizioni, con parità e senza alcun intento di colonizzazione. Sapersi proteggere. Aver cura di sé, e quindi degli altri. Vedere il mistero che ci circonda ovunque. Sapersi inchinare e chiedere rifugio. Potersi abbandonare al sonno, perché ci si sente in un luogo abbastanza protetto. Potersi sfamare e dissetare. Poter reggere l'insoddisfazione e interrogarla e vederla trasformarsi in spazio aperto. Studiare il proprio carattere e poterne ridere quando va allo scontro con il carattere dell'altro, poterlo lasciar cadere come un costume di scena. Amare e lasciarsi amare. Vivere, respirare, meditare per addestrarsi a essere nulla.

Ho bisogno di svegliarmi, di essere presente a me stessa e alle realtà che mi circondano, risvegliare il pensiero, il sentire, il corpo. Non automatizzarmi, non vivere come una sonnambula, separata da me stessa e dal resto del mondo, anche se fa male, anche se è scomodo. Esercito il risveglio con una pratica istantanea che mi dà anche gioia ed esuberanza: nei momenti neutri, andare da una stanza a un'altra, lavarmi, lavare i piatti, vestirmi; o in quelli difficili, portare qualcosa di pesante, ammalarsi, non dormire; o in quelli belli, leggeri, mi dico: «Questo è il momento!» Mi lavo i denti un po' annoiata, come se solo dopo potessi iniziare a vivere: «Questo è il momento! », e arriva subito il soffio di gioia dello scoprirsi vivi, presenti. Ogni attimo è una soglia, ogni azione è un rito, tutto pulsa di vita, tutto è sacro. «Questo è il momento!» Proprio ora, assapora.

 

(Questo immenso non sapere, Einaudi 2021, pp. 131-2)

 

 

Compassione

 

Chandra Candiani

 

 

La pratica della compassione inizia portando al cuore, evocando, un essere (non necessariamente un essere umano) che sappiamo che sta soffrendo. Richiamiamo la sua immagine, non lo pensiamo, lo chiamiamo e lo vediamo, lo sentiamo vicino. Quando c'è, quando è vicino, iniziamo a sentire la bellezza del legame, del filo invisibile, anche quando fa male. E da quel mal di cuore partiamo per inviargli frasi di auguri: «Che tu sia libero dalla sofferenza, che tu possa aver cura di te, che tu possa trovare le giuste cure». Sentire il legame non significa precipitare nell'altro e restarne sommersi, non sarebbe piú un legame, ma un'identificazione, una fusione che non fa bene a nessuno dei due. Sentiamo il leggero filo forte che ci lega, lo onoriamo e poi mandiamo le ampie frasi di auguri che non significano che pretendiamo di salvare, di fare magie, ma solo che trasaliamo e vibriamo per la sofferenza dell'altro. Il Buddha non era un salvatore, ma un uomo che al suo Risveglio si è trasformato in una strada e l'ha lasciata aperta a tutti, ha insegnato a percorrerla. Era una Via antica, piú antica di lui, che conduce fuori dalla sofferenza. La sofferenza di soffrire, di ignorare il dolore e le sue cause, la sofferenza di non smettere di aggrapparci e di respingere quel che ci capita. Uscire dalla sofferenza significa riscrivere la relazione con la gioia e con il dolore, con noi stessi e con gli altri, attraversare, traghettare. Significa piena accoglienza di qualsiasi cosa ci capiti. Questa accoglienza prepara all'azione, è non agire in attesa dell'azione intonata.

...

Proseguendo nella pratica della compassione, passiamo quindi a sentire la nostra sofferenza e ad augurarci di esserne liberi. Sentire la propria sofferenza significa non essere piú identificati, sentirla come un tuono, come un gelo, come un fuoco. Dove? In quali punti del corpo? Senza narrazione, ci inoltriamo sulle sue tracce, nelle sue zone e ascoltiamo, assaporiamo, raccogliamo. Geografi della sofferenza, impariamo l'arte della conoscenza, la sua gioia. Non è piú cosí importante quale sia l'oggetto del conoscere, piacevole, indifferente o spiacevole: conta di piú il movimento della conoscenza del flusso di sapori, fino a quello della vastità in cui tutto si svolge, il cuore smisurato della compassione.

Ovviamente per arrivare a sentire la sofferenza come un oggetto di conoscenza ci vogliono tempo e addestramento, può emergere rabbia, desiderio di vendetta, senso di colpa, disperazione. Vanno sentiti uno a uno, nel loro tessuto, consistenza, tono, non credendo a quello che dicono ma anche non giudicandoli come malvagi e respingendoli negli angoli bui. E c'è il contenitore, c'è lo spazio in cui tutto questo affiora e si muove e prima o poi si dissolve. Lo spazio resta, e assaporare lo spazio sgombro del cuore fa respirare l'illimitato, apre a un'assenza di categorie che è vitalità del silenzio.

Inviare a se stessi le frasi di augurio, «che io possa essere libero dalla sofferenza, che io possa averne cura», e soffermarsi a riceverle, ci porta in dono quello che abbiamo sempre cercato altrove.

 

 

(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 50-53)

Lasciarsi interpellare

 

dal volto dell'Altro

 

Un invito di Lévinas per questi tempi difficili

 

Enrica Sala

 

 

Le mascherine, le distanze sociali e gli incontri vissuti per mesi dietro a uno schermo sembrano aver segnato profondamente – per sempre? – il nostro modo di relazionarci, entrare in contatto e riconoscerci tra noi. L'invito paradossale e forse impraticabile di Emmanuel Lévinas a uscire dal nostro "mondo" e a lasciarci interpellare dal volto dell'Altro è ancora più urgente, necessario e costruttivo.

 

Un'infanzia troppo breve e la nascita di una vocazione

 

Ricordo due pomeriggi, durante il corso di filosofia teoretica, nel corso dei quali l'assistente, a cui era stato affidato l'arduo compito di presentarci Totalità e Infinito in poche ore, ci faceva saltare con una velocità impressionante da un paragrafo all'altro. Impegnata a non perdermi in quella folle corsa e a cercare di prendere qualche appunto in vista dell'esame, non avevo certo gustato la ricchezza e l'umanità dí questo autore. Ricchezza che ho scoperto piuttosto recentemente a Poitiers, città dove attualmente vivo e dove Lévinas ha insegnato dal 1964 al 1967. È stato l'ascolto di alcune conferenze on-line di Silvano Petrosino, uno dei suoi massimi commentatori (Il desiderio in Lévinas e Totalità e Infinito di Lévinas, quest'ultima tenuta al Festival di Filosofia 2019),a far nascer in me il desiderio di cominciare a conoscere la sua vita, attraverso la ricchissima biografia di Marie-Anne Lescourret (Emmanuel Lévinas, Flammarion, Paris 1994), alla quale mi riferirò più volte, e al video di un'intervista che il filosofo rilasciò nel 1990 a Bernard Henri-Lévy (poi pubblicata col titolo Extraits inédits in Isy Morgensztern, Lévinas, Editions Montparnasse, Paris 2013). Senza nessuna pretesa di esaustività riguardo il contenuto della sua opera e del suo pensiero, mi propongo semplicemente, a partire da alcuni passaggi di Totalità e Infinito (Emmanuel

Lévinas, Totalité et Infini – essai sur l'exteriorité, Le Livre de Poche, Paris 1990, da ora indicato con TI) e de Il tempo e l'altro (Emmanuel Lévinas, Le temps et l'autre, Quadriage, Paris 1979, da ora indicato con TA), di trasmettere alcune delle "luci" che questo filosofo mi sta donando, e spero possa donarci.

Se, in generale, è importante conoscere la biografia dí un autore e il contesto storico e culturale in cui ha vissuto per poterne capire il pensiero, questo mi sembra ancor più vero per Emmanuel Lévinas, la cui vita, personalità e filosofia sembrano formare un tutt'uno e dipendere strettamente l'una dall'altra. Nell'intervista sopracitata egli stesso racconta, con la voce sottile di un uomo già anziano e con il riserbo che fa parte del suo temperamento, le sue origini, all'inizio del secolo scorso (1905), nella lontana Lituania, allora provincia baltica sotto la dominazione russa, nella comunità ebraica della città di Kovno. Poco distante, la città di Vilna era stata soprannominata da Napoleone "la Gerusalemme del Nord", capitale dove veniva praticato "il culto dello studio" e dove convivevano diverse correnti dell'ebraismo, dalle più mistiche alle più intellettuali.

Il mestiere del padre, proprietario di una libreria, ha permesso al piccolo Emmanuel, nonostante la discriminazione sociale di cui soffriva la comunità ebraica, una certa agiatezza economica e un'infanzia all'insegna dello studio. Oltre all'insegnamento ricevuto nella scuola della sua comunità, a partire dai sei anni riceve delle lezioni private, due volte la settimana, da un maestro di ebraico. Questa immersione precoce nel mondo della Bibbia sarà un elemento costitutivo e imprescindibile, non solo del suo percorso religioso, ma della sua stessa filosofia.

Quella di Lévinas è un'infanzia che egli stesso definisce «troppo breve», interrotta bruscamente dalla prima guerra mondiale. Per motivi di sicurezza, la famiglia è costretta a emigrare in Ucraina. Comincia da qui quell'incontro e incrocio di culture (russa, ebrea, tedesca e francese) che costituirà un'altra delle caratteristiche originali del suo pensiero e che non mi sembra esagerato definire una sorta di profezia o anticipazione dell'interculturalità che oggi cí troviamo a vivere. Senza dubbio si può dire che già nei primi anni dí vita Lévinas ha incontrato quel volto dell'Altro che costituisce il filo rosso del suo pensiero.

Oltre allo studio precoce dell'ebraico e della Bibbia, l'altra esperienza che egli stesso definisce «prefilosofica» è l'incontro con la letteratura russa, attraverso i romanzi di grandi scrittori quali, ad esempio, Tolstoj, Dostoevskij e Pugkin. Non essendoci lezioni dedicate a questa materia nel liceo da lui frequentato, è attraverso la lettura personale degli autori che egli trova quell'«abbondanza di inquietudine metafisica» e quelle domande sul senso della vita che faranno nascere in lui la vocazione filosofica. Sarà proprio la sua passione per lo studio, fortemente incoraggiata in famiglia, soprattutto dalla madre, a spingerlo ancor più lontano, questa volta a Strasburgo, dove si iscrive alla facoltà di filosofia e dove, grazie alla capacità di apprendere velocemente le lingue straniere, può dar libero sfogo alla sua insaziabile curiosità intellettuale.

 

L'incontro sconvolgente con la fenomenologia

 

Questo desiderio di andare sempre verso un «altrove» nella ricerca di senso, lo porta, dopo aver sentito parlare a Strasburgo della fenomenologia, nuova corrente di pensiero che stava nascendo in Germania, ad andare a scoprirla direttamente a Friburgo, seguendo le lezioni del suo fondatore, Edmund Husserl. Da lui ospitato, Lévinas gli sarà per sempre riconoscente di avergli aperto non solo la casa, ma anche – e soprattutto –«nuovi orizzonti filosofici», un «respiro», un nuovo modo di pensare che procede a partire dall'esperienza concreta dell'uomo. Di questo maestro egli tradurrà le Meditazioni metafisiche e a lui consacrerà la sua tesi, intitolata La teoria dell'intuizione nella fenomenologia di Husserl. Per questo Lévinas è considerato ancor oggi uno dei primi introduttori della fenomenologia in Francia.

Ma l'incontro «sconvolgente» è quello col successore di Husserl alla cattedra di Fríburgo, Martin Heidegger: nelle pagine di Essere e Tempo, Lévinas scorge ben presto una vera svolta nella storia della filosofia, un «nuovo inizio». Ciò che più lo affascina nel suo pensiero è la messa in questione dei fondamenti della metafisica occidentale, la ricerca radicale del senso dell'esistenza e la centralità del soggetto. A partire da questo nuovo modo di filosofare, ma prendendone via via le distanze, egli costruirà, negli anni successivi, il suo pensiero originale.

Ritornato a Strasburgo, e ottenuto il titolo di dottore in lettere, contrariamente a quanto ci si possa attendere, non è in un'aula universitaria, inseguendo una carriera che sembrava spalancarglisi innanzi, che Lévinas trasmette il frutto dei suoi studi e la sua incessante passione per la ricerca. Lo fa invece nell'istituto parigino dell'Enio (Ecole Normale Israélite Orientale), di cui, dopo qualche anno, diventa il direttore. Questa scuola prepara i futuri professori delle scuole dell'Alleanza Israelita Universale che ha come fine l'emancipazione degli ebrei dell'Africa del nord e del bacino mediterraneo, fornendo loro un'istruzione scolastica e una formazione spirituale, concepite entrambe come un dialogo tra la loro cultura d'origine e quella del mondo occidentale. Abita nello stesso edificio dove insegna, condivide spesso i pranzi con i suoi allievi e impartisce loro regolarmente, ogni sabato mattina, la sua lezione di Talmud.

Tutto questo senza tuttavia rinunciare a coltivare la sua passione per la filosofia, ad esempio frequentando alcuni corsi alla Sorbona, le celebri serate del venerdì nel salotto di Gabriel Marcel o la Società francese di filosofia, dove conosce Jean Wahl, che più tardi lo spingerà a pubblicare la sua opera più importante, Totalità e Infinito. Lévinas, per il suo carattere piuttosto riservato non è certo un «uomo dí società», che ama mettersi in mostra. Malgrado tale discrezione, tutta la sua filosofia, dall'inizio alla fine, può essere compresa come il frutto di un dialogo aperto con altri pensatori. A partire da Maurice Blanchot, suo amico e interlocutore intellettuale dai tempi di Strasburgo, fino ad arrivare, negli anni del successo, a Martin Buber, Paul Ricoeur e papa Wojtyla, che più volte lo invita ai colloqui organizzati dall'Istituto di Scienze umane di Vienna a Castel Gandolfo.

 

Una ferita per sempre

 

Ritornando ai primi anni parigini all'Enio, presto la rapida ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale vengono a sconvolgerne il clima di relativa tranquillità. È soprattutto l'evento tragico della Shoah quello che segnerà per sempre la sua vita e la sua filosofia. Lui stesso viene fatto prigioniero per quattro anni a Rennes e poi in Germania, con condizioni di trattamento meno pesanti, vista la sua appartenenza ai prigionieri dell'esercito occidentale. La moglie e la figlia trovano riparo presso le suore di San Vincenzo e di certo questo favorirà la riconoscenza e gratitudine di Lévinas verso il mondo cattolico. Il grande dolore, una ferita che porterà per tutta la vita, è piuttosto quello di sapere che la sua famiglia d'origine viene completamente sterminata.

Da questo momento, la sua vita e la sua opera sembrano il tentativo di dare una risposta alla domanda su come poter continuare, su come ricominciare dopo l'olocausto. Per lui, al termine della guerra, la fedeltà verso il suo popolo e verso la sua fede non si traduce nell'Aliyah (immigrazione sionista) verso Israele, come nel caso di altri intellettuali, ma piuttosto nel contribuire alla rinascita dell'ebraismo in Europa, attraverso un «giudaismo illuminato». Sicuramente una delle chiavi di lettura del suo pensiero – e anche la caratteristica che ne costituisce l'originalità – è la compresenza e il reciproco arricchimento tra cultura ebraica e filosofia occidentale, in particolare con la nascente fenomenologia tedesca. Lévinas stesso, facendo riferimento a Filone d'Alessandria e a Maimonide, illustra come l'ebraismo non abbia nulla da temere dai progressi del sapere umano, scientifico e filosofico, a condizione che abbia coscienza dei loro limiti. Entrambi – filosofia e rivelazione – si completano vicendevolmente e conducono verso l'unico Dio.

Dopo la guerra, avviene per Lévinas un vero «ritorno al giudaismo», soprattutto grazie a un incontro determinante, nel 1947, con Chouchani: un ebreo itinerante senza fissa dimora, trascurato nel vestire, che si sposta da un posto all'altro del mondo senza denaro, chiedendo di volta in volta ospitalità a coloro ai quali impartisce le sue lezioni di Talmud. Di certo una persona misteriosa, con un'intelligenza e un'erudizione elevatissime in diversi campi del sapere, conoscitore di una trentina di lingue. Il filosofo lo prende per tre anni come maestro e, nel corso di lunghe ore di lezione, apprende quel metodo ermeneutico, quell'analisi sempre più raffinata e approfondita del testo biblico che per sempre applicherà alla sua stessa filosofia. Una filosofia nata certo in anni di nascondimento, ma che finalmente nel 1961 viene alla luce, grazie alla pubblicazione della sua Tesi di Stato, sotto il titolo di Totalità e Infinito. Sarà questa l'opera che gli aprirà, negli anni successivi, le porte dell'insegnamento universitario Nanterre, a Poitiers e, per finire, alla Sorbona«. E che lo renderà presto celebre in tutto il mondo, attribuendogli molti riconoscimenti, come ad esempio il dottorato honoris causa all'università Loyola di Chicago, in Olanda e poi a Friburgo. Tutto questo senza mai fargli perdere il suo temperamento riservato e la sua discrezione, che lo porta a comparire in convegni e anche alla radio o davanti ai riflettori per servire e trasmettere il pensiero e non certo, contrariamente ad altri filosofi di ieri e di oggi, per mostrarsi in pubblico e cercare la propria gloria.

 

Un cerchio nero su uno sfondo luminoso

 

A volte ci sono immagini che rendono "in un colpo d'occhio", intuitivamente più che analiticamente, la ricchezza di alcuni concetti. È quello che mi è capitato, forse senza neppure cercarlo, lasciandomi attirare dall'immagine di copertina di Totalità e Infinito. Totalità, come quel cerchio nero dai confini precisi e sicuri. Un cerchio che ben descrive la pretesa della filosofia occidentale, in particolare dell'ontologia, di inglobare e abbracciare la conoscenza della realtà entro la razionalità del pensiero, in un sistema chiuso. È evidente qui la critica, sulle orme di Rosenzweig, a Hegel,

ma anche la sua progressiva presa di distanza dall'ontologia di Heidegger. Rifacendosi a Eraclito, Lévinas afferma che «l'essere si rivela come guerra» e che «la guerra si produce come esperienza pura dell'essere puro» perché «non manifesta l'esteriorità e l'altro come altro», percependolo piuttosto come un pericolo o come un nemico da eliminare (TI, pp. 4-5). Il sottotitolo dell'opera Saggio sull'esteriorità è un invito a non rinchiudersi (sia a livello di pensiero filosofico sia a livello personale) negli stretti confini della propria identità, nell'illusione di dare – a partire da sé stessi e dal proprio mondo – un senso alla realtà e alla propria vita. Il movimento di uscita verso l'esteriorità è la trascendenza che permette di aprirsi verso l'Infinito, lasciando da parte la pretesa di avere un controllo totale e un dominio sul mondo, sulla conoscenza e sugli altri. Solo grazie a tale attitudine, anche dopo l'orrore della Shoah, sarà possibile ristabilire quella pace che è molto di più della fine della guerra, con la sconfitta degli uni e la vittoria degli altri.

In pagine di una ricca fenomenologia, in cui l'esperienza umana è rappresentata in ciò che c'è di più concreto e quotidiano, Lévinas descrive il movimento dell'uomo che, accorgendosi di non poter soddisfare da solo ai propri bisogni, esce da sé stesso, verso il mondo. Costruendo una propria dimora, egli vi trova il proprio posto, abitandolo. Grazie al suo lavoro e a strumenti di vario genere, egli cerca di trasformare tale mondo in «nutrimento», rovesciando la relazione di dipendenza da esso in un rapporto di dominio. Secondo la spiritualità ebraica, il filosofo lituano ha una visione positiva della vita ici-bas e delle realtà terrestri, fonte di «godimento» e di realizzazione personale. Non si tratta dunque di negarle o di fuggirle, ma piuttosto di non arrestarsi a questo stadio, in cui l'uomo è definito come «il Medesimo» (le Méme): un individuo che, preso a ridurre il mondo e gli altri a servizio della propria felicità e della propria autonomia, si trova ben presto prigioniero infelice di sé stesso, chiuso nel cerchio della propria solitudine, sotto il peso di quella che il filosofo chiama «materialità».

Che cosa può permettere al «Medesimo» – e a noi stessi, spesso rinchiusi in questa prigione – di spezzare i confini del proprio egocentrismo? Che cosa può aprirci «estaticamente» all'Infinito, rappresentato nella copertina del libro dallo sfondo luminoso, al di là del cerchio nero? È ciò che Lévinas chiama il desiderio metafisico: «L'Altro metafisicamente desiderato non è "altro" come il pane che mangio, come il paese che abito, come il paesaggio che contemplo. Di queste realtà io posso nutrirmi e, in larga misura, soddisfarmi, come se esse mi fossero semplicemente mancate» (TI, p. 21). Mentre nel bisogno il soggetto è interamente assorbito dall'oggetto che assorbe, il desiderio non si identifica mai esclusivamente come mancanza (cfr. TA, p. 53; TI, p. 302): il Desiderato infatti non soddisfa e non colma il desiderio, ma lo scava. Il desiderio è sempre desiderio dell'assolutamente Altro (cfr. TI, p. 23).

 

L'epifania del volto

 

Per Lévinas, l'apertura all'infinito e la relazione all'alterità possono avvenire solamente nel tempo e in un tempo che è proiettato in avanti, al futuro, visto come qualcosa dí inafferrabile, di assolutamente nuovo, una sorta di costante rinascita. Come non pensare, leggendo queste pagine, alla pandemia inaspettata che ci siamo trovati ad affrontare, le cui conseguenze non avremmo mai neppure lontanamente immaginato? Quale disorientamento ha provocato in noi, quale perdita di controllo sugli avvenimenti, su noi stessi e sulla durata delle nostre vite. E, al tempo stesso, quale scossone, quale richiamo a non voler ricondurre il mondo e gli altri alla soddisfazione dei nostri bisogni, alla realizzazione dei nostri scopi personali! Il futuro, la morte, sono davvero quell'«alterità» che, oggi più che mai, non possiamo più scansare. Questo futuro inafferrabile è rappresentato sicuramente nella sua forma più radicale dalla morte. Ma c'è un evento, si chiede Lévinas, che ci permette di aprirci all'Infinito, vivendo questa dimensione di futuro già nel corso della nostra vita, dando senso alla morte stessa? Tale possibilità ci è data nell'epifania dell'Altro che si manifesta attraverso il volto (cfr. TI, p. 284).

È infatti solo nell'irrompere del volto dell'Altro che possiamo uscire dalla prigione del nostro egocentrismo e aprirci all'esteriorità e alla trascendenza. Per non cadere subito in un grande fraintendimento, seguendo l'invito di Emmanuel Falque (cfr. Id., Le Combat amoreux, Hermann, Paris 2014, pp. 124-126, da ora indicato con CA) è bene soffermarci sul fatto che, ben al di là di quella che in francese è la figure, cioè l'aspetto esteriore sensibile del volto, il visage è per Lèvinas ciò che, superando (in francese percer, «perforando») la forma che lo delimita, mi parla e mi invita a una relazione. Esso è espressione, linguaggio. In questi tempi in cui spesso ci lamentiamo per la difficoltà di entrare in relazione a causa dei nostri volti coperti a metà da una mascherina, questa distinzione (che in italiano non si trova) tra figure e visage può stimolarci a vedere un po' al di là di quanto si presenta sensibilmente ai nostri occhi. La relazione a cui l'Altro mi interpella non è reciproca, come per esempio il rapporto Io-Tu descritto da Martin Buber. È piuttosto una relazione con un Mistero; «l'Altro non è un alter-ego, è quello che io non sono» (TA, p. 63.75).

A partire dalla sua analisi fenomenologica dell'eros, Lévinas sembra metterci in guardia contro quelle che sono le «ambiguità dell'amore»: se è vero che il desiderio dell'amore si dirige verso l'Altro, è al tempo stesso vero che esso a volte rischia di perdere la sua dimensione di trascendenza. Questo avviene quando si cerca nell'altro un essere a noi connaturale, un'anima gemella. Allora il rapporto d'amore tra uomo e donna rischia spesso di rimanere «una solitudine, un egoismo a due, una società intima e chiusa». L'amore può spesso essere vissuto come fusione, nel desiderio di diventare un tutt'uno con la persona amata. Ma il filosofo ci ricorda che il «il patetico dell'amore consiste in una dualità insormontabile di esseri» (TA, p. 78), perché la relazione non può mai neutralizzare l'alterità, ma la conserva. Il rapporto con l'Altro non annulla la separazione: c'è sempre una distanza, un'assenza, nel senso di qualcosa dell'Altro che non giungiamo mai a conoscere o a possedere completamente, un'inafferrabilità che è apertura al futuro, all'imprevedibile (cfr. TA, p. 83; TI, p. 281). Tale trascendenza, apertura al futuro e all'infinito, si realizza al massimo grado nella fecondità: Lévinas descrive la paternità come quella relazione in cui al tempo stesso ci si identifica e ci si disidentifica col figlio stesso: «egli è me, ma l'io è nel figlio, un altro. Nel figlio il padre ritrova sé stesso, ma al tempo stesso un estraneo, un Altro» (TI, p. 299).

 

Il volto che mi interpella

 

La fecondità e la relazione con Autrui sono molto più vaste della generazione in senso biologico: spesso, con chiari rimandi all'Antico Testamento, Lévinas parla dell'Altro attraverso le figure dello straniero, della vedova o dell'orfano

che mi interpellano, che «invocano» (TI, p. 74). Come Falque ci fa notare, dobbiamo fare molta attenzione a certe interpretazioni troppo "ottimiste" che, non considerando la tragicità e la drammaticità dell'epifania del volto (ricordiamo che la sua filosofia nasce all'ombra della Shoah), ne sottolineano soltanto l'aspetto di accoglienza e generosità (cfr. CA, pp. 115-116). Dobbiamo pure diffidare di certe interpretazioni in ambito cristiano che hanno quasi fatto coincidere il rapporto con l'Altro in Totalità e Infinito con l'insegnamento evangelico. Se si possono certo trovare dei punti in comune, non dobbiamo mai dimenticare che l'Incarnazione – e dunque una certa visione dell'uomo – è uno spartiacque.

Non sono io, in uno slancio di altruismo, ad andare incontro all'Altro, ma è il suo volto che mi si presenta innanzi imponendosi, possiamo pur dire disturbandomi e cercando di spezzare, senza che io lo abbia voluto o deciso, i confini egocentrici del mio mondo chiuso. Il volto è ciò che, nella sua nudità, cioè nel suo esporsi di fronte a me nella sua vulnerabilità, senza difese, mi toglie a sua volta ogni forma di potere su di lui, opponendomi quella che Lévinas chiama «resistenza etica»: esso sfugge alla mia presa, al mio possesso e si rifiuta di essere da me considerato come oggetto di conoscenza e contenuto in qualsiasi forma di «Totalità» (TI, p. 82; 215). Di fronte alla mia impossibilità di dominarlo, l'unico modo di negarlo sarebbe quello di annientarlo: «L'Altro è il solo essere che posso voler uccidere» (TI, p. 216). Il volto che mi parla si pone innanzi a me con la sua invocazione "non uccidere" che interpella, mettendola tragicamente in questione, la mia libertà. «L'accoglienza dell'Altro è l'inizio della coscienza morale» (TI, p. 82), ciò che investe la mia responsabilità, in un atto etico, in una relazione di giustizia. Mi apro a una santità, a un amore che va al di là di ogni forma di concupiscenza, a quella bontà che «consiste a porsi nell'essere in modo tale che l'Altro vi conti più di me stesso» (TI, p. 277). Quello che Lévinas descrive è un continuo esodo, un progressivo cammino di liberazione in cui posso riconoscere l'Altro solo riconoscendone la fame e donando.

A noi che spesso doniamo agli altri con un atteggiamento di autosufficienza e superiorità, Lévinas ricorda che quella con l'Altro è sempre una relazione asimmetrica, in cui egli ci si presenta innanzi nella sua trascendenza, nella sua eminenza e signoria. È tale "altezza" che mi apre a sua volta alla relazione con Dio, attraverso la responsabilità e il dono al povero, allo straniero, alla vedova. Per il filosofo ebreo, Dio non si è fatto carne, ma «la dimensione del divino si apre a partire dal volto umano» (TI, p. 76). A differenza di quanto hanno tentato di fare molte filosofie, per Lévinas è del tutto impossibile conoscere e definire Dío attraverso le categorie della nostra conoscenza, non solo perché la nostra intelligenza è limitata, ma soprattutto perché il Dio invisibile si rende accessibile attraverso la giustizia (cfr. TI, p. 77).

Non si tratta più di aspirare a una conoscenza universale attraverso la sola razionalità e le tradizionali categorie della metafisica. Nella filosofia dell'alterità che Lévinas ci propone, «l'infinito deborda il pensiero che lo pensa» (TI, p. 11) e il sapere non si può ridurre a una conoscenza oggettiva. Esso conduce verso l'Altro (cfr. TI, p. 84). In questo senso, la tradizionale opposizione tra teoria e pratica, in cui la prima ha da sempre dominato sulla seconda, non ha più ragione d'esistere. E proprio per il fatto che l'esercizio della mia responsabilità verso l'Altro mi apre alla trascendenza e dunque alla metafisica, l'etica è da lui considerata come la "via regale" verso la verità. È l'etica stessa, e non più l'ontologia, a divenire "filosofia prima". Nella prefazione dell'edizione tedesca del 1987 di Totalità e Infinito, Lévinas rovescia l'etimologia del termine filosofia: non più, sul modello greco, amore della sapienza, ma sagesse de l'amour. Una filosofia che insegna il volto dell'Altro e dalla quale, alla luce della recente pandemia, abbiamo molto da imparare.

 

 

(FONTE: Feeria, 59 2021/1, pp. 14-20)

Piccola fenomenologia della carezza

 

(a mio padre)

 

Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.

Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.

La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.

La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.

Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.

La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.

Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.

Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.

La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.

Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.

È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.

La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.

E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.

 

(FONTE: La Botte di Diogene – blog filosofico

A cura di Mario Domina)

 

CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA

Emmanuel Lévinas

 

Una dimensione dell’assenza: la carezza

“La carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire mai abbastanza avvenire nel sollecitare ciò che si sottrae come se ‹non fosse ancora›. Essa ‹cerca›, fruga. Non è un’intenzionalità di svelamento, ma di ricerca: cammino nell’invisibile. In un certo senso ‹esprime› l’amore ma soffre per un’incapacità di dirlo. Ha fame di questa espressione stessa, in un continuo incremento di fame. Va dunque al di là del suo termine, è tesa al di là di un ente, anche futuro, che, appunto in quanto ‹ente›, bussa già alla porta dell’essere. Nella sua soddisfazione, il desiderio che l’anima rinasce, alimentato in qualche modo da ciò che ‹non è ancora›, e ci riporta alla verginità, eternamente inviolata, del femminile. Questo non significa che la carezza cerchi di dominare una libertà ostile, di farne il suo oggetto o di strapparle un consenso. La carezza cerca al di là del consenso o della resistenza di una libertà ‹ciò che non è ancora›, qualcosa che è «men che nulla» che sta come rinchiuso e sopito al di là dell’‹avvenire› e, quindi, sopito in modo completamente diverso dal ‹possibile› che si offrirebbe all’anticipazione. La profanazione che si insinua nella carezza risponde in modo adeguato all’originalità di questa dimensione dell’assenza. Assenza diversa dal vuoto di un niente astratto: assenza che si riferisce all’essere, ma vi si riferisce a modo suo, come se le «assenze» dell’avvenire non fossero avvenire, tutte allo stesso livello e uniformemente.”

EMMANUEL LÉVINAS (1906 – 1995), “Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità” (1961), introduzione di Silvano Petrosino, trad. di Adriano Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2006 (sesta ristampa della II ed. 1990, I ed. 1980), Sezione quarta ‘Al di là del volto’, B. ‘Fenomenologia dell’eros’, p. 265.

“La caresse consiste à ne se saisir de rien, à solliciter ce qui s’échappe sans cesse de sa forme vers un avenir jamais assez avenir à solliciter ce qui se dérobe comme s’il ‹n’était pas encore›. Elle ‹cherche›, elle fouille. Ce n’est pas une intentionnalité de dévoilement, mais de recherche: marche à l’invisible. Dans un certain sens elle ‹exprime› l’amour, mais souffre d’une incapacité de le dire. Elle a faim de cette expression même, dans un incessant accroissement de faim. Elle va donc plus loin qu’à son terme, elle vise au-delà d’un étant, même futur qui, comme étant précisément, frappe déjà à la porte de l’être. Dans sa satisfaction, le désir qui l’anime renaît, alimenté en quelque façon par ce qui ‹n’est pas encore›, nous ramenant à la virginité, à jamais inviolée, du féminin. Non pas que la caresse chercherait à dominer une liberté hostile, à en faire son objet ou à lui arracher un consentement. La caresse cherche par-delà le consentement ou la résistance d’une liberté ‹ce qui n’est pas encore›, un «moins que rien», enfermé et sommeillant au-delà de l’‹avenir› et, par conséquent, sommeillant tout autrement que le ‹possible›, lequel s’offrirait à l’anticipation. La profanation qui s’insinue dans la caresse répond adéquatement à l’originalité de cette dimension de l’absence. Absence autre que le vide d’un néant abstrait: absence se référant à l’être, mais s’y référant à sa manière, comme si les «absences» de l’avenir n’étaient pas avenir, toutes au même niveau et uniformément.”

EMMANUEL LÉVINAS, “Totalité et infini. Essaix sur l’extériorité”, Kluver Academic, Paris 1990 (I éd. Nijhoff, Amsterdam 1961), ‘Au-delà du visage’, B. ‘Phénoménologie de l’éros’, p. 288.

 

Filosofia della carezza – Come amare nel rispetto della libertà dell’altro

Valerio Stagno

2 Febbraio, 2020

 

Molte volte facciamo coincidere con l’Amore un sentimento di proprietà e di appartenenza, saltando il livello della libertà che rappresenta il luogo stesso dove l’Amore vive e ha bisogno di vivere. L’eros vive al suo interno una condizione di continua ambiguità equivocando, all’interno della relazione etica come metafisica, tra l’immanenza e la trascendenza, passando dall’altruismo all’egoismo e rischiando continuamente di trasformare il desiderio metafisico, dell’invisibile, mistero in cui si racchiude l’enigma della femminilità, in bisogno fisico del visibile che si esprime nella voluttà e nel godimento. La partita dell’eros come relazione che mantiene la metafisicità, rischiando continuamente di perderla, viene giocata tutta nel desiderio dell’intimità erotica attraverso la ricerca della nudità senza profanazione.

Come scrive Sergio Labate, ricercatore in filosofia teoretica all’Università di Macerata: “andando incontro all’amata, l’amato desidera di approfondire il mistero, di instaurare una relazione al di là del volto; percepisce che questo desiderio si può esaudire come profanazione […], ma se questa relazione è oltre l’egoismo, nella sfera della gratuità, desidera ancora più fortemente che la relazione con l’infinito mistero celato nella nudità dell’amata avvenga senza profanazione, o come profanazione che pure lascia lo spazio perché ciò che è profanato sia mantenuto nella sua essenza di intoccabilità, di improfanabile”[1].Questa tensione desiderante che muove l’attenzione del desiderio su se stesso “per non decadere in semplice bisogno”[2], si traduce nella concretezza nell’evento della “carezza”. Questa indica a pieno titolo “il movimento dell’amante di fronte alla debolezza della femminilità, che non è, né pura compassione, né impassibilità, ma si compiace di questa compassione”[3], ponendosi come esperienza profonda della relazione erotica, in quanto relazione con la trascendenza, la quale allo stesso tempo cerca continuamente il contatto con l’intimità della nudità.

La carezza come momento della concretezza dell’eros, e come contatto con l‘altro, “è sensibilità”[4] , ma non di una sensibilità qualsiasi tale da restare imprigionata nella forma tutta immanente di un estetismo senza evoluzioni, ma di una sensibilità che attraverso la carezza, “trascende il sensibile”[5], non in un modo tale “che essa senta al di là del sentito, più profondamente dei sensi, né significa che essa si impadronisca di un cibo sublime, […], un’intenzione di fame che si dirige sul cibo che si promette e si dà a questa fame, la scava, come se la carezza si nutrisse della propria fame, al contrario, la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire-mai abbastanza avvenire-nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora”[6]. Amando l’amata, la carezza “ama il trascendente celato nel non-ancora-essere dell’amata”[7] permettendo così all’amato di donarsi all’amata in un “desiderio senza voluttà”[8] proponendosi come un atto profanatore di ciò che non può essere profanato, perché per natura improfanabile. Nonostante questo, la carezza è il segno tangibile della non “rinuncia alla comunicazione segnica corporea, non spirituale”[9] che traccia i confini di “un incontro integrale e paradossale, corpo e trascendenza uniti l’uno come desiderio che desidera la trascendenza, l’altra come trascendenza che si dona al desiderio come nudità o intimità”[10]. Quindi l’eros seppur interpretato in chiave prettamente metafisica, non rifiuta l’esperienza della corporeità che con la carezza viene descritta come “l’azione di una mano diretta dal desiderio verso l’intimità dell’amata, in un contatto del tutto sensibile con la pelle nuda, profanazione dell’intimità di Altri”[11]. Tuttavia se fosse solo questo, la carezza perderebbe di eticità e quindi di metafisicità, avvicinandosi invece sempre più ad una relazione di tipo ontologico, tale che il contatto tra io e Altri perderebbe la nozione di separazione da cui è caratterizzata la prossimità. Senza dubbio ciò che nella carezza è interpretato come voluttà, e cioè l’appetito della soddisfazione sensuale, “non viene soddisfatto nella pienezza di un compimento”[12], in quanto, in questo tipo di relazione che si viene a creare, con la carezza erotica, io non possiederò mai ciò di cui sento il bisogno[13] perché “l’appetito sensuale o il bisogno si soddisfano della nudità dell’amata, ma non si saziano di essa – soddisfazione che non coincide mai con il nutrimento”[14] o meglio coincide con un nutrimento del tutto particolare[15], che resta allo stadio dell’appetito, “che si sazia della sua fame”[16], “di una fame che rinasce all’infinito”[17] in quanto rivolto più che al cibo alla sua assenza, nella quale la carezza come non-ancora-essere trova la sua intenzionalità. Cosi la relazione etica in eros, non solo è salvata, non potendo essere assolutamente compresa, ma l’alterità “resta intatta nella sua nudità”[18], nella misura in cui l’Amata “si mantiene nella sua verginità”[19], nella notte dell’erotico, nella quale nello stesso istante in cui scoperto Eros, Eros sfugge “per esprimere in modo diverso la “profanazione”.

 

[1] S. LABATE, La sapienza dell’amore, Cittadella Editore 2007 cit., p. 150.

[2] Ibidem.

[3] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book – Milano, 1971, p.264.

[4] Ivi, p. 265.

[5] Ivi, p. 265.

[6] Ibidem.

[7] S. LABATE, La sapienza dell’amore, cit., p. 151.

[8] Ibidem.

[9] Op. cit., p. 151.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 152.

[12] Ibidem.

[13] “La carezza erotica non cerca una comprensione concettuale dell’altro; sull’orlo della profanazione dal di dietro del pudore, appare l’Altro non come oggetto del bisogno, ma come oggetto di un bisogno particolare tracciato dal desiderio dell’Altro, il bisogno voluttuoso.” A. JARNUSZKIEWICZ, Separazione e prossimità, cit., p.116.

[14] S. LABATE, op. cit., p.152.

[15] “L’amore è caratterizzato da una fame fondamentale e inestinguibile”, E. LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 37.

[16] Ibidem.

[17] Il tempo e l’altro, op. cit., p. 58.

[18] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.

 

[19] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.

 

 

Dimore divine

 

Chandra Candiani

 

 

 

Mai come in tempi di emergenza e di distanza forzata si sente l'essenzialità dell'insegnamento delle dimore divine. Poter inviare il bene da lontano, e inviarlo con precisione, fa di noi dei disciplinati postini che consegnano a domicilio anche nelle ore notturne auguri di bene, vicinanze trasparenti, strette delicatissime, carezze. E molti mantelli custodi.

Bisogna preparare il cuore, dargli il tempo di sentire, senza preferenze e opinioni, lasciare che il cuore scelga e si permetta di percepire. La tristezza quieta e vibrante che tira i fili e ci richiama a ospitare il male senza paura di contagi e danni irreversibili si chiama compassione.

Allora ci sediamo e chiunque arrivi alla nostra mente lo inviamo gentilmente al cuore, gli facciamo una cuccia. E non facciamo niente, solo ospitiamo, accarezziamo con il respiro, inspiriamo ed espiriamo insieme. Tutto il corpo, tutto il pensiero è un augurio di bene, senza decidere quale sia il bene giusto.

Portare al cospetto del cuore anche chi o che cosa ci crea turbamento e dolore, chi ci ha fatto torto, la relazione finita o rotta, e non fare niente: limitarsi ad assistere alla cura del cuore, alla trasparenza della nuda ospitalità. Forse niente si aggiusterà, certe volte c'è una risonanza nella realtà contingente e l'altro risponde, ma spesso quel che è rotto resta rotto; solo, i pezzi non sono piú acuminati, non feriscono piú: stanno. E noi contempliamo senza alcun parere né posizione. La cura del cuore è l'affidamento alla legge dell'impermanenza e della causa-effetto, ovverossia del karma. Affidandoci si calma la smania della riparazione e della rottura definitiva, affidandoci non sappiamo e aspettiamo. Quieti.

 

 

(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 71-72)

Che cos'è la spiritualità

 

 

 

Nel linguaggio della teologia contemporanea con il termine «spiritualità» si intende uno stile di vita, originato e derivato dall’esperienza religiosa personale, vissuto nel concreto della propria esistenza, in una prospettiva soprannaturale a lungo termine.

I contenuti oggettivi della spiritualità sono quelli della rivelazione cristiana, dei dogmi, della liturgia e dei documenti del magistero della Chiesa Cattolica; mentre le modalità soggettive con cui quei contenuti sono vissuti nel concreto dell’esistenza provengono dalla vita interiore del credente, di colui che prega e cerca continuamente la volontà di Dio su di lui.

La spiritualità intesa come stile di vita diventa progressivamente una cultura, in altre parole una interpretazione globale del proprio mondo. Infatti, l’esperienza dello Spirito Santo è sempre accompagnata da una qualche riflessione, più o meno attrezzata e sistematica. L’esperienza dello Spirito plasma così non solo il comportamento individuale e comunitario ma anche tutte le espressioni del credente, come l’arte, la politica, l’ambiente, l’impegno sociale, ecc. Ogni opera umana manifesta infatti la spiritualità, il pensiero e le intenzioni di chi l’ha realizzata.

Alcune parole di Stefano De Fiores e di Karl Rahner ci aiutano a comprendere meglio cosa sia la spiritualità:

“Per il credente è un imperativo rendere conto della sua esperienza religiosa, intesa come presenza vissuta e incontro di comunione con Dio; [il credente] deve cioè dimostrare che la sua fede non è un’arida astrazione, ma costituisce un tessuto connettivo di vita; deve in qualche modo ripetere con A. Frossard: “Dio esiste io l’ho incontrato”, pena la privazione di ogni forza convincente nella sua testimonianza.

[Inoltre] Più sentito attualmente è l’itinerario che muove dall’uomo, dal suo vissuto e dalle sue esperienze, per giungere a Dio. Si è convinti che Dio si può sperimentare sempre e in qualsiasi situazione, ogni volta che scendiamo nelle profondità della vita, là dove essa rivela la sua spaccatura, orientata ad accogliere il trascendente.

Ma se si può arrivare a Dio da qualsiasi strada, esistono esperienze privilegiate in cui l’uomo coglie la sua apertura a una dimensione superiore, a una realtà che dà consistenza a tali dati esperienziali e ne orienta il dinamismo.

Quantunque gli autori non coincidano nell’individuare queste esperienze privilegiate, ci sembrano significative quelle indicate da K. Rahner: «In una forma non ancora tematica l’uomo fa esperienza di Dio e accetta Dio come condizione di possibilità di alcuni atteggiamenti umani fondamentali, ad esempio là dove l’uomo spera incondizionatamente nonostante il fatto che dal punto di vista empirico la situazione sia disperata; là dove una singola esperienza di gioia è vissuta come promessa di una gioia illimitata; là dove l’uomo ama con una fedeltà e un abbandono incondizionati, nonostante il fatto che la fragilità dei partners non garantisce in alcun modo un amore radicalmente incondizionato; là dove l’obbligo etico è vissuto come radicale responsabilità, nonostante il fatto che apparentemente porta alla rovina; là dove l’uomo sperimenta e coglie incondizionatamente il carattere inesorabile della verità; là dove l’uomo nella pluralità dei destini umani riesce a sopportare l’invincibile discrepanza tra individualità e socialità, sperando fermamente - anche se tale speranza è apparentemente priva di fondamento e non si lascia oggettivare - in un senso finale o in una beatitudine che riconcilierà tutto. Tale esperienza di Dio è anche presente là dove l’uomo non ha nemmeno sentito la parola ‘dio’ e non l’ha visto usare come etichetta per indicare la realtà verso la quale la trascendentalità è orientata» (K. Rahner, “Kirchlische und außerkirchliche Religiositatät, in Stimmen der Zeit, 98 (1973), p. 9).

In genere si sperimenta Dio partendo sia dalla pienezza dei valori, sia dal vuoto e dai limiti della vita: l’uno e l’altro aspetto spesso si includono mutualmente”.

 

 

(da STEFANO DE FIORES, “Spiritualità contemporanea”, Nuovo dizionario di spiritualità, a cura di Stefano De Fiores e Tullio Goffi, Edizioni Paoline, Roma 1979, pp. 1516-1543. La citazione riportata è alle pp. 1528-1530).

Sulla mistica 

 

 

Antonietta Potente è religiosa domenicana, teologa, docente e scrittrice. L’abbiamo recentemente incontrata nel Giardino delle Beghine di Mantova, ove ha presentato il volume di Wanda Tommasi Vivere Dio qui e ora. La sapienza mistica di autrici del nostro tempo (Paoline, 2023), di cui ha curato la prefazione.

 

Antonietta, cosa si intende per mistica?

Si può intendere la mistica come un oggetto di studio. Per molti è così. Mentre io penso che la mistica non possa essere affatto ridotta ad un oggetto di studio, perché mistica è quella esperienza profonda della vita che è percepibile da parte di tutte le donne e di tutti gli uomini, sia pure in maniere diversificate in relazione ai contesti di vita.

 

Cercando parole per dirla – io ci sto provando, col mio lavoro, da molti anni – la mistica è riconoscere che la vita ha una sua propria profondità, sentire che nulla è banale, vuoto o “morto” nella vita: nel creato come nella storia.

 

Parlo di qualcosa che, di per sé, è inesprimibile o ineffabile. L’etimologia aiuta: la radice greca rimanda, infatti, ad una “bocca chiusa”, al silenzio più che a chiare parole dettate dalla pura e dura razionalità.

 

Perciò la mistica è vissuta più che detta. Tante donne e tanti uomini l’hanno vissuta e la vivono ogni giorno.

 

Io uso l’immagine dell’albero di cui vediamo il fusto, i rami, le fronde, non le radici che affondano nelle profondità: eppure, il “verde” che noi vediamo dipende da quelle.

 

La mistica, così intesa, ha dignità tra le discipline di insegnamento e di studio?

Al proposito, posso dire che nell’ambiente accademico ho sentito talvolta apostrofarmi: «scrivine, sei molto mistica!». Beh, questa battuta non esprime una seria considerazione della mistica nelle scienze: piuttosto denota come la mistica venga presa ancora oggi come una cosa “a parte”, una sorta di abbellimento, non indispensabile.

 

Mentre la mistica – nella maniera in cui la intendo – sta dentro tutte le scienze, non solo nelle discipline teologiche, bensì persino nella fisica o nella chimica del mondo.

 

Un narrazione di donne

La mistica è più femminile che maschile?

Proprio perché la mistica non può essere semplicemente detta, definita, se non raccontando la vita – la propria vita nel profondo – penso che tale narrazione riesca meglio alle donne piuttosto agli uomini. Noi donne siamo più portate a raccontarci, raccontando la nostra vita interiore.

 

Dico poi che la mistica è come il “luogo” ove si nasce e quindi si continua a rinascere: ciò ha molto a che fare con l’utero materno, con la madre, con uno specifico femminile.

 

Non voglio dire che non esista la mistica maschile. La stessa sensibilità sussiste nell’uomo. Penso, anzi, che gli uomini oggi possano e debbano rendersi conto della preziosità dei loro sensi – sia di piacere che di dolore -, saperli dire senza mascherare o nascondere, come meglio sanno fare le donne, soprattutto senza razionalizzare quelle sensibilità maschili che sono ritenute “troppo femminili”.

 

Questo nostro tempo è difficile per la mistica?

Non so se questo tempo sia più difficile di altri. La mistica sta nelle profondità della vita, ed è, perciò, normalmente, coperta da tanto altro, sempre.

 

Certamente, tuttavia, la caratteristica che ha preso il sopravvento nel nostro tempo è l’esteriorità, termine che ha un significato opposto a quello della profondità o a quello dell’interiorità, che meglio stanno con la mistica.  

 

Per altri versi, oggi, si parla sin troppo di mistica. Ho letto, ad esempio, che si parla di una “mistica dell’impresa”: ben venga! Ma mi sembra altro: una moda esibita con un linguaggio che poco o nulla ha a che fare con la sobrietà propria della mistica, delle mistiche e dei mistici: persone che sanno spogliarsi delle mode e delle tante cose superflue che ci ricoprono.

 

Ciò risulta particolarmente evidente in alcune figure della storia della Chiesa e non solo.

 

La Chiesa – o la storia umana in genere – come ha trattato le mistiche e i mistici?

Anche la Chiesa ha teso a separare la mistica o la spiritualità dalla fisica, incorrendo in quel dualismo che il cristianesimo nega. Non c’è niente di separato, come sappiamo: lo spirito è uno, questo nostro sentire è uno; la storia è una. Nei miei libri descrivo l’umano quale animacorporea, parola scritta proprio così, attaccata: invito tutti a fare altrettanto.

 

Il criterio col quale guardare all’autenticità della vita mistica è quindi la trasformazione. La mistica trasforma la vita. Trasforma la storia. Una mistica che non trasforma non è mistica.

 

Chi sono, allora, le mistiche e i mistici della Chiesa?

Maestre e maestri di mistica sono, per noi, ora, donne e uomini vissuti secoli fa: in realtà, la caratteristica di queste figure è di essere passate senza ritenersi maestre o maestri di alcuna e di alcuno. Tra le caratteristiche importanti delle figure mistiche è infatti proprio la differenza da ogni forma di affermazione di sé e di arroganza.

 

Pure un certo senso di insicurezza – o di dubbio – è proprio delle mistiche. Basta leggere il bel libro di Wanda Tommasi. Le certezze assolute sono troppo spesso coniugate con l’arroganza.

 

Mistica e religione

Una vita così misticamente vissuta può prescindere dalle appartenenze religiose?

L’animacorporea non è evidentemente proprietà delle Chiese e delle religioni. Perciò l’esperienza mistica – che è appunto di tutti gli esseri umani – non è proprietà di alcuna Chiesa o religione.

 

Peraltro, l’islam conosce esperienze mistiche bellissime, così come le religioni orientali; del cristianesimo, naturalmente, sappiamo.

 

Ciò che qualifica la mistica vissuta non è tanto, dunque, l’appartenenza religiosa, quanto quel “sentire” che salva anche nella notte buia del dolore e della morte: quel sentire che, in fondo, è il regalo più bello e più prezioso della vita.

 

Le religioni – avendo riconosciuto il “tesoro” – indebitamente, se ne sono appropriate, per vari motivi, del resto facilmente comprensibili: per distinguersi da chi nega l’esistenza del dono, per raffinare il proprio pensiero, per offrire sicurezza. Ma non è semplicemente possibile – e sbagliato – appropriarsi di ciò che è divino: la profondità della vita è il dono divino più grande, che è in tutto ed è in tutti.

 

La mistica viene da un “principio”, e questo principio, variamente inteso, è divino, non umano.

 

mistica11

 

La mistica può essere dunque il terreno di incontro di tutte le Chiese, di tutte religioni e, persino, di tutti gli umani?

La via dell’incontro nel cosiddetto “dialogo interreligioso” è piuttosto il silenzio interreligioso o semplicemente il silenzio umano di fronte al mistero della profondità della vita.

 

Penso che sia fondamentale oggi – più che parlare – ascoltare il mistero della vita, negli altri, nelle altre persone e culture: certo, questo significa anche parlare, ma senza pretese, senza avanzare un credo religioso.

 

È questo il tempo opportuno per una mistica sovra-religiosa?

Potrebbe esserlo, ma col criterio che ho detto, che è quello trasformativo. I mistici desiderano ardentemente la trasformazione di sé e del mondo.

 

Il mio timore – in questo tempo mercantilista al massimo grado – è che, ancora una volta, avvenga la separazione tra la sfera dello spirito (mistica) e la fisica o la storia.

 

Si, è senz’altro il momento opportuno: ciò non vuol dire affatto che sia un tempo facile. Anzi. Io parlo spesso di parto trasformativo. Nel parto c’è il dolore, c’è la nascita, c’è la gioia.  Nella madre, in realtà, avviene una trasformazione radicale, consapevole, accettata “costi quel che costi”.

 

La mistica e il mondo

Nella mistica non c’è, piuttosto, il rischio del ripiegamento su di sé e dell’allontanamento dal mondo?

Senz’altro, come ho detto, se la mistica diviene una disciplina di studio o un’esperienza di vita religiosa “a parte”. Ma non è questo.

 

Quando abbiamo una ferita, la sensibilità della nostra pelle aumenta: avvertiamo maggiormente il bruciore e il dolore, eppure è proprio quella sensibilità aumentata a guarirci, a “salvarci”. Similmente, la mistica realmente vissuta ci rende maggiormente sensibili a tutto e a tutti, insieme a noi stessi. Ed è ciò che ci salva.

 

Penso di aver scoperto l’importanza della mistica in America Latina, in un contesto tremendamente, socialmente, forte. Allora ho scritto di mistica e di politica, di mistica politica: due parole apparentemente molto lontane tra loro. Ora preferisco un approccio mistico-sapienziale: una sola parola che riguarda la vita tutta intera, le relazioni, le comunità umane.

 

Ecco, una volta che questa sensibilità mistica è acquisita – come fa la pelle – allora resta e la si porta ovunque. La mistica è in grado di produrre trasformazione sociopolitica.

 

Nella tua concezione la preghiera cos’è? Può essere un momento “a parte”?

La mia concezione della preghiera è molto vicina agli esicasti: la preghiera è incessante. Penso che la preghiera sia il modo di relazione con le profondità della vita o il modo di stare misticamente nella vita. Ma proprio perché questa vita va sentita, ascoltata, guardata, in silenzio, innanzi tutto, non penso si possa rinunciare ad un tempo nel quale stare semplicemente “seduti”, “senza fare nulla”.

 

In questo senso, non escludo una sorta di successione temporale: “prima” ci mettiamo “seduti” ad “ascoltare” senza fretta – perché troppi errori abbiamo fatto già e facciamo con la fretta -, “poi” ci mettiamo a fare, “dotati” dell’ascolto.

 

L’ascolto nella preghiera non è tuttavia qualcosa di astorico: l’ascolto sta anche nell’avvertire il grido dei popoli afflitti dal male nel mondo, popoli vessati da ogni sorta di violenza e di forze di potere.

 

Sono necessarie formule per pregare secondo la tua visione?

Ogni tradizione ha la sua mistagogia, la sua azione – secondo il significato stesso della parola – che verso il mistero della vita. Riti e liturgie tracciano, ma sono l’azione.

 

Il danno avviene quando tutto ciò diventa una formula che non aiuta più a sentire alcunché: allora si spegne l’afflato dell’animacorporea e per l’animacorporea, a vantaggio del controllo delle “sole” anime, spezzando così gli esseri umani: una parte va alle Chiese e alle religioni e l’altra parte va allo stato. Ma lo stato non è altro che l’unico, nostro, stare nel mondo da umani.

 

Ci sono fatti, eventi, esperienze della vita che più facilmente determinano l’atteggiamento mistico?

Penso a Margherita Porete o a Giovanni della Croce: hanno attraversato l’esperienza che definisco della Assenza-Presenza, l’esperienza della notte oscura del male radicale, senza tuttavia soccombere allo stesso. Il male sta nella percezione della lontananza, dell’Assenza. La Presenza sta nella percezione della vicinanza, dell’Amore. Ai giovani insegno che l’Assenza non è il contrario della Presenza, bensì che l’Assenza sta dentro la Presenza. Penso che in ciò stia l’esperienza mistica più forte.

 

Il nome e la titubanza

Nella mistica “classica”, specie femminile, molto spazio hanno le immagini dell’innamoramento e dell’amore sponsale…

Mi è sempre parso riduttivo e fuorviante – molto maschile – aver voluto rinchiudere la mistica delle donne nell’immagine dell’amore sponsale, anche se – certo – allo sposo si è dato il nome di Gesù. Margherita Porete ha usato altre espressioni: quella, ad esempio, della Dama Amore.

 

Il grande problema umano – nelle vicende della vita come della storia – è il vuoto di amore. Il male è il vuoto d’amore, l’Assenza. Mentre la divina Presenza è Amore.

 

Si può dire che Dio è Madre anziché Padre?

Provo qualche titubanza a dire semplicemente “Dio”: l’origine della parola – dal sanscrito – porterebbe più propriamente a pronunciare Luce.

 

 

Ma la divina Presenza è Amore, come ho detto: allora posso più facilmente dire “Madre” rispetto a “Padre”, perché la mia prima esperienza dell’amore è materna

 

Alessandro D’Avenia "La notte, il sonno e l'insonnia."

Salvo.

 

Mi sono improvvisamente svegliato dal sonno che è l'allenamento all'eternità e alla fratellanza. Infatti tutti insieme, nell'emisfero in ombra, sprofondiamo nel silenzio orizzontale, e la coscienza, finalmente sottratta ai travagli diurni, riposa in pace, non per morire, ma per avere più vita.

 

 

 

Da questo silenzio che rende tutti semplici mi ha svegliato l'ansia dell'indomani che voleva impormi in anticipo le sue parole, obblighi e maschere. Tutto era immobile, e potevo sentire un solo rumore: quello del cuore della notte (del giorno infatti non diciamo che abbia un cuore). Persino la città lo ascolta, spegnendo rumori di corpi e macchine, di desideri e necessità. Nelle case accadevano poche cose essenziali: amori, solitudini e incontinenze, ma non riuscivo a distinguere le gioie dei primi, le richieste d'aiuto delle seconde, gli sciacquoni delle terze. Stavo a occhi aperti nel buio screziato dai fanali che filtravano dalle persiane, come le paure e i pensieri nella mente, e supplicavo che il sonno tornasse. Il problema di un'insonnia è la disfatta del giorno dopo: la stanchezza duplicata con cui dovremo affrontare proprio ciò che ci sta imponendo l'allerta e per cui dovremmo invece prepararci con un sonno ristoratore. Eravamo allora in tre: la notte, l'ansia e io. Chi avrebbe avuto la meglio?

 

 

 

C'è stato un tempo in cui, bambino, ero all'altezza del sonno: senza incombenza altra che assecondare i ritmi del corpo, naturali come il giorno e la notte. Non c'erano schermi retroilluminati, lavoro diverso dal vivere, carriere da costruire, maschere da mostrare, burocrazie da sconfiggere, ma solo la pace dell'essere chi si è nel grande gioco del mondo, con l'unico desiderio di partecipare e trovare gioia nelle cose. Rimpiango quel sonno tutte le volte che vedo un neonato precipitare in pochi istanti in un sonno inscalfibile.

 

 

 

Nella vita poi arrivò la necessità di illuminare la notte per interrogazioni e prove per le quali non mi sentivo mai abbastanza pronto. Fu allora che capii che diventare adulti è solo cominciare a perdere il sonno. E poiché il sonno perso è perso per sempre (forse la morte sopravviene per il troppo sonno perduto), ne deve valer la pena. Infatti persi il sonno per il dolore di chi mi era vicino, un dolore che mi costringeva a rimanere sul chi vive.

 

 

 

Poi non ho dormito quando mi sono innamorato, dicevo il nome di lei come una litania, quasi che la ripetizione potesse accorciare la distanza o l'attesa. Non c'erano ancora i cellulari ma solo i citofoni, e così il desiderio e l'azione erano ben allenati dall'assenza, mentre i messaggi li riempiono di pigrizia, ambiguità e malintesi. Non ho dormito anche perché ho letto (ho sempre pensato alla camera da letto come la stanza in cui si è molto a letto, ma anche in cui si è letto molto). Non ci sono libri più belli di quelli che strappano il sonno, e credo che dovremmo provare a ricordare quali ci sono riusciti, perché quando le parole sono più forti dell'istinto di sopravvivenza che ci chiede riposo, allora quelle parole rispondono a un istinto più radicale di quello di non volere morire, che è quello di voler nascere. Quando ero ragazzino fino a tarda notte leggevo i fumetti: storie di paperi in cerca di avventure, di Galli che difendevano il villaggio dall'invasore, di supereroi che salvavano qualcuno dal male, perché in fondo nel cuore di un uomo questi sono tre i verbi dell'essere vivi: avventurarsi, lottare, salvare. Crescendo sono diventati altri i libri notturni, di età in età, ma coniugavano sempre quei tre verbi strappa-sonno.

 

 

 

Mi sono rammaricato quando le immagini del cellulare hanno cominciato a contendersi le pagine, ad accendere la notte con uno schermo retroilluminato, che ci eccita, al contrario della luce riflessa sulla pagina che prima o poi ci consegna alla pace. E poi non ho dormito per conoscere le lacrime, le carezze, le paure, gli abbracci, gli abbandoni e i ritrovamenti di corpo e spirito, mie e altrui. Ma l'insonnia di quella notte era solo l'ansia del futuro che si mostra nel frustrante rigirarsi al ritmo dell'inquietudine.

 

 

 

E allora ho cercato di accogliere il presente: se il cuore della notte era lì, allora c'era qualcosa da ricevere. La notte più lunga della letteratura è quella che Ulisse e Penelope passano insieme dopo essersi ritrovati, hanno così tante cose da dirsi e darsi che la dea Atena interviene per allungare il corso delle tenebre. Questo è il cuore della notte: un momento di verità. E la verità è che di giorno respiriamo male e la vita che viviamo ci sta stretta. Nel cuore della notte non si può fare o dimostrare nulla, si è chi si è e si è costretti al faccia a faccia, non si può fuggire, a meno di accendere il cellulare (che ucciderà quel cuore). È il momento di riconoscere ciò che ci soffoca nella vita diurna, per accoglierlo o lasciarlo andare.

 

 

 

La prima cosa che Ulisse confida a sua moglie in quella notte è ciò che gli pesa di più: sa come morirà. Deve dirlo a qualcuno, altrimenti come potrà dormire? E così le racconta tutta l'Odissea e dopo si concedono l'amore che li fa scivolare poi nel sonno. Per questo è fatto il cuore della notte, per trovare il proprio cuore e quello di chi ci ama, a cui confidare che cosa ci fa morire, l'odissea che stiamo attraversando, per poter ricevere e dare l'amore che vince la morte. E allora quelle ore di veglia non sono state sottratte al sonno, ma guadagnate alla semplicità della vita.

 

 

 

 

Così ho scoperto il cuore della notte e non una notte senza cuore. Ero stanco, ma ero salvo.

Diventare vivi

 

 "Istruzioni per arrivare vivi alla morte"

 

 

Vito Mancuso

 

Alla morte tutti arrivano di sicuro, ma vi si può arrivare vivi oppure già morti. Alcuni infatti vivono, ma in realtà sono già morti. Vivono, ma non pienamente, vivono a metà, a volte anche meno di metà rispetto alle loro potenzialità vitali, e quindi per buona parte sono già morti.

 

È ciò che insegna la storia di apertura del bestseller “Messaggio per un’aquila che si crede un pollo” del gesuita e psicoterapeuta indiano Anthony De Mello, pubblicato in America nel 1990 con il titolo “Awereness” e nel 1995 in Italia. Il grande successo del libro inquietò il Vaticano, che il 24 giugno 1998, con una nota della Congregazione per la Dottrina della fede firmata da Joseph Ratzinger, dichiarò le idee di de Mello “incompatibili con la fede cattolica” e tali da “causare gravi danni”. A mio avviso si tratta di un giudizio fondato nel primo caso, ma falso nel secondo, perché il libro non causa danni ma al contrario risana ferite; e lo può fare, io penso, proprio perché è incompatibile con alcune affermazioni (errate) della dogmatica cattolica. La storia racconta di un uomo che trovò un uovo d'aquila e lo mise nel nido di una chioccia. L'uovo si schiuse insieme agli altri e l'aquilotto crebbe con i pulcini trascorrendo tutta la vita come un pollo pensando di essere tale. Un giorno la vecchia aquila vide nel cielo uno splendido uccello che planava maestoso e chiese stupita: “Chi è quello?”. “È l'aquila, il re degli uccelli”, rispose il vicino. “Appartiene al cielo, noi invece apparteniamo alla terra perché siamo polli”. E così l'aquila visse e morì come un pollo, perché pensava di essere tale.

La storia insegna che si può arrivare morti alla morte. E che questo avviene perché si vive in modo difforme rispetto alla propria natura. Specularmente insegna che vi si arriva vivi se si vive in modo conforme alla propria natura. Qual è la natura specifica degli esseri umani? È quella di non avere una natura specifica. Si può quindi concludere che la specificità, seguendo la quale viviamo in modo conforme alla nostra natura e arriviamo vivi alla morte, è la libertà. La libertà si compone di tre qualità: consapevolezza, creatività, responsabilità. Ora, visto il tema che stiamo trattando, mi soffermo in particolare sulla consapevolezza in quanto chiave indispensabile per arrivare vivi alla morte. Praticare la consapevolezza significa lavorare sulla propria interiorità operando coltivazione di sé, concentrazione, attenzione, vigilanza, raccoglimento, silenzio, riflessione, meditazione: un insieme di pratiche che può essere detto “esercizi spirituali” o anche “pratica di consapevolezza”. 

 

Il lavoro finalizzato alla consapevolezza costituisce la vera cultura e il vero culto. La radice delle parole cultura e culto è la medesima, è il verbo latino colo, colere, “coltivare, aver cura”: sia nel senso di un lavoro esteriore espresso dal sostantivo “agricoltura”, sia nel senso di un lavoro interiore espresso dal sostantivo “culto”. Gramsci aveva della cultura un’idea analoga: “La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore”. L’espressione “disciplina del proprio io interiore” fa comprendere che esiste una duplice dimensione dell’io: esteriore e interiore. Si arrivi vivi alla morte se si coltivano entrambe le dimensioni della nostra personalità. Le quali però hanno una grande differenza tra loro: l’io esteriore infatti via via deperisce, mentre l’io interiore può fiorire fino all’ultimo giorno. È quanto Gramsci denominava “coscienza superiore”.

 

Si potrebbe obiettare che con la consapevolezza si comprende che ogni istante è un passo verso la fine e che quindi sarebbe meglio non esercitarla. È quanto fanno i più, preferendo non pensare e anestetizzare la mente. Ha scritto Montaigne: “Il rimedio del volgo è di non pensarci”. Accantonano l’angoscia e vivono; magari come un pollo, ma vivono. È possibile invece essere consapevoli della fine e insieme vivere in modo lieto e persino nobile come un’aquila?

 

Rispondo convinto di sì, avendo osservato che proprio chi coltiva la consapevolezza tramite il lavoro spirituale abbandona ogni paura della morte e vive con serenità. Comprende la vera natura della vita e vive con più autenticità ogni minuto, consapevole della preziosità del tempo che non tornerà più e dedicandosi ad attività che danno la vera gioia profonda, e non l’effimera felicità del momento. Coltiva la consapevolezza della morte non come paura o addirittura odio della vita, ma come amore veritiero della vita (non del proprio ego, ma della vita).

 

 

Nel passato incombeva un pensiero ossessionante della morte usato per generare paura di Dio e dei castighi dell’inferno e così controllare le coscienze. Si ripeteva: “Ricordati che devi morire” come una funebre terrorizzante litania. I segni del lutto, poi, erano ovunque ad ammonimento continuo. Oggi siamo in presenza dell’eccesso opposto: la vita trascorre all’insegna del divertimento, la morte la si vede solo nei film e si cammina nelle nostre città senza scorgere nessun segno di lutto. La gente però muore lo stesso, e l’angoscia, ben lungi dall’essere scomparsa, forse è persino superiore rispetto al passato quando poteva manifestarsi pubblicamente. Che fare? L’unica via per arrivare vivi alla morte è, come ho detto, la pratica della consapevolezza, il lavoro interiore in quanto cultura e in quanto culto. Potrei citare insegnamenti di grandi pensatori e maestri spirituali, ma ho iniziato con de Mello e concludo con questa suo consiglio: “Il modo per vivere realmente è morire. Il passaporto per la vita è immaginarsi nella tomba. Immaginatevi di giacere nella bara. Ora, osservate i vostri problemi da quel punto di vista. Cambia tutto, non è vero? Che bella meditazione. Fatela ogni giorno, diventerete più vivi”.

Graziato

 

di Alessandro D’Avenia

 

La misura della felicità è la gratitudine. Alla fine di ogni giorno, anche il più difficile, cerco di scegliere qualcosa per cui ringraziare e alla fine di ogni settimana scrivo su un foglio quale è stato il dono più bello, così da avere alla fine dell’anno un «salvadonaio» di una cinquantina di «presenti» che hanno reso unico l’anno «passato». Volevo partire da qui per «riprendere» la rubrica dopo la pausa estiva. La «ripresa» è ben diversa dalla «ripetizione»: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport... vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. Diverso è «riprendere»: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima... Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti «ripetente» è sinonimo di bocciato e «mi sono ripreso» di salute: facciamo una «ripresa» quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia «ripetuto» ma «ripreso»?

 

Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. Atena interviene sovente per versare su Ulisse la charis, grazia, che lo rende bello e luminoso come un dio (ne rimane traccia nel nostro «carisma»). La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive. Ricordo le parole di una cugina pochi mesi prima di morire, non la vedevo da tempo e, dopo averle raccontato del periodo difficile che attraversavo, lei, con gli occhi di chi vede oltre le apparenze, mi ha detto: «Sei ammaccato, è vero, ma sei molto più bello». Avevo grazia. La grazia quindi non riguarda solo ciò che è piacevole, il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. Per me è stata una grazia scoprire la mia chiamata a insegnare da giovanissimo ma lo è stata anche grazie all’insufficienza nella mia prima interrogazione in greco, che è così diventato la mia passione. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. Nel racconto evangelico, quando Maria riceve l’annuncio, il messaggero divino la chiama «piena di grazia», ma trattandosi di un verbo si potrebbe tradurlo anche «fatta di grazia, riempita di dono». La radice è sempre quella dell’omerico charis. Ne rimane traccia nel nostro «graziato» per chi scampa la morte o in «grazioso», versione per lo più meridionale forse più sopportabile di «carino». In italiano restano poche tracce della potenza salvifica e quotidiana di questo termine, e i «colpi di grazia» non danno la vita ma la morte. La grazia è invece la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. A Maria veniva annunciata la possibilità di rimanere incinta in modo misterioso e quindi di essere considerata da tutti un’adultera. Sembra paradossale ma quella grazia, essere la madre di Dio, avrebbe comportato un’onta allora meritevole di lapidazione. Per questo non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire. Nel recente film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella. L’aragosta quando deve crescere si nasconde, si spoglia della scorza rigida, rimane in carne viva fino a che non si forma una nuova corazza. È un momento di paura, nudità, dolore, ma necessario alla sua vitalità. Il giorno del mio matrimonio un’amica mi ha chiesto di riassumere in una sola parola il mio stato: «Graziato». Stavo ricevendo un dono inatteso, il dono dell’amore che mi ha raggiunto proprio quando mi sentivo a pezzi. Vorrei allora che questo primo ultimo banco dell’anno, sia una vera ripresa e vi invogliasse a fermare, magari su carta, la grazia che riceverete oggi, domani, dopodomani... fosse anche ruvida o piccolissima, perché in ogni grazia si nasconde una via di salvezza, di compimento, di gioia. Per riconoscere una grazia bisogna chiedersi se ci porta a diventare più veri, belli e compiuti. E magari queste righe, per chi è arrivato fin qui, saranno per due o tre la piccola grazia odierna. Io vorrei imparare a tenere gli occhi sempre ben aperti per saper ricevere le mie grazie quotidiane, come afferma senza mezzi termini Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo, Il passeggero: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta».

Accarezzare la fragilità dell'altro

 

 

 

 

Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.

Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.

La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.

La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.

Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.

La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.

Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.

Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.

La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.

Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.

È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.

La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.

E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.

 

 

Per una spiritualità del quotidiano

 

Luciano Manicardi

 

 

 

 

1. Il quotidiano: perché?

 

Perché riflettere sul quotidiano? Perché nulla esiste fuori di esso: tutto avviene nel quotidiano, anche lo straordinario, che ci viene rivelato dall'ordinario e non esisterebbe senza di esso. E poi perché ciò che è familiare non per questo è conosciuto. Il quotidiano ci avvolge e, poiché vi siamo immersi, siamo portati a non prestarci attenzione. «Vivendo non ci vediamo vivere» scrive Ernst Bloch. [1] «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. Non ce ne accorgiamo, perché li abbiamo sempre davanti agli occhi». [2] E così rischiamo di fallire il quotidiano, di mancarlo, e di non imparare da esso. Il rischio è di darlo per scontato. E allora solo le crisi, irrompendo nella vita, hanno il potere di destarci dal sonno in cui eravamo immersi e rivelarci la preziosità del quotidiano. La crisi del Coronavirus ci ha mostrato il carattere non scontato delle nostre azioni quotidiane più elementari: camminare, lavorare, incontrarsi, abbracciare, darsi la mano, perfino respirare. Perché dunque riflettere sul quotidiano? Per uscire dall'abitudine che ci porta a ignorare l'abituale; per riscoprire la preziosità di ciò che non ci stupisce più. Il quotidiano noi «non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte, come se non trasportasse nessuna informazione. Non è neanche più un condizionamento, è l'anestesia. Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov'è la nostra vita? Dov'è il nostro corpo? Dov'è il nostro spazio?». [3] «Tutto qui?», ci porta a dire il quotidiano. Eppure, «anche in un cucchiaino da caffè si rispecchia il sole», [4] tanto che dobbiamo chiederci: esistono cose «banali»? O la banalità non risiede piuttosto in chi nutre tali giudizi? Scrive magistralmente Rilke nelle sue Lettere a un giovane poeta: «Se la sua vita quotidiana le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da chiamarne per nome gli aspetti preziosi; per colui che crea, infatti, non c'è povertà, e nessun luogo è povero o insignificante». [5] La quotidianità rischia di restare sconosciuta o conosciuta male, svalutata rispetto alle cose ritenute grandi e importanti. Eppure, è nel quotidiano che noi realizziamo la nostra umanità, ci costruiamo come persone, edifichiamo le relazioni che danno senso, sapore e fondamento al nostro vivere: amicizie, amori, una famiglia. Ovvero, le piccole cose del quotidiano non sono poi così piccole. Perché dunque riflettere sul quotidiano? Perché, scrive Maurice Blanchot, è «la cosa più difficile da scoprire». [6] Perché il quotidiano «sfugge» – ripete ancora Blanchot –, si sottrae alla nostra coscienza a motivo della noia, della ripetitività, della consuetudine, perché ci riduce alla condizione di uomo qualunque, che fa ciò che fanno tanti altri; il quotidiano sfugge alla grande storia e potrebbe apparire come la stagnazione che impedisce di librarsi, il freno che blocca la corsa, l'anonimato che spegne l'originalità. [7] Perché allora, e infine, riflettere sul quotidiano? Per porci finalmente una domanda, anzi, le tante domande che normalmente evitiamo. Abbiamo coscienza del quotidiano? Lo vediamo? Sappiamo dirlo e descriverlo? Come si riflette in noi l'abituale? I muri in mezzo a cui viviamo, i negozi che frequentiamo, le vie che percorriamo, gli oggetti che usiamo: possibile che ciò con cui più abbiamo a che fare ogni giorno non eserciti su di noi un'influenza? Possibile che lo possiamo tralasciare senza preoccuparcene? In verità, le «cose» di ogni giorno parlano di noi, di quel che siamo. Dove le «cose» non sono semplicemente gli oggetti, ma coprono l'ambito del materiale e dell'immateriale, del visibile e dell'invisibile, sono l'esterno che influenza l'interno e l'interno che si riflette sull'esterno, sono il dialogo ininterrotto che i sensi stabiliscono con il mondo e con cui il mondo tocca la nostra anima attraverso i sensi. Il quotidiano ha dunque una valenza antropologica, ma anche spirituale. E deve interpellare anche il cristiano. Non possiamo forse intendere riferito al quotidiano, alla piccolezza dell'ordinario, l'espressione evangelica che parla di chi è «fedele nel poco» (Mt 25,21.23) e riceverà autorità su molto?

 

2. Il quotidiano, il vangelo, Gesù

 

Per il cristiano il quotidiano è il luogo del culto esistenziale. Karl Rahner afferma che il quotidiano è «lo spazio della fede, la scuola della sobrietà, l'esercizio della pazienza, il salutare smascheramento delle parole pesanti e degli ideali fittizi, l'occasione silenziosa per amare ed essere fedeli in modo autentico, la prova dell'obiettività, che è il seme della sapienza più alta». [8] Dunque, il quotidiano, interpellando la nostra umanità, interpella anche la nostra fede.

Il rapporto quotidianità-vangelo ci suggerisce di assumere un punto di vista altro sul vangelo stesso. Una spiritualità del quotidiano non può che nutrirsi di un approccio al vangelo che interroghi la prassi di umanità di Gesù, che lo consideri nel rapporto con le cose e le attività di ogni giorno, con le realtà elementari del vivere, realtà da cui Gesù non era esentato ma in cui noi normalmente non lo pensiamo. Anche Gesù ha vissuto nel e del quotidiano. E in questo quotidiano ha nutrito la sua fede, ha pregato e riconosciuto la presenza di Dio. E ha illuminato il presente guardandolo con l'occhio del domani, ovvero, del regno di Dio: si pensi alle beatitudini (Mt 5,1-12). Gesù ha camminato, ha mangiato e bevuto, ha partecipato a banchetti nuziali, ha dormito, ha incontrato la realtà del lavoro e dei rapporti famigliari e sociali, ha intrattenuto conversazioni e relazioni, ha parlato e fatto silenzio. Gesù ha osservato il granello di senapa e la massaia che fa la pasta, il seminatore e il mietitore, il pescatore che getta le reti in mare e che lava le reti dopo la pesca, ha soggiornato in una casa, ha avuto degli amici, ha osservato corvi e volpi, passeri e cani, gigli e anemoni dei campi e, come appare dalle parabole, ha fatto della sua osservazione del quotidiano la base del suo insegnamento. Ha annunciato il regno di Dio non con discorsi astrattamente teologici, ma parlando di una chioccia che raduna i pulcini sotto le ali e di un uomo che ammannisce un banchetto per le nozze del figlio, ha osservato i movimenti e i colori delle nuvole in cielo per dedurne i cambiamenti del tempo, ha tastato i rami del fico, e, sentendone la tenerezza, ne ha dedotto la vicinanza dell'estate.

Se il quotidiano parla di Dio, Gesù ha detto Dio parlando del quotidiano.

Se ha detto «amate i vostri nemici», «fate questo in memoria di me», «pregate per non entrare in tentazione», ha anche detto «guardate gli uccelli del cielo», «dalla pianta di fico imparate la parabola». Il suo linguaggio era narrativo e sapienziale, popolare, intriso di aforismi e proverbi e sgorgato dall'esperienza quotidiana: «se il sale perde il sapore con che cosa lo si renderà salato?» (Mt 5,13); «non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio» (Mt 5,14); «dov'è il tuo tesoro lì è anche il tuo cuore» (Mt 6,21); «chi chiede riceve, chi cerca trova, a chi bussa verrà aperto» (Mt 7,8); «si raccolgono forse uve dalle spine o fichi dai cardi?» (Mt 7,16). Si potrebbe continuare a lungo, ma l'insegnamento è chiaro: l'umanità di Gesù è stata plasmata dal confronto con il quotidiano, un quotidiano colto sempre come riflesso e annuncio del regno. Oggi un approccio spirituale cristiano al quotidiano può essere nutrito dall'assiduità (quotidiana) con il vangelo guidata dalla domanda: come vive Gesù? Come parla? Come incontra le persone? Come le cura? Come ama? Come declina la sua umanità?

Tuttavia, se Gesù ha valorizzato la realtà quotidiana come luogo teologico, egli ha anche messo in guardia dall'assolutizzazione di essa e delle realtà penultime. Gesù ha indicato il rischio di fare delle occupazioni quotidiane l'orizzonte saturante dell'esistenza. Il quotidiano può infatti diventare la preparazione della catastrofe esistenziale. Così Gesù si esprime in un discorso escatologico: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo» (Mt 24,37-39). Prima di annegare nel diluvio, la generazione di Noè è annegata nella propria incoscienza, nell'inconsapevolezza di ciò che si stava preparando. La versione lucana dell'episodio aggiunge la dimensione del lavoro al quadro del quotidiano della generazione di Noè: «mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano» (Lc 17,28). Ovviamente, mangiare e bere, sposarsi e fare figli, commerciare e lavorare la terra, così come tutto ciò che costituisce l'ossatura della vita quotidiana, non è per nulla riprovevole. Tuttavia, il testo interpella sulla possibilità di vivere senza sapere perché, di vivere annegando nella quotidianità. Infatti, non è nella profondità che si annega, ma nella superficialità. [9] Un approccio spirituale cristiano al quotidiano non può che essere escatologico: la prospettiva del regno che viene illumina l'oggi valorizzandolo nella sua preziosità infinita e relativizzandolo per impedire le derive idolatriche.

Certo, nei vangeli noi non abbiamo la descrizione in presa diretta del quotidiano di Gesù. Quello è inattingibile. I vangeli presentano dei racconti, non dei fatti, ma dai racconti possiamo risalire alle modalità con cui Gesù vive il quotidiano facendone il luogo in cui Dio stesso è presente e gli parla. Se il quotidiano parla di Dio, Dio parla nel quotidiano. In questo atteggiamento di Gesù noi troviamo il fondamento per un approccio spirituale cristiano al quotidiano.

 

3. Di cosa è fatto il quotidiano?

 

Per parlare del quotidiano occorre vederlo e nominarlo, e noi abbiamo già notato come esso sfugga, sia poco visibile e riconoscibile. Il quotidiano è la vita come normalmente non la vediamo. Ciò che lo rivela, infatti, è anche ciò che lo nasconde. Per esempio, la ripetitività. Tutto ciò che è vitale dev'essere ripetuto quotidianamente, ma ciò che è ripetuto viene anche eseguito meccanicamente, senza pensarci. Il quotidiano è intessuto di una quantità di gesti memorizzati e quasi automatici che sono sopportabili proprio per non dover essere pensati e decisi: il rito mattutino della colazione, il percorso del pendolare per andare e tornare dal lavoro, i gesti sempre identici della commessa nel supermercato, ecc. Molti sono i nemici del quotidiano, o almeno le difficoltà che esso presenta a tanti contemporanei: l'abitudinarietà, la routine, la noia che ingenerano la tentazione della fuga.

Il quotidiano poi, costituito da una serie di atti «umani» elementari come mangiare, dormire, lavorare, riposare, parlare, ecc., comprende anche gesti come prepararsi un caffè, fare una passeggiata, contemplare le stelle, fare cucina, uscire sul balcone, leggere un giornale o un libro, salutare chi si incontra, conversare con un conoscente, giocare con il proprio cane, ridere o piangere, scherzare, arrabbiarsi, comprare un vestito, andare in un negozio... E dovremmo aggiungere il quotidiano contemporaneo, ovvero gli elementi che rendono il nostro quotidiano differente dal quotidiano di chi visse anni o decenni fa: guardare la televisione, prendere un aereo, navigare in internet, telefonare con un cellulare, usare uno smartphone, un iPad, interagire con Alexa Voice Service, ecc. Siamo di fronte alla tecnologizzazione del quotidiano, al quotidiano alla prova del web e dell'algoritmo. Potremmo dire con una boutade: non c'è più il quotidiano di una volta!

Un approccio spirituale al quotidiano implica che ci poniamo qualche domanda: che cosa facciamo del quotidiano? O meglio, che cosa facciamo di noi attraverso il quotidiano? Ma più spesso dobbiamo porci la domanda, sempre tardiva: che cosa ha fatto di noi il quotidiano? Che cosa ci ha resi? E nella non-vigilanza, nell'accumulare ore di vita incoscienti di sé che si nasconde la banalità del male e si costruisce la rovina di un'esistenza personale.

 

4. Il rapporto con il tempo

 

La quotidianità ha a che fare anzitutto con il tempo, con il suo scorrere giorno dopo giorno. Ha a che fare con la durata, con la difficile impresa di non lasciarsi andare nel giorno dopo giorno. La quotidianità ci interpella sul modo in cui viviamo il tempo. Ci chiede se e come sappiamo vivere i tempi dell'attesa, o se per noi questi sono sempre e solo «tempi morti», sottratti a una vita che sarebbe caratterizzata essenzialmente dal fare. Ci interpella sulla perseveranza, sulla fedeltà, sull'equilibrio che riusciamo (o no) a stabilire fra memoria e proiezione al futuro. A volte le nostre vite inaridiscono nella paralisi rimanendo ostaggio del passato, oppure si consumano in fughe in avanti e nelle illusioni che le accompagnano. La sottolineatura evangelica dell'oggi, categoria cronologica che si carica di valenze cristologiche e teologiche, conduce, sul piano spirituale, a un apprezzamento del momento presente e all'adesione alla realtà. Di fronte all'angoscia di un passato che non passa e a un futuro che impaurisce, la sapienza biblica suggerisce di cogliere il momento presente come frammento in cui possiamo vivere il tutto che dà senso all'intera nostra vita. È vano affannarsi per il domani, infatti «a ciascun giorno basta il suo affanno» (Mt 6,34): occorre piuttosto accogliere realisticamente ogni giorno con il suo portato di peso e di grazia e, come scrive Bonhoeffer, viverlo «come se fosse l'ultimo e vivere però nella fede e nella responsabilità come se ci fosse ancora molto futuro davanti a noi». [10]

In particolare, accogliere l'inizio di ogni giorno e le realtà quotidiane con il rendimento di grazie (1Tm 4,4: metà eucharistías) è operazione spirituale semplice ma efficace per accogliere come un dono e per 'vivere evangelicamente ogni giornata. E il vangelo (si veda la parabola di Mc 4,26-29 che tratta dell'efficacia del non agire) suggerisce la valorizzazione dell'antica virtù dell'otium. L'otium non è pigrizia, ma lavoro interiore, costruzione del saldo fondamento su cui si può reggere una vita. Otium significa ritrovare il tempo, abitare finalmente il tempo, lasciare che il tempo sia. Che sia: assolutamente, incontaminato, non determinato, non funzionale. «È tempo che sia tempo», è la folgorante illuminazione di Paul Celan. [11] E nell'arte di vivere interiormente il tempo risiede il segreto per vivere spiritualmente il quotidiano, arrivando a conoscere «la bellezza di tutte le ore del giorno, come se ognuna fosse già una piccola eternità». [12] Il tempo apparirà allora il vero tempio, il luogo dove è possibile fare dell'esistere una celebrazione del quotidiano. Siamo invitati all'arte di soffermarci sulle cose, di contemplare. Ma alla base di un rapporto spirituale sano con il quotidiano, il vangelo pone l'esigenza della vigilanza.

 

5. La vigilanza

 

La vigilanza, dimensione spirituale centrale nel NT (Mc 13,37; Mt 24,42-44.45-50; 25,1-13; Lc 21,34-36; 1Cor 16,13; Col 4,2; lTs 5,6; 1Pt 5,8; ecc.), è l'atteggiamento di tensione interiore per discernere la presenza del Signore nell'opacità del reale. Nel suo essere tesa al Signore, essa diviene attenzione al tempo e alla storia, al corpo e alla parola, a sé e agli altri, in una parola, a tutto, e plasma una persona che aderisce alla realtà, che non dà nulla per scontato, che fugge la superficialità e da tutto si lascia interpellare e stupire. La persona vigilante è lucida, critica, temperante, presente a se stessa e agli altri, a tutto ciò che vive. Non stupisce che un padre del deserto, abba Pomen, abbia potuto affermare che «non abbiamo bisogno di null'altro che di uno spirito vigilante». [13]

 

5.1. Alcuni passi evangelici illuminano aspetti diversi della vigilanza

- «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo che è partito, dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate, dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!» (Mc 13,33-37). Non abbiamo potere sul tempo, non conosciamo il giorno della venuta del Signore e nemmeno quando la nostra vita finirà: «Chi può aggiungere un'ora sola alla sua vita?» (Lc 12,25). Come il Signore verrà come un ladro, così la morte giunge improvvisa: «Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Lc 12,20). Della vigilanza fa parte la consapevolezza di dover morire. Il quotidiano ci insegna la lezione dei limiti e del limite per eccellenza che è la morte. La Regola di Benedetto chiede al monaco di «avere ogni giorno presente davanti agli occhi l'imminenza della propria morte» (RB IV,47). L'arte di integrare la prospettiva della propria morte nella vita non è esercizio macabro, ma sapiente ascesi in vista di vivere meglio. È la vigilanza che crea la qualità cristiana della persona nel momento stesso in cui ne plasma la profondità e lucidità umane.

- «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso» (Lc 21,34). Vigilanza è anche sobrietà, moderazione, misura. Il quotidiano ci minaccia con il rischio dell'appesantimento del cuore, del suo indurimento, del suo divenire cinico, insensibile, calloso. Vigilanza è allora attiva lotta contro gli eccessi del cibo e del bere che appesantiscono non solo il corpo, ma anche l'animo, contro la sonnolenza e l'ubriachezza, contro il sonno come fuga dalla vita e contro l'ubriachezza come evasione dalla lucidità, stordimento. Una tentazione contemporanea è la fuga da sé, connessa alla crescente fatica di reggere il peso di un quotidiano sentito come sempre più complesso. [14] La vigilanza chiede temperanza: i tre termini usati in Lc 21,34 evocano gli ambiti della sessualità, che può essere luogo di uso e di abuso invece che di tenerezza e verità dell'incontro; del mangiare e del bere, che possono divenire non occasione di convivialità e di gioia condivisa, ma di abbrutimento e di volgarità.

- Infine, la vigilanza si deve esercitare nei confronti degli affanni della vita. Potremmo tradurre con «angosce esistenziali». La preoccupazione smodata per il proprio io, per la propria salute, per il proprio corpo, per la propria riuscita: ci si lascia prendere dalla preoccupazione per sé e non si vede più la realtà, ma solo sé stessi. Oppure, sono le troppe e soverchianti sofferenze che ci gettano nella confusione, ci fanno entrare in uno stato di annebbiamento mentale in cui non siamo più padroni della nostra vita. E allora si rende drammaticamente vero nella nostra esistenza il verso del poeta Thomas Stearns Eliot che dice: «Dov'è la Vita che abbiamo perduto vivendo?». [15] La non-vigilanza ci porta a esistere senza vivere, a perdere la vita vivendo.

Insomma, vigilanza è atteggiamento che comporta un lavoro, uno sforzo, una lotta. È lotta contro la vertigine, contro l'ebbrezza della fuoriuscita da sé nella via dell'eccesso; è sforzo di non essere dissipati, è adesione alla realtà che insegna l'umiltà, è fatica di stare svegli, di avere gli occhi ben aperti. Essere pronti è un contrassegno della persona vigilante: sono pronte le vergini che hanno con sé le lampade con l'olio e possono accogliere lo sposo (Mt 25,10). Vigilanza è dunque anche prudenza, senso del limite, accortezza. Di certo, una spiritualità del quotidiano esige sia la valorizzazione dei sensi che il loro affinamento e la loro purificazione.

 

6. Un tramonto: maestro di vita

 

Vivere spiritualmente il quotidiano significa coglierlo come invito a entrare nella propria interiorità e inventare pratiche illuminate dal senso e abitate dalla gratuità. Così può essere unificata la molteplicità stessa del quotidiano: il quotidiano del lavoro, della vita in famiglia, dei rapporti sociali, del rapporto con la natura... L'incipit di un libro di Emanuele Trevi esprime con nitore un approccio «spirituale» a un fenomeno naturale quotidiano: il tramonto.

«Si può recensire un tramonto? Questa sera di dicembre, affilata dalla tramontana, ha appena finito di eseguire una sua geniale serie di variazioni sui temi del rosso-porpora e del lilla. Apparentemente, nessuno qui intorno sembrerebbe essersi meritato un tale principesco dispendio di bellezza. Perlomeno, di fronte a questi virtuosismi dell'apparenza, io mi sento un poco abusivo». [16]

Capacità di vedere e di stupirsi di ciò che si vede, senso di gratuità, riflesso interiore del paesaggio esteriore, dialogo con il mondo esterno, risposta a ciò che si è visto, coinvolgimento personale: tutti elementi che entrano nella configurazione di una postura spirituale nei confronti di un dato di quotidianità. E che ci rinviano alla creatività.

 

7. La creatività

 

La creatività è una modalità di rapportarsi al mondo possibile a ogni uomo [17] e che consiste nella capacità di vedere, ascoltare e rispondere. Dove capacità di vedere e ascoltare significa adesione alla realtà e consapevolezza. Il rapporto con il quotidiano ci pone la domanda se siamo davvero capaci di vedere e di ascoltare (Gesù rimprovera i discepoli che guardano e non vedono, hanno orecchie e non ascoltano: Mc 8,18), se siamo capaci di rispondere a ciò che ci circonda e ci parla. Il creativo si muove nel mondo come ci si addentra in un dialogo incessante con tutto e con tutti. Nella creatività tutto parla e niente è scontato. Di essa fanno parte la capacità di stupore e di concentrazione, il rispetto della propria originalità e l'accettazione dei conflitti. In sintesi, la creatività è disposizione della persona a nascere a se stessa ogni giorno. Ha scritto Eric Fromm: «Essere creativi significa considerare tutto il processo vitale come un processo della nascita e non interpretare ogni fase della vita come una fase finale. Molti muoiono senza essere nati completamente. Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire». [18] Il quotidiano è il luogo di questa nostra nascita.

 

 

NOTE

 

1 E. BLOCH, Spirito dell'utopia, La Nuova Italia, Firenze 21993, p. 13.

2 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, p. 70.

3 G. PEREC, L'infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino1994, p. 12.

4 S. GIEDION, L'era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967, p. 12.

5 Cito dalla traduzione presente in R.M. RILKE, Lettere a un giovane, Qiqajon, Bose 2015, p. 30.

6 M. BLANCHOT, L'infinito intrattenimento. Scritti sull'«insensato gioco di scrivere», Einaudi, Torino 21977, p. 321.

7 BLANCHOT, L'infinito intrattenimento, pp. 321-331.

8 K. RAHNER, Cose d'ogni giorno, Queriniana, Brescia 42016, pp. 6-7.

9 Più estesamente su questo aspetto: L. MANICARDI, Abitare: sé stessi e con gli altri, Qiqajon, Bose 2019, pp. 19-23.

10 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1988, p. 72.

11 P. CELAN, Poesie, Arnoldo Mondadori, Milano 1998, p. 59 (è la poesia Corona).

12 JEAN GUITTON, Prefazione a J. H. NEWMAN, Les Bénedictins, Paris 1980, citato in C. NYS-MAZURE, Celebrazione del quotidiano, Servitium, Sotto il Monte 2006, p. 11.

13 Poemen 135, in Vita e detti dei padri del deserto, vol. 2, Città Nuova, Roma 1975, pp. 116-117.

14 D. LE BRETON, Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, Raffaello Cortina, Milano 2016.

15 T.S. ELIOT, La Roccia. Un libro di parole, Edizioni Biblioteca di via Senato, Milano 2004, p. 27.

16 E. TREVI, Istruzioni per l'uso del lupo. Lettera sulla critica, Elliot, Roma 2012, p. 17.

17 Cf. E. FROMM, «L'atteggiamento creativo», in H.H. ANDERSON (a cura di), La creatività e le sue prospettive, La Scuola, Brescia 1972, pp. 67-78.

18 FROMM, L'atteggiamento creativo, in op. cit., p. 77.

 

 

(FONTE: Orientamenti Pastorali 5/2023, Dossier "La spiritualità del quotidiano", pp. 27-36)

Vivo!

 

Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi restano mesi da vivere.»

 

 

- Michela Murgia, il suo nuovo, splendido libro, “Tre ciotole”, si apre con la diagnosi di un male incurabile. C’è qualcosa di autobiografico?

«È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».

- Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?

«Dal quarto stadio non si torna indietro».

- Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?

«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».

- Cosa intende per registro bellico?

«Parole come lotta, guerra, trincea... Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».

- Non può operarsi?

«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».

- Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.

«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».

- L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.

«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi».

- La morte non le pare un’ingiustizia?

«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».

- Una delle sue altre vite la conosciamo: operatrice in un call center. Ne ha tratto un libro, “Il mondo deve sapere”, che ha ispirato il film di Virzì con Sabrina Ferilli “Tutta la vita davanti”. Le altre vite quali sono?

«Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà. Ho fatto la portiera notturna in un hotel...».

- In Sardegna?

«Nel posto più lontano e diverso dal mio paese, Cabras, che potessi trovare: l’hotel Perego al passo dello Stelvio, sull’unico ghiacciaio dove si scia pure d’estate. Ero la sola italiana, con Aisha, marocchina, Mohamed, berbero, Cheik, dell’Africa nera, e Mikhail, serbo. A tavola recitavamo la preghiera cattolica, quella musulmana e quella ortodossa. Il piatto più richiesto dai clienti era lo stinco di maiale e ogni volta era una scommessa: in cucina c’erano Mohamed e Cheik, che non ne hanno mai assaggiato uno...».

- Ora sta studiando il coreano? Come mai?

«Da due anni. Volevo anche andare in Corea, ma le mie condizioni per ora non lo consentono. Tutto nasce da una passione per il k-pop e per i Bts, una musica e un gruppo che mi danno grandissima gioia. Ho iniziato a studiare il coreano per capire i testi. Poi mi sono resa conto che la vera ragione era un’altra».

- Quale?

«Me l’ha spiegata Jhumpa Lahiri. Gli scrittori postcoloniali, che hanno avuto successo non nella loro lingua originaria ma in quella dominante del colonizzatore, tendono a cercare un terzo spazio, una terza patria. Per Jhumpa, che ha origini indiane e scrive in inglese, è l’Italia. Per me, che sono sarda e scrivo in italiano, è la Corea. Forse ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell’oceano, a Busan. Nel coreano cerco parole che nessuno ha mai usato contro di me, e che io non ho mai usato contro nessuno».

- Lei pensa e sogna in sardo?

«Certo. Non soltanto: penso in sardo e traduco in italiano; sono due Michele diverse, una sarda e una italiana. Alla stessa domanda se penso in italiano do una risposta, se penso in sardo un’altra. L’Italia e la Sardegna sono due cose diverse. Per voi la Sardegna è l’isola delle vacanze. Non vi rendete conto che c’è una base militare ogni 150 chilometri, perché d’estate interrompono i tiri per non disturbare i turisti. L’altro giorno ero all’orto botanico, qui a Trastevere. La persona che era con me è trasalita per il botto del cannone del Gianicolo. Io no. Noi sardi siamo abituati ai rumori di guerra».

- Però la Sardegna non è una colonia. È Italia. Uno dei personaggi del suo libro è la donna di servizio di un colonnello, che ha lavorato in un poligono in Sardegna, e dice che non è vero che le morti per tumore in quella zona siano legate alle armi...

«Mi riferisco al poligono di Perdasdefogu, che viene affittato alle potenze alleate: arrivano, pagano, sperimentano armi e tecnologie, se ne vanno, e lasciano la loro scia di morte. Un magistrato coraggioso, il procuratore Fiordalisi, ha fatto riesumare le salme del cimitero e ha portato la Difesa e i vertici militari alla sbarra a rispondere di salute pubblica. Ma la comunità vive di cose non dette. La base dà da mangiare a tutti, ma non consente a nessuno di mangiare in modo diverso».

- Eppure lei affida al suo personaggio, la donna di servizio, il ragionamento contrario. Anche a proposito della sua critica al generale Figliuolo: «Una tipa in televisione ha detto che la divisa del Generale le faceva paura. Centinaia di morti per il virus e questa pazza...».

«La letteratura serve a ribaltare lo sguardo e in quel racconto la pazza sono io. Lo rivendico. Il codice militare applicato a un’emergenza civile è un rischio potente per una democrazia. Nel momento più drammatico abbiamo affidato il governo a Draghi, un tecnico, e la vaccinazione a Figliuolo, un militare. La politica in quel momento si è arresa e ha ceduto il suo ruolo. La facilità con cui abbiamo sospeso le libertà dovrebbe atterrirci».

- Nel suo libro lei cita per nome un solo personaggio, oltre al cantante coreano Jimin: l’ex presidente Cossiga.

«Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli, che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo incalzò. E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei amici... Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”. È un po’ come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha diciassette...” (Michela Murgia sorride)».

- Lei non scriveva un romanzo da otto anni.

«E anche questo libro sarebbe dovuto essere un pamphlet. Invano Marcello Fois mi ripeteva che la letteratura cambia la vita più dei saggi, che Proust ha cambiato il mondo più di Baumann. A me sembrava che un saggio mi consentisse di scrivere più cose autentiche. Poi mi sono resa conto che la letteratura mi permette di dire cose meno assertive; anche cose contrarie a quelle che penso. La donna di servizio giustifica la decisione del Colonnello di sottoporre il figlio malato di cancro a un intervento chirurgico non necessario. Il bisturi come soluzione militare. Radicale. E sbagliata».

- Lei aveva già avuto il cancro.

«A un polmone. Tossivo. Feci un controllo. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale».

- Si era candidata alla presidenza della Sardegna contro tutti i partiti, prese il 10 per cento.

«Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove».

- Questa volta come se n’è accorta?

«Non respiravo più. Mi hanno tolto cinque litri d’acqua dal polmone. Stavolta il cancro era partito dal rene. Ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli».

- Le tre ciotole che danno il titolo al libro sono quelle in cui lei mangia, rigorosamente da sola, un pugno di riso, qualche pezzetto di pesce o di pollo e qualche verdura. Soltanto così ha smesso di vomitare. Un vomito che lei non collega alla malattia, bensì a un abbandono. A una sofferenza d’amore. Anche questa è autobiografia?

«La donna di quel racconto è poco autobiografica. Non sono mai stata lasciata. Sono stata fortunata: ho sempre avuto amori felici, e persone che si sono rivelate in gamba anche quando le ho lasciate. Il vomito l’ho vissuto, ma legato alla mia ostensione pubblica, all’essere diventata un bersaglio. Era la reazione per l’odio che ho avvertito nei miei confronti. È cominciato quando ho visto per la prima volta il mio nome sui muri, quando mi hanno insultata in coda al supermercato. È finito quando ho capito che non dovevo lasciar entrare quell’odio dentro di me».

- Come lo spiega, quell’odio?

«Prima dell’arrivo di Elly Schlein mi sono trovata, con pochi altri scrittori come Roberto Saviano, a supplire all’assenza della sinistra, a difendere i diritti e le libertà nel dibattito pubblico».

- Anche gli esponenti della destra sono odiati.

«Sì. Ma fa parte del mestiere di un leader politico. Salvini e Meloni hanno dietro di sé un sistema di potere. Una macchina. Organi di stampa. Persone che lavorano per loro. Muovono denaro, fanno nomine, decidono carriere. Io nella discussione dovrei essere criticamente terza; invece sono diventata controparte. Ed ero sola, con la forza della mia voce. Mi dicevano: voi... Ma voi chi? “Voi del Pd”. Ma io non ho mai votato Pd in vita mia».

- In un altro capitolo lei racconta di tre ragazzi che uccidono un topo.

«Tre ragazzi che non erano mai stati picchiati dal padre; eppure sanno benissimo come si fa. Io ho avuto un padre violento, come si fa del male lo impari anche quando lo fanno a te».

- Nel libro, il personaggio femminile seppellisce il topo, ma il suo corpo spunta ancora fuori, e lei deve saltarci sopra per pareggiare il terreno.

«Certe cose riaffiorano. Puoi occultarle, superarle, ma mai del tutto».

- Nel capitolo finale la protagonista è già morta, e la sorella appende alle querce da sughero i suoi vestiti, affinché ogni persona cara possa portarne via uno...

«Quella scena c’è stata: nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni e ho appeso alle querce cinquanta vestiti. In questo tempo ho avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un percorso collettivo. Tanti dicono di voler morire all’improvviso, nel sonno, senza accorgersene. Ora ho capito perché mia nonna da piccola mi faceva recitare una preghiera contro la morte improvvisa».

- Perché?

«Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family».

- Come tradurrebbe queer family?

«Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».

- Milioni di persone hanno creduto nella coppia, ci credono, ci crederanno.

«Ma finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna».

- Diceva che ha predisposto tutto.

«Ho comprato casa, con dieci posti letto, dove stare tutti insieme; mi è spiaciuto solo che mi abbiano negato il mutuo in quanto malata. Ho fatto tutto quello che volevo. E ora mi sposo».

- Si sposa?

«Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono».

- Sposa un uomo o una donna?

«Un uomo, ma poteva essere una donna. Nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere».

- Il suo capolavoro, “Accabadora”, è una storia di eutanasia. Però il più grande medico del Novecento, Umberto Veronesi, mi ha detto: «Ho assistito migliaia di malati terminali, e nessuno mi ha chiesto di morire. Tutti mi chiedevano di guarire».

«Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina ai radicali, a Marco Cappato».

- Non le manca un figlio?

«Ma io ho quattro figli!».

- Nel libro scrive che odia i bambini.

«È vero. I bambini rompono i coglioni. Tutti i bambini. Non è vero quel che dicono, che i figli sono maleducati per colpa dei genitori; prima o poi un bambino anche educatissimo piangerà, si lamenterà, disturberà, sconvolgerà il vagone del treno su cui viaggio, prenderà a calci il sedile su cui sono seduta in aereo... Non amo i bambini, ma sono predisposta ad accompagnare gli adolescenti».

- E ha quattro figli.

«Sono figli d’anima. Il più grande ha 35 anni, il più piccolo 20. Tutti maschi, ma è un caso. Uno fa il cantante lirico, uno studia economia anche se speravamo facesse lettere, uno insegna a Yale, l’altro lavora in un grande gruppo della moda».

- Cosa vuol dire madre d’anima?

«La filiazione d’anima in Sardegna esiste da sempre, anch’io ho avuto due madri e due padri di fatto. È insensato dire che di madre ce n’è una sola, una condanna per la donna e anche per chi le è figlio. La maternità ha tante forme».

- Un altro capitolo del libro si intitola “Utero in affido”.

«È la storia di una donna che mette al mondo un bambino e lo affida a una coppia che lo desiderava. Odio sentir parlare di “utero in affitto”, di “maternità surrogata”. Odio la retorica della maternità biologica; meno figli si fanno, più si misticizza la maternità. Forse un giorno nasceremo tutti da un utero artificiale. Quelli che parlano di maternità rubata sono gli stessi che hanno in casa badanti che hanno lasciato i loro figli in Paesi lontani per occuparsi dei nostri bambini e vecchi».

- C’è anche una scena di sesso, molto ben scritta.

«L’ho fatta leggere a Missiroli, Desiati, Saviano. Abbiamo sorriso, l’hanno trovata molto eccitante; ma nessuno si è accorto che lei non viene. Gliel’ho detto: neanche per iscritto vi accorgete che una finge... Vuol dire che funziona».

- Lei ha avuto una formazione cattolica. Crede ancora in Dio?

«Certo».

- L’ha pregato in questi mesi?

«L’ho pregato e lo prego di far accettare alle persone che mi amano quello che accadrà».

- Come immagina l’Aldilà?

«Non un luogo, ma uno stato sentimentale. Dio è una relazione. Non penso che la vita dopo la morte sia tanto diversa. Vivrò relazioni non molto differenti da quelle che vivo qui, dove la comunione è fortissima. Nell’Aldilà sarà una comunione continua, senza intervalli».

- Con gli altri o con Dio?

«È uguale. Sarà il passaggio dal “non ancora” al “già”».

- Quindi non ha paura della morte?

«No. Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio».

- Perché?

«Perché il suo è un governo fascista».

- Il mio giudizio sul fascismo è severo quanto il suo. Proprio per questo non sono d’accordo: il governo Meloni non è fascista.

«Qual è il confine del fascismo? La violenza? La bastonata? Imporre con una circolare che il figlio di due madri sia di una madre sola non è forse violenza? Crede che a una famiglia faccia meno male di una bastonata?».

- Come vorrebbe essere ricordata?

 

«Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista».

 

 

 

 

 

Abitare la vita

 

Emanuele Borsotti

 

 

Abitare è una parola che deriva dal verbo habére che in latino vuol dire: trattenere, occuparsi, possedere e, come forma intensiva frequentativa, continuare ad avere e quindi anche abitare in un luogo, cioè avere una abitudine con quello spazio, farsene quasi un abito, qualcosa che indossiamo e che aderisce radicalmente alla nostra persona. L’uomo è un abitatore di luoghi, di tempi, di storie, di memorie e fa di tutto questo universo il suo habitat, il suo abitare.

Il modo con cui noi uomini stiamo sulla terra è l’abitare (Heidegger).

Bisogna però chiarire come abitiamo o come dovremmo abitare. C’è un abitare improprio che è uno sfiorare il paesaggio, leggere i luoghi come un fondale della nostra vita, come un ambiente palcoscenico che ci resta estraneo, al quale noi non aderiamo intimamente. Ѐ come se il paesaggio fosse un oggetto e noi un soggetto ma senza una profonda relazione fra questi due elementi. Lunico legame fra i due sarebbe una visione superficiale, un aspetto puramente visivo. Pensiamo alla nostra società del selfie: oggi molte volte l’uomo contemporaneo non vede neanche più ciò che sta attraversando, ma frappone fra il luogo e se stesso uno smarphone, un apparecchio fotografico e se va bene rivedrà poi quel luogo nello scatto fatto. Quando però noi scegliamo di fare un passo più in profondità e non ci limitiamo allo sfiorare turistico ecco che viviamo un’esperienza di ancoraggio, cioè abbandoniamo l’esteriorità dello spettatore per entrare in un dialogo. Non si tratta, come diceva Barthes, di limitarci a fotografare il mondo, ma si tratta di rimanere, di percorrere tutta la marezzatura dei luoghi, delle luci, dei momenti.

Questo ancorarsi al luogo è l’esperienza che Cristo fa tante volte. In Marco 10,23 viene usata l’espressione: circumspicere per indicare che Gesù guarda intorno, che ha uno sguardo a 360 gradi ed è questo sguardo che permette a Gesù di amare. Guardarsi intorno è guardare anche dentro l’altro e fare il passo di uno sguardo che ama. Ecco allora l’invito a non fermarsi a posare uno sguardo superficiale sui luoghi, ma ad entrare in una relazione, ad essere implicato dentro l’esperienza di quel luogo.

Ѐ l’esperienza pasquale di Cristo là dove, in Giovanni, si dice che entra nel cenacolo, e “stette in mezzo”, in mezzo non solo dell’ambiente, ma anche del ‘con’ e del ‘fra’ le persone. Ecco allora che nel lasciarsi assorbire da un ambiente e assorbire l’ambiente che ci ospita sta la differenza tra la provvisorietà del turista in transito e l’abitatore del luogo.

Se dunque non sfioriamo i luoghi, ma li abitiamo veramente, dobbiamo confrontarci con l’esperienza di essere costruttori e ricostruttori. L’uomo abita costruendo, costruisce per abitare, ma è proprio perché l’uomo è un abitatore che è in grado di costruire. Vivere è dunque anche questo: costruire e ricostruire luoghi e, attraverso la metafora del luogo, costruire e ricostruire l’esistenza di noi che lo abitiamo. Partiamo da una suggestione che ci viene dalla vecchia sapienza dell’imperatore Adriano - come immaginato dalla Yourcenar, nelle memorie di un grande condottiero - che alla fine della vita fa un bilancio e conclude dicendo: “Io ho costruito e ricostruito”. Costruire come sinonimo di collaborare con la terra, di “lavorare con” e “faticare con” perché labor in latino vuol dire innanzitutto fatica, quindi lavoro. Collaborare con la terra è imprimere il segno dell’uomo in un paesaggio che quindi ne resterà modificato per sempre. E in questo modo contribuiamo a una lenta trasformazione che è la vita delle città, degli edifici, dei nostri spazi vitali. E poi costruire è anche opera di ricostruzione perché bisogna fare i conti con la labilità delle cose e con il tempo, grande scultore, ma anche grande distruttore. Quindi ricostruire è collaborare con il tempo, con il passato, se ne coglie lo spirito, lo si modifica, lo si conserva e gli si imprime un movimento propulsivo cercando di farlo arrivare verso l’avvenire. Ricostruire significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti, l’esperienza sorgiva della vita. Quindi costruire è principalmente un atto di speranza: è dare forma al presente, plasmare la materia, dare una direzione alla vita e sporgerla verso l’avvenire, verso il durevole, verso quello che è il lascito ereditario. Sempre dalla Yourcenar, Adriano dice: “Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno”. Le cose sono sempre costruende, sempre da costruire, sempre da riedificare. Allo stesso modo la nostra umanità, la nostra vita interiore, le nostre profondità spirituali come i nostri legami affettivi sono sempre incompiuti e quindi in costruzione continua. Costruire come speranza e ricostruire come forma architettonica della consolazione è questa l’idea che ci viene dalla Scrittura, dall’AT e dagli scritti profetici.

Sono testi nei quali il verbo ricostruire e il verbo consolare vengono coniugati in parallelo e i paralleli sinonimici dell’ebraico ci dicono appunto che c’è una profonda osmosi fra le due cose.

Ricostruire un edificio, ricostruirsi una vita dopo una frattura significa fare un’opera di architettura della consolazione. Ѐ lesperienza di Israele dopo lesilio, dopo la distruzione di Gerusalemme quando il Signore consola ricostruendola dalle sue rovine, riaprendo un giardino là dove cera solo un deserto. Questo induce in un canto di gioia. E ancora possiamo dire che la costruzione è un’opera di incontro. Costruire significa incontrare. Quando l’uomo costruisce lo fa a partire da un numero di elementi architettonici basilari limitati.

La novità sta nel numero infinito di combinazioni di questi elementi di base e questo crea l’unicità. Unicità dell’incontro tra l’uomo e un luogo e unicità dell’incontro fra gli uomini all’interno di questo luogo.

E anche nell’incontro tra la mia vita e gli incidenti dell’esistenza perché la vita è anche costruire nonostante gli incidenti, accettando anche un cambio di angolatura che ci porta ad aprire vie nuove.

Le mie città nascono da incontri, dagli incontri dell’uomo con un angolo della terra - imperatore Adriano.

Quando io mi rapporto con uno spazio mi sto sostanzialmente rapportando con del non-umano e paradossalmente il non umano del luogo (vegetale, minerale) riesce a far vibrare le corde dell’umano e tocca il mio intimo. Ѐ il paradosso di un uomo che si umanizza anche in virtù di quel non umano. Sempre che si accetti di compiere l’esercizio dell’attenzione. “L’attenzione è l’apertura dell’essere umano a ciò che lo circonda, un’attenzione non solo ad extra, ma anche ad intra rivolta verso ciò che è in noi” (Zambrano). Attenzione deriva dal verbo tendere quindi significa slanciarsi verso, avere una direzione, voler procedere verso. Ma questa esperienza dell’abitare luoghi concreti, fisici, palpabili diventa sempre porta verso qualcosa che supera la fisicità del luogo. Quando Giovanni dice: “Il vento soffia dove vuole, ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va” ci fa anche capire che, per esempio attraverso lo stormire delle fronde, quel luogo vegetale diventa il luogo di un’esperienza fisica dell’impalpabile. L’esperienza dell’intangibile del vento mi si dà grazie al luogo vegetale che si muove in virtù di quel passaggio. L’impalpabile diventa presenza. (lo stesso si potrebbe dire di un altro impalpabile: la luce). L’esperienza della vita spirituale, ma anche gli affetti, gli amori, i dolori…funzionano come il vento, come la luce. L’uomo fa l’esperienza che qualcosa dell’ordine dello spirituale si sprigiona a partire da ciò che è fisico. Allora la frattura fra il fisico e lo spirituale in certi momenti viene meno e i luoghi diventano dei legami.

In Giovanni 1,14 si legge: “Il mistero di Dio in Cristo è mistero di un Dio, di una Parola che viene ad abitare in mezzo a noi”. “Maestro dove abiti”? e Gesù: “Venite e vedete” e i discepoli fanno un’esperienza. Questa esperienza principale che l’uomo fa dell’abitare si radica in una prima abitazione, che è l’abitazione nel corpo. Il corpo nostra prima abitazione. L’uomo è un corpo abitante e abitato. Il nostro corpo abita innanzitutto nel corpo di una donna, noi veniamo al mondo come abitanti e usciti da quella prima casa incominciamo ad abitare nel mondo esterno, a coabitare con gli altri. E poi l’uomo abita il corpo dell’altro; l’esperienza dell’amore fisico della coppia è l’esperienza dell’abitare realmente le profondità del corpo dell’altro. Questo avviene anche nell’esperienza della fede quando nella comunione il mio corpo diventa l’abitazione del corpo di Dio, e il corpo di Dio che abita nel corpo dell’uomo crea il corpo della chiesa. Noi mangiamo ciò che siamo, noi mangiamo quel corpo che stiamo diventando. Se questo è vero allora l’uomo è il primo luogo per l’altro uomo. Prima di trovare luoghi fisici che lo ospitano, il cucciolo dell’uomo che viene al mondo trova il suo primo luogo in un altro. Per il bambino la figura genitoriale rappresenta il luogo primario, il suo primo orizzonte è lo sguardo della madre che si china sulla culla. Quando poi diventa grande, si stacca dal luogo- corpo- materno e incomincia ad abitare i luoghi fisici dello spazio. E allora ci affidiamo alla sintesi fulminea di S. Agostino: “Amando, noi abitiamo con il cuore” cioè noi abitiamo con il cuore là dove si trovano i nostri affetti e tradotto in un altro modo: dove è il nostro amore, il nostro cuore, là noi abitiamo. Abitare un luogo implica sempre delle scelte e chiede anche di lasciarsi istruire dall’alterità del luogo, lasciarsi educare dagli spazi in cui si abita.

L’uomo come può abitare i luoghi? L’uomo abita la terra con merito perché fa tante cose, ma bisogna aggiungere al merito delle cose che si fanno quella postura poetica dell’abitare che Holderlin e altre personalità del mondo della cultura hanno così sintetizzato: “abitare poeticamente”.

 

Poeticamente ci rimanda al verbo poiein che significa fare, abitare facendo e facendoci. Poetare significa aiutare noi stessi e gli altri ad abitare la vita. Questa azione dell’abitare poeticamente è per Holderlin l’azione del misurare la distanza tra cielo e terra. Noi abitiamo quando siamo capaci di custodire questa nostra duplice appartenenza alla terra sulla quale appoggiamo i piedi e al cielo verso il quale protendiamo il capo. La grande sfida è vivere in una duplice dimensione: chi impara ad avere una consuetudine buona, armonica con i luoghi fisici può ritrovarsi alla scuola preziosa dove imparare ad abitare amorevolmente, poeticamente se stesso; chi sa abitare se stesso, i suoi spazi interiori è capace di abitare amorevolmente, poeticamente i luoghi esterni. Ma questa è un’arte che si apprende nel tempo, con fatica e con pazienza. Con il coraggio di osare l’originalità di ciascuno.

Mauro Giuseppe Lepori:

Fede è lasciare che Dio si prenda cura di noi

 

 

C’è che adesso sarebbe bello immaginare il deserto. Che è un luogo – ovvero una distesa di sabbia, senza gente e senza acqua – ma anche una metafora luminosa.

Sarebbe bello ricordarsi che qui, nel deserto, padre Mauro Giuseppe Lepori ha piantato le sue radici personali ma anche quelle che hanno dato il titolo a un bellissimo dialogo con la giornalista Monica Mondo (Tea edizioni) su fede, Chiesa e monachesimo.

 

Radici nel deserto è solo l’ultimo libro di Lepori, che nasce a Lugano nel 1959 e studia all’università di Friburgo e che, prima di diventare (tredici anni orsono) l’abate generale dei Cistercensi, è stato un giovane animato da uno «struggente desiderio di pienezza» che trovava pace camminando e meditando tra boschi e campagne.

 

 

 

Sentirsi chiamati

 

«La mia vocazione risale a due incontri», racconta. «Ho percepito che questa pienezza di vita era nella Chiesa ed era Cristo. A diciassette anni ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione in una famiglia di operai friulani residenti nel mio paese in Svizzera. Quanto a Cristo, mi si è rivelato come un lampo di luce e di gioia ad Assisi, alla Porziuncola, nel giorno della festa del Perdono del 1977. Tutta la mia vita la vedo sgorgare da queste due sorgenti che in realtà sono una sola: Gesù presente e vivo nel suo corpo ecclesiale», aggiunge Lepori che nel 1989 ha emesso i voti solenni presso l’abbazia cistercense di Hauterive, poco lontano da Friburgo.

 

La sorgente torna spesso nelle sue parole ed è quella che «al di là di tutte le apparenze può dissetare l’umanità e i nostri cuori: è Gesù che, incontrando la Samaritana, questa donna così rappresentativa dell’umanità confusa e incapace di vivere l’amore per cui è creato il cuore, la porta a desiderare l’acqua viva che Lui le offre, il dono dello Spirito.

 

Quella donna ha scoperto che nel deserto della sua umanità umiliata e disprezzata c’erano radici ancora capaci di desiderare e assorbire l’acqua viva dell’amore di Cristo», precisa l’abate.

 

 

 

Missione itinerante

 

Da più di dodici anni, padre Lepori sembra più un missionario che un monaco. È sempre in viaggio per visitare le comunità dei Cistercensi sparse nel mondo.

 

«È Gesù che mi chiama a questa vita e per questo non mi ha mai privato della sua amicizia. Forse ora sono più cosciente di ciò che il monastero ha forgiato in me: quel dimorare in Cristo che accoglie la vita, le circostanze, gli incontri, le fatiche nel rapporto costante con Lui. Continuo a pregare l’Ufficio monastico, a praticare la meditazione della Parola e la preghiera del cuore che ho imparato vivendo in monastero, ma forse oggi con un sentimento più acuto», aggiunge lui, che non ha scelto i Cistercensi in modo “ragionato”.

 

«Quando ho incontrato quella realtà ho percepito con chiarezza che era lì che il Signore mi chiamava a stare unito a Lui. Ho capito, meditando il capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni, che questo è l’unico segreto della fecondità della vita: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto”».

 

Essere monaci oggi

 

Ascoltando le sue parole, e cercando le radici in questo spazio che è il deserto, viene da chiedersi cosa significhi essere monaci oggi, al di là della paura che ogni scelta comporta. «La paura in me ha spesso il volto dell’ansia, della preoccupazione di non corrispondere alle attese. Così guardo Gesù negli occhi e Lui ogni volta mi dice: “Uomo di poca fede, perché hai ancora dubitato? Perché non ti sei fidato fin dall’inizio? Perché non hai iniziato mendicando il mio aiuto?”. Ecco, essere monaci oggi vuol dire vivere unificati dal rapporto con il Signore. Anche nei monaci c’è tanto “mondo” da recuperare alla verità originale. Per questo in monastero è cresciuta in me una profonda compassione per il mondo – perché siamo tutti peccatori – ma anche la coscienza del fatto che Cristo ci chiama a sé per consolarci e far nuove tutte le cose. La vita monastica scava in noi un ardente desiderio di comunicare Gesù al mondo, che poi è lo stesso del cuore di Cristo».

 

Un tempo di fragilità

 

L’abate è consapevole del fatto che oggi, almeno in Occidente, predominano comunità monastiche fragili, di numero e di forze, che sembrano sempre in lotta per sopravvivere. «Il monachesimo in fondo è sempre stato il segno di un’umanità che trae tutta la sua forza dalla salvezza pasquale di Cristo.

 

Per questo, il diventare fragili, piccoli, e magari il morire, non è di per sé un venir meno del senso del monachesimo: ne accentua la verità e l’invisibile fecondità. Se il monachesimo oggi aiutasse il popolo di Dio a credere alla parabola del chicco di grano che morendo dà molto frutto, raggiungerebbe la pienezza del suo significato», confessa Lepori, che tra le sue preghiere elenca i Salmi, le letture bibliche e patristiche.

 

«Da quando ero novizio, un monaco mi ha insegnato a pregare col cuore l’invocazione del nome di Gesù, di Maria, domandando lo Spirito Santo e misericordia per me e il mondo intero. Questa preghiera – che potremmo definire giaculatoria, come la preghiera di Gesù della tradizione orientale, quella del pellegrino russo – mi ha sempre aiutato a pregare ovunque, anche ora che sono sempre in viaggio, e mi piace abbinarla coi misteri del Rosario».

 

Ai giovani, padre Lepori consiglia «di ispirarsi a Gesù stesso, visto che è così accessibile e così affascinante. Consiglierei di conoscerlo nel libro del Vangelo, ma anche nel Vangelo vivo che sono i santi, tutti, e tra loro includo i testimoni viventi che la Chiesa sempre manda, magari fra i propri compagni di studio, di lavoro, di sport, come lo fu il beato Carlo Acutis. Gli suggerirei infine di coltivare un aspetto della vita monastica, ovvero quello di fermarsi, ognuno come può e meglio sente, ad ascoltare in silenzio la presenza e la parola di Dio».

 

Non vivere distrattamente

 

«Sa cosa?», mi dice alla fine Lepori.

 

«La fede perde di consistenza quando pensiamo di poter vivere senza. Ovvero quando viviamo distratti, non tanto da Dio, ma da noi stessi, dal vero dramma della vita, dalle profonde esigenze del nostro cuore. Quando siamo superficiali con i rapporti, gli affetti, il lavoro, la festa, il corpo, la malattia, la morte. Chi è serio con la vita diventa sensibile alla fede, che altro non è che essere presi dall’amore di Cristo per la nostra umanità. La fede è permettere al Risorto di prendersi cura di noi come il samaritano dell’uomo ferito dai briganti. Per questo, per coltivarla direi che bisognerebbe cominciare a voler bene alla propria umanità, a guardarla con tenerezza, stupore, in noi e negli altri. Allora, appena ci sorprende lo sguardo del Signore, non possiamo non essere conquistati dall’offerta di vivere con Lui un’amicizia senza fine».

 

Di Rossana Campisi

 

Fonte: Famiglia Cristiana

 

I FIGLI DI SAN BERNARDO

I Cistercensi sono uno dei numerosi ordini monastici che si rifanno alla regola di san Benedetto da Norcia. Prendono il nome dall’abbazia di Cîteaux, nella regione francese della Borgogna, dove l’ordine fu fondato da san Roberto di Molesme nel 1098. La diffusione dei Cistercensi in tutta l’Europa medievale è merito, in particolare, di san Bernardo, fondatore dell’abbazia di Clairvaux, fine teologo (è stato proclamato Dottore della Chiesa), predicatore della seconda Crociata e citato anche nella Divina Commedia dove fa da guida a Dante negli ultimi canti del Paradiso e dove intona la celebre preghiera alla Madonna:

 

«Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio…».

 

 

 

Tra le abbazie cistercensi più famose in Italia, ricordiamo Chiaravalle milanese, Piona sul lago di Como, Pra ‘d Mill nel Cuneese, Casamari nel Frosinate, Chiaravalle della Colomba nel Piacentino, San Bernardo alle Terme a Roma. La casa generalizia, dove risiede padre Lepori, che da abate generale governa l’intera congregazione, si trova sul Colle Aventino a Roma. Esiste anche un ramo femminile dell’ordine.

 

Noi e gli altri 

 

Enzo Bianchi 

 

Nella sapienza contadina tradizionale non c'erano solo i dieci comandamenti imparati a memoria fin da bambini, ma c'erano imperativi che indicavano più atteggiamenti, stili, che non azioni o divieti. Erano ricorrenti nei discorsi che "i grandi" facevano ai più giovani, senza attribuire loro particolare autorevolezza: erano consigli, giusto da meditare, niente più, e da ricordare nella vita.

 

Norberto Bobbio nel De senectute ne ricorda alcuni (abbiamo in comune la terra, il Monferrato!), ma io ne ricordo anche altri, soprattutto ora che sono vecchio e mi ritrovo a ripeterli a qualcuno più giovane che conversa con me interrogandomi sul come vivere questa vita che resta sempre un duro mestiere da imparare.

 

Soprattutto gli imperativi legati a tre parole venivano ripetuti con convinzione ed erano ascoltati, rimuginati. Si trattava di consigli da vivere nel rapporto con gli altri, nell'intento di tessere relazioni umane significative, capaci di dare gusto e senso alla vita.

 

La prima parola era "come": sentirsi come gli altri, vivere come gli altri, stare come gli altri. In questo come non c'era di sicuro un invito alla omologazione, ma al contrario l'affermazione della fraternità e della sororità, o meglio dell'umanità che ci accomuna tutti, c'era quel sentimento di uguaglianza che mi impedisce di prevaricare sugli altri o di sentirmi migliore di loro.

 

Di fatto era un richiamo all'umiltà: non al di sopra degli altri, ma con la stessa dignità, gli stessi diritti, la stessa vocazione alla vita e alla felicità. Come gli altri: sembra una banalità, ma è una cosa seria. Chi non conosce e non sa affermare il suo essere "come gli altri" è indotto alla prepotenza nei rapporti, a vantare privilegi, e in definitiva alla violenza.

 

Solo quando si è solidificata questa uguaglianza del "come gli altri" si può anche stare con gli altri. Preposizione, questa, straordinaria, che ci consente di avere una visione comunitaria, di affermare la comunione di due che dicono "noi" e non più soltanto "io". Io vivo con gli altri, abito con gli altri, lavoro con gli altri, gioisco con gli altri, soffro con gli altri. Solamente non posso decidere di morire con gli altri perché si muore da soli, ma tutto il resto può essere vissuto, fatto, sperato con gli altri.

 

Con dà l'orizzonte comunitario all'umanità, è l'affermazione che si vive e si opera insieme, mai senza l'altro. L'uguaglianza apre alla vera comunione di esseri umani diversi e differenti, dove il debito e la responsabilità verso l'altro sono vissuti insieme.

 

 

E da questa comunione profonda faccio scaturire il terzo imperativo a partire dalla preposizione per. Tutto ciò che si vive lo si vive non per se stessi ma per gli altri. Nasce qui dalla responsabilità verso gli altri la cura degli altri, il servizio degli altri. Gli altri cessano di essere l'inferno (Sartre), e diventano l'occasione di dare un senso alla vita.

Perchè aiutare gli altri?

 

Piero Stefani

 

 

 

Non è scontato dare risposta a questa che sino a qualche tempo fa sarebbe parsa una domanda puramente retorica. Oggi, in particolare, è la spinta migratoria che costituisce il contesto «nuovo» in cui interrogativi scontati si ripropongono in termini drammatici, laddove il «come» arriva a mettere in crisi il «perché». Il peso del «come» è grande. Per essere in grado di aiutare gli altri - afferma Piero Stefani - occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche. In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Dobbiamo quindi rinunciare?

No, occorre innanzitutto non lasciare che l'accidia personale e collettiva così come il sentimento della paura o dell'incertezza del futuro abbiano il sopravvento. E, soprattutto, occorre porre come primo imperativo, antidoto d'ogni atteggiamento rinunciatario, quello di cercare di capire.

 

Per chi avverte nel proprio animo la spinta ad aiutare altre persone, un problema urgente, e spesso delicato e impegnativo, concerne il come farlo.

Quando, nella concretezza delle proprie esistenze, si tocca questo tasto, si comprende senza difficoltà che le buoni intenzioni tante volte non bastano. Ciò vale sia per la dimensione individuale sia per quella collettiva. Di frequente si è costretti a registrare impreviste ricadute negative delle azioni intraprese. Più volte, per scongiurare siffatti esiti, si ricorre a esperti del «come». In questi ambiti acquistano sempre più spazio le competenze tecnico-professionali.

A essere chiamata in causa è praticamente tutta la sfera delle scienze umane colte nel loro versante pratico. Economisti, sociologi, psicoanalisti, psicologi, pedagogisti, consulenti familiari sono le prime, ma non le sole, esemplificazioni che balzano alla mente. Anche sul versante spirituale, per affrontare simili snodi, ci si rivolge a determinate competenze, dalle più tradizionali, come il prete o il confessore, a quelle ispirate ad altre tradizioni religiose, parareligiose o sapienziali. In questi casi il bisogno di aiutare gli altri si intreccia, non raramente, con il sostegno che si cerca per se stessi.

Gli esiti non sono assicurati, a volte si fanno progressi, altre volte si patiscono invece delusioni tanto cocenti da far sì che il fallimento del «come» conduca fino a mettere in discussione il «perché» occorra impegnarsi. La frase colloquiale che suggella questo esito è: «Non c'è più nulla da fare».

L'esperienza attuale ci dice che la serietà della questione del «come» non deve far trascurare il problema del «perché». Non va infatti dato per scontato che prestare aiuto sia una caratteristica tipica della condizione umana. Essa non è presente in ogni circostanza nell'animo di tutti. Risulta quindi urgente trovare risposte alla radicale domanda: «Perché mai dobbiamo aiutare gli altri?».

In realtà, andare alla ricerca di solidi fondamenti per risolvere la questione significherebbe affrontare l'intera sfera della ricerca etica, un compito che va ben al di là della serie di riflessioni qui proposte. Senza alcuna pretesa di conseguire la completezza, ci si limiterà perciò ad avanzare alcune delle molte motivazioni che spingono ad aiutare gli altri.

Secondo una prima approssimazione è dato individuare cinque motivazioni di fondo che inducono a prestare aiuto agli altri. Le elenchiamo senza introdurre alcun ordine gerarchico. Va comunque precisato che esse, pur non escludendo l'aspetto collettivo, tengono soprattutto conto della componente individuale: occorre aiutare gli altri perché conviene; per un moto di compassione o solidarietà presente nell'animo umano; perché è comandato; per la radicale e comune non-autosufficienza della condizione umana; per non espandere il male presente nel mondo.

Al pari di ogni altra schematizzazione, anche quella qui proposta è in parte fallace; essa tende infatti a introdurre confini netti là dove, non di rado, ci sono incroci e sovrapposizioni.

 

II «proprio interesse»

 

Vi è un primo modo di declinare il problema che potremmo definire, in senso lato, economico e un secondo classificabile come relazionale (e in questo senso prossimo all'etimo della parola: «con-venire»).

Nell'ambito economico non è dato, per definizione, di prescindere dall'utile. La via da perseguire è mostrare concretamente che il conseguimento del proprio vantaggio implica l'incremento anche di quello altrui. Le formulazioni più tipiche di questo principio si ritrovano nell'ambito dell'economia politica classica. Scrive Antonio Genovesi: «Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti che per la sua felicità, sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l'altrui miseria e, se potete e quando potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse tanto più, purché non si sia pazzi, si debb'esser virtuosi. È legge dell'universo che non si può far la nostra felicità senza fare quella altrui».[1]

Nell'ambito dell'economia il primo fattore che muove a operare è la «propria felicità», il «proprio interesse», il «proprio profitto», il «proprio guadagno». Non può essere che così. La questione è far sì che il proprio tornaconto sia nelle condizioni di procurare vantaggi anche agli altri. L'economia liberale classica era fiduciosa che, per logica interna, nella sfera della produzione e dello scambio non vigesse la regola dell'homo homini lupus.

Secondo un celebre detto di Adam Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che essi hanno per il loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità»;[2] ma facendo i loro interessi i fornitori fanno anche quelli degli acquirenti e viceversa.

Nei due secoli successivi l'ottimistica fiducia tipica della visione economica liberale è largamente saltata; tuttavia resta fermo il fatto che l'ambito economico non è retto dal puro altruismo. Ovviamente è ben possibile, anzi doveroso, porre in discussione la logica liberale pura. È dato impegnarsi per un'«economia civile» e ancor più radicalmente per un'«economia di comunione» [3] ma, «per la contraddizion che nol consente», non è lecito, in campo economico, parlare in termini di pura gratuità e generosità e di assenza di ogni utile, e ciò proprio a motivo del conseguimento di un comune vantaggio.

Tenendo conto di quanto si è appena detto, nasce l'interrogativo del perché spesso non ci si conformi alla legge universale in base alla quale non è dato raggiungere la propria felicità senza fare anche quella altrui. In simili circostanze, argomentare a favore del vantaggio reciproco risulta l'operazione più efficace.

Scrisse David Hume: «Il tuo grano è maturo oggi il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se io oggi lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo alcun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che tu domani mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma sopravviene il maltempo e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di garanzie».[4]

Anche in questo caso l'aiuto dovrebbe avvenire non a motivo di una reciproca benevolenza ma a causa di una palese convenienza. In definitiva, pure se il vicino mi è antipatico traggo vantaggio dall'aiutarlo.

 

Sono felice se tu sei felice

 

Intensificando la dimensione dell'utile si può giungere alla posizione espressa nel detto corrente (ma forse oggi un po' meno frequente di ieri): «Fare del bene ti fa bene». Visione attualmente proposta in forma molto schietta da studiosi come la statunitense Barbara Lee Fredrickson (esponente di punta della «psicologia positiva»), secondo la quale essere altruisti rafforza i legami sociali e costruisce la capacità di esprimere amore e sollecitudine, in tal modo la reciproca influenza tra benessere individuale e collettivo consente di raggiungere la felicità e una soddisfazione autentica. Quando aiutiamo gli altri si è felici perché si sperimentano di continuo buone sensazioni fisiche e spirituali.[5]

Con maggiore spessore culturale, un orientamento simile era già stato proposto nel XIX secolo da John Stuart Mill: «Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell'umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa trovano la felicità lungo la strada».[6]

Qui il discorso si raffina, si presuppone infatti che la rinuncia cosciente al conseguimento diretto della propria felicità sia la via migliore per raggiungerla. L'orizzonte rimane comunque quello espresso dalla «regola aurea» dell'utilitarismo stando alla quale il bene coincide con la massima felicità del maggior numero di persone possibili.

Il punto debole della prospettiva sta nel fatto che l'istanza, per realizzarsi appieno, implicherebbe la presenza di una sostanziale parità tra le componenti di una società contraddistinta nella realtà da forti disuguaglianze.

Per conseguire un'utilità comune occorre articolare in modo positivo i rapporti tra uguaglianza e diversità. Tuttavia, se l'utile diviene egemonico, risulta quasi inevitabile che il trattamento riservato alle componenti più deboli della società perda,di consistenza.

La prospettiva emergeva con chiarezza già nei «sacri principi» dell'89. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino recita: «Gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune». Da questa frase è obbligo concludere che l'utile sociale è legato a filo doppio alla disuguaglianza.

Nonostante la loro ispirazione liberale, alle spalle della sfera dei diritti elaborata nel corso della Rivoluzione francese continuava a stagliarsi l'ombra lunga dell'apologo organicistico attribuito a Menenio Agrippa: la società è come un corpo, ogni membro ha una funzione differente da quella degli altri; alcuni sono però indispensabili, altri non strettamente necessari: si può vivere senza una mano, ma non senza cuore o polmoni.

Rispetto al corpo l'unico ambito in cui è dato parlare a pieno titolo di uguaglianza è il fatto che tutte le membra fanno parte di esso. In senso stretto non esisterebbero perciò diritti individuali: è il corpo nel suo insieme che fa sì che tu sia o piede o mano o testa. Per questa ragione il modello antico non è riproponibile alla lettera, esso infatti, nella moderna visione liberale, viene sottoposto a profonda revisione riconducibile a questi termini: ognuno è titolare di diritti e le diversità si giustificano solo in base all'utilità comune. Quest'ultima però rischia di diventare semplicemente l'espressione delle componenti più forti della società che tendono a prendersi cura degli altri soltanto nella misura in cui questa prassi collima con lo sviluppo dei propri interessi.

 

Tutti nella stessa barca: ovvero le relazioni

 

L'espressione colloquiale per indicare questa posizione sta nell'affermare: «Siamo tutti nella stessa barca». Nella sua forma più alta il senso della relazione si esprime nel detto secondo cui aiutando gli altri aiuti te stesso e viceversa. In termini complessivi l'elaborazione di questo principio evidenzia che relazione e alterità sono tra loro inversamente proporzionali.

L'«altro» non è una persona che si presenta all'inizio come separata per essere ricondotta progressivamente alla sfera della relazione: fin da principio nessuno è semplicemente un estraneo. Il culmine di questa visione è raggiunto nelle culture che presentano la relazione come il tessuto costitutivo della realtà. Tra esse, per quanto riguarda il risvolto etico, le elaborazioni più pregnanti si trovano nel buddhismo.

A partire da una concezione della realtà relazionale un antico detto sostiene che: «badando a se stessi si bada agli altri; badando agli altri si bada a se stessi (...) E come badando agli altri si bada a se stessi? Con la tolleranza, la non-violenza, l'amicizia, l'indulgenza» (Samyuttanikaya).[7]

Qui il modo di dire «ti fa bene fare del bene» acquista una tale profondità da essere sradicato dal terreno dell'utile per venir direttamente ripiantato in quello ontologico-relazionale (dato e non concesso che il termine «ontologia» sia applicabile al buddhismo). Nella Samyuttanikaya la coincidenza tra il prendersi cura degli altri e di se stessi è esemplificata attraverso l'immagine suggestiva degli acrobati che, allorché formano una piramide umana, si trovano oggettivamente nelle condizioni di far coincidere la propria tutela con quella degli altri e viceversa.

Il detto proverbiale che allude alla barca ha sullo sfondo l'idea, più o meno accentuata, del pericolo: ad accomunarci è la presenza di una minaccia collettiva. Nell'immagine della piramide umana l'idea di un possibile crollo non è evidentemente assente, tuttavia essa non è neppure costitutiva. In questo caso il ruolo decisivo spetta alla relazione. Per costituire un'unica struttura tutti gli acrobati, fin dal principio, si trovano in un rapporto reciproco. Nell'immagine corrente, la barca è un contenitore (fuor di metafora, una situazione accomunante), nel caso della piramide umana invece sono le relazioni stesse a costituire l'insieme. Gli acrobati, quindi, simboleggiano la condizione umana in quanto tale e non già una particolare situazione in cui ci si viene a trovare.

 

«Rispetto per la vita»

 

Nella civiltà occidentale sono stati elaborati vari modi per affrontare il tema delle relazioni. Da esse, di solito, non derivano però in modo diretto comportamenti etici rivolti a prestare un aiuto sia agli altri sia a se stessi. Un'esemplificazione particolarmente significativa di questa prospettiva avviene se si guarda all'approccio evolutivo assunto in senso biologico.

Anche prescindendo dal riferirsi a questa o a quest'altra teoria, è dato concludere che tutte le visioni evolutive individuano un legame molto stretto tra i viventi, cosicché di fronte a ciascuno di loro è obbligo concludere che se non ci fosse lui non ci saremmo neppure noi.

Tuttavia questa constatazione descrittiva di per sé non consente di trarre conclusioni etiche univoche: tra XIX e XX secolo si affacciarono sulla scena sia il darwinismo sociale che trasferiva nelle società umane il criterio della struggle for the life, sia visioni che coniugavano in senso positivo e comprensivo l'etica della vita. Tra esse la più celebre è probabilmente quella intuita da Albert Schweitzer nel corso di uno dei suoi soggiorni africani.

«Risalivamo lentamente il fiume (...) cercando con fatica – era la stagione secca – i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Immerso in profonda meditazione sedevo sul ponte della barca, sforzandomi di arrivare al concetto elementare e universale di etica, che non ero riuscito a trovare in nessuna filosofia. (...) Poi il terzo giorno, al tramonto, proprio nel momento in cui ci stavamo facendo strada tra una mandria di ippopotami, balenò nella mia mente, quando meno me lo aspettavo, la frase: "Rispetto per la vita". Il cancello di ferro aveva ceduto; si poteva vedere il sentiero del bosco. Ecco che avevo trovato il modo per arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l'affermazione del mondo e della vita e l'etica. Ora sapevo che l'affermazione etica del mondo e della vita, come pure gli ideali di civiltà, sono fondati nel pensiero».[8]

Il discorso di Schweitzer non è rivolto in modo diretto all'aiuto da offrire agli altri; tuttavia è evidente che il fatto stesso che questi pensieri siano stati per così dire innescati dalla vista di una mandria di ippopotami attesta che il legame tra tutti i viventi è qui assunto come un vero e proprio fondamento; dal canto suo il rispetto della vita, lungi dall'essere inteso come un passivo non intervento, obbliga a fornire un aiuto attivo tutte le volte che ce n'è bisogno.

 

Compassione e saggezza

 

«Umana cosa è l'aver compassione agli afflitti» si legge nella prima riga del Decameron. Nell'animo umano compare a volte un forte senso di compassione o di human sympathy nei confronti degli altri. Per quanto in italiano i due termini di «compassione» e «simpatia» abbiano assunto significati fortemente diversi, il loro etimo è, rispettivamente in base al latino e al greco, lo stesso. Esso indica un far proprio il patire e il sentire (nel senso di pathos) altrui.

L'espressione inglese human sympathy si conforma appunto a questo atteggiamento di com-passione attiva. Un problema a questo riguardo è se si tratti di un moto che balena all'improvviso dentro di noi o se, al contrario, sia una presenza costante.

Il buddhismo e il ruolo in esso affidato alla karuna ci prospettano una visione complessiva in cui misericordia, compassione, pietà ed empatia (per cercare una serie di termini che tendono a esprimere i sensi contenuti nel termine karuna) vanno congiunte in modo integrale con la prajna («saggezza»). Non si dà saggezza senza compassione e viceversa.

Ciò fa sì che karuna abbia un carattere universale che trova una qualche corrispondenza in noi tutte le volte in cui proviamo una grande, profonda compassione per la condizione umana in quanto tale (e quindi anche per noi stessi). Ciò non comporta affatto astenersi dall'azione; tuttavia essa è una dimensione profondamente diversa rispetto al moto improvviso che a volte ci spinge a soccorrere gli altri.

Nella maggior parte dei casi questo stato d'animo non dipende da una visione complessiva della realtà, esso scaturisce da sé di fronte a situazioni specifiche. Anche nella Bibbia non mancano episodi che si rifanno a questa dinamica. Per esemplificarla ci limitiamo a solo quattro esempi nei quali il senso di compassione, innescato da un precedente atto di vedere, conduce all'azione.

Iniziamo da un episodio antico, quello in cui la figlia del faraone salva il piccolo Mosè chiuso in un cestino che galleggia tra i canneti del Nilo.[9] Il libro dell'Esodo in questa scena riserva un ruolo decisivo al sentimento umano. La figlia del faraone vede il cestello fra i giunchi e manda la sua schiava a prenderlo. Vi è un primo atto legato al vedere, probabilmente dovuto solo a un moto di curiosità.

Subito dopo si muta però registro: «L'aprì e vide il bambino: eccolo, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: "È un bambino degli ebrei"» (Es 2,6; trad CEI 2008). In effetti il verbo ebraico impiegato in questa occasione (chamal) andrebbe reso meglio con «si commosse». Il pianto della piccola creatura induce alla commozione l'animo adulto. Non si trattò di un puro sentimento passeggero, quel sentimento condusse infatti a prendersi cura di un bambino appartenente a un gruppo perseguitato. Il pianto infantile suscita una risposta attiva.

La successione tra vedere e aver compassione (verbo splagchnizomai, che allude alla componente «viscerale» presente nel linguaggio biblico) compare anche in tre brani presenti solo nel Vangelo di Luca. Il primo è legato a un miracolo. Gesù sta per entrare a Nain. Presso la porta della città scorge un corteo funebre che accompagnava al sepolcro il figlio unico di una madre vedova: «Vedendola il Signore fu preso da grande compassione (esplagchisthe) per lei e le disse: "Non piangere"» (Lc 7,13).

Compassione e commozione muovono Gesù all'azione e lo inducono a richiamare in vita il fanciullo. In questa circostanza il Signore agisce in virtù di un moto interno; nessuno gli rivolse una richiesta, né la vedova compì alcun atto di fede in Gesù. L'azione misericordiosa è unilaterale, essa manifesta una profonda asimmetria tra chi è nelle condizioni di aiutare e chi può essere solo aiutato e qui non si tratta del defunto che, evidentemente, si trovava già in un «mondo altro», quanto di sua madre; è di lei che il Signore ebbe compassione.

Un discorso per più versi analogo è applicabile anche alla parabola del padre misericordioso. Il figlio minore dopo aver dissipato l'eredità torna verso casa. In tutto il tempo del suo smarrimento il padre non l'aveva fatto cercare. Sulla via del ritorno, «quando era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione (esplagchisthe), gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).

In alcuni commenti si immagina il padre collocato sulla terrazza nell'atto di scrutare senza posa l'orizzonte lontano. Non è necessario ipotizzarlo. Il vedere può essere stato anche improvviso. Il gesto misericordioso di correre incontro al figlio perduto al fine di ritrovarlo nell'abbraccio e nel bacio non era programmato, scaturisce repentino dalla visione.

 

La prossimità: frutto di una relazione

 

L'ultimo esempio è forse il più significativo nel caso in cui si confronti il punto d'arrivo con quello di partenza. Si tratta della parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-36). Di essa conviene sottolineare un aspetto particolare. Il discorso prende avvio da una discussione sui due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Dt 6,4-5; Lv 19,18); rispetto a quest'ultimo comandamento, la parabola estende l'orizzonte mettendo al centro la figura di un uomo (anthropos) che scendeva da Gerusalemme a Gerico.

Egli non è qualificato in nessun altro modo che in virtù del proprio bisogno. Le componenti identitarie sono presenti dalla parte di coloro che sono chiamati a prestar aiuto (sacerdote, levita, samaritano), non da quella di chi giace mezzo morto ai bordi della strada: egli è semplicemente un uomo.

Il sacerdote, il levita e il samaritano sono nelle condizioni di decidere se diventare prossimo allo sventurato; di contro, al ferito non è dato di scegliere nulla. Per lui chi lo soccorre diviene il suo prossimo, mentre gli altri restano degli estranei. Alla fine della parabola Gesù domanda: «"Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Colui che gli ha fatto misericordia (eleos)"» (Luca 10,36-37).

In questo caso, perciò, occorre affermare non tanto che ogni persona umana è mio prossimo quanto che ognuno può diventarlo se agisco nei suoi confronti all'insegna di una fattiva misericordia. La prossimità è il frutto di una relazione che trasforma l'estraneo in vicino.

Vi è però un aspetto legato all'universalità della motivazione che spinge ad agire. La discussione parte dal precetto e ne esemplifica la portata chiamando in causa un modo di prestare aiuto che non si misura affatto con il comandamento. Data l'ambientazione, bisogna presupporre la conoscenza del precetto del Levitico anche da parte del samaritano (il Pentateuco faceva parte pure della sua tradizione religiosa); tuttavia, egli agisce a motivo dell'estroversione delle proprie viscere e non già per mettere in pratica il comandamento.

Il suo aiuto è mosso da questa motivazione: «Passandogli accanto vide e ne ebbe misericordia (esplagchisthe)» (Lc 10,33). All'universalità del soggetto a cui ci si rivolge («un uomo») corrisponde quella del motivo che induce a operare. Si parte discutendo di un precetto biblico, ma si agisce sospinti da un moto di compassione commossa potenzialmente presente nell'animo di tutti, ma fu solo il samaritano a darvi ascolto.[10]

Rispetto all'uomo privo di identità che giace lungo la strada quanto è richiesto è di passare da un'iniziale estraneità alla costruzione di una prossimità frutto dell'ascolto di viscere estroflesse. Ogni essere umano da estraneo può diventare mio prossimo se segue la voce del frammento di misericordia presente in lui; quanto è decisivo è darvi ascolto e non «passar oltre» come il sacerdote e il levita.[11] Qualcosa di simile successe, per esempio, anche a Henri Dunant quando, nel 1859, arrivò sul campo di battaglia di Solferino.

Di fronte allo spettacolo orrendo – visto non solo da lui ma anche da molti altri – dei feriti abbandonati agonizzanti sul campo, gli sorse l'idea di creare la Croce rossa.[12] Cosa lo spinse a fondare un'organizzazione destinata a occuparsi di tutti i feriti sui campi di battaglia e altrove? Se volessimo impiegare l'immagine evangelica, la risposta sarebbe: egli, a differenza di altri, diede ascolto alla voce delle proprie viscere. Ciò gli consentì di emergere dalla comune indifferenza che attanaglia i più.

 

«Io sono il Signore Dio tuo»

 

Nelle considerazioni ora proposte dedicate alla parabola del samaritano, si è evidenziato il passaggio da una discussione legata a un comandamento a un'azione innescata da una compassione commossa. Ora è opportuno compiere il cammino inverso e considerare l'esistenza di un comportamento comandato. Quando si prende in considerazione quest'ambito sorge subito il problema dell'autorità legittimata a comandare.

Per ricorrere a categorie consuete, essa può essere religiosa o civile. Tutti e due gli ambiti sono ricchi di varianti. Nelle nostre considerazioni esemplificative ci concentreremo da un lato su alcuni precetti biblici (senza prendere in considerazione i loro sviluppi presenti nella tradizione ecclesiale) e dall'altro sui contenuti di alcuni articoli costituzionali o legati ai diritti umani (senza occuparsi di leggi positive).

Scegliamo il punto di partenza per molti versi più ovvio; scavando in esso troveremo però aspetti meno scontati, fermo restando che, sul piano della prassi, anche il brano biblico di partenza è già in se stesso assai impegnativo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18); «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19,33-34). In entrambi i casi, la frase è conclusa con un riferimento al Signore posto a fondamento del precetto: non ci sono dubbi sull'autorità a cui spetta di comandare.

«Lo amerai come te stesso (`ahavta lo kamokha)» qui (come in Lv 19,18 in relazione al prossimo) il verbo `ahav, «amare», regge il dativo e non già, come di consueto, l'accusativo. Una traduzione che volesse mantenere la costruzione ebraica potrebbe optare per un «porta amore a...».

Questa resa chiarirebbe che si tratta di una dimensione operativa – la si può comandare appunto per questo motivo – e non già di un appello ai sentimenti. Il suo senso è dunque il seguente: agisci in modo amorevole nei confronti dello straniero.[13] Il comandamento ti ordina di fare a prescindere dal tuo stato d'animo nei confronti della persona che sei chiamato ad amare e aiutare.

Qui non entra in gioco alcuna compassione commossa, si è semplicemente tenuti ad agire in quel modo in ragione dell'imperatività del precetto rivelato dal Signore. Così nella forma presente nel testo biblico. In ogni caso l'appello a un principio fondativo trascendente smorza il ruolo affidato alla soggettività.

La dinamica risulta con particolare evidenza nel caso del comandamento rivolto a favore del nemico. All'inizio del percorso non c'è alcuna istanza riconciliativa, non si ordina di trasformare il sentimento d'avversione in amicizia, semplicemente si comanda un'azione benefica nei riguardi di chi ci è avverso: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico e il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso; mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5; trad. CEI 2008).

La seconda parte della traduzione non appare corretta allorché introduce un «non» (assente in ebraico) che regge un comando («non abbandonarlo a se stesso»). Si tratta peraltro di una resa frequente di un passo oggettivamente difficile da tradurre. E importante precisare sia che «nemico» andrebbe reso, alla lettera, con «colui che ti odia» sia individuare la presenza del comando solo nella parte conclusiva della frase (alla lettera «sciogli, sciogli con lui»); la proposizione precedente esprime invece la scelta iniziale, opposta al soccorso, compiuta da colui che vede la bestia a terra.

La frase andrebbe resa su per giù così: «Quando vedi l'asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico e desisti dal scioglierlo [asino]» proprio allora «sciogli, sciogli con lui [colui che ti odia]».[14]

In conclusione, ci sono due stati d'animo soggettivi di partenza: da una parte l'odio nei tuoi confronti e dall'altro la tendenza a non prestare aiuto; il comando s'innesta in questo plesso di stati d'animo e ordina un'azione positiva a favore di chi prova avversione nei tuoi confronti.

 

«In spirito di fraternità»

 

L'oggettività del comando che scavalca gli stati d'animo è ardua da mettere in pratica. Ciò è confermato indirettamente anche dalla Bibbia che in un passo parallelo (Dt 22,1-4) applica al fratello quanto il libro dell'Esodo riferiva al nemico. Nel Vangelo si torna a parlare di nemici. Molti fattori inducono a ritenere che l'amore evocato nei loro confronti debba collocarsi ancora sul piano operativo; bisogna cioè compiere azioni positive nei loro riguardi al fine di non essere presi nella spirale dell'avversione e del rancore.

Il modello citato, quello del Padre celeste, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti, è anch'esso operativo (Mt 5,43-48). Il Padre agisce a favore di tutti, senza che ciò annulli le qualifiche antietiche riservate agli esseri umani. In termini più orientati verso una futura discriminazione, il pensiero torna anche nella Lettera ai romani: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina (...) Al contrario "se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo" (Pr 25,21-22). Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,19-21).

Quando il comando è basato su un'autorità la sua efficacia dipende in larga misura da quanto essa sia riconosciuta. Se la fede in Dio illanguidisce, l'appello all'autorità divina perde efficacia. Lo stesso vale a maggior ragione se non si accredita più al potere divino la capacità di punire. Peraltro la presenza o l'assenza di una componente coercitiva ha una funzione rilevante anche in campo civile.

Per illustrare quest'ambito sono sufficienti pochi riferimenti. Dato l'attuale contesto politico e sociale del nostro paese, il primo esempio da proporre è quasi obbligatoriamente il principio di solidarietà presente nella Costituzione: «La Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).

Il principio costituzionale è, per definizione, generale e la sua realizzazione è affidata a leggi positive garantite anche dalla presenza di una componente sanzionatoria. Lo scenario diviene perciò più decisamente connotato o dal rispetto o dalla violazione. Rimane il fatto che anche in sede puramente costituzionale ci si muove nell'orizzonte di un'imperatività basata sull'autorità.

Considerazioni in gran parte simili alle precedenti valgano per la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a Parigi il 10 dicembre 1948. Il suo primo articolo recita: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». A distanza di oltre un secolo e mezzo, e avendo alle spalle due guerre mondiali, le parole ora citate rievocano i diritti cardine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità.

Li dispongono però in una successione diversa: due sono collocati sulla tavola dei diritti, uno su quella dei doveri. È una differenza significativa. La fraternità non è un dato di partenza indiscutibile. Non ogni essere umano è mio fratello, ma ogni persona può diventare fratello o sorella se ci si relaziona reciprocamente «in spirito di fraternità». È una dinamica che richiama quanto avviene nel caso dell'amicizia: l'essere amici è una conquista comune.

La più condivisa formulazione dei diritti umani si apre prospettando l'esistenza di un'obbligazione. Libertà e uguaglianza sono situate sì nella sfera dei diritti, ma sono anche collegate a un termine, «dignità», reso necessario dall'avere assistito, nel corso della prima metà del Novecento, a forme senza precedenti di degradazione attuate dall'uomo nei confronti dei propri simili.

L'obbligazione si fonda sulla coscienza, parola innovativa rispetto alle precedenti dichiarazioni dei diritti. Come indicano i dibattiti svoltisi in sede ONU in vista della stesura del documento, qui per coscienza non s'intende la voce interiore che rende manifesta l'esistenza di una legge divina; il termine attesta piuttosto la presenza nelle persone di un «sentimento che altri uomini esistono».[15]

Il dare ascolto all'apertura antropologica verso l'altro dovrebbe portare ad agire in spirito di fratellanza. Accanto alla ragione è quindi chiamato in causa il sentimento, il quale, però, lungi dall'indossare i panni molli della spontaneità, è rivestito da quelli più degni e impegnativi dell'obbligazione. Il principio perciò è enunciato perché la sua stessa formulazione spinga ad agire in un determinato modo. Anche qui dunque si apre l'alternativa legata al rispetto o alla violazione.

 

La radicale-comune povertà

 

Ogni essere vivente che viene alla luce non ha scelto di nascere. L'affermazione non patisce smentita. Essa resta salda tanto nel caso di un concepimento naturale quanto di uno conseguito attraverso metodi più o meno accentuatamente artificiali. La nascita precede ogni volizione del soggetto. Questa radicale dipendenza ontologica si prolunga nel fatto che al momento della sua uscita dall'utero materno (per limitarci alla sfera dei mammiferi) ogni essere vivente è radicalmente non autosufficiente.

Il venir abbandonato a se stesso comporterebbe una sicura morte. L'aiutare gli altri è dunque componente costitutiva dell'esistenza di ciascuno. Ognuno, guardando a se stesso, è obbligato a concludere che se è tuttora in vita lo deve al fatto di essere stato aiutato. Soccorrere gli altri è quindi definibile come una specie di «regola d'oro» affermativa («Tutto quello che gli uomini volete facciano a voi, anche voi fatelo a loro» Mt 7,12) radicata nell'esistenza stessa. Dato e non concesso che si possa trascrivere liberamente in questi termini, il detto evangelico che ammonisce di ritornare come bambini (Mt 18,1-4) comporta la riconquista della struttura base dell'esistenza che pone al centro la relazione di aiuto.

La radicale comune povertà della condizione umana è la fonte primaria della solidarietà tra le creature. Papa Francesco, nella prefazione al libro del card. G.L. Mulller Povera per i poveri, scrive: «Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all'economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo "dai nostri beni" (cf. Lc 12,15).

Originariamente l'uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente del bisogno e dell'aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell'impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere "creature": non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere».[16]

Sostenere che gli esseri umani nascono liberi e uguali è una visione astratta o, se si vuole, un'affermazione di principio. Quando si viene alla luce non si è infatti né liberi, né uguali. Nella concretezza dell'esistenza è invece affermabile quanto le dichiarazioni dei diritti e dei doveri di solito non esplicitano: tutti gli esseri umani nascono bisognosi di essere aiutati, perciò l'obbligo di prestarsi reciprocamente aiuto è legge primaria della convivenza umana.

 

Non dare al male l'ultima parola

 

Guardando alle esistenze individuali, a quella collettiva, o, ancora più ampiamente, alla storia umana nel suo insieme, non sono pochi coloro che concludono che il tasso di male presente nel mondo è tale e tanto da non poter essere in alcun modo sanato. Si tratta della categoria di persone colloquialmente etichettate come pessimiste. Se portata all'eccesso, la loro posizione si riveste dei panni di una sfiducia radicale negli esseri umani che porta all'inazione propria di chi dichiara che ormai non c'è più nulla da fare.

In realtà, la conclusione, apparentemente coerente e lineare, è ingannevole e contraddittoria. Lo è nella misura in cui toglie al male le stimmate dell'inaccettabilità. Se il negativo entra nell'ambito delle cose che ineluttabilmente capitano, esso diviene, di fatto, normalizzato. In tal caso perde mordente la più concreta definizione di male che lo qualifica come una realtà che è ma che non dovrebbe essere.

«Una realtà che è» è una constatazione, il «non dovrebbe essere» è un giudizio di valore che spinge a prestare aiuto all'altro anche se si è consapevoli tanto della parzialità delle proprie azioni quanto della vastità umanamente irrimediabile del male presente nel mondo. Se collocata nell'ambito che le compete, è proprio l'inaccettabilità del male a ingenerare un senso di solidarietà con chi dal male è colpito.

Per ricorrere a un'espressione alquanto semplificata, si potrebbe sostenere che l'autentico pessimista è una persona attiva ma non soddisfatta. Egli non fa il bene perché gli fa bene, vale a dire non lo compie per sentirsi meglio; al contrario lo attua nella consapevolezza dell'insufficienza del proprio intervento. Se è persona di fede coniugherà questo suo agire con la fiducia (invero spesso messa alla prova) che la salvezza è da Dio e non dagli uomini.

Nei confronti di quell'«altro» costituito dalla terra, questa posizione è stata ben espressa in una dichiarazione di intenti di uno dei padri della coltivazione biologica in Italia, l'uomo di fede Gino Girolomoni: «Io non penso che l'agricoltura biologica salverà il mondo, ma la pratico per non stare dalla parte di chi il mondo lo distrugge».[17]

La scelta di fondo è esattamente quella di non stare dalla parte di chi compie il male; ciò comporta che nel frammento che ci compete ci si senta chiamati a curare le ferite di chi è colpito dal negativo, un atteggiamento che riguarda le persone, gli animali, la terra e le cose, e i prodotti artistici. Nel caso dei manufatti quest'atto rientra sotto la categoria del restauro, mentre quando si tratta di persone il conseguimento più alto è espresso dal termine «consolazione», un atto che non annulla quanto è stato, ma che si impegna a far sì che al negativo non spetti l'ultima parola.

 

Perché aiutare è difficile

 

Riprendiamo in conclusione l'argomento da cui siamo partiti. Il peso del «come» è grande. Per essere in grado d'aiutare gli altri occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche.

In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Basti pensare al ruolo riservato alla conoscenza delle leggi e delle procedure burocratiche spesso ignote ai più deboli, oppure alla profonda situazione di disagio che colpisce persone sprovviste di determinate abilità (il ruolo un tempo svolto dal non saper leggere e scrivere trova oggi un parallelo nell'essere privi di abilità informatiche ormai necessarie per lo svolgimento di moltissime pratiche amministrative e finanziarie).

Assunta nel suo complesso la sfera del «come» mina sempre più l'immediatezza dell'aiuto diretto a favore degli altri. Per sapere non basta volere. Non stupisce perciò che in più casi si asserisca che l'aiuto maggiore che si può dare è quello di fare un passo indietro e di lasciar fare a chi ha le competenze adeguate.

È solo apparentemente banale dichiarare che oggi la prima azione che il samaritano avrebbe compiuto lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico sarebbe stata quella di chiamare il 118! Si tratta di atto tanto efficace quanto dotato di scarso coinvolgimento personale che probabilmente anche il sacerdote e il levita avrebbero compiuto. Va da sé che non è proponibile prescindere dalla sfera delle competenze, ma è altrettanto certo che esse tendono, più o meno sottilmente, a far impallidire l'ambito che spetta al coinvolgimento etico personale e a rendere sempre più raro l'incontro profondo tra le persone basato sulla componente spirituale.[18]

Su tutte le motivazioni da noi prese in considerazione pesano delle controindicazioni. La dimensione economica legata all'utile e al vantaggioso è esposta all'incertezza della previsione. Ogni investimento, anche nel senso lato del termine, si proietta nel futuro e quindi ha a che fare con un ambito per definizione incerto.

Anche quando ci si muove sul piano dell'aiuto bisogna tener conto che alcune azioni sono soggette a mutamenti di segno in ragione di avvenimenti imprevisti. In questo campo l'eterogenesi dei fini è più che mai all'ordine del giorno. Ogni progetto è esposto a un rischio non preso in considerazione. Rispetto alla compassione grava tanto il suo essere di frequente legata all'oscillazione degli stati d'animo in cui ci si trova quanto la difficoltà d'affrontare il peso della reiterazione: se il samaritano avesse percorso quotidianamente quella strada e tutte le volte avesse incontrato un uomo ferito non si sarebbe comportato nella maniera descritta dalla parabola.

L'esistenza di un comando va incontro a tutti i disagi legati a un'imperatività eteronoma che si presenta poco coinvolgente, se non è fatta interiormente propria, e fredda e distaccata se eseguita solo per il timore delle conseguenze derivate dalla trasgressione.

Il senso di povertà proprio della non autosufficienza umana è turbato dai momenti in cui gli individui, le società e le nazioni si sentono forti e destinati a dominare; ne consegue che per essi lo sfruttamento risulta una realtà ben più attestata dell'aiuto.

 

Cercare di capire

 

L'inaccettabilità del male è esposta al rischio di scivolare, a poco a poco, nella rassegnazione o ancor più precisamente nell'accidia, parola di uso ormai raro, ma imparentata con il termine frequentissimo d'indifferenza. Quanto la distingue da quest'ultima è soprattutto il fatto che l'indifferenza riguarda in genere gli altri, mentre l'accidia coinvolge anche se stessi.

Che nell'etimo di «accidia» l'«a» iniziale sia un alfa privativo appare scontato. L'attenzione va quindi riservata all'altra parte del sostantivo: alle sue spalle c'è kedos «cura», «sollecitudine», «pensiero» ma anche «affanno». L'accidia è l' alter ego cupo e spento della spensieratezza. C'è chi non si cura di sé e degli altri perché vive con leggerezza senza lasciarsi turbare né dal proprio domani, né dal doloroso oggi altrui.

Di contro, c'è chi vive alla giornata con spossata stanchezza perché la sua triste condizione gli appare un muro invalicabile privo di futuro; la sua indifferenza alla vita è un fuoco spento che nessun aiuto altrui può ormai riaccendere.

Più del malinconico, l'accidioso ha perduto il gusto della vita; per l'uno e per l'altro ciò è avvenuto senza un motivo preciso. Chi è preda dell'accidia è avvolto da una cupezza rancorosa contro tutto e tutti, a iniziare da se stesso. L'accidia è la declinazione in chiave morale di una depressione valutata all'insegna del vizio e non già della malattia. In ciò sta forse la ragione per la quale oggi la depressione riempie la scena, mentre l'accidia è rintanata dietro le quinte.

Un fattore che si presenta come un ostacolo, oggi forse il più rilevante, rispetto all'aiuto da prestare agli altri è costituito dalla paura. Stato d'animo complesso ma, nella sostanza, in larga misura riconducibile all'attesa, conscia o inconscia, di un danno che altri ci possono arrecare. In effetti ciò riguarda a volte anche noi stessi.

Abbiamo paura dei nostri sentimenti e dei nostri desideri, di quello che potremmo compiere, sperimentiamo la sensazione di non avere risorse sufficienti per affrontare l'ostacolo con cui ci si deve confrontare (banalmente: «Ho paura di non farcela») e così via. In relazione agli altri si paventa un danno che un'entità, di frequente non ben conosciuta, potrebbe arrecare a noi stessi, ai nostri cari, alle nostre risorse, ai nostri beni, al nostro stile di vita, alle nostre fonti di reddito, alla nostra tranquillità e via dicendo.

Anche questa volta l'area di riferimento può essere individuale, relativa a un gruppo ristretto o ampia fino a comprendere intere nazioni. Una delle condizioni indispensabili per aiutare gli altri perciò è di vincere la paura, operazione non semplice in quanto coinvolge nel profondo individui e collettività. Essa poi diviene ancora più ardua in un tempo come il nostro dominato dall'incertezza nei confronti del futuro.

In ogni caso una delle risorse più efficaci per contrastare la paura è vivere sulla scorta di quello che Hannah Arendt considerava il massimo imperativo etico: cercare di capire. Non basta, ma è comunque un passo in avanti di notevole spessore.

 

* L'articolo riprende e sviluppa i temi presentati in una conferenza tenuta presso la parrocchia San Camillo De Lellis di Chieti il 20.11.2018.

 

NOTE

 

1 A. GENOVESI, Autobiografia, lettere e altri scritti: Opere scelte, a cura di G. SAVARESE, Feltrinelli, Milano 1963, 449.

2 Cf. A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, A. Millar, in the Strand, and A. Kincaid and J. Bell, in Edinburgh, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995).'

3 Cf. L. BRUNI, S. ZAMAGNI, L'economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.

4 D. HUME, A Treatise of human nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning finto moral subjects, 3: Of morals, Thomas Longman, at the Ship, London 1740 (trad. it. Trattato sulla natura umana, introduzione, traduzione e note di P. GUGLIELMONI, Bompiani, Milano 2001).

Cf. B.L. FREDRICKSON, Positivity. Groundbreaking research reveals how to embrace the hidden strength of positive emotions, overcome negativity, and thrive, Crown, New York 2009.

6 J.S. Utilitarianism, Longman, Green, Longman, Roberts, and Green, Londra 1864 (trad. it L'utilitarismo, Sugarco, Milano 1992, qui 33).

7 Cf. P. STEFANI, «Religioni-società: lo spirito dei diritti», in Regno-att. 22,2005,735; V. TALAMO (a cura di), Samyuttanikaya. Discorsi a gruppi, Ubaldini, Roma 1998.

8 A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Edizioni di Comunità, Milano 21965, 325.

9 P. STEFANI, «Il pianto di Mosè. È per rinascere che siamo nati», in Regno-att. 22,2018,693.

10 Forse può avere qualche significato constatare che il dottore della Legge, nella sua risposta conclusiva, usa eleos senza richiamarsi a splagchnizomai.

11 Cf. T. RADCLIFF'E, «Non passare oltre» in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, EDB, Bologna 2003, 137.

12 Cf. F. GIAMPICCOLI, Henri Dunant. Il fondatore della Croce Rossa, Claudiana, Torino 2009.

13 Cf. P. STEFANI, «Ama l'immigrato. È come te stesso», in Regno-att. 10,2015,705.

14 Sia pure in un italiano involuto, il punto è stato colto dalla seicentesca traduzione italiana del Diodati: «Se tu vedi l'asino di colui che ti odia giacer sotto il suo carico, mentre tu ti rimani di aiutarlo a farglielo andare oltre, del tutto fa' con lui sì che possa andare oltre». Su questa linea si attesta anche la King James: «If thou see the ass of him that hateth thee lying under his burden, and wouldest forbear to help him, thou shalt surely help with hinv›.

15 Cf. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995, 90.93-97.

16 FRANCESCO, «Prefazione» a G. MULLER, Povera per i poveri. La missione della Chiesa, a cura di P. Azzaro, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, 8s.

17 M. ORLANDI, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, EMI, Bologna 2014, 123: cf. Regno-att. 20,2014,725.

18 Il tema della deresponsabilizzazione personale a fronte delle crescenti competenze sociali è stato affrontato più volte, da par suo, da Ivan Illich: cf. per esempio I. Tuffai, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2008; cf. Regno-att., 20,2008,683.

 

 

(FONTE: Il Regno 2/2019, pp. 51-60)

 

Il duale

 

Alessandro D’Avenia

 

Al liceo, imparando la declinazione dei nomi e la coniugazione dei verbi greci, rimasi colpito da una forma grammaticale che a noi manca: il duale. Oltre al singolare (l'occhio vede) e il plurale (gli occhi vedono), i Greci avevano un modo specifico per indicare un elemento che ne implica un altro, non in quanto somma, ma come realtà nuova data proprio dalla relazione dei due.

 

 

Per tradurre dovevamo aggiungere un «due», ma la perifrasi di cui l'italiano necessita (i due occhi vedono) non dà sufficiente conto dell'azione congiunta, mentre loro avevano una forma specifica, quasi intraducibile (gli occhi vedono insieme), perché più che il numero segnala l'effetto della relazione.

 

 

 

Il duale non è quindi né un singolare né un plurale: la vista tridimensionale non è la somma di due occhi ma un «occhio a due».

 

 

 

Rari sono i casi in cui negli anni di scuola mi sono imbattuto nel duale, senza per altro capirne del tutto la precisione o necessità. L'ho intuita qualche giorno fa quando, con la mia futura sposa, siamo andati in una bottega di oreficeria e, guidati da una brava maestra (Anna), abbiamo forgiato in nove ore le nostre fedi: dalla fusione dell'oro grezzo fino all'anello, promessa d'amore in molte culture anche tra loro distanti. Due anelli, uno con il nome dell'altro, sono un duale aureo, e di un'educazione «duale» oggi abbiamo grande bisogno, come mostra anche la cruenta cronaca recente. La costruzione degli anelli me lo ha reso ancora più evidente. Come?

 

 

 

Lei ed io non siamo un semplice «noi», ma un «noidue» un «uno in due», una nuova entità, che supera la somma di 1+1, come «due occhi», «due orecchie», «due narici» non sono organi sommati, ma «la vista», «l'udito», «l'olfatto»: «la coppia» non è una somma di single che tentano di stare insieme fino a prova contraria, ma un'azione duale che genera l'inedito.

 

 

 

L'anello di un materiale raro e duraturo forgiato in forma circolare, simbolo di novità nella continuità, è il segno di questa azione duale. Viene posto sull’anulare (che significa appunto «il dito dell'anello») della mano sinistra perché nell'antichità si credeva che fosse collegato al cuore da una vena detta «dell’amore», per cui infilarvi l’anello è abbracciare il cuore dell'altro, l'altro così com'è.

 

 

 

Forgiare gli anelli è stato un impegno fisico di una giornata, come amarsi è un'officina aperta h24 (forgiare viene proprio dal latino fabrica, la bottega del fabbro). Tutto comincia unendo l'argento e il rame all'oro, altrimenti poco malleabile: chiamiamo comunemente questa lega (75% del nobile metallo e 25% per gli altri due) «a 18 carati». I metalli meno nobili sono necessari, come in una relazione gli aspetti meno «brillanti» lo sono perché ci si possa «lavorare»: finalmente c'è qualcuno che ama tutto ciò che siamo, anche il nostro 25% meno nobile, ma proprio questo, nel tempo, ci fa superare noi stessi e fa brillare tutto.

 

 

 

Il piccolo lingotto informe viene poi passato e ripassato in tre differenti presse che, con un certo impegno muscolare, lo trasformano in un filo della larghezza e sezione desiderata. Così fa il tempo: modella la relazione verso il suo compimento, è un nascere sempre di più, non un mero resistere. Il tempo dà la forma giusta alla relazione, spogliandola da idealizzazioni, manipolazioni, giochi di potere: non è infatti mai il tempo a spegnere l'amore, ma il disamore, cioè tutte quelle forme di potere/sottomissione che ho cercato di narrare in «Ogni storia è una storia d'amore», rendendo giustizia a donne dimenticate dalla storia ufficiale.

 

 

 

Ogni volta che il metallo viene «provato» dalle presse, bisogna poi rimetterlo «a fuoco», fino al rosso vivo, cioè in stato di quasi fusione, così le molecole indebolite da colpi e trazioni si riuniscono e rinnovano. È quello che serve nei momenti di crisi o di logorio: riportare la relazione «a fuoco», trasformando proprio ciò che l'ha messa alla prova in occasione per rigenerarla.

 

 

 

Le molecole della relazione di coppia hanno la stessa capacità dell'oro di rinnovarsi, ma solo se le si riporta ogni volta al duale, all'unione senza fusione, all'unità nella differenza, che fa superare le ragioni dell'io contro il tu grazie al «noidue» ritrovato nel fuoco che sin dall'origine aveva creato il legame.

 

 

 

Una fase molto affascinante della forgiatura è poi la chiusura dei due margini ancora separati. Una volta accostati perfettamente a forza di mani (un'azione vi assicuro più che mai faticosamente duale) e pinze, bisogna poggiare sulla linea di sutura un minuscolo frammento d'oro, detto «paglione», una lega aurea che fonde prima dell'altra, altrimenti tutto l'anello sarebbe liquefatto. Il paglione va a riempire perfettamente la fessura tra i margini, diventando poi tutt'uno senza lasciare il segno di unione non appena si porta di nuovo tutto l'anello al rosso vivo. Il paglione sarà la parola o il gesto che, se non vi rinunciamo, riuscirà a vincere e colmare la distanza.

 

 

 

A questo punto, l'anello, ancora irregolare, va martellato su un cono di ferro sino a diventare perfettamente circolare, per poi essere lucidato con lime, carte e setole, di diversa grammatura, fino a far sparire ogni imperfezione e rendere il metallo brillante. Durante la lavorazione non sembrava potessimo ottenere quel risultato, come capita nella relazione, ma alla fine gli anelli erano perfetti, forgiati ad arte dalle nostre mani, sapientemente guidate: la relazione è il (capo)lavoro di una vita. Non erano solo due anelli, ma un duale, un «noidue» aureo: l'unione nella differenza, quell'azione comune che permette a ognuno di essere chi è ma anche chi ancora non è e diventarlo sempre più, grazie allaltro, senza dominio, sottomissione, manipolazione.

 

 

 

 

Il duale non è quindi a metà strada tra singolare (individuo) e plurale (società), ma è l'origine di entrambi: la «coppia» fa i due, si fa nella differenza senza che diventi opposizione e nell'unità senza che diventi fusione, solo così è un rapporto tra soggetto e soggetto (generativo) e non tra soggetto e oggetto (degenerativo): al massimo di appartenenza corrisponderà il massimo di libertà, al massimo di unione il massimo di individuazione. Come la coppia di occhi, orecchie, narici fanno il vedere, l'udire, il respirare, così il «noidue» fa l'amare, l'uno in due, la forma duale di esistere: co-esistere. Un duale che stiamo scoprendo, imparando, facendo con gioia inattesa, come quelle fedi.

 

Sperare

di Giovanni De Mauro

 

 

“La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio.

 

 

 

Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita.

 

 

 

Significa riconoscere l’incertezza del futuro e impegnarsi a cercare di partecipare alla sua creazione.

 

 

 

Significa affrontare le difficoltà e accettare l’incertezza. Sperare significa riconoscere che si può proteggere qualcosa di ciò che si ama anche se si soffre per ciò che non si può proteggere – e sapere che dobbiamo agire senza conoscere l’esito di queste azioni.

 

 

 

Più e più volte il mondo è stato cambiato da persone che, all’inizio, sembravano troppo deboli per sfidare le istituzioni più potenti del loro tempo. Sperare significa accettare la disperazione come emozione ma non come analisi. Riconoscere che ciò che è improbabile è possibile, così come ciò che è probabile non è inevitabile. Capire che difficile non equivale a impossibile. Pianificare e accettare il fatto che l’imprevisto spesso sconvolge i piani, sia in meglio sia in peggio.

 

 

 

Sapere che i potenti hanno le loro debolezze e che noi, che in teoria siamo deboli, abbiamo un grande potere insieme, il potere di cambiare il mondo, lo abbiamo fatto in passato e lo faremo ancora. Sapere che il futuro sarà come lo costruiamo nel presente. Sapere che la gioia può apparire nel bel mezzo di una crisi e che una crisi è un bivio.

 

 

 

Forse la speranza è il coraggio di perseverare quando vincere sembra difficile; forse non è la speranza ma la fede che sostiene le persone quando il successo sembra inconcepibile.

 

 

 

 

È in questo senso che ne parla il drammaturgo Václav Havel, che è stato un catalizzatore della rivoluzione e del cambio di regime in Cecoslovacchia negli anni settanta e ottanta: ‘La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che vale la pena fare qualcosa a prescindere da come andrà a finire’”


 

 

Trascendenza

 

Paolo Zini

 

 

 

 

Nel pensiero occidentale il termine trascendenza gode di un autentico rilievo sintomatico, per la plurivocità di semantizzazioni che ha saputo condensare, quasi ricapitolandovi i tornanti fondamentali di un’articolata storia della teoresi e del costume.

I referenti privilegiati del termine hanno visto succedersi l’oltremondanità noetico-metafisica nella filosofia classica, il principio soteriologico e il destino escatologico della storia nella filosofia medioevale, i canoni regolativi dell’impresa civile e politica nell’umanesimo, l’inviolabilità della dignità soggettiva nella modernità illuministica e l’ideale della realizzazione del sé nella postmodernità.

A dispetto dell’eccesso di schematizzazione che pare implicato in tale sequenza, le figure di trascendenza che vi si profilano tracciano una parabola che, per il suo valore euristico, potrebbe essere di qualche utilità considerare.

L’abrasività degli aforismi nietzschiani - che restituiscono lo sviluppo del pensiero occidentale attraverso i canoni investigativi di una rigorosa eziopatogenesi - non esita a identificare nel platonismo un’ossessione per la trascendenza, origine ultima di quel vilipendio etico-religioso della vita che avrebbe trovato in secoli di filosofia la propria legittimazione teorica.

Il carattere discutibile dell’ermeneutica nietzschiana non può impedire di riconoscervi un’intuizione pertinente, circa la solidità del vincolo che annoda, nella filosofia occidentale, i destini dell’umano alle forme di identificazione e di ossequio alla trascendenza.

Con Platone – di nuovo il convincimento di Nietzsche qui è irrefutabile - l’istanza metafisica non diviene semplicemente prescrittiva relativamente ad una particolare deontologia della conoscenza, ma giunge ad ispirare una vera e propria assiologia epistemologica, che sancisce per quindici secoli la primazialità cognitiva del sapere circa la trascendenza delle cause ultime.

Il convenire dell’apertura dell’intelligenza umana e dell’intelligibilità ultima del reale definisce un segmento di consostanzialità ontologica e gnoseologica che decide la singolarità personale e discrimina la dignità della sua vocazione storica; sono istruttive al riguardo le parole solenni di Socrate nel Fedone: “Qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano, né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme. Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri, ebbene, vuoi che ti esponga, o Cebete, la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?” (Platone, 2001, 99d).

Con l’avvento del cristianesimo l’identificazione greca della trascendenza ed i suoi riflessi sull’autoidentificazione dell’umano conoscono una trascrizione soteriologica di impatto culturale e civile decisivo. Principio gnoseologico risolutivo per la competenza dell’umano circa la contraddizione storica dell’esistere è la Rivelazione, alla cui luce l’uomo conosce la misura della propria precarietà cognitiva ma pure le ragioni del proprio riscatto e della propria speranza. Alla bios theoretikos della tradizione greca, quale forma dell’esistere dell’umano riuscito, subentra la fede, quale abito intellettuale e volitivo acceso dall’obbedienza all’anticipazione pasquale del destino escatologico della storia. Corrispondentemente, alla trascendenza greca del logos, che eroga consistenza ontologica al cosmo e supera il carattere aporetico della contingenza storica dell’ente, subentra la trascendenza del Verbo, che vince le tenebre dell’ignoranza e della morte e inaugura l’attesa del giudizio escatologico che compirà la trasfigurazione trinitaria della storia. L’identificazione cristiana della trascendenza diventa principio di rideterminazione teologale dell’esistenza all’intersezione di un dono e di un compito che rivelano alla libertà la sua provenienza ed il suo destino.

Ben documentano la potenza della riqualificazione soteriologica della storia da parte dell’evento cristiano le parole di un’opera di Anselmo d’Aosta che così illustra la verità dell’esistere alla luce della fede: “Quale condotta più misericordiosa si può infatti riconoscere di quella del Padre, il quale, al peccatore condannato ai tormenti eterni e privo di quanto potrebbe salvarlo, dice: «Prendi il mio Unigenito e offrilo per te», e il Figlio da parte sua: «Prendi me e redimi te»? Questo dicono in qualche modo, quando ci chiamano e ci attirano alla fede cristiana” (Anselmo d’Aosta, 2007, II.20).

La Stimmung rinascimentale, accreditata da una singolare incisività culturale, revoca alcune fondamentali premesse cristiane della civiltà medioevale; l’osservatorio che consente di registrare la radicalità del cambiamento è quello della disciplina della convivenza civile in ordine alla quale il machiavellismo politico può essere icasticamente riconosciuto come laboratorio di una risemantizzazione della nozione di trascendenza. Il realismo del Principe descritto da Machiavelli, obliterando le giustificazioni metafisiche ed oltremondane del patto civile e della sua tutela istituzionale, svela - attraverso l’autoreferenzialità della ragione politica e il culto antiprovvidenzialistico dell’occasione che tesaurizza l’eccentricità della fortuna - l’assolutizzazione dell’orizzonte mondano quale pertinenza antropologica. In tale orizzonte rigorosamente storico ha un ruolo fondamentale l’eminenza antropologica, che si legittima per riferimento alla trascendenza non più della ragione metafisica dei fini, ma dell’astuzia opportunistica dei mezzi.

La soggettività nata dall’Umanesimo non considera dimidiato il proprio pregio per l’estraneità alle coordinate protologiche ed escatologiche che nella rivelazione cristiana la vedevano eletta a senso del cosmo meritevole il Sacrificio di Dio e la definitività di un destino eterno, piuttosto avverte l’ebbrezza della propria vocazione al dominio storico entro il quale celebra la sua assolutezza. La misura angusta ed immanente di una mondanità che trae da sé le forme della propria disciplina emerge con chiarezza inequivoca dalla deontologia politica del Principe di Machiavelli: “Resta ora a vedere quali devono essere i modi e governi d’un Principe con li sudditi e con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito scrivendone ancor io, non essere tenuto presuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma, essendo l'intento mio scriver cosa utile a chi l’intende, m’è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa: e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverria fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua” (Niccolò Machiavelli, 1858, XV).

Con la modernità illuminista il senso della trascendenza soggettiva, che l’Umanesimo insieme assegna ed affranca dal corso naturale degli eventi per inaugurare nella storia il protagonismo civile, si palesa come coscienza dell’autonomia della ragione e del potere di autodeterminazione della libertà. Il progetto kantiano è, da questo punto di vista, emblematico: la dignità dell’uomo non risiede nella capacità della sua intelligenza di riconoscere ultimativamente il principio trascendente del logos intrinseco alla realtà quale fonte di disciplina morale; piuttosto, il rigoroso ed esclusivo convenire di ragione e libertà nell’autonomia soggettiva subordina, al progetto della solitaria edificazione di sé, senso e valore dell’impresa civile e della sua eventuale referenza religiosa. È la trascendenza della differenza razionale dell’umano, identificata con il suo importo critico, rispetto ad ogni indigenza materiale, ad ogni prescrizione civile e ad ogni sentimento religioso, il fondamento di ogni prescrizione e legittimazione di senso. Le parole di Kant relative allo spirito illuministico sono molto precise: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo. Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. […] Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro. […] A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi” (Kant, 1783).

Con la temperie postilluminista, nella quale viviamo, l’estenuazione del rilievo socioculturale della trascendenza oltremondana conosce, forse a dispetto di numerose apparenze contrarie, la sua radicalizzazione. Non devono infatti ingannare il cosiddetto sacro di ritorno o la sovradeterminazione rituale e pseudoreligiosa dell’esistere cui si dirigono nostalgie individuali e collettive della società dei consumi. Oggetto di sacralizzazione pare infatti essere un ideale del sé caratterizzato da un’omeostasi assoluta, raggiunta attraverso la soddisfazione consumistica dei bisogni e l’esorcizzazione tecnica, mediatica e medica della sofferenza.

La fortunata espressione di Charles Taylor, che caratterizza il nostro tempo come età secolare, rimarca la filigrana immanentistica della figura di trascendenza cui l’uomo postilluminista riserva il proprio culto, annodandovi le costellazioni di significati deputate ad orientare l’esistere.

A caratterizzare, di riflesso, il tipo umano rappresentativo delle convivenze occidentali della contemporaneità, secondo Taylor, sarebbe l’identità schermata, esito di un processo di natura antropocentrica e solipsistica innescato dal senso di superiorità del soggetto sul mondo, dall’intensità di un nuovo rapporto della soggettività con se stessa e da una radicale reversibilità imposta dalla sua libertà ad ogni forma di vincolo con altri: “Quali erano (e sono) i vantaggi di questa identità schermata, antropocentrica? Le sue attrattive sono piuttosto ovvie, almeno per noi. Un senso di potere, di idoneità, derivante dalla capacità di dare ordine al proprio mondo e a se stessi. E, nella misura in cui tale potere era legato alla ragione e alla scienza, anche il senso di aver fatto grandi progressi in termini di conoscenza e comprensione. Oltre al potere e alla ragione, questo antropocentrismo presentava però anche un altro vantaggio notevole: un senso d’invulnerabilità. Vivendo in un mondo disincantato, il sé schermato non è più aperto, esposto a un mondo di spiriti e forze che attraversano il confine della mente e negano, perciò l’idea stessa dell’esistenza di un confine certo. Le paure, le ansie, persino i terrori che caratterizzano il sé poroso sono ormai alle spalle. Questo senso di padronanza di sé, di uno spazio mentale interiore sicuro, risulta ancora più forte, se oltre al disincanto del mondo abbiamo anche intrapreso la svolta antropocentrica e non facciamo più affidamento sul potere di Dio” (Taylor, 2009, p. 383).

Il prezzo però dell’identità schermata, retaggio di una trascrizione immanentistica di ogni trascendenza e di ogni differenza, pare sortire effetti autistici, che l’indagine di Taylor rimarca in modo tagliente: “L’identità schermata è profondamente ancorata nel nostro ordine sociale, nel nostro radicamento nel tempo secolare, nelle discipline distaccate di cui ci siamo fatti carico. Questo ancoraggio garantisce la nostra invulnerabilità, ma può essere vissuto anche come un limite, persino come una prigione, che ci rende ciechi o insensibili a tutto ciò che si trova al di là di tale mondo umano ben ordinato e ai suoi progetti razionali in senso strumentale. Può così facilmente diffondersi l’idea che ci manchi qualcosa, che le nostre vite siano tagliate fuori da qualcosa, come se vivessimo dietro uno specchio” (Taylor, 2009, p. 384).

Se la parabola tracciata nomina le figure di trascendenza divenute ispiratrici dei processi di costituzione e giustificazione degli assetti epistemologici, politici e civili del costume oggi dominanti, va nondimeno riconosciuto che numerose voci continuano a richiamare l’importanza di una diversa elaborazione del vincolo della coscienza all’ulteriorità oltremondana come condizione impreteribile di esercizio nobile della libertà.

Nel panorama culturale contemporaneo non mancano poi diagnosi che attribuiscono il disorientamento postmoderno e il tratto depressivo del suo approccio all’esistere proprio all’immanentizzazione soggettivistica di ogni trascendenza: “La nostra civiltà è la prima che si crede immortale, mentre forse è semplicemente la prima alla quale manchi un consapevole sentimento di limitazione. […] Eppure, fagocitando ogni rispetto del limite assieme a quello per dio e per la morte, la nostra civiltà sembra quasi aver seguito un cammino opposto e regressivo. […] La sua laicizzazione non è stata solo adeguamento a nuove regole esterne, ma metamorfosi interiore e trasmutazione dell’anima in luogo così complesso da farsi sempre più difficilmente esprimibile. Se dio è stato rimosso dai cieli e incorporato sotto forma di aspirazioni come lui infinite, anche la morte, allontanata dagli occhi, si riaffaccia all’interno dei soggetti travestita da depressione non razionalmente motivabile. Il nucleo di tale ripiegamento dello slancio vitale è una colpa assoluta, priva di motivi visibili, cui corrisponde un vissuto di insufficiente giustificazione dell’esistere” (Zoja, 2004, pp. 209-210).

I riflessi preoccupanti della seduzione immanentistica tipicamente occidentale suggeriscono forse di prestare attenzione a quegli autori impegnati a stigmatizzare la ridefinizione antropocentrica della trascendenza che la libertà finita vorrebbe ridurre a riflesso del proprio narcisismo.

Tra questi autori si segnala Levinas, la cui proposta speculativa è una rigorosa declinazione dell’assunto circa il carattere antropologicamente genetico della Trascendenza come Alterità e dell’Alterità come Trascendenza.

“Al di là della fame che si può saziare, della sete che si può calmare e dei sensi che si possono appagare, esiste l’Altro, assolutamente altro, che si desidera oltre queste soddisfazioni, senza che il corpo conosca alcun gesto per appagare il Desiderio, senza che sia possibile inventare una nuova carezza. Desiderio insaziabile, non perché corrisponda a una fame infinita, ma perché non reclama alcun nutrimento. Desiderio senza soddisfazione, che, proprio per questo, prende atto dell’alterità dell’Altro (Altrui) e la colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell’essere” (Levinas, 1989, p. 42).

Levinas ritiene sia compito urgente della filosofia ripensare il realismo della libertà riconoscendovi tanto un’insuperabile serietà storica quanto un’indigenza radicale che interdice all’umano ogni illusione autarchica e prometeica. Forse la provocazione di Levinas potrebbe sostenere una riformulazione dell’interrogativo circa l’origine trascendente del senso che nutre la libertà autorizzandone l’esercizio ed animando la reciprocità della dedizione interumana. Tale interrogativo potrebbe essere posto in ossequio ai guadagni dell’umanesimo e della modernità circa il valore dell’emancipazione civile, dell’autonomia della ragione, della fecondità culturale della libertà; non da tale ossequio viene infatti la necessità di una liquidazione della trascendenza che invece esibisce la persuasività della propria assolutezza mentre assicura tutela all’umano divenuto consapevole del prezzo e del pregio del cimento della propria libertà.

Nessuna coscienza soggettiva potrebbe essere definitivamente all’altezza delle severe esigenze del proprio compito quando patisse senza possibilità d’appello il giudizio della disperante potenza erosiva del tempo; sono sempre gli indizi e i simboli storici della trascendenza del senso e del senso della trascendenza ad erogare alla libertà insieme alle ragioni della propria speranza la coscienza della propria serietà e dignità.

 

Bibliografia

 

Anselmo d’Aosta (A. Orazzo ed.), Perché un Dio Uomo? Lettera sull’incarnazione del Verbo, Città Nuova, Roma 2007.

I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo, 1783, reperibile on-line al sito <http://bfp.sp.unipi.it/classici/illu.html> (visitato il 29.12.2011).

E. Levinas, La filosofia e l’idea dell’infinito, in E. Levinas - A. Peperzak (F. Ciaramelli ed.), Etica come filosofia prima, Guerini e Associati, Milano 1989, 31-46.

N. Machiavelli, Il Principe, in Id., Opere complete, II voll., Libreria di Francesco San Vito, Milano 1858.

Platone (G. Reale ed.), Fedone (Il pensiero filosofico), La Scuola, Brescia 200119.

Ch. Taylor (P. Costa ed.), L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009

 

L. Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Bergamo 20042.


Alessandro D’Avenia "La fine del mondo"

 

 

 

La prima: sappiamo che quando un certo tipo di stelle invecchia si espande ma, per la prima volta, abbiamo acquisito immagini di un pianeta che, a 13mila anni luce da noi, precipita dentro una di queste stelle con uno sbuffo di polvere.

 

 

La seconda: la probabile origine dei quasar (QUAsi stellAR: sorgente di luce quasi stellare). Scoperti sessant'anni fa, sono i più potenti oggetti celesti noti: brillano come un miliardo di miliardi di stelle ma in uno spazio ristretto come potrebbe essere il nostro sistema solare. Lo studio di 48 galassie in cui sono presenti hanno svelato che i quasar sono l'effetto dello scontro tra due galassie. Gli astrofisici ci raccontano il passato, scoprendo le costanti che regolano l'universo allo stesso modo in cui alcuni uccelli migrano e i mandorli fioriscono: la scoperta della nostra origine è ipotesi sul nostro futuro. Infatti queste due ricerche, anche se del tutto indipendentemente, ci annunciano, proprio per la regolarità del cosmo, che il mondo finirà per uno di questi due motivi: o il Sole, che è una di quelle stelle che invecchiando si espande, ci inghiottirà o la nostra galassia si scontrerà con quella di Andromeda.

 

 

 

Quando? In entrambi i casi i due eventi sono ipotizzati tra 5 miliardi di anni: la fine è sicura ed ha una scadenza indicativa, come i cibi.

 

 

 

Chi se ne importa, direte voi, l'universo di anni ne ha 14 miliardi e noi solo 2 milioni: c'è ancora «tutto il tempo» prima della «fine del mondo»! Siamo sicuri?

 

 

 

La tanto abusata frase di Saint-Exupéry sul fatto che si vede bene solo con il cuore, coglie un punto tutt'altro che sentimentale, confermato dalla fisica quantistica: noi vediamo ciò che siamo. Scopriamo fuori di noi ciò che ci portiamo dentro: in negativo quando non lo vogliamo affrontare, come quando vediamo negli altri i nostri difetti (quanti tirchi, permalosi, invidiosi... lo sono perché lo siamo prima di tutto noi); in positivo quando riconosciamo fuori qualcosa che abbiamo prima accolto dentro di noi (chi è innamorato scopre il cielo, chi è malinconico la Luna). E così quando scopriamo certi fenomeni naturali vediamo noi stessi: la nostra origine è il nostro futuro.

 

 

 

Nei 5 miliardi di anni che restano c'è quindi non solo una scadenza ma un promemoria del desiderio. Lo aveva già intuito Giuseppe Ungaretti, quando, in trincea, durante la prima guerra mondiale, in una notte estiva, scrisse su un pezzetto di carta:

 

 

 

«Chiuso tra cose mortali (anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio?» (Dannazione - 29 giugno 1916).

 

 

 

Sentiva nella carne la «mortalità» di tutto, persino del cielo stellato con la sua illusione d'infinito già segnalata sulle carte dell'anima da Leopardi. Ma l'ultimo verso testimonia, di fronte al “finire” di tutte le cose, che qualcosa in noi si ostina invece a «in-finire»: la parola Dio viene infatti da un'antica radice per «Luce», da cui termini apparentemente lontani come Zeus in greco, dies (giorno) in latino, divino in italiano.

 

 

 

Di fronte al buio che avvolge la nostra origine e la nostra fine, il cuore brama luce.

 

 

 

Ma che cosa dovrei farci di 5 miliardi di anni se a me ne restano poche decine? Farli entrare in quelle decine, rendendole «la fine del mondo». Come? Lo dice bene un racconto dello scrittore russo, naturalizzato francese, Andreï Makine, che ruota attorno a un ricordo d'infanzia nell'asfissiante Russia sovietica. Giocando a nascondino tra le tribune deserte che ospitavano fino a poche ore prima i rappresentanti del partito osannati dalla massa, un bambino trova una donna, sola, che legge la lettera del suo amato, tra le lacrime: «Non era la prima donna ad abbagliarmi con la sua bellezza. Era la prima, però, a rivelarmi che una donna che ama non appartiene al nostro mondo ma ne crea un altro e lì resta, sovrana, inaccessibile alla febbrile rapacità dei giorni che passano... La bellezza umile del volto femminile dalle palpebre abbassate rendeva ridicole le tribune e chi le occupava, e la pretesa degli uomini di ergersi a profeti della Storia. La verità era espressa dal silenzio di quella donna, dalla sua solitudine, dal suo amore così grande che perfino il bambino sconosciuto che scendeva i gradini ne era rimasto abbagliato per sempre».

 

 

 

Quel volto fa capire al bambino che l'eden che il comunismo gli prometteva e inculcava a scuola era una frottola, perché mancava l'essenziale: «Era prevista ogni cosa nella società ideale: il lavoro entusiasta delle masse, i progressi favolosi della scienza e della tecnica, la conquista dello spazio che avrebbe portato l'uomo verso galassie sconosciute, l'abbondanza materiale e i consumi ragionevoli legati al cambiamento radicale della mentalità. Tutto, proprio tutto! Eccetto... Non pensai “l'amore”, semplicemente rividi la giovane donna in mezzo alla grande calma soleggiata delle nevi. Una donna con gli occhi chiusi e il cui volto si protendeva verso colui che amava» (Il libro dei brevi amori eterni).

 

 

 

Quel volto di donna che piangeva l'amato, morto nella guerra voluta da chi occupava poco prima quegli stessi spalti, smascherava il potere con cui l'uomo e gli Stati si illudono di esistere, di essere padroni del tempo, opponendogli l'unico metodo di riuscirci davvero: amare. Infatti chi ama ha «tutto il tempo»: lo riceve (da una carezza, da una cosa bella, da un amico...) e lo dà (in una carezza, facendo una cosa bella, a un amico...). Invece per chi cerca di accaparrarsi il tempo, usando ed esaurendo le cose e gli altri (e fa quindi in vario modo la guerra), il mondo finisce continuamente.

 

 

 

L'amore, come la luce, piega tempo e spazio in una sorta di legge della «relatività esistenziale», che poi è la legge della «relazione universale». Diciamo infatti di una cosa che è la «fine del mondo» sia perché è talmente bella (la bellezza è amore in atto) da crearne uno nuovo, come fa l'amore della donna sulle tribune, sia perché qualcuno lo distrugge, come coloro che, osannati, occupavano quelle stesse tribune.

 

 

 

Amore o disamore: sta a noi scegliere quale «fine del mondo» fare, senza aspettare che il Sole ci inghiotta o che ci investa Andromeda.

 

 


 

 

 

Enzo Bianchi "La forza della debolezza"

 

In Occidente siamo convinti che la dimensione in cui ci troviamo a vivere oggi sia la precarietà: soffriamo di questa condizione più che in altre stagioni. La vita è da sempre qualcosa di precario – nasce, cresce, decade – ma oggi ne abbiamo maggiore consapevolezza. E se il termine “precarietà” rimanda a ciò che è ottenuto con la preghiera (prex), esso indica anche ciò che è provvisorio, non garantito per sempre.

La condizione umana stessa è precaria, mutevole, instabile, fragile: ogni essere umano è sempre destinato a nascere, crescere e poi decadere fino a morire. Ciò che deve sempre suscitare meraviglia, però, è che Dio non solo abbia creato realtà precarie, ma dopo averle create le abbia riconosciute come “buone e belle” (cf.Gen 1). Poche cose sono precarie come un fiore, ma chi, contemplandolo, non sa vederne la bellezza?

I cattolici hanno rimosso la precarietà, soprattutto quando pensano alla Chiesa e alle realizzazioni spirituali da loro intraprese. Si sentono garantiti dalla parola di Gesù: Non praevalebunt (Mt 16,18), interpretandola in modo illegittimo come assicurazione, garanzia. Gesù però non esenta dalla precarietà la comunità cristiana, le assicura solo che su di essa, come sul mondo, il male non avrà l’ultima parola.

Sappiamo dalla Storia che le comunità cristiane a un certo punto si sono mostrate talmente precarie da essere cancellate dalla geografia della terra. Sì, per molti secoli, almeno qui in Europa, le chiese sono apparse potenti, in condizioni di sicurezza, ma oggi i cristiani sono ridotti a minoranza in un contesto in cui domina l’indifferenza. Ma in verità questa sarebbe la condizione normale dei cristiani nel mondo. Anomala era la cristianità da Costantino fino ai tempi moderni. Gesù aveva parlato solo di sale, di luce, di una città posta sopra un monte (cf. Mt 5,13-16), aveva anche descritto la dinamica del Regno evocando quella del lievito nella pasta (cf. Mt 13,33). Essere minoranza addirittura nascosta non significa essere insignificanti, deboli, fragili, non significa essere spiritualmente decadenti. Oggi noi vediamo molte comunità “precarie”, poco efficienti e poco visibili, incapaci di eloquenza e di essere una presenza in grado di farsi ascoltare.

Ma in realtà ciò che conta è che queste realtà vivano secondo il Vangelo, siano segni di narrazione di Gesù Cristo. Povere e deboli, oppure numerose e forti, in realtà ciò che conta è che testimonino soprattutto il comandamento nuovo, cioè definitivo, lasciato loro da Gesù: quello dell’amore reciproco.

 

“Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10),confessava l’apostolo Paolo, e questo può essere vissuto anche nelle situazioni di precarietà comunitaria. Ha scritto Armand Veilleux: “Anche con la nostra debolezza, o addirittura proprio a causa della nostra debolezza, noi abbiamo una missione da svolgere in un mondo sofferente” e San Bernardo, in una situazione di crisi e di insuccessi nella sua vita, vagava per i boschi ripetendo: “O beata debolezza!”, perché confessava di imparare più dalla sua fragilità che dalla sua forza.


 

 

 

 

 

Il linguaggio degli occhi

 

Eugenio Borgna

 

 

 

 

Non c'è solo il linguaggio delle parole, ma c'è anche il linguaggio dei volti, e degli occhi, degli sguardi, del sorriso, e delle lacrime, che sono espressioni del corpo vivente, del corpo-soggetto, che non è il corpo-oggetto, il corpo-cosa. Si tratta di una distinzione insolita, non facile da comprendere, ma di radicale importanza, sia in psichiatria e in filosofia sia nella vita. Ne vorrei dare un esempio: la mia mano, la mano che sta scrivendo, è corpo-cosa, corpo-oggetto, quando sia considerata da un chirurgo che la operi, e contemporaneamente corpo vivente, corpo-soggetto, quando sia riguardata nella sua trascendenza, nella sua infinita sorgente di significati: la mano che saluta, e che dice gioia o angoscia, tristezza o dolore. Il dolore non ha altro modo di esprimersi che non sia quello del linguaggio del corpo vivente, dei volti e degli occhi, degli sguardi e delle lacrime, dello stupore e del sorriso.

Conoscere questo linguaggio ha una grande importanza nelle relazioni umane, e in particolare nella comprensione dell'indicibile, che le parole non sanno dire, e che attende di essere riconosciuto in una lacrima, o in un sorriso, in un sospiro, o in uno sguardo fugace. Non so quanta attenzione nel corso di una giornata siamo soliti dedicare all'ascolto di questo linguaggio, ma dovremmo sapere che (anche) questo consente di fare scelte pratiche nutrite di saggezza e di prudenza. Sì, gli sguardi, che sono la voce degli occhi, come diceva Marcel Proust, ci consentono di andare al di là dei confini del nostro Io, e ci fanno essere in lontananze altrimenti irraggiungibili, come sulle montagne che luminose sembrano entrare nella stanza in cui sto scrivendo, riverberandosi nella mia interiorità. Gli sguardi si devono accogliere, e rivolgere agli altri, con discrezione e misura, con attenzione e nel silenzio del cuore; ma ci sono sguardi che fanno del male. Lo dice Elias Canetti in un libro, Il gioco degli occhi, che aiuta a riflettere sul senso della vita:

 

Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. È tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c'è vittima che possa prefigurarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale [...]. La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di quest'occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve.

 

Sono parole sferzanti che ci dicono come ci siano occhi dall'espressione crudele e aggressiva, e allora guardare negli occhi una persona è conoscerla nella sua dimensione più profonda, ed è una sfida talora dolorosa alla quale non è possibile nondimeno rinunciare.

I volti e gli sguardi sono insomma espressione di un linguaggio che si accompagna, o si sostituisce di volta in volta, al linguaggio delle parole in un carosello senza fine che ci consente di decifrare qualcosa delle emozioni e dei pensieri, delle immaginazioni e della fantasia di una persona, in particolare di una persona che sta male. Sul linguaggio dei volti ha scritto parole bellissime Rainer Maria Rilke:

 

Mi accade spesso, ora, che un qualche volto mi tocchi in questo modo, la mattina per esempio, così come le mattine qui di solito cominciano, c'è già stato, prestissimo, tanto sole, un'infinità di chiaro, e quando poi, d'improvviso, nell'ombra di un vicolo, un volto ci si tende incontro, si vede allora, per opera del contra sto, un essere con tale nettezza (nettezza delle sfumature), che l'impressione momentanea s'innalza involontariamente a impressione simbolica.

 

Sono cose, queste, che adombrano il linguaggio velato ed evanescente, segreto e misterioso, dei volti. Non si comunica allora solo con il linguaggio delle parole ma anche con quello del corpo vivente, con le infinite risonanze emozionali e comunicazionali dei volti, che, come dice ancora Rilke, sono più numerosi degli uomini perché ciascuno di noi ha più di un volto. Si comunica con gli sguardi e con le lacrime, con un sospiro e con un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, come ha scritto Leopardi. Sono modi diversi di portare alla luce della coscienza i pensieri e le emozioni che le parole non possono, o non sanno, dire.

Non ci conosciamo nella nostra vita interiore, e non conosciamo quella degli altri, se non tenendo presente il linguaggio delle parole, e delle emozioni che in esse si riflettono, ma anche il linguaggio del silenzio, quello dei volti e degli sguardi, degli occhi e delle lacrime; e a questo riguardo vorrei citare quello che Robert Musil dice del protagonista di un suo splendido racconto:

 

[in lui erano] le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un'altra persona – fino ad anticiparne l'individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall'espressione dell'atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.

 

 

Sono parole di un'inquieta bellezza che ridanno un senso, dilatandole vertiginosamente, a queste mie considerazioni sul linguaggio degli occhi e degli sguardi che un modo saggio di vivere non può dimenticare e non può perdere di vista.

 

 

In cerca di risurrezione

 

Vito Mancuso

 

 

Il punto decisivo consiste nel chiarire che cosa dentro di noi sta morendo, per comprendere se esiste almeno un po' la possibilità che un giorno possa risorgere. Sul fatto che qualcosa dentro di noi stia morendo, nessuno, penso, ha più dubbi: lo sentiamo perfettamente, è un rumore sordo e persistente, una specie di basso continuo che ritma funereo le nostre giornate e che deriva dalla consapevolezza delle sempre più incombenti minacce: la guerra nucleare, l'emergenza climatica, lo scollamento tra generazioni mai così profondo nella storia dell'umanità, le abissali sperequazioni tra i pochi superricchi e le masse di diseredati, le migrazioni così massicce di popoli da generare una "deriva dei continenti" di tipo sociale, l'uso dell'intelligenza artificiale assai facilmente trasformabile in abuso, l'ingegneria genetica che corre esattamente lo stesso rischio. E poi c'è quel processo di crescente «infantilizzazione delle masse», per dirla con Amos Oz, che cancella il confine tra politica e spettacolo per cui la gente non vota più chi può governare meglio, ma chi emoziona e diverte, perché questo oggi desiderano i più: essere emozionati, come bambini viziati nel paese dei balocchi.

Tutte insieme queste ombre che gravano su di noi costituiscono una tale oscura densità da portarci a dire: «Basta, voglio andarmene da questa via crucis». Ma di fronte a minacce così globali non è possibile scappare da nessuna parte. Perciò torna la domanda: che cosa precisamente dentro di noi sta morendo?

Hannah Arendt, dal cui pensiero promana la luce salvifica della vera filosofia, ha scritto: «La cosa veramente da comprendere è che l'"anima" può essere distrutta anche senza distruggere l'uomo fisico» (Le origini del totalitarismo, p. 603). A correre un pericolo mortale oggi è "l'anima". L'altro giorno Umberto Galimberti ha dichiarato a questo giornale che l'anima «non appartiene né alla cultura cristiana, né a quella ebraica: è un'invenzione di Platone». Non è vero. Platone ha certamente contribuito ad approfondirne il concetto, ma l'anima era presente in tutte le grandi civiltà prima di lui: in Cina il taoismo parlava di "hun" (l'anima spirituale che sopravvive) e di "po'" (quella psichica che muore); in India gli hindu di "atman" e di "jiva" sostenendo la reincarnazione; in Grecia con Pitagora, Empedocle e Anassagora la filosofia coniò i concetti di "nous" e di "psyché"; ancora prima gli egizi conoscevano tre tipi di anima ("ak, ba, ka") e per ognuno di noi prevedevano al termine della vita la psicostasia, la pesatura della sua anima. Quanto all'ebraismo, in esso è presente un triplice concetto di anima ("nefesh, ruah, neshamà"), per il quale si veda il saggio del rabbino Adin Steinsaltz, L'anima (Giuntina 2018) al cui inizio è scritto: «Abbiamo un'anima. Possiamo affermarlo perché lo percepiamo». E che infine Gesù, teologicamente vicino al movimento dei farisei, condividesse l'esistenza dell'anima e la sua immortalità, risulta evidente dai Vangeli. Altro che «invenzione di Platone».

Ma perché le grandi tradizioni spirituali dell'umanità, religiose e filosofiche, sentirono l'esigenza di parlare di anima? Io penso sia stato per sottolineare la peculiarità umana. Noi umani per molti aspetti siamo un pezzo di mondo materiale, identici a ogni altra manifestazione della materia; per altri aspetti però no, siamo diversi. E fu per esprimere questa differenza che la mente coniò il concetto di anima. La medesima funzione rivestirono altri concetti analoghi, tra cui spirito, coscienza, libertà.

Ecco quindi la risposta alla domanda iniziale: ciò che dentro di noi sta agonizzando è la nostra differenza specifica di esseri umani. La nostra interiorità (la si chiami anima o in altri modi poco importa, ciò che importa è che la si consideri la nostra più preziosa ricchezza) oggi corre il pericolo di essere distrutta, avvertiva Hannah Arendt. Oggi noi possiamo dire: hackerata. Forse lo è già.

Forse noi siamo già in parte hackerati, e i pensieri che esprimiamo a parole non sono più nostri ma di qualcun altro introdottosi dentro la nostra mente. Quando parliamo, chi parla dentro di noi? Quando abbiamo sentimenti, chi sente dentro di noi?

Quello che è sicuro, comunque, è che, non credendo all'anima spirituale e alla sua capacità di guida (detta da Marco Aurelio "?ghemonikón"), noi soffriamo di sfiducia in noi stessi. È questa la malattia mortale, la via crucis di noi postmoderni e postumani: la sfiducia nella nostra umanità. Pico della Mirandola, gloria del pensiero filosofico del Rinascimento italiano, poté scrivere un saggio dal titolo: Oratio de hominis dignitate, ovvero: "Discorso sulla grandezza dell'essere umano". Oggi siamo solo capaci di mettere in evidenza le nostre miserie. Le quali ci sono, è evidente, e sono tante, ma, io penso, non sono tutto.

Si può credere o no alla risurrezione di Cristo che la Chiesa cattolica celebra domani, ma il simbolo che essa rappresenta va al di là della fede teologica perché rimanda alla speranza e alla visione positiva del processo vitale. E se la malattia di cui soffriamo è la sfiducia in noi stessi, il farmaco che ci potrà curare si chiama fiducia.

È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Tutte le cose veramente importanti dell'esistenza psichica non sono razionali: si pensi all'amore, alla passione, all'entusiasmo, all'ispirazione. Ma irrazionale non vuol dire falso, perché la verità non coincide con la ragione, è piuttosto l'esattezza a coincidere con la ragione. La verità è più dell'esattezza: è forza, energia, impeto, impegno; «eroico furore», diceva Giordano Bruno.

 

Il 3 luglio 1943, mentre si trovava nel lager olandese di Westerbork da cui poi sarebbe stata deportata ad Auschwitz trovandovi la morte il 30 novembre di quello stesso anno, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, scriveva ad alcuni amici: «La miseria che c'è qui è veramente terribile, eppure, la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere». E concludeva: «Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi». L'anima (o la coscienza, o come ancora la si voglia chiamare) è questo posto di guardia dentro di noi, che, per chi ha la fortuna di averlo, può costituire la sua salvezza. La sua risurrezione quotidiana. E che non ci sia nulla di più prezioso, lo insegnano tutti i grandi maestri spirituali, da Socrate al Buddha, da Confucio a Gesù. Quest'ultimo un giorno disse: «A che serve a un essere umano guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?».


Assetati d'eterno

«L’autentica bellezza schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano» (Benedetto XVI, Discorso, 21 novembre 2009).

 

Se la nostalgia, Dio e la bellezza sono così intimamente legati allora l'arte non può che esserne una manifestazione privilegiata. «La nostalgia» – scriveva Marcello Veneziani sulle pagine de Il Giornale – «è il sentimento originario che ha mosso l'arte, il pensiero e la grande letteratura di ogni tempo. Da Omero a Kavafis, da Saffo a Pasolini, la nostalgia è l'anima della poesia. L'uomo è un animale nostalgico, non sa vivere solo del presente. Vive tra l'attesa ponderata del futuro e la nostalgia delle origini».


“Essere amati è il grande privilegio”. Discorso sul Paradiso attraverso la poesia

 

 

 

Che cos’è il paradiso, l’ho capito dall’attesa, l’ho capito aspettando la telefonata di una persona cara, o nel ricevere una mail da lei in procinto di venirmi a trovare. Quello che scopro è che l’attesa si annulla, l’attesa si azzera sempre, non rimane in noi, il seguito conquista tutto.

Il paradiso dev’essere questo, non un’attesa inutile, bensì attesa che si annulla nella prossimità dell’incontro. Quindi si attende senza aspettare, arricchendosi nella vicinanza della compagnia. È un po’ come in quei siti online che si scorrono con il cursore, arrivati in fondo ecco che il cursore sale in alto, rivelando che c’è ancora spazio da visitare, che non c’è fine e si può andare avanti ancora.

L’azzeramento corrisponde a una nuova qualità del sentire, aperta a una prospettiva rinnovata del vedere, del punto di vista, del soggetto in attesa, pronto ma mai afferrato da delusioni, sempre in atto di conoscere il vero. Questo io ho scoperto aspettando. È una scoperta sicura, non è qualcosa di effimero, è anticipo di ciò che sarà, già qui. Perciò ognuno è un mezzo, è un ponte per il mistero che c’è di là. Ognuno è creato, ed è fatto di questo. Attesa che viviamo del paradiso, attesa che non si accumula pesando sul nostro animo, fino a franare, annientandoci. L’attesa ci convince sul nostro stato.

 

Forti di questo, cresciamo immensamente, di minuto in minuto, di secondo in secondo, attimo dopo attimo. La concezione del tempo acquista una velocità impensabile, profonda, sublime. Avviene già fra noi, in relazione a fatti, cose e persone precisi, identificabili. Ad esempio, aspettando una persona che teniamo a cuore, si sente che il tempo si dilata, si curva su di noi e sullo spazio che ci sta intorno. Tutto cambia. Ce ne accorgiamo dai volti degli altri, non sembrano più estranei, non s’intercetta più nel loro sguardo una negatività, un limite, un’angustia. Il mondo sta lì, davanti a noi, per dire questo, affinché ci si ponga davanti a questo. E se avviene uno scontro, qualcosa che all’improvviso ferisce, quello rivela il non-ancora, il non-avvenuto-ancora, la stazione che vediamo sfuggire in velocità dal finestrino del treno in corsa, cioè l’immagine che ci attraversa gli occhi, ma senza fermarsi, senza fissarsi sulla retina, non impressionata dalla luce, dal colore, dal movimento. Siamo in attesa, dunque ci troviamo nell’attimo successivo, sempre e sempre.

Questa condizione io l’attribuisco a una percezione divina, che s’impasta in noi, si rapprende come la materia del colore nell’umido di un intonaco fresco, nell’affresco che noi siamo di Dio, nel dipinto che Lui fa giorno per giorno di noi, anche se non ce ne accorgiamo, anche se la nostra inconsapevolezza non è radice di male.

Davide BrulloGiorgio AnelliOttanta poetesse per Cristina CampoCito l’amico poeta Daniele Piccini: “Così, così ritornerà compiuta / l’attesa fatta di tutte le crune”. Come a dire che la cruna non è passaggio stretto, bensì spalancamento continuo, e multiplo, improvviso, recante stupore, condizione umana che si apre, circonda, coinvolge. Ci si sente fiore commosso nel corso della lettura dei versi appena citati, per l’anticipo che si avverte nel dire, nel toccare lo spessore di questo passaggio, in eccedenza di linguaggio, come scrive il filosofo Paul Ricoeur nel suo La logica di Gesù, libro ispirato, felice, in cui si analizza lo stile del linguaggio cristiano, in particolare delle Beatitudini.

Essere amati è il grande privilegiodelle creature.

Inizia così Per la cruna (Crocetti Editore), di Daniele Piccini. Chi è amato?, viene da chiedersi. Davvero è privilegio?, o l’amore è il segno di quello che avverrà per tutti, che sta accadendo, è in atto. Troppo comodo se avvenisse in un colpo solo, penso io.

Anche quando si muovononella notte franosa, a basso lume,qualcuno li conosce.

Chi?, chi è capace di questo riconoscimento se non qualcuno in stato d’amore, rapito dalla stessa conoscenza del farsi corpo, forma, riconoscibilità di corpo e forma, tratti dall’invisibilità che si rivela nell’attimo, in un barlume.

Qualcuno li contiene come un fiume,anche se loro ignorano, incoscienti.

Il poeta apre alla carità, che, al contempo, persegue un mistero, già nello sguardo delle cose (delle cose, certo!), se non ci fosse quello sguardo che accoglie, fatto di carità e mistero, non ci sarebbe niente. Viene da parafrasare san Paolo: Se anche conoscessi tutto, e mi mancasse la carità, che cosa sarei? Infatti ci si perde per mancanza, per natura nostra di limitatezza. In realtà il recupero è in azione, ce lo dice il poeta; un radar appare nella poesia emblematicamente, capace di intercettare tutto l’amore del mondo, che non lascia fuggire. Niente è perso. Qui, gli altri, i nostri simili, le altre creature umane, si allontanano soltanto per essere contemplati, per vederli nella loro interezza. Perché sono degli interi, non degli uomini a metà.

Così si perdono lontani e vannoma non escono maida quel radar inquieto.

Si tratta di un radar che non riesce solo a individuare la posizione delle cose, la loro posizione nello spazio, è un radar che è in grado di arrivare ovunque, estremo frutto di amore, radar di vita caritatevole, che comprende.

Camere illuminate nelle notti.

Attenzione, il lume basso è diventato luce piena!

Ne ho viste nelle città più remote.

È luce che raggiunge i posti più lontani e inaccessibili.

Ognuna brilla come stella accesa.La sua fornace manda lampi chiari.

Il buio è vinto! Ecco che ritorna l’uomo dell’inizio della poesia.

Rivedo la creatura a cui pensavo,le stelle s’infittivano la primavolta allo sguardo semplice.

È sempre lui ma è cambiato, è cambiato l’ambiente che lo circonda, oppure, si può dire, che è un ambiente più vasto a definirlo, un mare di stelle s’infittisce intorno a lui. È la vita di quell’uomo che s’illumina. Chi è?, adesso lo sappiamo, perché lo contempla uno sguardo innamorato, che s’innamora del suo mistero senza ostacoli.

 

Il vero protagonista è lo sguardo del poeta, punta elicoidale, mi piace dire, tale è la sua intensità, che indirizzando precisamente e per destino il vedere, ha già segnato con il suo sguardo l’uomo, e non lo lascia più. Ora l’uomo può vivere di vita propria, compiuta, sebbene ancora da vivere.

Cosa sarebbe stato, non sapevo.

Possibile?, viene da chiedersi. La poesia, nell’ultimo verso, sembra deludere il lettore, eppure non è paradossale il volere di Dio, che Dio voglia che noi viviamo, apparentemente abbandonati a noi stessi, ma in realtà individui supremi per benevolenza, per sacrificio, l’amore che ama per la prima volta attraverso la scoperta della sua natura, in perenne ascolto. “La psiche non è mai in silenzio” dice la filosofa Maria Zambrano, che è la modalità dell’agire dell’uomo, nell’ampliamento del suo essere. Il poeta, al colmo della sua tensione, è dotato anche di questo sentire illimitato. Il senso è portare tutto davanti a Dio.

 

V. Gambardella

L'etica del reincanto

 

 

intervista ad Alberto Meschiari

 

 

 

 

Da più parti si osserva con preoccupazione quanto sia diffuso nella comunicazione politica e interpersonale, soprattutto nei social media, il linguaggio dell'aggressività e dell'odio che porta a un imbarbarimento delle relazioni sociali a tutti i livelli. È urgente pertanto riscoprire il valore di altre modalità di comunicazione, più rispettose e civili, dove la gentilezza può giocare un ruolo importante. La gentilezza, infatti, è uno strumento prezioso per comprendere l'altro e costruire insieme un orizzonte comune dal quale osservare e risolvere i problemi. Benedetta Smargiassi, autrice di una tesi di laurea sul ruolo della gentilezza nei processi comunicativi, ha posto alcune domande su questo tema al filosofo Alberto Meschiari, evidenziando nella sua riflessione punti di contatto con Luigi Pareyson e Karl Jaspers. Il dialogo, oltretutto, offre a Meschiari la possibilità di spiegare il suo progetto di un'etica del reincanto che lo ha impegnato negli ultimi anni: rimettere al centro del discorso filosofico la persona con i suoi imprescindibili valori, contro la progressiva manipolazione e banalizzazione dell'esistenza.

 

Leggendo il suo libro Gentilezza. Per un'etica del reincanto (Edizioni Tassinari, Firenze 2017), emerge con forza un invito rinnovato alla scelta della gentilezza come abitudine, modalità di relazione con gli altri esseri umani e con il mondo. Com'è nato in lei l'interesse per questa tematica?

 

A un certo punto del mio percorso nella filosofia sentii l'esigenza di andare oltre il mestiere che avevo praticato fin lì di storico della materia. Per la mia sensibilità e natura volevo che la filosofia mi aiutasse a orientarmi nella vita, a rispondere a domande come queste: chi sono io? Come devo condurre la mia vita? Dov'è che ho sbagliato? Dov'è finito l'amore? Il primo atto di questo rivolgimento lo realizzai in un libriccino che pubblicai nel 2003 a Pisa: A cosa serve la filosofia nella vita? Mi interessava rispondere alla domanda: a cosa serve la filosofia nella vita, non nella carriera universitaria. Poi, guardandomi attorno e considerando quanto stesse dilagando un generale conformismo cominciai a lavorare a quella che avrei chiamato «etica del reincanto». Così nel 2010 – come vedi occorrono molti anni per elaborare qualche idea – pubblicai Riprendersi la vita. Per un'etica del reincanto.

Perché «riprendersi la vita»? Ce l'aveva forse rubata qualcuno? E in tal caso, a quale vita stavo pensando? L'etica del reincanto nacque da una constatazione: rispetto agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui i grandi ideali sociali e politici nutrivano e stimolavano l'impegno personale e l'entusiasmo del fare insieme, a partire dagli anni Ottanta ho avvertito crescere intorno a me il disagio e lo smarrimento a mano a mano che il mercato prendeva il sopravvento sulla politica – determinando sempre più pesantemente i valori di riferimento e gli stili di vita – e la politica perdeva quell'affiato etico che l'aveva caratterizzata nella precedente stagione. Quei due processi concomitanti hanno portato allo sgretolamento non solo della compagine sociale ma anche dell'identità personale, finché la vita di ciascuno si è trovata sempre più disseminata in un pulviscolo di comportamenti privi di motivi aggreganti, di forti ragioni di coesione.

Di fronte a questa constatazione, ho cominciato a chiedermi se all'individuo non rimanesse altra possibilità che conformarsi allo strapotere del capitalismo neoliberista, penetrato fin nei meandri più intimi del privato, o se invece potesse sottrarre qualcosa di sé al suo condizionamento. Un poco alla volta il mio interrogativo si trasformò nell'assunzione di un impegno, nello spostamento dei miei interessi dalla Storia della Filosofia all'Etica. E qui la prima domanda che mi sorse spontanea fu questa: che cosa può fare un filosofo di fronte a questa realtà, in che modo può uscire dal "limbo" delle sue dotte ricerche e ridurre la distanza fra i suoi studi accademici e i disagi che serpeggiano nella società? Come può trovare una parola immediatamente operativa, che possa trasformarsi in azione?

Guardandomi attorno, mi parve di leggere su molti visi ogni giorno di più i segni di un sofferto vuoto esistenziale, unito all'incapacità di individuarne le cause; le invocazioni inascoltate di vite svuotate dall'interno, tutte ripiegate sulle merci, sul rapporto compulsivo con le meraviglie tecnologiche, come se fossero lampade di Aladino dai magici poteri, dispensatrici di promesse che non si avverano mai. Vedevo una sempre più diffusa obesità del corpo accompagnarsi a una complementare anoressia dello spirito. Forse, mi dicevo, abbiamo spinto troppo innanzi, con un'intenzione cieca e caparbiamente autodistruttiva, il nostro disincanto: niente ci colpisce profondamente, niente ci tocca veramente, tutto ci è indifferente allo stesso modo. Ostentiamo perfino con sfrontatezza il nostro disincanto come un segno di virilità e di emancipazione. Ma l'indifferenza, il non dare importanza a niente, sono il suicidio dell'anima.

Dal mio punto d'osservazione ho creduto di individuare un motivo di questa sofferenza. Presi nell'ebbrezza del consumismo, abbiamo trascurato e poi abbandonato del tutto la cura della nostra spiritualità, come se fosse un accessorio superfluo nella costruzione della personalità o una zavorra che rallenti la fretta con cui ci affanniamo a tenere il passo del mondo. Ci dimentichiamo facilmente di non essere solo corpo e mente, ma anche spiritualità, e viviamo come se non fossimo toccati da questa dimensione costitutiva di un'esistenza degna di essere vissuta. Discendono in gran parte da qui, a mio avviso, il nostro disagio, il nostro malessere, la nostra aggressività. Perché viviamo costantemente fuori di noi, siamo assenti a noi stessi per gran parte della nostra vita o per tutta, come se il nostro corpo e la nostra mente fossero case disabitate, abbandonate dal loro inquilino. La vita è anche una questione di equilibrio: fra corpo•, mente e spiritualità.

L'etica del reincanto prende il suo nome e la sua ragion d'essere dal suo opposto, il disincanto. Di disincantamento del mondo parlò per la prima volta l'economista e sociologo tedesco Max Weber nel 1917 in una conferenza che tenne a Monaco di Baviera e che pubblicò due anni dopo con il titolo di Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione). Con quel termine egli si riferiva all'effetto del processo di intellettualizzazione e razionalizzazione che costituiva per lui l'essenza del capitalismo. Da allora, il disincanto ha fatto molta strada e ha preso la forma della mercificazione di ogni esistente, esseri umani compresi, perché ridotti a cose, strumenti e non fini. Negli ultimi decenni, la razionalità neoliberista ha spinto gli esseri umani sempre più verso un progressivo processo di desolidarizzazione. Le dinamiche che vigono in economia hanno finito per invadere e determinare anche la sfera privata e relazionale, portando a considerare sé stessi, gli altri e la natura in un'ottica strumentale, di prestazioni e guadagno. Il Sé, l'altro e la natura sono stati ridotti a cose manipolabili per i fini del mercato: quanto si possono sfruttare? Quanto se ne può ricavare? Questo significa oggi disincanto. Se non che, ciò che l'uomo desidera nei recessi più profondi e più intimi di sé stesso, ci ricorda il filosofo basco Fernando Savater, e da cui tutti gli altri desideri discendono, è di non essere cosa (El contenido de la felicidad).

Ora, se questa è la situazione, la mia domanda è se non possiamo muoverci noi, singolarmente, quando non si muovono le condizioni oggettive e non s'intravedono soluzioni collettive, chiedendo alla filosofia che cosa si possa fare, individualmente, per contrastare questa frustrazione nell'universo dei valori, questa crescente perdita di senso dell'esistenza. L'individuo che non trova più conferma delle proprie convinzioni nell'ideologia politica e che sente di non essere appagato dalla fede religiosa in un qualche problematico aldilà, non può imparare a liberarsi da sé dai troppi condizionamenti di questo modello socioeconomico? La mia risposta è sì. Il singolo ha una vita sola, e non può attendere i tempi di maturazione della società o della politica affinché essa cambi. Può invece avviare responsabilmente da sé un processo di autoliberazione e di autoformazione. E può farlo, cominciando col rimettere al centro della propria attenzione la persona con i suoi valori, contro la progressiva banalizzazione dell'esistenza. È qui che si aggancia il discorso sulla gentilezza.

A fronte del significato di mercificazione di ogni esistente assunto dal disincanto postmoderno, reincanto ha da significare allora religiosità, religiosa cura del vivente, rispetto per ogni essere umano e per la natura, che vanno considerati «fini in sé», come chiedeva Kant, e non esclusivamente «mezzi per noi». Superare il disincanto dell'utile, del funzionale, del calcolabile, del quantificabile, per incontrare sé stessi, l'altro e la vita, per riscoprire lo straordinario nel quotidiano, il dialogo, il silenzio, l'ascolto, la crescita culturale, la comunicazione autentica, l'immedesimazione e il sentimento della comunione di destino. E perfino l'amore. (Su questi temi ho pubblicato cinque strategie del reincanto: Sul dialogo, Il libriccino del silenzio, Filosofia del camminare, L'arte di amare, Il magico mondo dei libri). La devastazione dell'ambiente e della morale, la degradazione delle relazioni umane sono anche figlie del disincanto a oltranza, della «desacralizzazione radicale del mondo in cui viviamo» (Savater).

Anche Umberto Galimberti sospetta che la malattia dello spirito contemporaneo derivi dall'aver perduto non tanto Dio quanto l'incanto del mondo, la capacità di trovarvi «un riflesso dell'anima». Per James Hillman abbiamo svuotato il mondo della sua anima (L'anima del mondo e il pensiero del cuore). Viviamo continuamente indaffarati nell'inessenziale, è per questo che abbiamo l'impressione che l'esistenza sia soprattutto «una continua fuga, un divenire in perdita, lo svanire di qualcosa che non si è mai posseduto, che non c'è mai stato» (Claudio Magris, Alfabeti). Lo sentiamo che nella vita c'è qualcosa di veramente desiderabile, però questo desiderabile ci sfugge sempre, perché abbiamo sempre qualcos'altro da fare. E allora tutta la nostra vita, quotidianamente presa da questo qualcos'altro, finisce per ridursi a fare qualcos'altro (Francesco Alberoni, Innamoramento e amore).

È questa la vita che ci viene quotidianamente sottratta – insieme al tempo per viverla – da una continua deviazione della nostra attenzione e delle nostre energie su cose futili e banali, che non faranno mai biografia: è la vita interiore, la vita dell'anima. Gli ultimi trent'anni ci hanno lasciato solo un corpo e una mente – facilmente sostituibili da quelli di chiunque altro – e ci hanno svuotato della spiritualità, della nostra interiorità, del luogo cioè in cui noi siamo veramente unici e insostituibili, dove proviamo emozioni e sentimenti, dove sappiamo soffrire e gioire, dove possiamo trascenderci grazie alla bellezza. L'etica del reincanto è dunque una proposta di ri-orientamento esistenziale, una sorta di bussola per la conduzione della vita.

Nel febbraio del 2017 riprendeva a Parma l'annuale ciclo di conferenze filosofiche Pensare la vita, che quell'anno aveva per tema L'arte di vivere. Io proposi di parlare della gentilezza, perché mi pareva che rientrasse bene nell'arte di vivere e fosse al tempo stesso una forma di reincanto. Ma come mi sia venuto in mente quell'argomento, francamente non lo ricordo.

 

Il suo testo si sviluppa come una conversazione con un giovane interlocutore, quasi a ricalcare il rapporto maestro-studente tipico della Grecia antica. Nella scrittura si rivolge a un Tu particolare, oppure si tratta di un dialogo aperto con le nuove generazioni? Ritiene che ci sia spazio nel mondo globalizzato per la riscoperta della gentilezza, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti in quanto neo o futuri cittadini del mondo?

 

Uno dei miei difetti è quello di pensare sempre il rapporto con í giovani come un rapporto pedagogico. Forse perché sento la differenza di età e di esperienze. Non ho amato molto parlare a intere scolaresche: è dispersivo e mi sembra di non rivolgermi a nessuno in particolare, ma a un soggetto collettivo indistinto. Invece ho sempre amato molto il rapporto a due. Sì, forse questo fa un po' Grecia antica. E poi, in quanto adulto, concordo con Bertrand Russell quando scriveva come esergo alla sua Storia della filosofia occidentale: «Insegnare a vivere senza la certezza e tuttavia senza essere paralizzati dall'esitazione è forse la funzione principale a cui la filosofia può ancora assolvere nel nostro tempo, per chi la studia». Insegnare a vivere: era questo che mi piaceva nel rapporto coi giovani. Non insegnare cosa ha detto Hegel o cosa ha detto Kant, secondo il riassunto del manuale. Ma insegnare a vivere. Servendomi ovviamente anche dei filosofi, così come degli scrittori e dei poeti. E perfino dei film o delle canzoni. Ne parlo nel mio ultimo libro Itaca. La navigazione della vita (commento a Kavafis).

No, non si trattava di un Tu particolare, è che mi capita spesso di rivolgermi a un Tu, così, del tutto spontaneamente. Il primo opuscolo che ho pubblicato, di sole 12 pagine, al prezzo di 1 euro, si chiama Lettera ai giovani sull'amore. Anche là mi sono rivolto a un Tu, forse a un figlio e a una figlia immaginari che non ho. Come scrivi tu: è forse il desiderio di un dialogo aperto con le generazioni più giovani. Un altro dei miei opuscoli, Il mondo che vorrei, inizia così: «Mia dolcissima giovane amica, mi chiedesti un giorno, mentre scendevamo dai monti in uno splendido autunno di sole, di descriverti il mondo che ho sognato, il mondo che vorrei. Lo chiedevi a me, che ho la maggior parte della mia vita alle spalle, affinché il mio racconto ti aiutasse a orientare meglio la tua, che ti attende davanti. Come vedi, non ho dimenticato la mia promessa di farlo. E se non ti ho risposto subito, è perché mi sono riservato il tempo di dedicarmi interamente a te, con tutto il mio affetto e la mia attenzione. Le risposte, sai, non stanno sempre bell'e pronte nella mente. A volte occorre lasciare che sia il cuore a trovarle». (L'accenno alla montagna discende dal fatto che per 17 anni ho accompagnato dei gruppi a camminare in montagna).

Deve esserci questo spazio per la riscoperta della gentilezza. E nella misura in cui non c'è, dobbiamo impegnarci a crearlo. In ogni occasione possibile. Nella quotidianità. Quanto ne saremo arricchiti anche noi!

 

Nella lettura di Gentilezza ho trovato notevoli punti di contatto con due filosofi contemporanei, di cui ho cercato di analizzare la costruzione filosofica circa la comunicazione, ritrovandone dei tratti riconducibili alla categoria di gentilezza. In modo particolare, il focus è stato posto su Verità e interpretazione di Luigi Pareyson e Chiarificazione dell'esistenza di Karl Jaspers: in entrambi gli autori è attribuita una notevole importanza all'apertura sincera nei confronti delle prospettive altrui, che rappresentano l'unico e indispensabile mezzo per un confronto interpersonale autentico. Ritiene che ci siano consonanze tra il loro impianto filosofico e i concetti da lei espressi in Gentilezza? Può la gentilezza essere modalità di facilitazione per un dialogo volto a un ampliamento della comprensione della realtà dei singoli e delle comunità?

 

Credo in effetti che ci siano le consonanze a cui fai riferimento, anche se conosco meglio Karl Jaspers di Luigi Pareyson, che tuttavia stimo molto. Ti confesso che trovarmi collocato in compagnia di due autori di questo calibro mi ha fatto tremare le vene nei polsi! Il primo, un grande maestro; il secondo, un gigante addirittura. Ma se la lettura dei loro libri e del mio opuscoletto ti ha dato qualcosa, ne sono molto lieto. Fra l'altro, so bene che le mie modeste considerazioni vanno d'accordo con l'esistenzialismo. Anzi, con gli esistenzialismi, al plurale. Ho imparato molto da questa corrente di pensiero, già a partire dalla frequentazione di Soren Kierkegaard tanti anni fa. Fu lui a spostare decisamente i miei interessi dalla Storia della filosofia all'Etica, con le sue domande inquietanti.

Sono passati tanti anni ormai dal giorno in cui mi colpì profondamente una sua domanda che poneva a bruciapelo in Aut-Aut: cosa ne diresti, diceva, se chiedessi alla filosofia cosa deve fare l'uomo nella vita? È davvero un argomento terribile contro di essa, se non ha nulla da rispondermi. Ciò che m'interessava riguardava il mio orientamento sul mondo e nel mondo, il mio bisogno di dare un'impostazione alla mia vita, di avere dei riferimenti che mi aiutassero a capire dove mi trovavo nel mio cammino, non la storia della filosofia occidentale o quella della Chiesa di Danimarca. Queste sono informazioni per la mente. Quelle sono domande per lo spirito, vale a dire formazione.

Jaspers è stato uno dei miei autori, anche se non dei più importanti. La sua Psicopatologia generale mi suggeriva delle osservazioni fondamentali, ad esempio quella secondo cui l'anima non è uno stato definitivo, ma un divenire, evolversi, svilupparsi. Oppure quest'altra: la malattia psichica ha le sue radici nell'insieme della vita e per la sua comprensione non si può staccare da essa. Un'osservazione che ebbe grandi conseguenze in psichiatria. O ancora: ci sono profondità dell'essere umano che non si possono conoscere psicologicamente, ma che solo la filosofia e la poesia possono illuminare. Questa colpì molto Eugenio Borgna. O questa: colui che descrive cerca di fornire al lettore, usando un linguaggio comune, un quadro vivace, chiaro, senza elaborare concetti. Nel suo stile c'è qualcosa di artistico. L'analitico invece non traccia quadri. Egli pensa più di quanto possa osservare, e ogni osservazione si trasforma immediatamente per lui in un lavoro intellettuale. Uccide il fatto psichico vivo, per possederne i concetti. Per questo, tutto ciò che ha acquisito è una base sulla quale può costruire sistematicamente, secondo un piano. E qui cade la differenza fra spiegare e comprendere. La comunicazione avviene sul piano del comprendere. La scienza sul piano dello spiegare. Oppure la sua Psicologia delle visioni del mondo, dove afferma che la vita è un compito, una responsabilità, un'esperienza a cui non si può porre un termine conclusivo. Ma ho attinto molto anche ad altri esistenzialismi, a JeanPaul Sartre (con la sua idea del farsi progetto a sé stessi), a Martin Heidegger (trascendere il puro esserci per fondare se stessi, per diventare esistenza).

 

Il suo libro traccia un profilo ben definito della categoria della gentilezza, identificandola come una scelta consapevole e costantemente rinnovata da parte del soggetto, e offre interessanti spunti applicativi validi per ogni situazione. Nel testo, come anche in Pareyson e Jaspers, si fa riferimento alla reciprocità come vincolo alla nascita di una comunicazione autentica. Nonostante ciò, è possibile, a suo avviso, applicare la gentilezza in contesti oppositivi? Come si può fare, e quali sono secondo lei i risvolti dell'utilizzo della gentilezza in terreno di conflitto?

 

Temo proprio che non sia possibile. Temo che la gentilezza possa praticarsi solo su un terreno di reciprocità, anche se inizialmente magari un po' scettica e sospettosa. Personalmente, sono molto intollerante nei confronti degli arroganti e degl'intolleranti. Ciò che credo si possa fare è tentare di ammorbidire le reciproche posizioni, cercare se non vi siano punti d'intesa. Ma quando non ci sono, quando l'altro non ha alcuna intenzione di porsi sul terreno del dialogo, la gentilezza è inapplicabile. Io non sono per «porgere l'altra guancia». D'altronde, se ci pensi, Luigi Pareyson ebbe un ruolo nella Resistenza contro il nazifascismo. Ciò significa che si scontrò con il muro dell'impossibilità di dialogare, di comunicare. In quel momento, la gentilezza con il nemico mortale diventa inapplicabile. Il rispetto e la reciprocità sono i fondamenti essenziali su cui si può sviluppare e praticare la gentilezza. Quando l'altro si sente rispettato, lo si dispone già a essere gentile. Ma se manca il rispetto, si ha prima l'esigenza di farlo valere. Quando l'altro Mostra l'intenzione di sopraffarci, bisogna ricorrere ad altre strategie: o la fuga o lo scontro frontale. Oppure, quand'è più grosso, l'astuzia di Ulisse.

 

La scelta della gentilezza si configura come un atto libero del singolo, ma gli effetti di questa decisione si riflettono anche su tutta la collettività. Sarebbe auspicabile, dunque, che la modalità di vita gentile fosse estesa il più possibile nella comunità in cui si vive, in modo da favorire il confronto aperto e la convivenza serena tra persone. Come si possono, a suo avviso, incentivare le soggettività ad abbracciare l'uso della gentilezza? È un processo possibile?

 

Beh, io credo che in molti casi la gentilezza sia contagiosa. Come ho scritto, mi pare, nell'opuscolo, gentilezza è anche il riconoscimento che l'altro ha, come noi, un'anima, una sua verità, una sua dignità, una sua finalità in sé. Quando percepisco che la persona che ho di fronte è disarmata, fragile, vulnerabile, che è magari frustrata dalla vita, amareggiata, mi viene spontaneo essere gentile, tenderle una mano. A volte basta una parola, un sorriso, una piccola attenzione, guardarla negli occhi. Questo le fa sentire che è accolta nel mondo, che è accolta dai suoi simili, non rifiutata con indifferenza. «La gentilezza nasce probabilmente da qui, dalla capacità di cogliere l'invisibile, di prestare attenzione alle emozioni nascoste, in noi e negli altri, nel riconoscere il comune destino. Cominciamo allora ad accorgerci, da un gesto, da uno sguardo, da una risposta, da minimo segno, che ogni persona che incontriamo è alle prese, proprio come noi, con la difficoltà di vivere. Evitiamo di aggredirla, avviciniamola con gentilezza, perché, se incontra solo gente aggressiva, si chiuderà sempre di più al mondo». E se noi siamo gentili con lei, è assai probabile che anche lei sia gentile con noi. Søren Kierkegaard annotava nel suo diario che «la trasparenza dell'esistenza esige che si sia ciò che si insegna». La responsabilità verso l'altro risiede anche, e forse soprattutto, nell'esempio che si dà con la propria conduzione della vita.

Alla tua ultima domanda le cose si complicano un poco, perché credo che entri in causa l'empatia. Empatia è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri e di reagire con sentimenti consoni. È una reazione affettiva alle emozioni dell'altro che consente di capirlo, di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d'onda. Ora, da un lato, essa pare avere un fondamento biologico, dall'altro ha certamente un fondamento culturale. In anni recenti la neurologia ha provato a cercare nella biologia la sede della genesi del male (a mio giudizio, la spina nella carne di tutti i filosofi). Scrive Simon Baron-Cohen (La scienza del male. L'empatia e le origini della crudeltà) che se si guarda al concetto di male per analizzarlo, non c'è alcuna spiegazione, mentre quello di empatia pare avere una capacità esplicativa. Il grado zero dell'empatia significa non avere consapevolezza di come ci si relaziona con gli altri, ignari che ci possano essere anche altri punti di vista. In Questione di cervello sostiene che il cervello maschile sembra essere programmato per la "sistematizzazione", ha la tendenza ad analizzare, a vagliare ed elaborare sistemi. Qualsivoglia sistema: motori d'auto, computer, scienza, matematica, ingegneria. Ma se il mezzo più adatto a capire e prevedere eventi e il funzionamento di oggetti è la sistematizzazione, il mezzo più adatto a capire una persona è invece l'empatia. Che sembra essere una caratteristica preferenziale del cervello femminile. Si tratta di due processi diametralmente opposti, che dipendono da regioni cerebrali distinte. Essere empatici significa leggere il clima emotivo che si stabilisce tra le persone, mettersi facilmente nei panni degli altri. I maschi assumono che esista una rappresentazione oggettiva della realtà, che ovviamente corrisponde alla loro versione dei fatti. Le donne, invece, partono dall'assunto che nel mondo vi sia la soggettività e lasciano spazio alle interpretazioni diverse, ognuna delle quali ha diritto di essere considerata valida.

Tra i fattori biologici che hanno buone probabilità di contribuire sensibilmente alle differenze tra cervello maschile e cervello femminile, afferma Baron-Cohen, vi è il sistema endocrino. I maschi producono più testosterone delle femmine, già prima della nascita. Il livello ormonale influirebbe sulla capacità di provare empatia. In particolare, più testosterone circola nel sangue, più il cervello sa comprendere i sistemi e meno sa cogliere le sfumature delle relazioni affettive. Un cervello dotato in misura media di entrambe le caratteristiche (empatia e capacità di sistematizzazione) sarebbe l'ideale. Il maschio sembra inoltre orientato a considerare gli altri e il mondo sul piano di una strategia (Mino Vianello, Genere spazio potere. Verso una società post-maschilista): non solo di spiegazione e di ordinamento, aggiungo io, ma anche di sfruttamento, di dominio, di sottomissione, di annientamento. Dunque come oggetti, mai come soggetti. Se da un lato è assai probabile che gli uomini non avrebbero potuto sopravvivere nella natura senza questa ragione strategica orientata all'esterno, non si può negare che essa abbia finito con l'estendersi al rapporto degli uomini fra di loro. Mentre è evidente che un approccio strategico, finalizzato al dominio, non è l'unico modo di relazionarsi. Tantomeno il più indicato a salvaguardare l'esistenza dell'umanità in questo particolare momento della sua storia. Se questo atteggiamento è estraneo alle donne è perché la percezione della propria soggettività consentirebbe loro di cogliere anche l'altro come soggetto.

Sventuratamente, a mio modo di vedere, il modello culturale e socio-economico patriarcale-maschilista in cui viviamo tende a sviluppare anche nelle donne solo il lato maschile della loro mente e dunque a promuovere anche in loro un approccio esclusivamente strategico agli altri, riducendo due diversi modi di intenzionare il mondo (cioè di attribuirgli un significato) a uno solo, quello maschile: un impoverimento assoluto, una perdita secca per l'intero genere umano. Dare voce in sé stessi a una mente androgina, come auspicava Virginia Woolf, a quella maggiore felicità creativa che si prova quando le due metà della mente, maschile e femminile, si congiungono, mi appare oggi come la realizzazione più urgente e più autentica di sé, come un obiettivo degno di essere perseguito con il massimo impegno e il più grande entusiasmo. Ora, le donne hanno già dato prova sufficiente di saper esercitare il lato maschile della loro mente anche meglio dei maschi, quando possano godere delle medesime condizioni, giacché vi sono state obbligate. Quand'è che i maschi seguiranno il loro esempio e impareranno ad ascoltare il lato femminile della propria? Quand'è che maschi e femmine impareranno finalmente ad attivare entrambi i lati della mente? Un'etica del reincanto non potrà affermarsi veramente senza questa rivoluzione. Che è sempre individuale, personale. Che grande obiettivo sarebbe, a cui la scuola di ogni ordine e grado dovrebbe mirare, insegnando ai ragazzi a coltivare il genio dell'infanzia, ad amare la poesia e i poeti, a valorizzare la propria creatività anche in questa direzione e non soltanto in quella matematica, fisica, informatica o economica; ad ascoltare emozioni e sentimenti, a riconoscere che la mente di ciascuno non è una ma due, maschile e femminile insieme. Questo si chiamerebbe veramente educare, formare. Che grande scuola di autentica democrazia sarebbe allora! In caso contrario, una scuola di pura informazione sfornerà solo cervelli maschili per il mercato, che non si pone certo come fine il bene degli esseri umani, ma esclusivamente il profitto di qualcuno.

 

 

(FEERIA, 2022/1 - n. 61, pp. 8-14)


La vita come discernimento

 

Gianluca Zurra 

 

Il “discernimento” è una parola tradizionale della fede cristiana. Pensiamo, per esempio, al discernimento spirituale, fatto di ascolto e di preghiera, di aiuto reciproco e di suggerimenti fraterni. Dai più semplici monasteri fino alle più grandi abbazie, come dalla quotidianità delle nostre parrocchie fino ai grandi Concili, il discernimento rappresenta una tappa decisiva, tramite cui si realizzano le scelte ecclesiali più importanti, nell’intimità della coscienza come nello spazio pubblico, in genere dopo attenti confronti e verifiche.

Oggi, rimettendo al centro la forma sinodale della Chiesa, si è riscoperto questo processo di decisione, che coinvolge l’interiorità, certo, ma sempre dentro un contesto di relazioni comunitarie. Dire sinodalità, dunque, significa dire “percorso di scelta”, poiché senza la ricerca e il raggiungimento di una effettiva decisione comune il cammino sinodale rischierebbe di rimanere sterile.

Ci soffermiamo, allora, su questa parola, così antica ma anche bisognosa di essere riletta per la nostra situazione odierna.

 

La vita come discernimento

 

Per prima cosa è necessario ricordare che la vita stessa nel suo insieme è discernimento, cioè una vera e propria iniziazione a saper scegliere imparando a separare, a distinguere, a lasciare, a non volere tutto. Il senso di ogni cosa, infatti, non si dà per facile trasparenza immediata, ma può essere colto solo attraversando, leggendo e assumendo con libertà e responsabilità ciò che succede lungo la strada dell’esistenza. Inoltre, per il fatto che la nostra umanità è plurale, sinfonica, a più voci e non monolitica, il confronto tra le diversità non può essere evitato. Discernere, pertanto, richiama la nostra unicità di esseri umani, grazie alla quale non ci limitiamo a vivacchiare biologicamente, ma ci lasciamo interpellare dalla vita e con fatica scegliamo a proposito del futuro e del nostro posto nel mondo.

La tentazione più grande, oggi, sembra duplice: da un lato ritenere che si possa vivere senza decidere, quasi cercando di restare alla finestra senza scendere in strada, e dall’altra immaginare che il discernimento possa accadere tra sé e sé, nel chiuso del proprio intimismo, senza quella rete di relazioni, fatte di persone, di ambienti, di cose che ci circondano.

Scegliere, invece, si deve ed è possibile nella misura in cui ci si fida a tal punto da abbassare le proprie difese, per scoprire che proprio gli altri hanno qualcosa di unico da dirci a proposito di noi stessi. Fiducia e apertura sono il doppio motore del discernimento, che potrà giungere così ad un taglio, ad una separazione che fa partire, nascere e decidere: chi vuole tenere tutto non prenderà mai una direzione, ma tenderà a girare freneticamente come in una rotonda, senza scegliere davvero una strada.

Il cristianesimo si è intrecciato da sempre con questa profonda esigenza umana, presentandosi come la “Via” inaugurata da Gesù che, senza sostituirsi alla libertà, le permette di compiere il duro lavoro della scelta, evitando che resti a galleggiare “a metà strada” priva di una destinazione buona.

 

Il discernimento di Gesù

 

Gesù è riconoscibile come Maestro e Signore grazie al suo modo unico di leggere la realtà e di fare discernimento lungo tutta la sua vita. Basti pensare ai due grandi “deserti” da lui vissuti: le tentazioni[1], che lo spingono a rivelare il Padre secondo una logica di violenza e di spettacolarizzazione, a cui resiste dopo una lunga lotta di riflessione a partire dalle Scritture, e l’orto degli ulivi[2], luogo della sua decisione più drammatica, quella di continuare fino in fondo a testimoniare l’amore anche nel rifiuto violento che gli uomini gli stanno preparando.

Eppure, questi momenti di intima solitudine sono pieni di tutte quelle relazioni che il Figlio di Dio vive sulla sua pelle e tramite cui soltanto può fare discernimento a proposito del desiderio buono del Padre verso di lui. Nel gesto battesimale del Battista, inatteso e sorprendente, Gesù approfondisce il senso della sua identità udendo la voce dall’alto, mentre nei molteplici incontri lungo la strada comprende sempre meglio l’universalità della sua missione. Grazie alla rilettura della Legge e dei Profeti dà forma alla sua esistenza, fino a scoprire il Regno di Dio nelle cose di tutti i giorni e nella imprevista accoglienza dei piccoli e dei semplici. Quello di Gesù è uno sguardo di discernimento continuo, per il quale nulla di ciò che viene “dall’alto” può essere percepito senza il continuo attraversamento, saggio e profondo, di tutto ciò che arriva “dal basso”.

Uno dei brani evangelici più significativi a proposito del discernimento è senza dubbio Lc 12, 54-59: Gesù rimanda i suoi interlocutori alla responsabilità della loro coscienza, senza sostituirsi alla libertà consapevole a cui ciascuno è chiamato. La capacità di discernere il cambiamento del tempo atmosferico ricorda la necessità di saper valutare il tempo presente: “perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. L’esempio che viene utilizzato è spiazzante, ma assai suggestivo: sapersi accordare con l’avversario lungo la strada è conveniente, almeno per evitare violenze e ingiustizie più grandi. Colpisce come lo sguardo del Figlio di Dio sia molto concreto, liberando il discernimento da una cornice moralistica, per introdurlo invece nella logica, spesso drammatica e difficile, della costruzione della fraternità e della pacificazione. La fede, di cui Gesù è iniziatore e accompagnatore, diventa così criterio di scelta e direzione possibile per la coscienza, che non viene sollevata in modo infantile dal suo lavoro, ma condotta a muoversi con saggezza nelle molteplici esperienze della vita.

Per il medesimo motivo Gesù chiama a sé una comunità di discepoli e consegna loro, non a singoli, il compito missionario del discernimento evangelico, tramite un processo che diventerà fondamentale per la forma sinodale della Chiesa. Ne è testimonianza l’inizio del capitolo 10 di Luca[3]: i discepoli vengono inviati a due a due, non da soli, verso un contesto in cui è necessario prima di tutto cogliere la grande e promettente quantità della messe. Seguono poi alcune indicazioni su come muoversi nell’annuncio, con mezzi poveri e con libertà di spirito, senza protagonismi o invadenze che intacchino la libera accoglienza del vangelo. C’è poi un ritorno degli inviati, che raccontano e fanno un resoconto comunitario dell’accaduto; ma c’è bisogno di una ulteriore parola di Gesù perché ciò che succede possa essere pienamente compreso. Invio, stile evangelico, racconto e disposizione alla revisione del proprio lavoro sono i passaggi fondamentali di ogni discernimento, che è sempre relazionale, mai intimistico o magico.

Che Gesù ne sia davvero maestro lo si nota già nell’episodio della sua adolescenza, quando rimane al tempio di Gerusalemme senza ritornare nella carovana famigliare[4]. É suggestivo che proprio qui venga utilizzato il termine “sinodo” (comitiva, strada insieme): il Figlio adolescente riesce a discernere il luogo in cui deve stare in quel momento grazie alle molte voci “sinodali” della sua famiglia e della sua casa, comprese quella di Giuseppe e di sua madre, Maria. Certo, i genitori si stupiscono, ma a loro volta comprendono, mossi al discernimento, che ciò che sta accadendo è generativo: ogni vero percorso sinodale conduce a trovare una strada, un posto in cui poter dire: “qui e in questo modo ci si può occupare al meglio e insieme delle cose del Padre, dentro la quotidianità della storia”.

Dunque, è la fede stessa di Gesù a manifestarsi nella forma di un discernimento sulla vita e per tale motivo egli diviene Signore di ogni discernimento chiesto a chiunque si lasci condurre e rinnovare dal racconto evangelico. Un elemento è chiaro: soggetto di questo lavoro è sempre una comunità, perché non è possibile decidere di sé indipendentemente dal rapporto con gli altri.

 

Il discernimento ecclesiale

 

Quali criteri possiamo raccogliere a proposito di un discernimento ecclesiale veramente sinodale, secondo la forma di Cristo e del suo Spirito? I passaggi di questo processo, che deve giungere a decisioni precise, possibili e concrete, sono almeno tre: “stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano, tenere al centro la profezia del racconto evangelico custodito dall’Eucaristia e creare luoghi istituzionali di decisione feconda e di revisione comunitaria. Tenendo sullo sfondo l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus[5] possiamo tracciare meglio questi tre passi.

“Stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano vuol dire stare con pazienza e fermezza sulla strada di tutti, ascoltando dall’interno ciò che succede nel cuore di ciascuno e attorno a noi, come Gesù verso i due discepoli smarriti. Non si tratta di ascoltare per giudicare e insegnare, ma per maturare un pieno e profondo “patire insieme”. Solo dentro questo lavoro di “compassione”, che istruisce e smuove il cuore, è possibile lasciarci guidare dalle Scritture, che aprono porte inattese lungo il sentiero. La richiesta accorata dei discepoli verso lo straniero incontrato perché entri e rimanga a tavola con loro è già frutto di un discernimento che non avviene a caso, ma che è stato suscitato da un confronto con i precedenti fatti di Pasqua illuminati dalla Legge e dai Profeti, a cui Gesù fa riferimento. Il discernimento si compie però solamente quando i due discepoli ripercorrono la strada all’incontrario, incontrando il resto della comunità e gioendo con loro per il riconoscimento del Risorto. Questo ultimo passaggio è ciò che ci manca di più nella Chiesa: non basta ascoltare la vita e le Scritture in maniera sinodale, ma si tratta di vivere sinodalmente anche il processo decisionale che scaturisce da quel discernimento, in modo che non sia in mano a uno solo o a un gruppo di pochi. È necessario che, anche chi ha la responsabilità ultima nel ministero, eserciti tale autorità dentro spazi e modalità che non cancellino il percorso precedente, ma lo assumano realmente e lo rilancino in vista di una sua revisione nuovamente comunitaria.

Solo attraversando tutti questi momenti, senza saltarne nessuno, il discernimento, compito fondamentale della nostra vita, compiuto da Gesù nella sua stessa esistenza, può diventare un reale cammino ecclesiale, tramite il quale è possibile, oggi come allora, scioglierci insieme nella professione di fede: “Abbiamo visto il Signore”. E a questo punto la sinodalità troverebbe la sua efficacia come effettivo processo decisionale nello Spirito, in grado di alleggerire e innovare: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”[6].

 

NOTE

 

[1] Cfr. Mt 4, 1-11.

[2] Cfr. Mc 14, 32-42.

[3] Cfr. Lc 10, 1-20.

[4] Cfr. Lc 2, 41-50.

[5] Cfr. Lc 24, 13-35.

 

[6] Cfr. 1Ts 5, 21.


Un calcio alla morte.. far fiorire la vita

 

 

Alessandro D’Avenia 

 

Gianluca Vialli è stato, nella mia adolescenza, un eroe di quello strano sport contro-evoluzionistico per cui l’abilità non dipende dalla mano, che ha reso l’uomo uomo, ma da un arto molto meno preciso: il piede (pedestre è un’offesa: «è fatto con i piedi»). Nel calcio anche il gesto più bello «è fatto con i piedi», la mano è vietata (solo Maradona l’ha resa, furbescamente, tocco divino): arcaica nostalgia di una danza primordiale che incanta l’altro per trafiggerlo nel suo territorio sacro (la rete) con il «colpo» che arriva quando non lo aspetti o da chi non lo aspetti. Per questo sport pedestre il mondo impazzisce come un tempo i popoli incitavano gli eroi su un «campo» di battaglia: attacco, difesa, ali, assedio, manovra, bordata, barriera, parata... Il calcio, se funziona, è guerra sublimata (i pacifici si scatenano, gli sconosciuti si abbracciano): tribalismo in purezza. Per questo la morte di un suo «eroe» mi ha ricordato quando Ulisse, nel suo viaggio di ritorno, fa tappa tra i morti e incontra Achille, che aveva preferito morire giovane ma glorioso nella guerra di Troia piuttosto che vecchio ma ignoto a tutti. Ulisse lo elogia ma Achille risponde che preferirebbe essere l’ultimo servo in vita piuttosto che il re nell’aldilà. Il guerriero famoso per le sue gesta è in crisi: che se ne fa della gloria da morto? Ma allora: per che cosa vale la pena vivere? Chi è veramente un eroe?

 

Eroe originariamente significava semplicemente «uomo», ma per essere pienamente uomini o donne ci vuole la qualità che si è saldata alla parola eroe: il coraggio. Quello di rispondere di noi stessi, intervenendo nella realtà grazie a una forza interiore che ci abita (desiderio) e ci spinge a essere un «mai prima d’ora e mai più dopo». Questo rende ogni persona eroe/eroina: insostituibile. Una vita compiuta è quindi una vita che prova a rispondere a una chiamata: che cosa puoi essere e fare solo tu? Gli antichi lo chiamavano destino, ciò che il fato decide per te, io preferisco destinazione: una libera risposta a ciò che la vita offre. La chiamata di ognuno, se solo ne osservassimo lo stato cristallino, brilla già nell’infanzia. Gianluca Vialli da bambino giocava tutto il giorno a pallone nella casa di campagna a Grumello, ma non gli bastava e andò a piazzarsi, sempre e solo in attacco, sul campetto dell’oratorio di Cristo Re a Cremona. È la storia di molti bambini, ma la differenza sta nel fatto che, quella chiamata, venne presa sul serio da qualcuno: così un destino diventa destinazione. Entra in scena Franco Cistriani, professore di Italiano che si divertiva ad allenare i giovanissimi del Pizzighettone, squadra in provincia di Cremona. Quando l’insegnante-allenatore vide il ragazzino, lo arruolò subito, lo fece migliorare e lo seguì fino a che non fu notato dalla Cremonese... il resto è storia. Questa fase della vita del calciatore è, come per tutti, il momento in cui la chiamata si manifesta con due tratti essenziali: il pezzo di mondo verso cui ci chiama l’energia del desiderio (le cose in cui «amar fare» e «saper fare» coincidono) e il maestro che ci mette in condizioni di rispondere alla chiamata. La vita, con quello che ci dà, pone la domanda, la riposta siamo noi stessi, il maestro aiuta a rispondere: non risponde al posto nostro (cosa che a volte i genitori fanno) e non dà risposte a domande mai poste (cosa che a volte accade a scuola). A noi adulti capita, prima ancora di aver scoperto il pezzo di mondo che li chiama, di imporre a bambini e ragazzi occupazioni, prestazioni, standard, carriere, aspettative, che spengono l’energia speciale e specifica di ciascuno o la dirottano fuori da loro stessi, dalla loro chiamata.

 

 

 

 

Gianluca Vialli amava giocare e sapeva farlo, ma senza Franco Cistriani, che lui stesso ha definito «il mio primo maestro», questa storia non la potremmo raccontare, almeno non così. Ma non basta. Quest’uomo non solo sapeva e amava fare il suo lavoro, era altresì capace di stringere e coltivare, anche in malattia, relazioni buone (famiglia e amici). Benché i medici lo frenassero, non rinunciava a trovarsi con gli amici e a lavorare fino a che ha potuto. Amore per il nostro da fare quotidiano e relazioni buone: due elementi che definiscono una vita riuscita. Come tutti, avrà avuto difetti, fragilità, cadute, ma ciò che resta è il «senso» dato dalla vita e alla vita, «senso» vuol dire infatti sia «significato» sia «destinazione». Eraclito, filosofo antico, diceva che la disposizione a diventare ciò che siamo chiamati a essere (ethos, il carattere che in greco significa anche casa) è il divino (daimon, tradotto anche con destino) in noi: questa originaria e originale disposizione nasce con noi e chiede di compiersi, ma noi possiamo tradirla (per mancanza di conoscenza e/o accettazione di chi siamo) o essere spinti a tradirla (abbracciando illusioni di destino proposte dall’esterno). Quando invece la vita diventa la risposta alla chiamata autentica, la morte non è una sconfitta ma, come nel calcio, la fine della partita. Il tempo della partita finisce (di-partita) per tutti, ma il punto è se il fischio finale, a prescindere dal risultato, ci ha sorpresi «in azione», l’azione di rispondere come solo noi potevamo fare. In questi ultimi tempi sono morti tanti «eroi», ma è facile distinguere chi era solo «famoso» e chi invece è stato «uomo», cioè «divino»: intorno a lui/lei è fiorita la vita e non solo l’ego.


 

 

La bellezza della vita..vedere l'invisibile nel visibile

 

 

di ENZO BIANCHI

 

Per affrontare in profondità un discorso sulla bellezza, occorre anzitutto il coraggio di dire che la bellezza è un enigma, anche se oggi se ne parla spesso con troppa ingenuità. Dall’alba della modernità risuonano come sempre attuali le inquiete parole di Albrecht Dürer: “Che cosa sia la bellezza non lo so”, perché ogni tentativo di definirla appare inadeguato, insufficiente. La bellezza è ambigua, come tutte le cose che si manifestano quali realtà terrestri, sperimentate dagli umani. La bellezza seduce, ferisce, intimorisce, esalta, ammutolisce…

 

Occorre fare una distinzione preliminare: c’è una bellezza cantata dalla fede, la bellezza di Dio, il Creatore, della quale fanno esperienza quanti e quante, grazie alla dýnamis dello Spirito santo, sanno esercitare i sensi della fede; c’è d’altra parte una bellezza delle creature esperibile da ogni essere umano, nella pienezza dei suoi sensi corporei. Il credente può addirittura dare del tu alla bellezza di Dio, confessando che la bellezza non è un attributo, una proprietà, ma un soggetto, Dio stesso, secondo le note parole di Agostino: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato” (Confessioni 10,27). Così nelle sante Scritture si proclama: “Splendido sei tu e magnifico, o Dio!” (Sal 76,5), e si afferma che Dio sarà la bellezza della città santa: “Dominus erit pulchritudo tua” (Is 60,19). Ma quando il salmista e il profeta dichiarano questo, si riferiscono a una bellezza confessabile solo nella fede, perché “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18).

 

Più facile da decifrare è la bellezza del Re Messia, celebrato come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45,3), cantato dalla sposa del Cantico con le parole: “Tu sei bello e grazioso, o mio amato!” (Ct 1,15). Ma nella misura in cui le Scritture si applicano al Messia Gesù, questa bellezza può essere intesa come “altra”, bellezza del pastore, di colui che si prende cura del suo popolo: “Io sono il pastore buono e bello (kalós)” (Gv 10,11.14); addirittura può essere non-bellezza, quando egli si rivela come il Servo del Signore: “Lo abbiamo visto, non aveva né bellezza né splendore” (Is 53,2). La bellezza di Cristo trascende il visibile: solo l’agápe, l’amore, è in grado di narrarla e dunque di indurre a contemplarla.

 

Vi è d’altra parte la bellezza delle creature, quelle che Dio, dopo averle create, vide che erano “cosa bella e buona” (tob: Gen 1,4.10.12.18.21.25); tra di esse si segnala l’adam, il terrestre, creatura “molto bella” (tob me‘od: Gen 1,31). Questa bellezza si offre alla nostra contemplazione: è la bellezza del cielo (cf. Sal 8,4); è la bellezza della natura, delle epifanie cosmiche (cf. Sir 42,15-43,33), nelle quali “ogni opera di Dio supera la bellezza dell’altra: chi può stancarsi di contemplare il loro splendore?” (Sir 42,25). Questa creazione è carica di bellezza, così che il libro della Sapienza può proclamare: “Tu ami tutte le creature esistenti, non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato … Come potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza, … o Signore, amante della vita?” (Sap 11,24-26).

 

Ma la bellezza delle creature – come si diceva – non è priva di ambiguità e di equivoci, perché può diventare bellezza dell’idolo, falso antropologico prima che teologico, può essere una bellezza seducente che induce alla tentazione: “la donna vide che l’albero era … affascinante per gli occhi” (Gen 3,6), così come era buono (tob) e appetitoso; e David, vedendo la bellissima Betsabea dalla terrazza della sua reggia, fu sedotto fino a causare l’omicidio di suo marito pur di averla (cf. 2Sam 11). Tutti conoscono la frase di Fëdor Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo” (ma nel testo de L’idiota si tratta di una domanda!); si dimentica però che per lui la bellezza è tanto quella epifanica, divina, quanto quella idolatrica che egli dichiara bellezza di Sodoma. Dunque entrambi queste bellezze feriscono: o sono effroi, “sorprendente spavento” – come amava dire Jean-Louis Chrétien – oppure inducono all’ékstasis, ma sono bellezze differenti!

 

Ogni essere umano è affamato e assetato di bellezza, ma il discernimento della bellezza rivelativa di Dio e della sua azione richiede un’educazione dell’intelligenza del cuore, un cammino di discernimento mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni bellezza. Più l’aspetto sensibile attira per la sua bellezza, più l’uomo è tentato di non ascoltare la propria interiorità, per restare invece catturato dall’esteriorità. Sono note le riflessioni contenute nel capitolo 13 del libro della Sapienza e, in particolare, in quel passo che intenerisce il cuore e, nel contempo, denuncia il processo di seduzione della bellezza, la quale desta il desiderio di possedere e di consumare:

 

Se gli uomini, affascinati dalla bellezza delle creature, le hanno prese per dèi …

se, colpiti da stupore per esse,

non sono stati capaci di contemplare,

attraverso la loro grandezza e la loro bellezza, il loro autore,

per costoro leggero è il rimprovero,

perché si sono ingannati cercando Dio e volendolo trovare …

e perché le cose viste sono belle (Sap 13,3-7).

 

Ecco il dramma della bellezza: è facile proclamare che la bellezza indica, in-segna, rivela Dio, ma fare l’itinerario attraverso la bellezza per giungere alla contemplazione della bellezza divina non è facile, anzi è drammatico! Basti pensare al volto, al corpo dell’adam, maschio e femmina: più vediamo il bello, più potremmo cogliere in esso il sacramento della bellezza di Dio; ma più facilmente noi umani, come incantati, scegliamo la via idolatrica dell’adorazione della creatura, ci prostriamo a causa della sua bellezza, fino alla cosificazione del bello, al consumismo del bello privato della sua soggettività e della sua sacramentalità divina. L’uomo è immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), ma non è così facile giungere a questo riconoscimento. Non a caso Gesù – come recita un suo splendido detto non canonico – ha affermato: “Hai visto un uomo, hai visto Dio”, rivelazione che dovrebbe causare soprattutto una responsabilità del soggetto verso l’altro.

 

 

Amo molto l’interpretazione della trasfigurazione di Cristo fornita dalla spiritualità orientale cristiana. Secondo alcuni autori non fu Gesù a trasfigurarsi, ma furono gli occhi dei discepoli che conobbero un processo di trasfigurazione e così furono resi capaci di vedere in lui ciò che prima non vedevano: egli era carne fragile come loro ma, nello stesso tempo, Figlio di Dio, immagine del Padre invisibile. Sì, noi abbiamo bisogno di trasfigurazione per percepire la vera bellezza, per vedere l’invisibile nel visibile.


Tra tenebre e alba, tra attesa e speranza

 

Enzo Bianchi

 

 

La vita di ciascuno di noi inizia nella notte del grembo materno, dove il nostro essere si sviluppa fino al giorno in cui “viene alla luce”. Allo stesso modo la vita del mondo, secondo la Bibbia, comincia nella notte, in un abisso oscuro di tenebre profonde, il tohu wa-bohu (Gen 1,2) informe e caotico dell’oscurità. È su questa tenebra che risuona la parola: “Luce!” (Gen 1,3), e così luce fu e avvenne la separazione tra il giorno e la notte, mentre il Creatore contemplava la luce come tob, bella e buona. È questo il ritmo del cosmo, notte e giorno, tenebra e luce, nel quale anche noi umani siamo immersi.

 

Non potevamo evocare il giorno e la notte come metafore per descrivere ciò che viviamo, senza ricordare che questi sono innanzitutto fenomeni cosmici. Filosofie, religioni e spiritualità hanno invocato la luce in opposizione alla notte, fino a misconoscere quell’alleanza tra giorno e notte impossibile a spezzarsi: non esiste giorno senza notte né nel cosmo né nel cuore di alcun uomo o donna! Eppure in questo contrasto vi è una verità: il venire alla luce di ciascuno di noi, il venire e il vivere nel mondo è ciò che fa parte del nostro più profondo desiderio, per questo la notte viene spontaneamente associata alla tenebra, all’oscurità, al trionfo del male…

 

La tradizione ebraica e quella cristiana insistono: il giorno comincia subito dopo il tramonto del sole, e allo stesso modo l’anno inizia dall’oscurità, come se la luce dovesse essere partorita dopo un lungo e misterioso travaglio. È vero che oggi non viviamo più la notte come nei lunghi secoli nei quali essa era solo buio, perché non esisteva l’illuminazione, oggi onnipresente fino a essere inquinante. Tuttavia la notte è ancora pensata in opposizione al giorno, tempo in cui la vita delle nostre città quasi si ferma, anche se il ritmo della giornata e dunque il tempo del sonno si spostano sempre più in avanti.

 

La notte è per molti un tempo di riposo, di solitudine e di intimità, di riordino degli eventi del giorno trascorso e di preparazione all’inatteso del giorno venturo. È certamente un tempo in cui le persone che si amano conoscono l’intimità più profonda ed è anche il tempo della lettura al lume di una lampada, compagna ideale della nostra attesa notturna. Ma non possiamo dimenticare che la notte per alcuni significa anche fatica e maledizione: fatica per chi deve vegliare e lavorare per gli altri nel prendersi cura di persone malate o nel preparare il pane quotidiano; fatica nello svolgimento di servizi essenziali alla nostra convivenza; ma anche maledizione per chi nella notte conosce gli incubi, i fantasmi (nocturna phantasmata), i sensi di colpa che emergono e dominano la nostra mente; vi è poi la notte dei malati, dei sofferenti, che nella solitudine e nell’oscurità patiscono di più…

 

 

Forse è per sfidare la notte, per combatterla, che i monaci si alzano nelle ore più buie per stare tutti insieme, corpo accanto a corpo, e cantano in modo corale quelli che chiamano i “notturni”, ripetendo invocazioni e grida che vorrebbero squarciare i cieli e far sorgere la luce. Sì, come si legge nei Salmi, i monaci cercano di “svegliare l’aurora”, di accelerare il sorgere del sole per affrettare la vittoria della luce sulle tenebre. Affrontare il buio, combattere la tenebra, discernere la luce: questa è l’indispensabile arte della veglia che pochi conoscono. Sono molti quelli che non solo conoscono il tramonto ma l’attendono nel silenzio e nella pace, contemplando l’orizzonte rossastro del cielo; ma sono pochissimi quelli che praticano l’arte dell’attesa dell’alba, quindi dell’aurora e infine del sorgere del sole. È un’arte che combina insieme realtà e speranza, adesione alla vita quotidiana e fiducia nel giorno che viene, accettazione umile di ciò che siamo e tensione verso quanto vogliamo essere.


 

 

 ENZO BIANCHI: "LA VITA SPIRITUALE E' ESPERIENZA DI DIO"

 

     "Senza vita spirituale non c’è vita cristiana! Lo stesso mandato fondamentale che la Chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli è quello di introdurli a un’esperienza di Dio, a una vita in relazione con Dio. È essenziale ribadire oggi queste verità elementari perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo più che all’accesso a una relazione personale con Dio vissuta in un contesto comunitario, radicata sull’ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’Eucaristia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità. Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.

 

La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio, ci immette cioè nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito Santo. Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio: non gli può bastare avere idee giuste su Dio. E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cf. 2Cor 5,7: «Noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»), è qualcosa che ci sorprende e si impone, portandoci a ripetere con Giacobbe: «Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Gen 28,16), oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi... Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti » (Sal 139,5ss.).

 

 

 

Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto, dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe: «Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento, a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo » (Gb 23,8-9). Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare. Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita, attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare, dunque anche attraverso le “crisi”, i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.

L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti: è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene. Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione: Egli è già là! E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me», dice Gesù (Gv 14,6). Cioè l'esperienza spirituale è anche esperienza filiale. Lo Spirito Santo è la luce con cui Dio ci previene e orienta il nostro cammino verso la santificazione, cammino che è sequela del Figlio: l’esperienza spirituale diviene così null’altro che la risposta di fede, speranza e carità al Dio-Padre che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva: «Tu sei mio figlio!». Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo: questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo!

Come diceva Ireneo di Lione, lo Spirito e il Figlio sono come le due mani di Dio con cui Egli plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza, in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.

 

 

Così la vita spirituale, cioè la vita radicata nella fede del Dio-Padre creatore, mossa e orientata dallo Spirito santificatore, innestata nel Figlio redentore ci insegna ad amare come questi ha amato noi. Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo".

Incontro al mondo
Alessandro D’Avenia
Innamorato. Così voglio morire. Non parlo della follia dell’inizio di una storia, ben espressa in italiano con «infatuato» e in inglese con «fallen in love», cadere nell’amore come in una buca. Innamorarsi, come qui lo intendo, non è cadere, ma far accadere, permettere ad altro (cosa o persona) di «farsi vivo» in e grazie a noi, in-amorarsi è porsi in condizione permanente d’amore, cioè di gioia.
L’innamorato, per quanto costi impegno, sceglie di avere sempre una storia d’amore con il mondo, di esserne «cotto», messo «a fuoco». Ma questo non accade per caso come crediamo oggi, tanto che poi siamo convinti che l’amore, con eguale fatalità, finirà. Chiamiamo «caso» ciò che ignoriamo e di cui vorremmo avere il controllo: come far accadere «sempre e per sempre» l’amore. Possiamo vivere un quotidiano innamoramento, senza essere degli illusi fuori dalla realtà? Bisogna «diventare» amore, cioè avere, in superficie, una pelle che si lascia «toccare» e, in profondità, un cuore «spaziale». Che vuol dire e come fare? Ho trovato risposte in una lettera ricevuta da una 35enne, risvegliata dal dis-amore (uscita dalla condizione in-amorata) dalla lettura di un libro: «Dentro di me qualcosa si è mosso, come un ingranaggio che si rimette in moto. Come un vecchio orologio trovato in un cassetto a cui si dà la carica dopo una vita, ho incominciato a ticchettare».
La lettera continua così: «Mi sono sentita come vorrei sentirmi sempre. Come se fossi nata per sentirmi così: inquieta, assetata, entusiasta, piena di speranze anche adesso che ho 35 anni e qualche sogno l’ho già realizzato. Mi sento restituita a me stessa. Volevo leggere ma il tempo non ce l’avevo. Faccio il medico e quando lavoro so a che ora entro e non so mai quando esco. Adesso però sono in maternità e ho scoperto che la mia cronica mancanza di tempo era una terribile menzogna, infatti il resoconto del mio telefono mi ha sbattuto in faccia le 2-3-4 ore di social giornaliere. 4 ore?!? Così ho deciso di non accampare scuse. Ho cancellato i social, mi sono iscritta in biblioteca e iniziato a leggere nei momenti liberi, mentre allatto, o addirittura mi ritaglio del tempo proprio per leggere. Passeggio con mia figlia, e se non ho un libro mi gusto un momento di solitudine a tu per tu con me stessa. Ora che la corrente è tornata, si può riparare l’impianto elettrico del mio cuore e non farla saltare più?».
Questa donna parla di corrente elettrica, la vita innamorata è infatti in-tensità (da tensione, energia), non intensità apparente che ci sfinisce perché è solo accelerazione (aumentiamo ritmo e numero di cose da fare ma restiamo fermi, come il criceto nella ruota). L’intensità non è iper-tensione, ma tensione tra due poli, noi e il mondo, cioè stare dinanzi a cose e persone con una precisa intenzione: partecipare al loro compimento.
I poli sono opposti non perché nemici, ma perché relativi (in relazione). Sono in-amorato se sto di fronte a qualcosa/qualcuno non per dominarlo (rendere servo), ma per permettergli di essere più pienamente. Mi innamoro: di una pianta se l’innaffio, delle parole se le scelgo, degli studenti se li aiuto a trovare la vocazione, della mia amata se la faccio sentire Amata. Quando Giovanni dice «Dio è amore: chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4) afferma che l’onnipotenza non è dominio ma servizio al compimento di ogni creatura. Se il dis-amore è quindi l’indifferenza a questo compimento, l’odio è addirittura l’impegno a ostacolarlo.
I social non permettevano a questa donna una relazione d’amore col mondo, come infatti dice non basta che ci sia corrente, se il cuore, cioè l’a tu per tu con se stessi, salta. Se la relazione primaria, la conversazione interiore, l’amore per se stessi, è in cortocircuito, tutto il resto è vano. Eliminare i social e ricominciare a prendersi cura dell’a tu per tu è la creazione di uno spazio che permette di ascoltare, dalla vita tutta (a partire dalla propria), la richiesta di aiuto a compiersi, come il vagito del bambino.
Questo spazio per me si apre con la preghiera, parola con cui indico tutti i momenti grazie ai quali «rimango nell’amore». Senza preghiera il quotidiano innamoramento mi è impossibile, perché le mie forze sono precarie. Precario ha infatti la stessa radice di preghiera: precario è chi sa di non avere e chiede. Preghiera è allora per me tutto ciò che mi dispone a ricevere il mondo andandogli incontro: leggere, meditare, camminare, scrivere, ascoltare, cucinare...sono «passività-attive», la vita accade se le permetto di farlo, le do spazio, divento cassa di risonanza.
Social, distrazioni, informazioni sono «passività-passive», si intasa l’a tu per tu, uno spazio che chiamiamo cuore, servendoci metaforicamente non del cervello ma giustamente di un organo cavo che, in un corpo, irrora di sangue 120mila chilometri di vasi!
Ha un potenziale di dilatazione infinito come l’universo, che sappiamo essere in espansione non perché si sposti continuamente un confine, ma perché una misteriosa energia intrinseca apre nuovo spazio dall’interno. Allo stesso modo il cuore crea spazio solo se assecondiamo la sua energia interna (lo spirito da cui viene ogni in-spirazione), ma va sgombrato (fare spazio) e dedicato (dare spazio) al mondo, andando dall’a tu per tu con me all’a tu per tu con ogni cosa. Lo chiamo un quotidiano «rincuorarsi e rincuorare», entrare e far entrare più volte (ri-) nel (-in-) cuore, per rendersi e rendere le cose più vive. I Giapponesi hanno l’intraducibile termine kokoro: «mente-cuore» uniti, luogo-azione che infatti significa: centro, vita.
In questo modo amare non è «l’amore» (retorica insipida e sterile), ma mille volti e nomi amati. Se amare non «accade» grazie a me in ognuno di questi volti e nomi, ogni giorno, è perché in me non c’è spazio, dall’antica radice verbale spa-, che indicava il tendere (tensione buona: distensione) qualcosa, ampliarla, darle vita, tanto che da questa radice deriva non solo il bellissimo sinonimo di innamorato, spasimante, dis-teso ad amare, in cammino da sé a se stesso e quindi da sé al mondo, ma anche la parola dell’infarto, spasmo, cuore iper-teso, accelerato e ingombro, fino al cortocircuito fatale. Infarto viene infatti da in-farcito, cuore rimpinzato fino a scoppiare (il pien-essere contemporaneo), in-amorato è invece un cuore sano (il ben-essere), sempre pieno e vuoto, perché tutto riceve e tutto ridona. Quale dei due esiti vogliamo è una scelta libera, anche in condizioni assai avverse, come ha detto in una recente intervista il grande cantautore Nick Cave riguardo alla morte del figlio adolescente: «C’è solo una scelta nel rapportarsi alla perdita: ti puoi indurire attorno all’assenza o ti puoi riposizionare e andare incontro al mondo».


Cercasi vita eterna

 

Alessandro D’Avenia

«Dio promette la vita eterna. Noi la recapitiamo a domicilio». Così recita il volantino pubblicitario di una droga, il Chew-Z, che arriva sul mercato interplanetario in uno dei romanzi più spaesanti di Philip K.Dick, Le tre stigmate di Palmer Eldritch (1964), che, secondo lo scrittore Emanuele Carrère, ha segretamente ispirato film come The Truman Show e Matrix. Nel romanzo di Dick gli uomini abitano in tutto il sistema solare, la Terra è diventata quasi invivibile per il caldo ma, per sopportare la terribile vita su altri pianeti come Marte, i coloni terresti si procurano dei plastici con le miniature di un uomo e una donna bellissimi. Quando si assume il Can-D, una vecchia droga allucinogena, si entra nella vita perfetta di questi personaggi alla Barbie e Ken. Per questo gli uomini impegnano tutti i loro risparmi per comprare sempre più scenari e accessori del plastico e fuggire dall’insopportabile vita ordinaria, anche se tornati alla realtà, essendo rimasto tutto come prima, non si vede l’ora di assumere un’altra dose. Ma Palmer Eldritch, magnate del sistema solare, scopre una nuova droga prodigiosa, il Chew-Z, che, a differenza del Can-D, consente di entrare non in un plastico ma in un livello di realtà precluso alla coscienza e di cui Dick era indagatore: dietro al mondo c’è un altro mondo che noi non vediamo accontentandoci di una messa in scena dentro la quale recitiamo una parte. Ma che cosa c’è dietro la scenografia? Una vita eterna? E in che consiste?

 

 

Dall’ossessione per questo livello invisibile di realtà nascono i racconti che hanno ispirato film e serie come Blade runner, Minority report, The man in the high castle, Philip K.Dick’s Electric dreams... Per Dick quella che chiamiamo realtà è cartapesta che nasconde il reale vero e proprio. Il Chew-Z, la nuova droga che nel romanzo consente di accedere a questo livello del reale, non permette semplicemente di fuggire in un altro mondo come le droghe tradizionali, ma di riformulare (almeno in modo immaginario) il vissuto a proprio piacimento, modificando passato e presente, come in un sogno a occhi aperti. Con questa libertà assoluta (anche se solo immaginata) la vita eterna a domicilio è possibile. Ma che cosa è la vita eterna di cui noi uomini, credenti o no, abbiamo bisogno in quanto esseri che sanno di dover morire? Al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare, «eterna», anche nel linguaggio biblico, non indica innanzitutto la vita dopo la morte ma quella che vince la morte già adesso, è la vita «come dovrebbe essere» e che noi intuiamo nei nostri desideri: una vita in cui l’amore è per sempre, le condizioni di lavoro sono giuste, la politica lotta per il bene comune, un bambino non soffre...

 

La vita eterna è quella vita traboccante di senso di cui facciamo esperienza in alcuni istanti indimenticabili che infatti chiamiamo di salvezza, come l’innamoramento. La vita eterna non è la proiezione dei desideri in un cielo irraggiungibile, oppio religioso necessario per farsi piacere l’esistenza, ma è il desiderio innestato nel cuore che misteriosamente sa come dovrebbero andare le cose e si sente chiamato a realizzarle. Palmer Eldritch, genio del male, promette proprio questa vita eterna con l’assunzione di una droga, ma c’è un prezzo molto alto da pagare per avere la sua vita eterna sintetica: si cade sotto il suo dominio. Da un lato abbiamo la fuga in vite che non sono la nostra, come permette di fare il Can-D, la vecchia droga che proietta nelle vite di plastica, il tipo di fuga proposto dalla pubblicità, che manipola il nostro desiderio di infinito scambiandolo con la somma senza fine di piccoli finiti acquistabili. Dall’altro lato abbiamo il Chew-Z, la nuova potentissima droga di Eldricht, che permette di modificare il proprio passato e presente, soggiornando in una vita immaginaria a forma dei nostri desideri e senza cadute, fallimenti o ferite. Assomiglia a ciò che ci accade con Internet, dove costruiamo sogni a occhi aperti in un’infinta bolla cognitiva ed emotiva fuori dallo spazio e dal tempo. Ma così, pur di avere almeno un’ipotesi di eterno, regaliamo i nostri dati ai grandi gestori che, profilandoci indirizzano le nostre scelte future: preferiamo diventare risorse da esaurire piuttosto che lottare per essere protagonisti di una vita eterna reale e non digitale. Perdere la libertà è un prezzo che paghiamo volentieri, perché essere liberi ci costringe a fare scelte e a portarne il peso: le masse permettono così le piccole e grandi dittature. Ma mentre la pubblicità offre prodotti che rimandano alla realtà (per essere felice devo possederli), la rete, che presto avrà la forma del metaverso (i nostri profili saranno viventi ma nel mondo plasmato dal dio Algoritmo, con conseguenze ben descritte da Eric Sadin in Critica della ragione artificiale soprattutto in termini di perdita di libertà e quindi di creatività e di gioia di vivere), ci offrirà una felicità senza bisogno di realtà o addirittura contro la realtà, come confessa il protagonista del romanzo di Dick: assunta la droga della vita eterna «non puoi sgusciarne fuori. Anche se pensi di essertene liberato, ci sei ancora invischiato. È un accesso a senso unico e io ci sono ancora dentro».

 

 

Chi di noi saprebbe e potrebbe rinunciare alla rete e ai social oggi? La nostra vita, essendo noi esseri in cerca di senso (ci concepiamo come storie che hanno un destinazione), si costruisce sempre attorno all’idea che abbiamo della vita eterna: Dick non solo aveva visto che la vita eterna dei suoi contemporanei era manipolata dalla pubblicità, ma aveva anche pre-visto che nel futuro la vita eterna sarebbe stata nelle mani degli inventori di una forma di controllo più dolce e pervasiva, sostitutiva del reale. Il capitalismo della sorveglianza, come lo ha definito Shoshana Zuboff nel libro omonimo, ci trasforma in risorsa da cui trarre dati manipolando abilmente proprio il nostro desiderio di vita eterna: il metaverso ne sarà la realizzazione compiuta. Per quel che mi è dato vedere le nuove promesse di vita eterna riguardano infatti l’eliminazione definitiva del corpo (avatar nel metaverso e cyborg nell’universo), così da raggiungere la vittoria sulla natura e sul tempo, cioè quelle due cose che ancora ci costringono a morire. Nel romanzo di Dick infatti le tre stigmate di Palmer Eldritch menzionate nel titolo sono i segni che compaiono sul corpo di chi entra nel suo mondo parallelo: la propria mano, i propri occhi e la propria bocca diventano robotici, cioè l’azione, lo sguardo e la parola non sono più umani, si diventa sì felici, ma dis-umanamente. Noi non possiamo vivere senza vita eterna, ma spesso la costruiamo sul potere, la scorciatoia di chi è convinto che sia il controllo, e non l’amore, a conferirci un’identità e una presa talmente forti sulla vita da vincere anche la morte: assomigliamo a falene che continuano a bruciarsi le ali alla luce che le attrae o a uccelli che sbattono contro vetri che non sono il cielo ma lo riflettono. Chi ha la tecnica per vendere l’eterno sarà sempre il padrone del mondo e offrirà il suo oppio ai popoli, ma noi saremo liberi e felici solo quando costruiremo la vita eterna sull’amore. Un amico in attesa di un figlio, di fronte alle mie paure di mettere al mondo un figlio in questo mondo, mi diceva con serenità: «L’essere di questo bambino si giocherà sempre e solo su una cosa, quanto sarà amato e quanto amerà, il resto è di superficie». Ha ragione: io divento eterno, oggi, di lunedì, solo quanto e quando amo e sono amato, questo è «il reale della realtà», che non richiede dipendenze e fughe immaginarie, ma solo tanto coraggio e tanto corpo. Io per esempio non saprei che farmene di una vita eterna che non abbia la tenerezza dell’abbraccio della donna che amo, i volti degli studenti che ho seguito per anni, la chiacchierata con un amico, la bellezza di un panorama in montagna o di un cielo stellato in mezzo al mare come quelli che ho goduto questa estate, la felicità di mia nipote quando la faccio volare in aria, la musica di Beethoven o una pagina di Omero... La vita eterna a domicilio non è il dono di una droga del controllo, ma luoghi in cui il senso della vita trabocca perché sono pieni d’amore, da ricevere e da dare. Sta a noi scegliere dove e quali sono questi luoghi e contribuire a costruirli: ne va della nostra vita (eterna).


Il giardino segreto

 

Alessandro D'Avenia

 

 

 

Nei dialoghi che ho con i lettori non manca mai la domanda sulle abitudini di scrittura: luoghi, tempi, trucchi... La curiosità riguarda in realtà quella cosa di cui, chi lavora di «ispirazione» è testimone: l’esistenza della vita spirituale, da cui dipende poi la vita quotidiana. Non sappiamo dove sia questo luogo di cui chiediamo «la posizione» a coloro che ci sono stati, perché è in quest’eden, che spesso crediamo perduto o inventato, che si trova la felicità: è lì che la vita è sempre piena di pace anche nei momenti difficili, come il mare calmo pochi metri sotto una superficie in tempesta. Proviamo allora a riconquistare l’aggettivo «spirituale» — oggi ridotto a sinonimo di «immaginario», «lontano dalla vita», «strano», «senza corpo» — partendo proprio dalla parola «ispirazione».Ispirato è qualcuno che fa con sorprendente naturalezza qualcosa. «In-spirato» è «chi ha ricevuto un soffio», la parola spirito viene infatti da «spiro» (soffio). La vita è quindi «in-spirata» quando qualcosa «soffia dentro», dove «dentro» è lo spazio in cui ciò accade: la vita interiore. Vita spirituale (soffio) e vita interiore (spazio) sono necessarie a ricevere e dare vita, cioè a essere vivi e non semplicemente viventi. Per i Greci l’ispirazione era infatti dono divino accolto da chi lo invoca e da donare agli altri: Omero nel primo verso dell’Odissea chiede alla Musa letteralmente di «dirgli dentro» quello che lui canterà poi agli uomini. E noi come facciamo a essere in-spirati, a ricevere questo soffio?Anche nella tradizione giudaico-cristiana compare da subito il soffio. La Genesi sin dal secondo versetto dice che «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Lo spirito in ebraico è ruah, soffio, e le acque non indicano il mare, non ancora creato, ma il caos. Il verbo «aleggiare» nel testo significa in realtà «covare»: lo spirito di Dio, che è Amore, porta il caos della storia alla forma, come una chioccia. Quello stesso «soffio» che spinge tutto a compimento, cioè alla piena bellezza di ogni cosa, viene «in-spirato» da Dio dentro un pugno di terra: Adamo (letteralmente il Terroso) diventa vivo come «corpo in-spirato», che è chiamato a ricevere «supplementi» di «soffio» per diventare sempre più vivo proprio custodendo e lavorando il giardino, l’eden, che gli viene affidato.Che cosa ti ispira di più? Chiediamo a chi deve fare anche una semplice scelta in un menù. L’ispirazione è quindi la relazione tra un soffio che viene da fuori (spirito) e lo spazio di accoglienza (interiorità), come il vento con una vela: chiunque sia stato in barca a vela conosce la bellezza silenziosa di questa spinta che si traduce in movimento sulle acque. La persona ispirata, qualsiasi cosa faccia (da una torta a una poesia), si muove luminosa, agile, bella. Questo vogliamo anche noi: bellezza, luce, agilità nell’azione, in sintesi quella allegriache ha la stessa radice di alacre (veloce, desto), il contrario della pesantezza e lentezza di chi non è ispirato: nave che non si muove.Quindi quando si domanda all’artista: «come fai?», gli si chiede come ricevere il soffio e come custodirlo. Se non c’è vita spirituale (soffio) e interiore (vela) non c’è in-spirazione: tutta la nostra vita smette di essere originale, cioè origine del nuovo, e si ferma. Come tessere questa vela in cui il mondo ci in-spira: «soffia dentro»? Creando situazioni/occasioni “interiori” cioè di ricezione attiva: lettura, preghiera, silenzio, ascolto, natura, arte, dialogo amicale o amoroso... tutte ciò che, non consumabile nel momento in cui lo si riceve, riempie quella che lo scrittore Milan Kundera chiama «memoria poetica». Ma questo non è possibile se riceviamo solo non-cose che si spacciano per cose, informazioni e non presenze, fantasmi e non corpi.Per guarire da questa «assenza» delle cose che porta alla disperazione, il filosofo coreano Byung-Chul Han, professore a Berlino, si è messo a coltivare un giardino e ne ha tratto un libro prezioso: Elogio della terra. In una recente intervista al Corriere ha detto: «È dipeso dalla digitalizzazione il fatto che io, sette anni fa, abbia provato un forte bisogno di essere vicino alla terra. Con la digitalizzazione non abitiamo più il cielo e la terra, bensì Google Earth e il Cloud. Così decisi di allestire un giardino. A quel tempo lavoravo ogni giorno, non di rado fino allo sfinimento. Il giardino mi ha restituito la realtà. Contiene molto più mondo dello schermo. Lo chiamai Bi-Won (“giardino segreto” in coreano). Volevo che fiorisse anche in inverno. Così vi ho piantato soprattutto fiori invernali. Da questi anni di lavoro che mi hanno riempito di gioia ho imparato soprattutto che in giardino non si prova quella depressione il cui sintomo principale è la povertà di mondo. Il giardino è assai ricco di mondo. Io credo che la pandemia che ci costringe davanti allo schermo ci allontani ancora di più dal mondo, alienandoci. È proprio l’esperienza della presenza a darci il mondo. La digitalizzazione conduce invece a una povertà di presenza e quindi di mondo, fino ad arrivare a non percepirlo più se non le sue informazioni. La digitalizzazione ci sottrae l’esperienza della presenza, portatrice di gioia. Il giardino è un antidoto all’informatizzazione del mondo».Per questo sorrido amaramente quando sento chi vuole riempire le aule scolastiche, anche dei più piccoli, di tablet invece che di piante, di ore di coding anziché di giardinaggio, di non-cose anziché di cose. A tal proposito il filosofo continua raccontando del suo recente viaggio in Italia: «A Roma sono stato molto felice. Amo le chiese cattoliche. Ho fatto dei giri in bicicletta visitandone a centinaia. In tal modo ho scoperto una chiesa meravigliosa (San Bernardo alle Terme) che mi ha donato un’esperienza di presenza, così rara al giorno d’oggi. Questa chiesa è davvero piccola. Quando si entra ci si trova subito sotto una cupola decorata con forme ottagonali e quadrate che diventano sempre più impercettibili verso la cima, tanto che dal punto di vista ottico la cupola comunica un senso di risucchio verso l’alto. Attorno al vertice della cupola, che reca l’immagine della colomba dorata, sono disposte delle finestre attraverso cui irrompe la luce. La colomba dorata si libra nel cielo. Tutto questo va a comporre un interlocutore sublime munito di un vortice verticale che mi ha letteralmente sollevato. Mi sono librato verso l’alto, e ho compreso cos’è lo Spirito Santo. Non è altro che l’Altro. Non conosciamo più l’Altro. Lo smartphone fa sì che trasformiamo l’Altro in qualcosa di consumabile, convertendo il tu in un oggetto. Mediante la digitalizzazione del mondo scompaiono anche le cose. Questa cupola mi ha regalato un’esperienza gioiosa, un’esperienza di presenza nel bel mezzo di un ambiente sacro».

 

L’esperienza di presenza, fonte di ogni ispirazione, è proprio ciò che stiamo perdendo e con essa la gioia. Quest’uomo trova lo «spirito» in un giardino, viene in-spirato dal soffitto di una piccola chiesa, incontra un «tu non consumabile»: la sua «memoria poetica» viene così riempita dalla «presenza», spirito e corpo diventano tutt’uno come in amore. Nella tradizione cristiana infatti lo Spirito con la maiuscola è l’Amore in persona, soffio che cova il caos della storia, di ogni storia, fino al suo compimento di bellezza nel giardino: l’Amore muove Omero e muove il mare, scriveva il poeta russo Mandel’štam.

Il giardino è l’incontro tra spazio interiore aperto e attivo (curare i semi, pedalare, visitare le chiese...) e l’esperienza di presenza delle cose (fiore, città, chiesa): l’amore ci raggiunge e riempie solo così, solo in questi incontri con la vita. Le non cose, informazioni e immagini, di cui ci riempiamo ogni giorno si depositano come polvere che a poco a poco appanna gli occhi e inceppa il cuore, invece nella memoria poetica penetrano e restano solo le cose presenti cioè «amanti» e «amate». Dobbiamo recuperare, lo dobbiamo alle nuove generazioni, questo incontro con la realtà per liberare la vita «spirituale», che non significa «immaginaria» «disincarnata» «bizzarra» ma il contrario: piena presenza di noi a noi stessi e al mondo, cioè gioia.

 

 

Noi non ricorderemo le «non-cose» del meta-verso, cioè quelle che portano altrove da noi, ma «le cose» dell’uni-verso, cioè quelle che dalla loro varietà portano all’amore. Le non-cose ci portano lontani da noi: non c’è soffio ma bonaccia piena di miraggi, come quella che avvolge la nave di Ulisse prima dell’arrivo delle Sirene. Invece il soffio che in-spira mette in moto.Spegniamo lo schermo almeno un poco e dedichiamoci a un «giardino segreto» nella forma che ci è più consona: che cosa ci permette di fare esperienza della presenza? L’eden non è perduto ma a portata di vita quotidiana, e i responsabili della nostra in-spirazione siamo noi: io mi metto davanti alla pagina bianca non perché sono ispirato ma proprio perché l’ispirazione accada, quel bianco è spazio di accoglienza, il contrario di ciò che si dice della pagina bianca, è aperta non vuota. L’ispirazione è la sorella minore del lavoro quotidiano. Voi che cosa curerete oggi? Dov’è il vostro giardino segreto?

L’arte di ritrovarsi

 

di Alessandro D'Avenia

 

Beyhan Mutlu, 50 anni, passa un’allegra serata di festa nella cittadina di Inegöl in Turchia, quando torna in strada è ubriaco e si dilegua nel bosco vicino. Non vedendolo tornare i familiari avvertono la polizia che comincia a cercarlo. Si uniscono diversi volontari per battere la selva dove l’uomo s’è smarrito. Dopo averlo chiamato per ore, finalmente dalle tenebre una voce: «Sono qui!». Proviene dal gruppo di cercatori. Beyhan, in preda alla sbornia, s’era arruolato tra i volontari per cercare... se stesso.

 

Questo recente fatto di cronaca rappresenta per me il percorso di ogni vita umana. Ci si smarrisce in una selva oscura, in preda a ciò che per Dante è un sonno, cioè la dimenticanza di sé in cui scivoliamo se, imprigionati da routine, infelicità o menzogna, viviamo «a nostra insaputa»: storditi, anestetizzati, spenti.

 

Ma noi veniamo alla luce solo quando ci cerchiamo e siamo cercati: Dante, perso nelle tenebre, inseguendo la luce trova infatti Virgilio, che è già lì, mandato da Beatrice, per guidarlo in un cammino di rinascita (nell’ultimo canto del poema, alla fine del viaggio, si paragona a un bambino che beve il latte dalla mammella materna).

 

Per ritrovarsi bisogna lasciarsi trovare, che non è rimanere inerti ma muoversi in profondità (verso sé) e ulteriorità (verso l’altro). E come si fa? L’essere umano non nasce una volta per tutte, come gli animali, autosufficienti, grazie all’istinto, già poco dopo il parto.

 

l’altro). E come si fa? L’essere umano non nasce una volta per tutte, come gli animali, autosufficienti, grazie all’istinto, già poco dopo il parto.

 

Noi ci mettiamo tutta la vita a nascere, perché siamo esseri incompiuti: non abbiamo l’istinto ma il desiderio, non la necessità ma la libertà. Siamo per questo chiamati a «rinascere», che non è nascere di nuovo ma farlo sempre più intensamente (il ri- non indica qui l’iterazione dell’azione, come in ritentare, ma la sua intensità, come in risvegliarsi).

 

Per rinascere non si deve quindi rientrare nel grembo, ma farsi grembo, cioè accettare la vita che ci è capitata e darla alla luce ogni giorno un po’ di più. Dante dice «mi ritrovai per una selva oscura»: mi piace interpretarlo non solo come l’esserci finito quasi senza saper come, ma anche come l’aver «ritrovato» se stesso grazie alla selva.

 

Ma che cosa vuol dire «perdere» e «ritrovare» se stessi? Perché usiamo una metafora adatta soprattutto agli oggetti? Cerchiamo di descrivere l’indescrivibile, ciò di cui non abbiamo ricordi ma una memoria incisa nella carne: il parto. Quando abbiamo perso la protezione del grembo, ci siamo sentiti perduti. Perdersi è abbandonare una calda sicurezza che alla lunga ci soffocherebbe: infatti sentiamo di dover venire alla luce, una vita più vera spinge forte in noi, anche se il passaggio è angoscioso (aggettivo che viene appunto dal latino angustus, stretto).

 

Chi deve venire alla luce deve «perdersi», uscendo dalla strettoia, e «ritrovarsi», nascendo un po’ di più: è «più nato», viene di nuovo al mondo, nel senso che va verso la realtà in modo nuovo e felice. Ma perché tutto questo accada, a differenza del primo parto, dobbiamo sceglierlo. Siamo tempo incarnato e ciò che decidiamo di fare nel tempo genera in e fuori di noi più o meno vita: ri-nascere o dis-nascere.

 

L’uomo non è reattivo come gli altri animali, immersi in un continuo presente, ma attivo: scegliendo e agendo, modella il tempo e quindi se stesso, cioè si dà forma. Michelangelo levava il superfluo dal marmo per arrivare all’essenziale, e nell’arte di vivere siamo sia lo scultore sia il marmo: ri-nascere è andare verso l’opera d’arte di sé. Ma la pietra per ricevere una «forma» deve essere «fragile» (da frangibile, che si può spezzare) e lo scultore coraggioso, e questo ha un prezzo: fragilità e mancanza di forma provocano angoscia. Così a volte preferiamo restare informi, senza libertà, pur di non sentire la paura di non essere abbastanza: il conformismo si nutre di questa paura, ci toglie la sana inquietudine della nascita. Ma evitando i dolori di parto della scelta, rinunciamo a venire alla luce e al mondo, a una vita più vera, «più nata».

 

 

Vedo ragazzi «nati poco», perché non scelgono, come se decidere significasse solo perdere marmo, e non liberarsi come cercano di fare i Prigioni michelangioleschi. Agostino scrive: «Chi ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te», per lui la libertà umana è limite persino per Dio. Chi non sceglie, come un bambino che non sa rinunciare a nulla, non si salva, non rinasce. Lo stallo della libertà è mancanza d’azione: alleniamo i ragazzi a «esercitare» la libertà o scegliamo per loro? Che cosa gli affidiamo perché ne siano creativamente responsabili? Solo facendoli scegliere provochiamo l’incontro con se stessi in cui, nonostante il dolore, provano gioia a partorirsi, scolpendo il blocco informe e nascendo un po’ più opera d’arte, come l’uomo ritrovato nel bosco, perché «cercato» e «cercante» al tempo stesso: «Sono qui» significa infatti «Sono vivo, sono rinato».


Camminare verso...

Fedeltà

 

Carlo Molari 

 

Essere fedeli è un esercizio di fede continuato nel tempo.

Fedele è colui che è costante nella dedizione e nell'amore, che mantiene la parola data, che trasmette senza deformazioni i doni ricevuti, che segue anche nei momenti difficili gli ideali ritenuti autentici.

Tutti siamo pronti a fare propositi, ad assumere impegni, ad enunciare promesse. Ma raramente siamo costanti nella loro attuazione. Perché troppo spesso le ragioni reali delle nostre scelte non corrispondono ai valori che pensiamo o diciamo di seguire.

Esaminiamo un esempio concreto. L'impegno che una persona assume nel matrimonio è di volere il bene del coniuge e dei figli, di farli crescere con la propria dedizione.

Molto spesso però le ragioni vere della promessa sono diverse: o l'attrattiva fisica e quindi il piacere, o la volontà di sistemarsi e quindi il proprio interesse, o la fuga da casa e quindi la propria libertà, o la ricchezza, e quindi il proprio benessere, o altro ancora.

Quando l'oggetto reale della scelta matrimoniale non coincide con il bene altrui l'infedeltà all'impegno preso prima o poi si manifesta. Essa in realtà caratterizza fin dall'inizio il rapporto ma resta mascherata finché non è messa alla prova.

Lo stesso può dirsi di tutti gli impegni umani: di lavoro, di amicizia, di famiglia, di sport, di appartenenza a una comunità civile. Tutti richiedono fedeltà non solo nei comportamenti, ma pure nelle ragioni che li ispirano.

La ricchezza di una comunità si regge sul grado di fedeltà che vi circola, oltreché sull'autenticità degli ideali proclamati.

È urgente che siano sempre più numerosi coloro che per fedeltà alla vita sappiano piegare il loro egoismo, vincere i loro istinti di possesso esclusivo, creare nuovi modelli di condivisione e di solidarietà.

Se vogliamo che la vita si sviluppi proviamoci tutti, amici, a essere oggi fedeli agli ideali in cuí crediamo: nelle piccole cose, nelle scelte di ogni momento.

La fedeltà non si misura dalla eccezionalità degli atti che compiamo, ma dalla adesione totale alle ragioni che li ispirano. Essa può essere incondizionata anche in un minimo gesto di amore.

 

Una giornata degna dell'uomo è sempre scandita da gesti di fedeltà.


Fede

 

Carlo Molari

 

Non c'è uomo, infatti, che non abbia una fede, se riesce a vivere.

Per fede si intende quel complesso di ideali che ispirano le nostre scelte e orientano tutta l'esistenza.

Ognuno di noi per vivere deve necessariamente formulare progetti, percorrere cammini ignoti, rinnovare impegni. Ma per farlo è necessario che si riferisca a valori accolti senza riserve, che abbracci ideali non ancora pienamente verificati, che eserciti una fede.

E ciò avviene inizialmente sempre sotto l'influsso di testimoni: dei genitori, degli amici, dell'ambiente sociale.

Ma per tutti deve giungere il momento in cui le scelte, compiute per testimonianza di altri, diventano soggettive, coinvolgono cioè senza riserve la persona intera e ne orientano l'esistenza.

Finché ciò non avviene, la vita si svolgerà tra entusiasmi ed incertezze, risposte e rifiuti, speranze e delusioni.

Senza ideali personalmente accolti la vita è frammentaria e inquieta, si svolge in balia degli eventi e dell'ambiente.

Ci sono due tipi diversi di fede: quello ateo e quello religioso.

La fede religiosa si differenzia per il fatto che il complesso dei valori abbracciati sono creduti presenti e pienamente realizzati in Dio.

La fede atea invece si esercita verso valori creduti al futuro. Si crede a una società da realizzare, a un programma che porterà felicità o ricchezza, a un avvenire migliore che rende sopportabile un penoso presente.

La differenza è molto rilevante ma praticamente non ha spesso incidenza perché, anche se molti sono convinti che Dio esista, sono pochi quelli che vivono la fede in Dio, cioè che prendono le loro decisioni nella 'propria vita perché si fidano di Lui, che vogliono il Bene anche quando non c'è nessun'altra ragione di amare se non il fatto che confidano in un Bene già presente e a disposizione dell'uomo. E così ricercano la Verità, si impegnano per la Giustizia, credono nella Vita.

 

Proviamo oggi a compiere anche un solo gesto per fede, abbandonandoci senza riserve al Bene che ci sollecita ad amare, alla Verità che vuole esprimersi attraverso noi, alla Vita che vuole tradursi in forme nuove. Forse inizieremo un nuovo modo di esistere. E soprattutto scopriremo che cosa significhi aver fede in Dio.

Amicizia

 

Carlo Molari

 

L'amicizia è una di quelle parole che ciascuno usa secondo la propria esperienza. Ma come di tutte le cose preziose, anche dell'amicizia circolano molti falsi, spesso inconsapevoli.

Prima di essere un rapporto, l'amicizia è un atteggiamento interiore, è un modo di essere persone, è una maniera di incontrare altri. Quando, crescendo, una persona avverte l'esigenza di allargare i suoi rapporti, porta dentro di sé una sete profonda dí possesso, una cronica insufficienza vitale. Sicché i primi rapporti che stabilisce sono caratterizzati da una tipica esigenza di disporre degli altri a proprio favore. Non sa ancora dire: io ti voglio bene, ma solamente: io ti voglio.

La differenza non è secondaria, anzi è molto profonda. Chi dice « io ti voglio » o « tu sei mio », dichiara una volontà di possesso distante dall'amicizia come la brezza dell'alba nelle montagne lo è dall'asfissiante caldo dei tropici. Solamente chi sa dire realmente « io ti voglio bene », cioè voglio per te un bene che ancora non possiedi, ed è disposto a offrire il suo tempo, le sue conoscenze, il suo impegno, la sua vita perché possa acquisirlo, solamente costui sa percorrere i sentieri dell'amicizia.

L'amore nasce come forza obbligata e come stato di necessità. Solo quando fiorisce come scelta gratuita e capacità di offerta, solo quando si traduce in gesti di delicata attenzione, di premurosa cura, di rispetto generoso, acquisisce i tratti dell'amicizia.

L'amicizia è la perfezione dei rapporti amorosi, è la gratuità delle relazioni, la disponibilità integrale alla presenza altrui.

Anche fra due coniugi, come fra genitori e figli, o fra compagni di lavoro, il rapporto, in qualsiasi modo sia nato, finché non fiorisce in amicizia, è carente e facilmente si consuma. La ricchezza umana di una società si misura dal grado di amicizia che caratterizza i rapporti medi delle persone. Una comunità guidata dall'interesse, o dall'arrivismo non è sana e prima o poi viene dilaniata dalla violenza che ha coltivato nel suo seno.

Proviamo oggi, amici, a rivedere i rapporti che viviamo. Non diamo per scontato nessun amore che proviamo. Esso esige di fiorire in forme di amicizia. Programmiamo un gesto gratuito che abbia come unica ragione il Bene che diciamo di volere agli altri.

 

Questa sera ci ritroveremo tra le mani in modo insospettato il dono che abbiamo fatto.


Tenerezza

Carlo Molari

Non solo la vita individuale acquista caratteristiche diverse secondo la maturazione raggiunta, ma anche l'umanità intera, i popoli hanno stili diversi di esistenza secondo la ricchezza umana acquisita.

In altri millenni, ad esempio, la forza fisica era considerata una qualità superiore e le arti marziali erano le più stimate in molte società. Ci sono voluti millenni per comprendere che queste concezioni riflettevano situazioni ancora infantili di esistenza, immaturità psicologica, inconsistenza interiore.

Allo stesso modo le forme di associazione e di convivenza nelle diverse società hanno assunto forme varie secondo la progressiva maturazione personale.

Le organizzazioni mafiose o la contrapposizione radicale di clan o di gruppi sociali riflettono ancora modalità di esistenza del passato, caratterizzate dalla violenza e dall'incapacità di rispetto altrui.

Una virtù segna oggi il discriminante della maturazione storica dell'umanità: è la tenerezza. Disprezzata in altri tempi, oggi assume una funzione fondamentale nella impostazione dei rapporti e nello sviluppo della comunità. Per questo le forme di crudeltà nei confronti dei fanciulli o il disprezzo dei più deboli oggi suscitano reazioni sempre più ampie.

Non sono certo scomparse le forme di crudeltà, perché ogni uomo comincia da capo il suo cammino e non sempre raggiunge le forme acquisite dal progresso storico. Ogni generazione che nasce ha un cammino più lungo da percorrere prima di assestarsi come generazione adulta nel suo tempo. Vi saranno sempre quindi uomini immaturi o gruppi che assumono ancora atteggiamenti tipici di altri secoli o di fasi più remote di esistenza umana.

Anche oggi vi sono persone che, quando entrano in un ambiente, lo devastano con la loro presenza. Schiacciano i più deboli, offendono i più forti, disprezzano chi ha qualità che essi non possiedono. Ma non sono certo questi gli uomini che fanno la storia anche se riempiono la cronaca dei nostri giornali.

La forma attuale di esistenza è caratterizzata dalla capacità di tenerezza.

È la delicatezza del contatto, è il rispetto nell'incontro, è la sensibilità per la crescita altrui. È l'accettazione dei limiti e dei difetti, è il riserbo di fronte al mistero degli altri, è l'attenzione per la sua sofferenza.

 

Proviamoci oggi a rivedere i nostri comportamenti. Chiediamoci quale gesto delicato di tenerezza possiamo compiere. Solo piccoli gesti quotidiani possono alla lunga modificare un ambiente.

Esperienza di Dio

 

Carlo Molari 

 

Il novanta per cento delle conoscenze che oggi noi abbiamo sono diverse da quelle dei nostri antenati, e la stragrande maggioranza di esse sono acquisizioni di questo ultimo secolo. In un sessantennio l'umanità ha accumulato più conoscenze che in tutta la sua storia precedente. Ciò evidentemente ha influito anche sul modo di pensare a Dio e di interpretare la sua azione nel mondo.

Nei secoli scorsi si pensava a Dio come a un architetto dell'universo che interveniva nello sviluppo della creazione, modificava gli eventi, aggiungeva energia vitale, correggeva gli errori degli uomini. Tale modo di pensare è apparso infantile e contraddittorio. Come creatore Dio non opera allo stesso modo delle creature che « intervengono » accanto alle altre per dare forza o sostenere nelle difficoltà. Come creatore Dio opera all'interno della realtà, non fa le cose ma fa che le cose si facciano. È oggi convinzione comune che per pensare rettamente a Dio non si debba mai ricorrere a interventi superiori per spiegare eventi che accadono nell'universo. Questi hanno sempre una causa adeguata nella creazione.

Per l'uomo la scoperta di Dio non avviene nel frastuono di eventi straordinari, ma nella trasparenza della sua interiorità. Solo attraverso questa esperienza anche gli eventi della storia manifestano significati reconditi e i fenomeni della creazione diventano luminosi.

Solo quando giunge al liminare del suo spirito l'uomo coglie la forza di vita che gli perviene, l'amore che lo avvolge, la verità che lo chiama. Voglio portare una semplice analogia: che cosa sa il feto nel seno della madre dell'amore che lo anima e della forza che gli perviene? Eppure qualcuno lo sostiene e un'amore gli comunica energia.

Amici, la nostra vita non ha in se stessa la ragione di ciò che è. Noi non sappiamo esattamente in che cosa essa consista, ma quando viviamo con fedeltà e accogliamo senza riserve le sue tensioni, percepiamo che la vita è fondata. Così come quando incontriamo qualcuno che ha colto il segreto della vita e lo incarna, avvertiamo che essa non è un gioco delle circostanze, ma il fiorire di un amore.

 

I diversi nomi con cui gli uomini nella lunga storia hanno espresso questa esperienza sono relativi. L'essenziale è la certezza della sua presenza.

Trascendenza

 

dell'uomo

 

Carlo Molari

 

 

Ho esaminato nei giorni scorsi due componenti fondamentali dell'esperienza umana che ogni religione cerca di interpretare: la condizione di creatura e la chiamata alla morte.

Oggi vorrei continuare questa analisi con l'esame di un'altra componente dell'esperienza religiosa. Essa potrebbe essere descritta così: nessuna situazione, nessuna persona, nessuna cosa risponde interamente alla tensione di vita che ogni uomo porta con sé.

Spesso ci siamo illusi (credo che prima o poi tutti lo abbiamo fatto), ci siamo illusi, dicevo, che raggiunta una situazione, realizzato un progetto, terminata un'impresa i nostri desideri si sarebbero definitivamente acquietati. Invece ciò che prima poteva sembrare definitivo, poco alla volta è apparso provvisorio e insufficiente. Il nostro cuore è diventato più grande delle persone incontrate, le nostre speranze più esigenti delle promesse realizzate. Noi siamo apparsi sempre emergenti da tutte le situazioni nelle quali ci siamo venuti a trovare.

Ma perché questo accade? È una malattia mortale dell'uomo che, prima o poi, verrà cancellato dalla faccia della terra « come sull'orlo del mare un volto di sabbia » (M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 414), o è l'indicazione di una speranza non realizzata?

È una pazzia ingenita che esploderà con il fragore di bombe micidiali? O è l'espressione di una chiamata a una grandezza senza misura? L'amore dell'uomo è suscitato dai beni che incontra ó da un Bene che non ha riscontri? La ricerca della verità è stimolata dalle piccole scoperte di ogni giorno o da una voce profonda che ripete echi di eternità? L'esigenza di giustizia è tutta racchiusa nei precari progetti della sua storia o è riflesso di un progetto che la storia non può contenere ma solamente prefigurare? La morte dell'uomo è il compimento di un cammino concluso o l'annuncio di una promessa da realizzare?

Attorno a queste domande si gioca il valore delle scelte quotidiane. La risposta non può venire dal cielo ma dal profondo della storia. Noi avvertiamo una chiamata a essere più grandi di quello che siamo in ogni tappa della nostra vita.

Prendere coscienza di questo fatto è la condizione per non sbagliare mira, per non assolutizzare quello che è precario, per non erigere idoli sugli altari delle nostre strade.

 

Anche oggi saremo tentati di farlo e ad ognuno sarà concesso di crescere come persona se risponderà alle piccole richieste della vita. Non tradiamola.

Fondamento esistenza

 

Carlo Molari

 

 

Nei giorni scorsi ho esaminato alcuni elementi dell'esperienza religiosa, come accoglienza gioiosa della condizione dell'uomo: dipendente in tutto, chiamato alla morte come al suo compimento, mai soddisfatto di ciò che la vita gli offre. Terminavo con un interrogativo che ci porta al cuore del mistero dell'uomo: qual è la ragione della sua continua tensione? È una malattia mortale da eliminare al più presto o è la faticosa risposta a una chiamata sensata? È una forma di pazzia inguaribile o la conseguenza di una grandezza non ancora raggiunta? L'uomo risponde a una chiamata o affannosamente arranca per un cammino che non ha traccia e non avrà mai traguardo? In una parola, l'esistenza dell'uomo ha un fondamento o è sospesa nel vuoto?

La risposta a queste domande nasce dal profondo della storia umana e può scaturire dall'esperienza di ogni persona.

Nasce dall'esperienza perché non bastano le parole a farla scoprire. Viene dalla storia perché nessun uomo basta a se stesso: egli deve avere riferimenti sicuri già consolidati dalla verifica di generazioni.

Solo quando, attraverso gesti di un amore non interessato, si aprono orizzonti nuovi all'esistenza, si capisce senza ombra di dubbio che il Bene fonda la nostra vita. Solo quando fidandoci della Giustizia compiamo le nostre scelte con rigorosa onestà siamo in grado di cogliere il senso del nostro cammino. Solo quando abbandonandoci alla verità, superiamo compromessi ed evitiamo inganni, sperimentiamo con evidenza che la nostra ricerca ha una ragione reale.

Che la vita umana sia fondata, abbia cioè una ragione, non lo si può dimostrare argomentando ma lo si può scoprire nella profondità della propria esperienza intrapresa per l'influenza di una tradizione storica e lo si può mostrare agli altri nelle scoperte vitali compiute.

Non ci sono alternative praticabili.

Il valore di una religione sta appunto nella ricchezza della tradizione che può richiamare, nella validità delle esperienze che può offrire. Ogni rito religioso richiama figure di testimoni e invita a una verifica vitale.

Ma ogni situazione quotidiana può consentire questa scoperta: è sufficiente avere riferimenti ideali chiari per viverla intensamente cogliendo a piene mani ciò che essa offre.

 

È possibile anche oggi amici fare un'esperienza religiosa, scoprire cioè che la vita ha un solido fondamento. Che non siamo sospesi nel vuoto, ma siamo avvolti d'amore


La formazione della coscienza 

Carlo Molari

 

Straordinaria facoltà dell'uomo è la coscienza.

Con questo termine indichiamo la capacità di giudicare il bene e il male della nostra vita. Prima di ogni nostra azione tutti ci poniamo il problema se ciò che intendiamo fare è bene o è male per noi.

Così ogni volta che compiamo il bene avvertiamo un senso di compiacimento; al contrario, quando ci accorgiamo di aver fatto il male avvertiamo un senso di disagio o di rimorso.

Molti pensano che qualsiasi azione compiuta con coscienza tranquilla e che non suscita rimorsi, sia buona.

Non è esatto.

Non sempre seguendo la propria coscienza si fa del bene. Perché la coscienza non è infallibile. Non parlo ora della responsabilità morale che dipende sempre e solo dal giudizio precedente della coscienza, ma del bene e del male reale. Occorre distinguere in merito tra peccato e male. Il peccato, in senso stretto è un male compiuto coscientemente e deliberatamente (con piena avvertenza e deliberato consenso, dicevano le formule del catechismo della nostra infanzia).

Il male che possiamo compiere ha un ambito molto più esteso del peccato (dell'ambito cioè della coscienza).

Se uno beve veleno credendo che sia un elisir di lunga vita muore anche se si era illuso di vivere meglio. Non commetterà peccato di suicidio, ma il male resta.

Se i genitori credono di amare i figli di amore gratuito od oblativo (come sarebbe necessario per farli crescere armonicamente) e invece sono possessivi, i figli subiscono conseguenze notevoli per la loro crescita. I genitori possono riparare non dicendo che credevano di amare, ma solo cominciando ad amare in modo nuovo.

Così noi possiamo farci del male anche senza saperlo. Anzi abitualmente ce ne facciamo tutti i giorni. Quante volte ci accorgiamo di avere compiuto scelte sbagliate: nei rapporti, nell'alimentazione, nel modo di lavorare, nell'esercizio della sessualità, nell'accoglienza di ideali inadeguati! Il politico francese Talleyrand (1754-1838), agli amici che lo venivano a trovare malato diceva: « La salute è come la coscienza, tiene conto severo di tutto ». La ragione di questa impietosa legge della vita è molto semplice: noi diventiamo ciò che facciamo. La vita ci restituisce ciò che introduciamo con i nostri affetti, le nostre esperienze, le nostre decisioni.

 

Di qui l'importanza di una retta coscienza, la necessità di una sua formazione attenta.

La difficoltà del perdono 

Camminare verso..

Carlo Molari

 

 

Spesso si dice che perdonare sia un atto di debolezza e di viltà.

In realtà perdonare è molto più impegnativo, difficile e coraggioso che reagire istintivamente alle offese ricevute. Richiede molta più forza interiore.

Per questo solo pochi riescono a perdonare veramente e sempre.

Altri osservano che la dignità personale è un bene supremo da difendere contro ogni accusa e da proteggere diligentemente contro ogni sopruso.

A parte gli equivoci numerosi che soggiacciono al senso della propria dignità, che spesso viene confusa con il diritto di imporsi agli altri, con i giudizi di superiorità nei loro confronti, di fatto il perdono non solo non contrasta con la dignità di una persona, ma ne è la garanzia più sicura.

Altri sono disposti a perdonare solo quando chi ha sbagliato si pente e chiede perdono. Chi si pente non ha più bisogno di essere perdonato. È già stato salvato dal suo male. Il rapporto che si stabilisce con chi si pente è di solidarietà per aiutarlo a compiere il cammino che ha intrapreso.

Anche il castigo può far ravvedere chi ha sbagliato solo se è accompagnato da un'offerta di vita, da un atteggiamento di amore e di misericordia.

Un'altra difficoltà che spesso viene sollevata riguarda il perdono per conto di altri. In realtà ciascuno perdona sempre per conto proprio, per quel tanto cioè per cui è coinvolto nell'evento accaduto. Una madre che perdona l'offensore di suo figlio non perdona per conto del figlio ma in quanto madre di colui che è stato offeso, e così gli amici o i successori di chi ha subito violenza, perdonano in quanto anch'essi ne sono stati vittime.

Quando perciò un omicida non viene perdonato dai parenti dell'ucciso non può essere addotta la scusa che chi è morto non può perdonare. Noi non siamo chiamati a perdonare per chi è morto, ma per noi che siamo vivi e che possiamo offrire energia vitale a chi, accanto a noi, partecipa della stessa nostra avventura e ha bisogno di essere aiutato per uscire dal suo male.

È difficile certo perdonare, soprattutto quando l'offesa ha toccato gli affetti più profondi e le fibre più intime di una persona. Ma proprio perché il male è grande è necessario che un grande bene venga messo in moto. Il perdono risiede a quei livelli profondi dove si sviluppa la vita che vale realmente.

 

Proviamoci anche noi, oggi, e forse scopriremo una gioia nuova.

Saper perdonare

 

Carlo Molari

 

A mano a mano che l'unificazione dell'umanità procede, è sempre più necessario che gli uomini imparino a perdonarsi, che smettano cioè quegli atteggiamenti di rappresaglia o di rivalsa che sono tipici dello stile infantile, e che fino ad oggi hanno caratterizzato anche i rapporti tra i popoli.

Diversi equivoci sono in circolazione a proposito del perdono. Vorrei chiarirne qualcuno. In primo luogo perdonare non significa scusare o trovare attenuanti all'azione di un altro. Chi ha scuse valide non deve essere perdonato. Il perdono riguarda proprio chi ha sbagliato coscientemente.

Inoltre perdonare non significa dimenticare gli errori di un altro o non aver più la voglia di reagire nei suoi confronti. Il perdono che nasce dalla dimenticanza o dalla stanchezza è un ripiego.

Perdonare, non è un premio al pentimento del delinquente. Il perdono che viene dato solo a chi si pente è ancora molto condizionato e imperfetto.

Il perdono non è una legge che vale solo per il rapporto tra gli individui. Anche i popoli, anche i gruppi sociali, anche le famiglie devono essere capaci di perdonarsi.

Questi equivoci dipendono dall'idea poco chiara che si ha del perdono.

Il perdono è un atto di misericordia, è cioè un atto di amore gratuito, una offerta di vita che consente a chi ha sbagliato di cominciare a cambiare.

Il perdono perciò deve essere offerto a tutti coloro che sono malvagi perché non lo siano più nel futuro.

Il peccatore infatti non è in grado di uscire da solo dal suo male. Solo l'amore gratuito di chi gli sta accanto può permettergli di cambiare vita.

Il perdono non si oppone quindi alle misure di sicurezza per impedire a chi ha compiuto un male grave di ripeterlo nuovamente. Ma si oppone alla volontà vendicativa che spesso accompagna queste decisioni. È desiderio di conversione non volontà di riparazione.

Oggi lo stile del perdono non è ancora molto diffuso. Perdonare non è diventato ancora una caratteristica della comunità umana. È uno di quei salti qualitativi dello spirito che oggi condizionano il cammino del progresso umano.

Per questo è urgente che chi sa perdonare eserciti continuamente la sua capacità e diventi testimone di perdono in tutte le circostanze. Quando uno stile di vita, infatti, è introdotto dalla testimonianza continua di un gruppo, esso può dilagare nella società intera.

Chi sa perdonare perciò deve essere cosciente della responsabilità che ha di diffondere questo stile di vita.

 

Animo quindi amici, e se oggi ce ne è offerta l'occasione, proviamo a scoprire quale forza sprigioni il vero perdono.

La preghiera comune a ogni uomo

 

Carlo Molari

 

Vorrei confutare un luogo comune: non è vero che solo i credenti debbano pregare. Ogni uomo che voglia vivere intensamente deve avere momenti di raccoglimento, di interiorità, di concentrazione, di sguardo profondo. Questo è appunto quella che in termini religiosi viene chiamata preghiera.

Credo di avvertire la difficoltà di molti ad accettare quello che sto dicendo. La ragione pensq stia nella nozione infantile di preghiera che molti si trascinano dietro anche nell'età adulta. La maggioranza pensa che la preghiera sia un modo per far cambiare parere a Dio o per fargli sapere quali siano i nostri desideri o le nostre speranze. Gesù diceva: « Il Padre vostro conosce le vostre necessità » (Mt 6, 8).

Allora cosa è la preghiera?

È il modo per mantenere i canali aperti con la Vita, con il Bene, con la Verità, in una parola per non rifiutare nulla del dono che ogni giorno Dio continua a farci. Qualsiasi interpretazione si dia della vita e della sua fonte, certo è che ognuno di noi deve ogni giorno aprirsi al suo dono ed entrare in rapporto profondo con le sue sorgenti. Chiunque si illuda di essere autosufficiente e non si eserciti all'accoglienza dei doni vitali che gli vengono continuamente fatti, costui prima o poi si isterilisce. Così chi non si esercita a rinnovare continuamente la propria offerta perde progressivamente l'atteggiamento di accoglienza. Gesù, che ha scoperto e vissuto in modo esemplare questa legge fondamentale dell'esistenza diceva: « Chi vuol conservare la vita per sé la perde, solamente chi la dona, la ritrova» (cfr. Mt 10, 39; Mc 8, 34-35; Lc 9, 23-24; 17, 33).

La preghiera è appunto l'esercizio quotidiano per non rifiutare nulla di ciò che la vita quel giorno è disposta a offrirci. E nello stesso tempo è l'allenamento a donare la propria presenza a tutti coloro che attorno a noi ne avranno bisogno.

Vorrei portare un semplice esempio: se mettete un foglio di carta al sole, si riscalda, ma nulla più. Se, invece, tra il sole e la carta ponete una lente che concentri i raggi solari su un punto solo, allora la carta comincia a bruciare. La lente non aggiunge certo energia al sole. Ma permette di utilizzarla al massimo. Così fa la preghiera di ogni nostro giorno: ci consente di valorizzare pienamente il dono quotidiano di Dio.

 

Auguro a tutti di fare in questo giorno una esperienza, anche se breve, di interiorità profonda. Attingerete energie nuove per la vostra vita.

Uomini nuovi

Carlo Molari

 

In questi ultimi decenni si sono create le premesse per radicali innovazioni nell'organizzazione della convivenza umana. Strumenti di comunicazione prima impensabili stanno unificando i problemi dell'umanità. Mezzi tecnici straordinari consentono oggi il coordinamento di tutti i complessi sviluppi della vita sociale. Le conoscenze e la tecnica permettono di risolvere definitivamente mali ancestrali che nel passato hanno decimato generazioni. La terra sta diventando per la prima volta nella sua storia un unico villaggio nel quale gli uomini potrebbero vivere in una forma e con una serenità mai fino ad ora rese possibili.

Eppure molti ostacoli sembrano ancora opporsi alla realizzazione di questo programma che è già alla portata dell'uomo.

Gli strumenti tecnici consentono ad alcuni di sfruttare altri in modo molto più profondo e oppressivo che nei secoli scorsi. Le forze a disposizione dell'inganno e dell'ingiustizia sono molto più subdole che in altri tempi. Anche se gli uomini non sono peggiori di ieri, possono oggi compiere disastri di portata molto maggiore.

Pensiamo solamente alla produzione delle armi. Fino ad ora l'umanità aveva potuto sopportare questa cattiva abitudine senza danni eccessivi. Solo da qualche secolo l'infantile tendenza di aggredire il nemico aveva acquistato caratteri preoccupanti. Ora però la parabola è alla fine. O l'umanità esce dalla fase infantile dell'aggressione armata o non può più attendersi un futuro.

Perché il male degli armamenti non sta solo nella distruzione che essi possono produrre, ma prima ancora e, per il momento, molto di più, nella dispersione assurda di immense ricchezze senza rilevante utilità pratica.

Il fatto è che gli uomini hanno camminato troppo in fretta e non hanno cambiato progressivamente il loro cuore e le loro abitudini. È urgente che cresca una diversa generazione di persone, che introducano un nuovo stile di vita e che riescano ad affrontare in modo nuovo questi gravi problemi.

Perché cresca questa nuova stirpe umana tutti debbono dare il loro contributo. Gli adulti che non possono più cambiare radicalmente, hanno però la possibilità di annunciare gli ideali che avvertono realizzabili e di creare quel clima spirituale che consenta la crescita delle nuove generazioni. E i giovani, che hanno ancora la capacità di nuove forme vitali, possono introdurre quelle modificazioni dello spirito che, una volta acquisite, nessuno potrà più annullare.

 

La giornata che cominciamo sia serena per tutti, amici, e possa registrare numerosi contributi per la crescita di quegli uomini nuovi che faranno il futuro dell'umanità.

Vita piena

La prima urgenza di ogni uomo è vivere pienamente la propria giornata.

La condizione assoluta, per poterlo fare è l'interiorità: la presenza a se stessi, la trasparenza della persona, la lucidità degli ideali perseguiti, il possesso pieno delle proprie capacità. È capitato a molti, credo, di essersi trovati in circostanze nelle quali sono riusciti a compiere imprese di cui non immaginavano mai di essere capaci.

Al contrario, in altre situazioni è stato sufficiente un cambiamento di umore, una incomprensione, un imprevisto a renderli inerti, a gettarli in uno stato di depressione.

Facilmente in queste circostanze tendiamo a cercarne le ragioni negli altri. E troviamo sempre dei motivi sufficienti per accusare qualcuno vicino a noi o il destino o il tempo o la salute.

In realtà, anche quando esistono queste motivazioni, le ragioni vere del nostro malessere sono sempre anche in noi.

Se è vero che dagli altri ci viene l'energia vitale è anche vero che essa non opera in noi finché non la facciamo nostra.

Quando ciò avviene riusciamo a vivere diversamente.

Succede così che, ad esempio, ammalati riescono a comunicare forza di vita a chi è sano, drogati riescono ad accogliere l'aiuto degli altri in modo imprevisto, emarginati scoprono offerte di amicizia che prima trascuravano. Giorni fa leggevo la lettera di un giovane fiorentino, 17 anni nel '74 quando scriveva: « Prima mi drogavo, i miei occhi non vedevano più la bellissima luce del sole, perché la droga mi dava il senso del buio, il mio umile corpo era tutto punzecchiato di piccoli fori, io mi ero ridotto un piccolo mostriciattolo. Poi una luce misteriosa ... ».

Cosa era avvenuto? Aveva per caso letto alcune lettere di una ragazza, Benedetta Bianchi Porro, morta a 25 anni ormai ridotta un rudere umano da un male crudele: cieca, sorda, insensibile, staccata dal mondo.

È morta da 20 anni e molti continuano a trovare nei suoi scritti la forza per intraprendere nuovi cammini. Come il ragazzo fiorentino che si drogava.

Non so che cosa sia ora di lui, perché l'avventura della vita richiede lunghi percorsi e a volte tortuosi. Ma certo è che un giorno una luce è entrata nella sua esistenza martoriata perché lontano, dieci anni prima, una ragazza sofferente aveva saputo amare.

A questi livelli l'esistenza che vale si svolge. La vita piena non è possibile se non si raggiungono le profondità dove scaturiscono le sue polle originarie. Quando vi si è giunti si comunica vita anche se si è inchiodati in una croce a gridare un dolore senza fine. Anche se si è emarginati in una solitudine tragica. Si può comunicare forza al mondo intero e offrire speranze a una moltitudine immensa che cerca ancora ragioni di vita.

 

A tutti noi, amici, oggi è possibile scendere più in profondità e offrire nuove energie vitali a chi incontriamo. Proviamoci e la pace di Dio sia con noi

Il valore di ciò che l'uomo fa 

Carlo Molari

 

La valutazione che ciascuno dà delle proprie azioni non è sempre confortante. Non sembra che ci sia molta gente pienamente soddisfatta di ciò che fa. E quando lo è le ragioni della sua felicità non sono tali da resistere al tempo e all'usura delle abitudini.

Ci sono molte persone che continuano il loro lavoro solo perché alla fine del mese o della settimana ricevono lo stipendio.

Altri si attendono da ciò che fanno la stima dei colleghi, il riconoscimento della società, il successo.

Altri ancora si impegnano per giungere al potere, per essere in grado, cioè, di dominare nel proprio ambiente.

Altri riescono ad andare avanti solo perché si aggrappano a gioie future che lungamente assaporano nell'anticipazione: come la vittoria della squadra del cuore, l'incontro con una persona cara, la riuscita di un progetto.

Poi avviene che quando ciò che ciascuno attendeva si realizza, i desideri si allargano, le speranze riprendono a galoppare, e un'altra meta si affaccia all'orizzonte come ragione del proprio impegno. Il denaro non basta mai, il potere non è completo, la stima degli altri è limitata, la gioia passata suscita nostalgie e rincorre nuove illusioni.

Eppure qualche tempo prima avresti detto che ottenuto quel posto, raggiunto quel traguardo, avuto quel riconoscimento ti saresti definitivamente acquietato.

Quale conclusione trarre? È inutile sperare? È senza senso impegnarsi? È vano desiderare? Niente affatto.

È necessario piuttosto individuare bene che cosa attendersi dal proprio lavoro, quali sono i beni da sperare, che senso ha quello che facciamo ogni giorno.

Alcuni pensano alla vita futura come ragione del proprio impegno quotidiano. Altri pensano al bene che fanno agli altri, alla gioia che procurano.

Ma questi motivi, pur se validi, non sono sufficienti e soprattutto non sono quelli immediati. Se il nostro lavoro ha un significato, esso deve apparire concretamente nella nostra esistenza e tradursi in stati d'animo, in ricchezza interiore, in modalità nuove di vita. L'uomo vale non per quello che fa ma per quello che diventa attraverso ciò che fa. Ed è questo che egli è in grado di comunicare, ciò che è diventato come persona. Non sono i risultati a rendere grande l'azione dell'uomo ma la crescita personale che essa realizza, la ricchezza di umanità che sviluppa.

 

Ovunque e sempre ci può essere concesso di crescere come persone autentiche. Raggiunta la maturità nessuno ci può più impedire di vivere pienamente tutte le nostre giornate. Questa è la forza di ogni uomo ed è la sua dignità.


Educare alla fede dentro la poesia..

 

 

 

Un verso

 

Educare alla poesia

 

Antonio Prete 

 

Un verso, un solo verso. Ramo di un albero, filo di una tessitura. Oppure, petalo di un fiore, se vogliamo rivolgerci alla classica contiguità della poesia con la rosa. Staccare un verso dal corpo di suoni e di silenzi cui appartiene, dall’onda del ritmo che in ogni parte di quel corpo trascorre, è come prelevare poche note da una composizione musicale. Un’azzardata sottrazione. Un arbitrio. Eppure ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, e anche nella loro traduzione in altre lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: schegge che si trasformano in sorgenti luminose, frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono.

Un verso, un solo verso, può corrispondere, sul piano della poesia, a quello che nel campo della prosa Leopardi chiamava “pensiero isolato”. Nello Zibaldone lampeggiano alcuni “pensieri isolati”, sottratti all’ordine discorsivo della trattazione: la loro densità di teoresi è più forte di ogni diffusiva analisi.

Così, accade anche che alcuni versi isolati, pur sottratti alla loro organica appartenenza, finiscano col vivere di una vita propria. Richiamano, per analogia, quel sapere che, nella “cura di sé” consigliata dagli antichi filosofi, era compendiato nel “detto memorabile”, nei “veridica dicta”, per usare l’espressione di Lucrezio. Trattenere quei detti nella propria memoria era come dotarsi di un prontuario che all’occasione poteva suggerire modi di comportamento, orientamento per le scelte di vita. Lessico interiore di una morale. Allo stesso modo, trattenere singoli versi nella propria memoria è custodire un serto di parole che non riposano nella quiete di un senso o nell’armonia di un suono, ma fanno del senso un suono e del suono un senso e per questa loro singolare virtù o acrobazia o grazia irradiano un pensiero aperto, irriducibile a un solo significato, interrogativo.

Di tali versi soli, e splendenti nella loro solitudine, dirò in questa rubrica. Ogni volta un verso ci inviterà a sostare alla sua ombra: per un pensiero al margine, per una annotazione esegetica, per una considerazione che può avere a che fare, più che col commento, con una libera interrogazione, e anche con quel divagare cui invita proprio quella conoscenza per via fantastica che è la lingua della poesia.

Di verso in verso: un cammino nel giardino della poesia. Un giardino nel quale si potrà sentire talvolta, insieme con il profumo dei fiori, il tragico della vita.

Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. E un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

"Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all'erta. Doni che implicano destino.

 Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano […] viviamo sotto cieli cupi − e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche.“

 

 

 

“La poesia che viene al mondo vi giunge carica di mondo.”

 

Paul Celan

 

 

Breviario Laico, DARE OMBRA ALLE PAROLE

 Riflessioni con Card. Ravasi /

Parla anche tu, /parla per ultimo, /di’ la tua sentenza. /Parla, ma non dividere il sì dal no. / Alla tua sentenza dà anche il senso: / dalle ombra. / Dalle ombra sufficiente, /dagliene tanta.

 

Paul Celan

 

Anche chi – purtroppo! – non ama la poesia, legga lo stesso queste righe di un grande e tragico poeta ebreo tedesco, Paul Celan, nato in Romania nel 1920, testimone della fine della sua famiglia nei lager nazisti, morto suicida gettandosi nella Senna a Parigi nel 1970. Di solito i suoi versi, altissimi, sono ardui, ma questa volta il suo è un appello semplice e incisivo. Il poeta non va contro il detto di Cristo sulla sincerità: «Sia il vostro parlare: Sì, sì! No, no!, il di più viene dal Maligno» (Matteo 5,37). Egli vuole, invece, colpire chi pronuncia sentenze definitive quasi fosse l’unico interprete autorizzato della verità. Sono quelle persone che non si lasciano mai frenare da un’esitazione, che asseverano «senza ombra di dubbio».

 

Ecco appunto l’immagine di Celan, l’ombra che invece dovrebbe alonare le parole. Solo così esse escono dalle labbra quasi in punta di piedi, con discrezione e pudore. Anziché essere un flusso veemente e inarrestabile, sono centellinate e avvolte nella pellicola del silenzio perché sono pesate e pensate. Sono frasi che lasciano spazi ancora bianchi che ammettono approfondimenti e un’ulteriore vita in coloro che le ascoltano, un po’ come accade alla poesia che ha bisogno degli «a capo» così da lasciare un vuoto che l’eco nell’anima del lettore riempie. È proprio l’esatto contrario della chiacchiera che non ammette spazio e interstizi, oppure dell’urlato che impedisce il dialogo. Un personaggio di Pirandello diceva in Ciascuno a suo modo (1924): «quanto male ci facciamo per questo maledetto bisogno di parlare!».

 

 

Testo tratto da: G. Ravasi, Breviario laico, Mondadori

Paul Valéry. Il mare, il mare sempre rinascente!

Un verso

Antonio Prete

Quale verso delle ventiquattro sestine che compongono il Cimitero marino di Paul Valéry può raccogliere nel suo specchio i riflessi che vengono dagli altri versi? La configurazione formale, ritmica, immaginativa e teoretica del testo poetico ha tale rigorosa e necessaria e impeccabile tessitura che separare un verso dagli altri versi può mandare in frantumi l’intero mirabile edificio. E tuttavia questo verso della prima sestina – La mer, la mer toujours recommencée – può fare se non altro da avvio ad una breve riflessione che accompagni lo scorrere del poème:, il quale ha esattamente cento anni (uscì nella prima versione sulla “Nouvelle Revue Française” nel giugno del 1920). Perché in questo verso il mare mostra, nel suono della ripetizione, il movimento dell’onda, e allo stesso tempo il suo doppio legame con un tempo fuori del tempo (toujours, sempre) e con un ritorno senza fine (recommencée), un ritorno che è rinascita, partecipazione a una creazione che sempre ricomincia.

 

Il mare, dunque, e lo sguardo sulla sua superficie, sul suo movimento, sulla sua bellezza, che dischiude la meditazione su quel che più conta, come l’essere, l’apparenza, il divenire, il già stato, la morte, la rinascita, e questo nella musica del verso. Contemplazione non da una riva, ma dal piccolo promontorio su cui sorge un cimitero che un tempo ospitava le tombe di marinai e di pellegrini. Contemplazione che, imitando l’onda marina, istituisce un andirivieni tra il vedere e il pensare, tra lo stupore dinanzi alla bellezza luminosa dell’apparire e l’interrogazione intorno al proprio stare – nella quiete e nell’ardimento, nel dubbio e nell’attesa – dentro un tumulto che è vita: vita consumata, scintillio di vita, vita dinanzi alla morte, morte nella vita. Ma ecco la prima sestina, dov’è incastonato il verso, seguita da una mia traduzione:

 

 

 

Ce toit tranquille, où marchent des colombes,

 

Entre le pins palpite, entre les tombes;

 

Midi le juste y compose de feux

 

La mer, la mer, toujours recommencée!

 

O récompense après une pensée

 

Qu’un long regard sur le calme des dieux!

 

 

 

Un tetto calmo corso da colombe

 

palpita in mezzo ai pini e tra le tombe.

 

Meriggio il giusto coi suoi fuochi acquieta

 

il mare, il mare sempre rinascente!

 

Dopo un pensiero, che dono lucente

 

guardare a lungo degli dei la quiete!

 

 

 

La seconda sestina inaugura un’alternanza – che rimbalza lungo tutto il testo – tra la visione del mare, delle sue metamorfosi, della sua luce (“Un puro assiduo folgorio consuma /diamanti di minutissima schiuma”) e le trasvalutazioni d’ordine concettuale (“scintilla il Tempo, e il Sogno è sapere”).

 

Un “monologo del mio io”, dirà Valéry del suo Cimitero marino. Un monologo nel quale prendono suono e forma i temi della sua vita “affettiva e mentale” – questa l’espressione che usa il poeta – così come sin dall’adolescenza si erano definiti, ovvero in una relazione fortissima con il mare e con la luce mediterranea.

 

 

 

Rievocando, molti anni dopo, la composizione, Valéry dirà che il primo movimento verso la scrittura poetica era nato da una sensazione puramente ritmica, vuota di senso, riempita di sillabe vane, che era diventata per un certo periodo un’ossessione: insomma, una frase musicale che s’insedia nella mente, priva di parole, ma che cerca di fissarsi nella misura metrica del decasillabo (il decasyllabe francese, un verso non consueto per la grande tradizione lirica). Allo stesso tempo quella misura, mentre risuonava, mostrava su di sé l’ombra del dodici, il numero sillabico dell’alessandrino, con la sua “potenza”, e a quella soglia tendeva e da essa si ritraeva (per questo la metà del dodici, la sestina, diventa la strofe della composizione, e il doppio del dodici, ventiquattro, diventa l’insieme delle strofe). Per un poeta come Valéry sostare, metricamente, al di qua del dodici significa non cadere nell’eloquenza teatrale dell’alessandrino (l’alessandrino, “il nostro esametro”, diceva Mallarmé); per contro, attivare le sonorità del decasillabo con una mobilità di cesure interne significa guardare all’endecasillabo dantesco, al suo grande esempio di vitalità ritmico-sonora e di modulazione ragionativa e contemplativa insieme. È singolare come questa sorta di ispirazione meramente sonora faccia germinare i movimenti del pensiero, e offra ad essi una dimora musicale.

 

 

 

Accade insomma che la forma metrica, una volta visitata dall’idea, incontra la singolarità vivente e rammemorante e meditante del poeta, la sua storia personale: di ricerca interiore, di formazione dello sguardo, di interrogazione sul nesso vita e morte. Un esercizio metrico si svolge come pensiero poetico. Per questo Oreste Macrì, che nel 1947 diede una traduzione italiana del famoso testo poetico di Valéry, accompagnata da un fitto e coltissimo corredo esegetico, intitolò il suo saggio introduttivo Metrica e metafisica nel “Cimetière marin”.

 

 

 

 

 

Opera di Andrew Wyeth.

 

 

Quanto alla mia esperienza, ho tradotto Le Cimetière marin dopo che avevo a lungo indugiato nella poesia di Valéry – dai Frammenti di Narciso alla Giovane Parca – e nelle prose, nei dialoghi, nei trattati, e soprattutto in quel meraviglioso Zibaldone novecentesco che sono i Cahiers, un quotidiano corpo a corpo con il sapere di tutte le arti, del linguaggio, delle scienze umane, fisiche e naturali. Avevo a lungo rinviato la traduzione di un testo la cui perfezione formale non poteva che disperdersi e spegnersi, o almeno attenuarsi, una volta traslata in un’altra lingua (anche se molti, e talvolta riusciti, erano gli esempi di poeti italiani che si erano applicati all’impresa). Ma quando mi accadde, sulla metà degli anni Novanta, di sostare per la prima volta a Sète, e salire tra le pietre del Cimétiere marin, in una luce mattutina abbagliante, i versi del poeta mi apparvero con una loro prossimità, come se da quel luogo le immagini abbandonassero la severa dimora del decasillabo francese e si distendessero, con semplicità, diventati parola della luce, pensiero del visibile, intimamente legati alle linee del paesaggio in cui erano nati, da cui erano nati (sarei tornato diverse altre volte sul bel porto di Sète, nei vari soggiorni d’insegnamento a Montpellier e di seminari tenuti in quella Università, appunto detta la Paul Valéry). Fu allora che decisi di avventurarmi nella traduzione. Le pagine di Ispirazioni mediterranee, in cui il poeta, rievocando la sua infanzia marina e portuale, riflette sulle figure di un pensiero meridiano, mi sembrava potessero accompagnare l’atto del tradurre. E tuttavia, come qualche volta accade, sulla prima traduzione sono tornato, dopo alcuni anni, con l’assillo del repentir, della revisione e riscrittura, giungendo infine a una nuova versione. Ogni traduzione poetica è solo una sosta lungo il cammino verso un’impossibile traduzione compiuta.

 

 

 

Torniamo ai versi di Valéry. Per il quale la poesia è suono del pensiero, musica del pensiero: questa è l’eredità mediterranea che il poeta sentiva di dover consegnare alla scrittura. Quanto al verso, esso nasceva nel corso di un raro, preziosissimo stato di grazia, una sorta di inatteso dono che insieme interrompeva e raccoglieva il tempo continuo, quotidiano, del ricercar meditando.

 

I versi del Cimitero marino, di sestina in sestina, rimodulano, nella tensione del suonosenso, e con la matericità di immagini corporee, le grandi domande sul tempo, anzitutto, ma anche sull’apparenza, sull’assoluto, sulla caducità, sulla mortalità, sul nulla, e questo attraverso la costruzione di figure corporee, attraverso il trionfo del visibile. E tra il bianco marmoreo delle tombe e lo scintillio della distesa marina trascorrono pensieri d’amore e di consunzione, il desiderio e il dolore mostrandosi come lingua propria dell’umano, come l’attesa e il sogno. Sullo sfondo, Lucrezio, Agostino, Pascal. Ma la curvatura del pensare che tra l’addensarsi di immagini rivela il suo nitido profilo è la necessità dell’ombra, l’accettazione della condizione umana, della distanza dall’assoluto, dal principio, l’invito a “rentrer dans le jeu”, rientrare nel giuoco, che è giuoco di vita e morte insieme, rimettersi in giuoco, e intanto opporre al fascino dell’astrazione la vibrazione dei corpi, al richiamo dell’oltre il qui tumultuante dell’esistenza, al gelo della cancellazione l’onda – appunto l’onda – del desiderio. A un certo punto appare, nella XXI sestina, il greco Zenone, col suo paradosso: “Zenone, crudo Zenone Eleata, / m’hai trafitto con questa freccia alata / che vibra e vola ed è priva di moto”. Dirà poi Valéry che introdusse l’argomento di Zenone per indicare, nel discorso sul tempo, la ribellione contro la durata, ma anche per una ragione compositiva, cioè per compensare con una tonalità filosofica il sensuale e “troppo umano” delle strofe precedenti. Ma ecco, in versione italiana le ultime due sestine, in cui si rompe definitivamente la “forma astratta”, la rinuncia all’assoluto è dichiarata, il corpo e la vita gridano il loro essere nel movimento del desiderio, all’unisono con l’energia metamorfica e scintillante del mare:

 

 

 

XXIII

 

Sì, mare immenso di folli scintille,

 

pelle di pardo, mantello che mille

 

e mille idoli del sole scompigliano,

 

sciolta idra che del tuo azzurro corpo ardi,

 

e la coda splendente ti rimordi

 

nel tumulto che al silenzio somiglia,

 

 

 

XXIV

 

si leva il vento! S’affronti la vita!

 

Squaderna il libro quest’aria infinita,

 

franta esce l’onda da rupestri stele!

 

Volate via, mie pagine abbagliate!

 

Rompete, onde, con acque rallietate,

 

quel tetto quieto morso dalle vele.

 

 

 

 

Lo sguardo torna sul mare, sul suo azzurro corpo vivente. Il tono è in levare, la severità della dizione poetica si apre al canto, il poemetto accoglie i timbri dell’ode, la solennità dell’alessandrino tenuta a distanza con il decasillabo riprende ora il suo campo, la “forme pensive”, l’astrazione, si lascia scuotere dal vento della vita. Il pensiero è invaso dalla luce, dall’aria, dall’infinito dell’aria. E il tetto d’acqua, l’azzurra superficie su cui il primo sguardo scorgeva colombe-onde, riappare con il suo movimento, percorso ora da vele, mordicchiato dal loro beccheggiare. La prima e l’ultima immagine si ricongiungono: il mare sempre ricomincia, nella luce del rinascere che dialoga con l’altra luce, quella che, in alto, tra le tombe del “cimetière marin” fruga interrogativa nelle pieghe del tempo, tra le ceneri di quel che è stato.

Friedrich Hölderlin. Chi pensa il più profondo, ama il più vivo

Un verso

Antonio Prete

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

 

 

Il verso di Friedrich Hölderlin  (Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste), che sopra riporto nella traduzione di Giorgio Vigolo, in un’altra traduzione, per dir così più esplicativa, quella proposta da Luigi Reitani nel “Meridiano” dedicato al grande poeta tedesco, suona così: “Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”. Il verso appartiene alla poesia che ha il titolo Sokrates und Alkibiades (Socrate e Alcibiade), una breve composizione di due strofe che è tra le più note e tradotte di Hölderlin (c’è anche una traduzione-imitazione di Giacomo Noventa, nel suo veneziano singolarissimo, che aderisce al testo nella prima strofe e reinventa con leggerezza sorridente il resto).

 

Il verso di Hölderlin ha la compiutezza aforismatica di un pensiero che intende raccogliere in una sola frase un cammino di teoresi e di meditazione; un verso, insomma, che somiglia ai “detti” della filosofia antica, ai “veridica dicta”, come li definiva Lucrezio. Il verso, che apre la seconda strofe, si pone come risposta alla domanda consegnata alla prima strofe. Ecco il testo della poesia nella traduzione di Vigolo, seguito dall’originale:

 

 

 

“Perché stai sempre adorando, Socrate santo,

 

questo giovane? Nulla sai di più grande,

 

che con occhio d’amore

 

come gli dei lo contempli?”.

 

Chi pensa il più profondo ama il più vivo,

 

sublime gioventù intende, chi ha guardato nel mondo,

 

e finiscono i savi sovente

 

con inclinare al Bello.

 

 

 

“Warum huldigest du, heiliger Sokrates,

 

diesem Jünglinge stets? Kennest du Grössers nicht?

 

Warum siehet mit Liebe,

 

wie auf Götter, dein Aug’ auf ihn?”

 

 

 

Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste,

 

hohe Jugend versteht, wer in die Welt geblickt,

 

und es neigen die Weisen

 

oft am Ende zu Schönem sich.

 

 

 

Socrate e Alcibiade: le due immagini, il maestro e il discepolo, rinviano ai dialoghi platonici – in particolare al Simposio e all’Alcibiade – e alla questione posta da Socrate sul rapporto tra sapienza e amore, una questione che il poeta qui disloca subito sul piano di una relazione forte tra due elementi: tra il pensiero che si sospinge fino all’estremo, fino al suo stesso confine – e per questo fa esperienza del “più profondo” (das Tiefste) – e l’amore del vivente, laddove questo manifesta la sua essenza, mostrandosi nel punto più alto (das Lebendigste), e cioè rivelandosi nella forma della bellezza. Il pensiero più profondo – di “profunda profunditas” parlerà Agostino – è proprio della sapienza, l’elemento più vivo è proprio della bellezza.

 

 

 

 

 

Illustrazione di Cressida Campbell.

 

 

Pensare il più profondo, amare il più vivo: ritmo che unisce conoscenza e amore. Diastole e sistole di un battito che fa del pensare una lingua del desiderio e dell’amore un pensiero del vivente. Un’unità – o tensione verso un’unità – che tende a bruciare ogni opposizione tra il sapere e l’amore, tra la conoscenza e la bellezza. Il pensiero, nella sua essenza, è amore della bellezza. Un poeta come Hölderlin, che nella poesia porta, inquietamente e luminosamente, tutta la propria formazione filosofica, mostra, con la cura del verso, della sua forma, del suo suono, come vera sapienza sia fare esperienza della bellezza attraverso l’amore del vivente, del tutto vivente. La Natura è figura prossima, visibile, del tutto vivente. E la Natura è infatti la madre dalla quale il poeta ha appreso la lingua della propria arte: die Mütterarzrtlichkeit (si veda la lirica intitolata Die Stille). Questa consapevolezza è propria del poeta romantico: Keats dice che dal ruggito del leone (the Lion’s roaring) e dal grido della tigre (the Tiger’s yell) il poeta apprende la sua lingua. È un modo per dire della materna pedagogia messa in campo dalla Natura nei confronti del poeta.

 

 

 

Nel Simposio, quando Socrate prende la parola, dopo gli elogi di Eros via via fatti dai discepoli, e racconta di non sapere dell’amore se non quello che gli ha detto un giorno la donna di Mantinea, Diotima, a un certo punto, come osservazione al margine delle considerazioni sulla natura di Eros, dice della equivalenza tra Eros e Poiesis: come Poiesis, cioè la creazione, è movimento che dal vuoto, dall’assenza, fa che le cose siano, così anche Eros, in quanto desiderio, è movimento che dalla mancanza va verso la presenza. Dal vuoto al visibile, dalla privazione alla forma: un movimento che nel suo divenire resta sempre aperto. Nella poesia di Hölderlin l’amore è allo stesso tempo amore della sapienza – il pensare profondo – e amore del vivente. La poesia è la lingua che accoglie questo incontro tra amore della sapienza e amore del vivente.

 

C’è come un cerchio che nell’Europa della Romantik mette in relazione diverse culture letterarie, diversi poeti, con questa idea forte del vivente: Keats, Novalis, Hölderlin, Leopardi, ed altri. L’onda di questa poesia intesa come ascolto e amore del vivente giunge fino a Rilke. Una singolare corrispondenza: nella traduzione che Rilke fa dell’Infinito leopardiano c’è una particolare attenzione, di natura direi teoretica, proprio ai riferimenti al vivente. Le parole leopardiane “… e la presente / e viva, e il suon di lei”, / Rilke in qualche modo le rafforza, traducendo “und diese/ daseiende Zeit, die lebendige, tönende”. Una traduzione interpretativa (una traduzione “glossematica”, avrebbe detto Contini), che approfondisce anche sonoramente da una parte il limite del visibile, del qui e ora, del questo, dall’altra la presenza appunto del vivente, il suo risuonare.

 

Hölderlin, Leopardi, Rilke: poeti che con la loro poesia hanno detto dell’essenza stessa della poesia.

 

 

 

Torniamo al verso di Hölderlin. La domanda rivolta a Socrate dice di uno sguardo che è contemplazione – la memoria del verso di Saffo tradotto da Catullo con Ille mihi par esse deo videtur è dichiarata – ma proprio questo sguardo si rivelerà subito come la figura di una contemplazione che ha radice nel pensiero profondo, dunque nella sapienza, e si manifesta come percezione, da parte di tutti i sensi, della bellezza. Questo sguardo sulla bellezza – che è insieme forma del vivente e manifestazione del sacro – si accompagna per il poeta tedesco alla ricerca di un’armonia, al senso di una grande quiete per la relazione con questa armonia. Nell’Iperione c’è un passaggio bellissimo che racconta di questa ricerca:

 

 

 

O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano (trad. di G. V. Amoretti).

 

 

 

La lirica di Hölderlin è in tutte le sue stazioni interrogazione della Natura: della sua presenza, del suo stormire, delle sue voci, dei suoi silenzi. E questo accade nella meditazione poetica intorno al pensiero rammemorante: Mnemosyne, l’An-denken raccolto e dispiegato più volte nell’ermeneutica di Heidegger. Accade nel grande tema del ritorno dopo la peregrinazione, nel tema della notte che è vuota attesa del dio, solitudine per la sua assenza.

 

E tuttavia il rapporto con la bellezza e la ricerca di armonia con la Natura che i versi del poeta accolgono e descrivono ha in sé l’ombra del tragico. Perché è lontananza dal principio, dalla perfezione, dal sacro, che si manifesta solo in quanto perduto. La prossimità al vivente di cui fa esperienza la poesia nel respiro stesso del suo suono, nelle sue immagini, ha in sé questo tremore: mentre sperimenta la tensione verso il vivente, avverte anche la fragilità e inanità di questo suo vedere e sentire. La fragilità della stessa lingua.

 

 

Anche se non diamo, oggi, a questa mancanza il nome del sacro, conosciamo quanto sia diventata profonda la lontananza dal vivente, dal tutto vivente. Il profilarsi di un tempo in cui si estende il dominio dell’artificiale, del virtuale, del robotico, mette in questione la relazione corporea – “sensibile e immaginosa”, direbbe Leopardi – con il vivente, con la Natura vivente. La poesia appare inappropriata, estranea, a questo tempo. Ma sempre la poesia è stata in esilio dal proprio tempo.

Una cosa bella è una gioia per sempre

Un verso.

Antonio Prete

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

 

 

Il verso apre il poema di John Keats Endymion: “The thing of beauty is a joy for ever”. La bellezza e la gioia. Keats unisce in un solo verso la forma del visibile cui diamo il nome di bellezza e quel sentimento fortemente corporeo e insieme profondamente spirituale che è la gioia. Per un poeta la bellezza è un fatto anzitutto interiore. Per questo definire la bellezza è una questione che non attiene all’ordine dell’estetica ma all’universo del sentire. Non è necessario evocare categorie che colgono la forma, o la relazione tra le forme, come l’armonia, la proporzione, la misura, ma basta riferirsi alla percezione di sé nel rapporto con il visibile, una percezione che è esperienza di un sentimento, anzi del più impetuoso e vitale dei sentimenti, al quale diamo il nome di gioia.

 

 

 

La bellezza e la gioia: una complicità forte, una sorellanza che sa accogliere il mondo, l’esperienza del mondo, per quel che si mostra come luce e come musica. E che per questo può sfidare la qualità prima del tempo, che è l’irreversibilità, può cioè tentare un patto – certo illusorio, azzardato, estremo – con la permanenza, con il sempre. Senza questa interiore sospensione della caducità, senza questa fantasticata esclusione del declino dall’orizzonte del visibile, le cose non possono salire verso la lingua della poesia e lì essere accolte e custodite. Ma si tratta di una finzione, analoga alla finzione che nell’idillio di Leopardi mette in moto la rappresentazione di un infinito impossibile a sostenersi: “Io nel pensier mi fingo”. Di questa finzione il poeta Keats, come del resto ogni poeta, è consapevole. Una finzione senza la quale non potrebbe esserci quella creazione del mondo che è sempre la poesia. Ed è questa sospensione della caducità che permette il dischiudersi del sentimento della gioia. Un sentimento che cerca i segni per manifestarsi: la gioia è una letizia che chiama i sensi, tutti i sensi, a congiungersi festosamente. Per questo, per dire della gioia ricorriamo ad aggettivi come pura, assoluta, incontenibile, piena. E tuttavia, nonostante la pulsione a manifestarsi, nonostante le forme profane o secondarie in cui la gioia si può manifestare, come l’allegrezza o il riso, il suo movimento più proprio è quello di portare il rapporto con il visibile nel tempo-spazio dell’interiorità. Un movimento somigliante a quello dell’amore. Anche l’amore è esperienza che nei suoi momenti di fulgore sospende la caducità del tempo, fa un patto con l’oltretempo: da qui il legame forte che la poesia d’amore ha con l’elemento lunare, solare, stellare, cioè con quelle figure che appartengono a un tempo diverso da quello umano e storico, un tempo cosmico, che è come dire un oltretempo, o un tempo senza tempo (poesia d’amore e cosmologia è un nesso intorno al quale mi è accaduto più volte di riflettere).

 

 

 

Keats dice in altri memorabili versi di questa sospensione del tempo che la bellezza – la bellezza del visibile e quella dell’arte – può dischiudere. Pensiamo ai versi dell’ Ode on a Grecian Urn, che dicono la sottrazione al declino propria delle figure rappresentate sull’urna (“Ah, happy, happy boughs! That cannot shed / Your leaves, nor ever bid the Spring adieu” – Oh! felici, felici rami, che non potete perdere / le foglie e mai direte a Primavera addio”. E nominano anche, quei versi, la dolcezza suprema di una melodia priva del suo suono, perché consegnata all’immagine dei flauti che continuano a suonare al di là del loro tempo, fuori dallo scorrere del tempo.

 

 

 

 

 

Keats qui nasconde quel senso del declino che pure è proprio della bellezza, per mostrare come la lingua del poeta, e prima ancora della lingua il suo vedere e sentire vivano l’esperienza di una lotta contro il passaggio, contro il transitorio, e anche contro l’oblio. Una suprema finzione, in virtù della quale la lingua della poesia può ospitare quel che più non c’è, accogliere il tempo finito, far risorgere quel che è fatto cenere.

 

Ma Keats non ignora, se pensiamo ad altre sue composizioni, l’altro aspetto della bellezza, quello della caducità: pensiamo al verso di Ode on Melancholy: “She dwells with Beauty – Beauty that must die” (“Lei dimora con la Bellezza – la Bellezza che deve morire”). E subito dopo questi versi compare anche qui, come compagna della Bellezza, la Gioia. La caducità, dunque, come altro elemento della bellezza. È il tema che darà avvio alla riflessione di Freud in Caducità (1915): al poeta che dinanzi allo splendore del paesaggio è malinconico perché vi legge l’ombra del declino si può opporre la preziosa esplosione dell’istante di vita che sospende quell’ombra. È Baudelaire che sul tema della bellezza sempre osserva la compresenza dello splendore e del declino, e lo fa con le sue categorie: la bellezza è composta di due elementi, l’éternel e il transitoir.

 

 

 

Torniamo al primo verso dell’Endymion, che si chiude con for ever, sempre. Anche il primo verso de L’infinito di Leopardi aveva un sempre, anzi cominciava con un sempre: “Sempre caro mi fu questo ermo colle”. Nel giovane poeta inglese il for ever si riferisce a un’appartenenza del visibile a sé che sconfigge il declino, o almeno sospende col linguaggio della poesia – con il racconto lirico ed epico che sta per prendere avvio – lo scorrere implacabile del tempo. Il sempre leopardiano dice invece l’intimità affettiva di un’appartenenza al visibile – questo colle, questa siepe – che è soglia per l’odissea del pensiero. Un’avventura della lingua che vuol dire l’infinito sapendo dell’impotenza del pensiero a dire l’infinito; ed è proprio il mi fu aperto da quel sempre (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”) che sopravviene nel naufragio e raccoglie il sentire, cioè la presenza del corpo, nel m’è dolce dell’ultimo verso: “E il naufragar m’è dolce in questo mare” (e occorrerebbe riflettere sul rapporto tra la dolcezza di Leopardi dinanzi allo spalancarsi dell’indefinito che risarcisce l’impossibile rappresentazione dell’infinto e la gioia di Keats dinanzi al mostrarsi della bellezza).

 

 

 

Il poema al quale appartiene il verso di Keats, l’Endymion, fu composto tra l’aprile e il novembre del 1817, pubblicato nel maggio del 1818. Impetuoso esercizio di scrittura poetica – in quattro libri di mille versi ciascuno – il poema è un trattamento lirico del mito che riguarda il re-pastore Endimione, la sua ricerca dell’amore, i suoi incontri, le sue visioni, il suo sonno, il suo rapporto con la sorella Peona, con una fanciulla indiana, con Venere, con la luna. Il primo verso apre il proemio del poema e unisce alla presenza della natura – il sole, la luna, gli alberi, le ombre, i fiori, i ruscelli – la presenza dei bei racconti (“all lovely tales”) uditi o letti: essenze (“essences”) che sentiamo come appartenenti a noi, al di là della percezione del loro passaggio.

 

 

Questo senso di una relazione profonda con il vivente e con il visibile ha a che fare, in Keats, con la sua stessa idea del poeta, che in una lettera a Fanny definiva come “la più impoetica delle creature”: il poeta è colui che sa esporre i suoi sensi all’ascolto, sa lasciarsi “impressionare”. Una dimissione del sapere, un sentire su cui si imprimono presenze e passaggi, che nella loro quieta dolcezza cercano la via della lingua, il nuovo tempo della poesia.

Rainer Maria Rilke. Incerta, dolce, priva d’impazienza

Antonio Prete

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

 

 

È il verso che chiude la poesia di Rilke dal titolo Orfeo, Euridice, Hermes. Novantacinque versi che, con un andamento insieme drammaturgico e meditativo, con rilievi fortemente figurativi, rivisitano e interpretano il mito di Orfeo che scende nell’Ade per tentare di riportare tra i viventi la donna amata, sorgente e vita del suo canto: il cantore, a un certo punto del sotterraneo cammino, infrange il divieto di voltarsi, condizione imposta dagli dei, così Euridice è ripresa nel regno dell’oscuro.

 

Scritto nel 1904, molto prima, dunque, della grande stagione delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo, il testo poetico muove da un bassorilievo presente nel Museo Archeologico di Napoli che raffigura i tre personaggi del mito. Come nel verso qui scelto, così in tutto il testo poetico, Euridice appare avvolta in una sua lontananza, che è lontananza dal desiderio stesso.

 

 

 

Figura d’ombra: tuttavia abitata da un sentire che è come un’increspatura astratta di quel che è stato. Un dopo-la-vita che è percezione, ancora, della vita, ma da una soglia di sopravvenuta imperturbabile quiete. Un oltretempo che fa venire alla mente la domanda gelida ed estrema del leopardiano Coro dei morti: “Che fu quel punto acerbo /che di vita ebbe nome?”. Il verso che chiude la poesia era già riapparso nel corso della composizione quando il poeta descriveva Euridice, con il passo “costretto in funebri bende”, la mano nella mano del dio, “chiusa in sé come alta speranza”. Ecco la strofe, in una mia traduzione (raccolta nel quaderno L’ospitalità della lingua):

 

 

 

Ma veniva lei a mano del dio,

 

il passo costretto in funebri bende,

 

incerta, dolce, priva d’impazienza.

 

Era chiusa in sé come alta speranza,

 

immemore dell’uomo ch’era avanti

 

e del sentiero che alla vita andava,

 

Era in sé raccolta, colma di morte,

 

e questo era pienezza.

 

Come un frutto di dolcezza e di buio,

 

era piena della sua grande morte,

 

così nuova che in quella si perdeva.

 

 

 

Il poemetto si era aperto col verso “Das war der Seelen wunderliches Bergwerk” (Era l’oscura miniera delle anime) mostrando con tratti espressionisti l’oltremondo sotterraneo, le anime che come vene d’argento, silenziose, solcano l’oscuro, e il rosso del sangue che sgorga tra radici per salire poi verso il mondo dei vivi, e intorno rocce, morte foreste, ponti sul vuoto, e un immenso grigio stagno, sospeso “come un cielo di pioggia sul paesaggio”. Poi un sentiero, e lungo il sentiero, il dio Hermes che conduce Euridice, più avanti Orfeo, le mani fuori dal mantello azzurro, la lira alla sua sinistra, “radicata / quale cespo di rose sull’ulivo”.

 

L’ombra qui è materia che si fa immagine, che prende forma, movimento, ritmo. Il mondo ctonio, sul quale si posava con insistenza lo sguardo dei romantici tedeschi, riappare in questi versi di Rilke come regno delle ombre abitato da un mito. Da un mito che è racconto del legame tra canto e amore, tra poesia e amore. Di quel legame è qui messa in scena la perdita, l’irrimediabile perdita. Il tema dell’addio avrà nella lirica successiva del poeta un grandissimo rilievo: l’addio ritmo dell’esistenza stessa.

 

 

 

 

 

 

Orfeo, nella ombrosa figurazione del cammino, è osservato di spalle: sale verso la luce dei vivi, dietro di lui l’eco dei suoi passi, e il vento che muove il mantello. Euridice e Hermes salgono anch’essi verso la luce, silenziosi. Se Orfeo si voltasse, disfacendo l’opera, vedrebbe lei, la silenziosa, chiusa nelle sue vesti, figura d’ombra, il passo lento, personaggio di un rito del quale non intende né la ragione né le forme.

 

Hermes, il dio dei viaggi e degli annunci che vanno lontano, la conduce tenendola per mano:

 

 

 

Lei, la molto amata, che dalla lira

 

traeva un lamento più che da donne

 

in lutto, e dal lamento sorgeva un mondo,

 

e tutto era di nuovo: selva e valle

 

e strada e borgo e campo e fiume e belva;

 

e nel mondo-lamento, come intorno

 

a un’altra terra, roteava un sole

 

e un silenzioso cielo stellato,

 

cielo-lamento con sbalzate stelle:

 

lei, la tanto amata.

 

 

 

Dal lamento sorgeva un mondo: eine Welt aus Klage ward. Lei, per l’amore ricevuto da Orfeo, muoveva la musica della parola. Di una parola che era creazione. Nel canto il visibile si dispiegava in una nuova esistenza. Il visibile della poesia: tempo-spazio dell’apparire in cui le cose sono intime a sé, si rivelano in quel legame con il tutto che al di fuori della parola poetica è fatto opaco. La poesia evoca un mondo in cui la parola e la cosa non sono disgiunte: selva, valle, strada, borgo, campo, fiume, belva respirano con il respiro della terra, sotto un cielo di stelle, anch’esse figurazione visibile del lamento-canto: “cielo-lamento con sbalzate stelle” (ein Klage-Himmel mit entsteltlen Sternen”). Il lettore avverte, in questa dolente nominazione creaturale messa in opera dalla parola poetica, l’annuncio di quello che sarà il cuore della meditazione di Rilke sulla poesia, una meditazione che nella Nona Elegia sarà affidata a questi versi:

 

…siamo qui forse per dire: casa,

 

ponte, fontana, porta, brocca, albero, finestra,

 

al più: colonna, torre…ma per dire,

 

oh! dire così, come le cose stesse mai

 

dentro di sé sognarono d’essere.

 

 

 

Il mondo si mostra nella sua fisica, preziosa e prossima singolarità: la cosa sta nella parola come nel suo proprio abitare, e nella parola palpita, si conosce, vive. Perché questo avvenga occorre che il dire sia anzitutto una pronuncia interiore, il vedere sia un vedere interiore. Il dicibile è movimento della cosa verso la parola, e dire è compito terrestre e umano. Il tempo dell’esistenza individuale è tempo del dicibile: “qui, delle cose dicibili è il tempo” (Hier ist des Säglichen Zeit). Questo tempo della parola è altro dall’oltretempo stellare, che appartiene all’indicibile, e che solo la morte dischiude: pensiamo ai versi della Settima Elegia: “O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen! “(Oh! Esser morti una volta, e conoscerle all’infinito, / le stelle, tutte: e allora come come come dimenticarle!”). Compito dell’umano, dinanzi all’animale che sta nell’“aperto”, e all’Angelo, che è purezza della conoscenza, è accogliere il visibile nel nome, per trasformarlo nell’invisibile. E poterlo custodire: come si custodisce l’addio, ritmo stesso dell’esistenza.

 

 

 

Ma l’esteso ventaglio del pensare poetico di Rilke, sostenuto, negli anni che precedono le Elegie, dal passaggio attraverso Hölderlin, rischia di apparire contratto e scialbo in queste forzose abbreviazioni. Torniamo allora all’ Orfeo del poemetto. Il suo dire era, nella luce che vestiva i viventi, un dire che accoglieva le cose, le faceva vivere, e questo perché un principio d’amore, una figura d’amore, muoveva la parola della poesia.

 

Abbiamo lasciato Euridice sul sentiero d’ombra: “colma di morte”, incede con passo lento, “incerta, dolce, priva d’impazienza”; la mano nella mano del dio Hermes, va verso una luce che presto sarà negata.

 

Euridice, di qua dalla luce, di qua dalla vita, e dal canto che lei faceva sorgere, è come in una “nuova adolescenza”, dimentica delle nozze, è un “nuovo fiore prima di sera”, è turbata, come per troppa intimità, dal lieve contatto della sua mano col dio che la conduce. La sua essenza di vita è come dissolta (“sciolta come una lunga chioma, / abbandonata come pioggia in terra”). Un verso, isolato, quasi epigrafe che nomina un’altra appartenenza, campeggia tra i silenzi: “Lei era già radice”. Tornata a un prima della vita che è fondamento della vita, quiete nell’essenza, in quell’oltre che è l’essenza. Quando il dio ferma il passo e annuncia che lui si è voltato, lei non comprende e piano domanda: Chi? Una domanda che è voce priva di memoria, voce che sale da un corpo d’ombra. Dal profondo di un’altra appartenenza. E Orfeo dall’alto osserva il dio che si volge indietro, al suo fianco c’è lei, “il passo costretto in funebri bende, /incerta, dolce, priva d’impazienza”.

 

 

 

 

In questa messa in scena del mito – l’energia figurativa dei particolari qui risente dell’amore che il poeta ha mostrato fino a quel momento per Rodin e per Cézanne – mostra come in una sinopia la gravità delle domande ultime, le domande sul rapporto tra la vita e la morte. E la poesia, dando respiro e immagine a queste domande, si fa narrazione scenica, suono che disegna mondi, tappeto di silenzi sui cui sorgono voci. Per dire, ogni volta in modi diversi, il nesso tra amore e lingua. Per dire come il perduto possa trovare una sua nuova vita nella parola, restando nella sua privazione, nel suo già stato. L’addio, il dolore dell’addio, è in ogni passo, in ogni parola.


Mario Luzi. Vola alta, parola, cresci in profondità

Un verso

Antonio Prete

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

 

 

Il verso di Mario Luzi è sempre un frammento che riceve luce da altri versi contigui e irradia sugli altri versi la propria luce: una luce in cui trema una ininterrotta meditazione sul tempo, sul visibile, sulla sua ferita, sulla sua sperata armonia. La poesia, annunciata in una pagina a sé col titolo Vola alta parola, appartiene al libro Per il battesimo dei nostri frammenti, del 1985 (ora nel Meridiano curato da Stefano Verdino, 1998). Ecco il testo che muove dal primo verso e sul primo verso riflette l’insieme del suo movimento:

 

 

 

Vola alta, parola, cresci in profondità,

 

tocca nadir e zenith della tua significazione,

 

giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami

 

nel buio della mente –

 

però non separarti da me, non arrivare,

 

ti prego, a quel celestiale appuntamento

 

da sola, senza il caldo di me

 

o almeno il mio ricordo, sii

 

luce, non disabitata trasparenza …

 

 

 

La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?

 

 

 

L’allocuzione d’apertura, in levare, e quasi ad alta voce, rivolta “nel buio della mente” alla parola – che è parola, certo, della poesia, ma anche parola intesa come cifra propria dell’umano – è un invito: tentare l’estremo della significazione, sospingersi fino al confine del visibile, ma, in questa ascensione, non separarsi dal sentire, dalla corporeità del sentire, dal ritmo fisico del vivente. La parola, nel libro Per il battesimo dei nostri frammenti, è sostanza dell’interrogazione poetica, e per questo come esergo d’apertura il poeta sceglie il luogo più alto, nella cultura occidentale, di una rappresentazione della parola, quel principio intorno al quale si è affannata la grande esegesi patristica, il versetto dal Prologo di Giovanni (1, 4): “In lei [la parola] era la vita; e la vita era la luce degli uomini”.

 

Con Mario Luzi più volte mi è accaduto di parlare di poesia – considero quegli incontri come un dono e tra le esperienze più belle che mi sono occorse lungo gli anni –, più volte mi è accaduto di conversare intorno a Baudelaire e a Leopardi, campi di condivisa ricerca e di forte intesa interpretativa, ma rimpiango di non avergli mai domandato in modo esplicito (qualche allusione sarà pure trascorsa) – quale rapporto egli vedeva tra l’esergo giovanneo che apre La Ginestra di Leopardi e l’altro esergo giovanneo che apre il suo Per il battesimo dei nostri frammenti. Quella luce – alla quale “gli uomini preferirono le tenebre” – che compare nell’apertura della Ginestra è la stessa luce che, come parola e vita, apre il libro di Luzi.

 

 

 

La parola del principio (il logos oggetto di tanta esegesi cristiana) è allo stesso tempo vita e luce. Per Leopardi quella parola-vita-luce era il punto di un’anteriorità inattingibile che permetteva di leggere le “tenebre” della civiltà, di una civiltà che rimuoveva ogni senso della finitudine e si avvolgeva in una vanagloriosa illusione di potere sulla storia e sulla natura; per Luzi invece quella parola-vita-luce trascorreva ancora nel visibile, nel sensibile, forse anche nella tessitura nascosta della storia, e davanti alla sua perseguita umana cancellazione, il poeta poteva tentare di istituire un tempo del dire, e del pensare, in grado di preservare di quella parola se non la presenza, almeno l’immagine, il ricordo, l’attesa. Insomma la parola della poesia può farsi evocazione e insieme custodia di quell’altra parola che, come vita, aiuta a scorgere ovunque le pulsazioni del vivente, e come luce aiuta a vedere sino ai confini del visibile.

 

 

 

 Monet, Ninfee

 

 

È poi questo movimento che permette alla poesia di Luzi di farsi poesia del tempo e della creaturalità, cioè di quel mostrarsi dei viventi e del paesaggio, intesi come rivelazione luminosa, e tuttavia ferita, di un mondo che ci appartiene, come ci appartiene il transito, il cammino, l’attesa. Si pensi alla sezione bellissima di Per il battesimo dei nostri frammenti intitolata Dal grande codice, dove in versi di grande respiro – musicale e visivo e teoretico insieme – la pernice, la rondine, la trota, il fiume si mostrano come figure che portano in sé, nel loro apparire, nel loro grido, nel loro movimento, nel loro rapporto intimo con l’elemento naturale, la pienezza della vita, di quella vita che è “vita soltanto”.

 

 

 

Qui, in questi versi che cominciano con “Vola alta, parola”, è la cosa che si rivolge alla parola, in una sorta di fantasticato sdoppiamento tra le due: “sogno che la cosa esclami / nel buio della mente”. È una voce interiore, di fatto, voce meditativa e interrogativa. In questo agostiniano teatro interiore di voci, la cosa, – diciamo il visibile, l’accadimento, la materia del dire e del ricordare – chiede d’essere portata nel nome e con il nome in quella profondità (ancora la profunda profunditas di Agostino) che è pienezza di significazione, in quella vertigine di conoscenza che è soglia dove è possibile sfiorare, ritraendosene, l’ineffabile: non mimesi di quel sublime di cui tante volte la poesia si è solennemente ammantata, ma dantesca ascensione della parola che nel volo possa avere esperienza piena del vedere e del sentire. C’è qualcosa, in quel volo della parola, che ricorda il leopardiano “Forse s’avess’io l’ale /da volar su le nubi” del Canto notturno e il baudelairiano volo che in Élevation può ascoltare e comprendere “le langage des fleurs et des choses muettes”: anche se nel primo caso la pronuncia del desiderio, o del sogno, è un lampo presto spento nel cielo del tragico, e nel secondo caso lo sguardo dall’alto invoca un’alterità in grado di sottrarsi con la poesia alla prigionia del sempreguale, della superficie, dell’apparenza.

 

 

 

E certamente la poesia di Luzi è anch’essa lungo quella linea di una moderna reinterpretazione (e messa in questione) dell’antico sublime – nell’orizzonte del tragico – di cui Leopardi e Baudelaire sono passaggi rilevantissimi.

 

Echi di una nominazione creaturale – cioè di una condizione in cui la corrispondenza intima tra il nome e la cosa è sostanza della parola (su questo il saggio di Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini ha passaggi essenziali) – trascorrono in questi versi di Luzi. Ma c’è anche un riflesso di quella ricerca che dai romantici giunge fino a Rilke, per la quale la parola può rivelare, accogliere e preservare nel nome la presenza della cosa, il suo essere, con la sua trasparenza e la sua anima.

 

 

 

Luzi mette, dunque, in scena un dialogo interiore, e quel che poteva essere un passaggio di poetica, di riflessione sul fare poetico, sul rapporto tra la parola e la cosa, diventa poesia: un movimento drammaturgico che è respiro consueto della scrittura poetica di Luzi.

 

Portare l’alta, sacra, metonimia di parola-vita-luce verso un’intima concordanza, verso un’unità, è andare oltre la metafora, oltre “il giogo della metafora” evocato nello stesso libro poche pagine prima (“Scioglile da quel giogo, /lasciale al loro nume / le cose che nomini”), è cercare nella parola l’intima presenza del sé. È fare della parola poetica, potremmo dire in una formula compendiosa, non una metafora ma una metanoia.

 

 

 

In questi versi il poeta nomina un cammino della parola verso un “celestiale appuntamento”, verso un approdo che è pienezza e profondità di significazione: “nel buio della mente” la cosa chiede che la parola non sia parola scorporata, sovrasensibile, astratta, ma preservi in sé il “caldo” della vita, o almeno il suo ricordo, e sia “luce, non disabitata trasparenza”. In questo auspicato cammino della parola, altro da quello della parola inerte, logora, consumata nella ripetizione e nell’insignificanza, c’è il cammino stesso del poeta. Un cammino che – da La barca, del 1935, a Primizie del deserto, del 1952, da Onore del vero, del 1957, a Su fondamenti invisibili, del 1971, da Per il battesimo dei nostri frammenti, del 1985, a Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, del 1994, per dire solo di alcune memorabili stazioni – ha fatto della parola poetica un’assidua e strenua meditazione sul tempo. Il tempo, il suo fluire e perdersi e ciclico ritornare, il suo lampeggiare risalendo da quel che è stato verso una nuova presenza, il suo consumarsi nell’attesa o raccogliersi nel ricordo, il suo mostrarsi e dissiparsi nella lontananza stellare, il suo rifrangersi nella speranza, il suo farsi storia e ferita nella storia, il tempo, insomma, in tutte le sue risonanze, è il respiro più proprio della poesia di Luzi. Una poesia che sta, agostinianamente, nell’immenso paese dove il tempo è corpo, memoria, attesa, caduta, addio, annuncio, transito. Pietre, acque, nuvole, vento, alberi sono, nella poesia di Luzi, tempo. Come lo è il fiume, presenza assidua e quasi emblema di una poetica.

 

La parola, dunque, che non può essere “disabitata trasparenza” è la parola che prende su di sé il tempo, il tempo del vivente.

 

 

 

L’ultimo verso, separato, è un margine alla scena allocutoria: “La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?”.

 

Un domandare che aggiunge una nuova figura, l’anima, e si fa cornice del dire poetico. Uno sdoppiamento tra la cosa e l’anima che è ombra di altro: la sofferenza del poeta, della sua anima. L’ultimo verso riporta nel cerchio doloroso del sentire quei segni del corpo individuo disseminati lungo la poesia: “da me”, “di me”, “il mio ricordo”, ovvero quell’insistenza tutta fisica su una presenza – corpo, sensi, desiderio – che la parola non deve abbandonare, mentre cerca luce e trasparenza. Ma la parola non disincarnata, la parola che attinge la luce senza perdere il sé, è parola della sofferenza, perché è vita.

 

La poesia che segue, nel libro Per il battesimo dei nostri frammenti, è parola che accoglie presenze, ricordo di presenze, mentre osserva il “vorticare /della vita dentro i suoi recinti”. E questo nella luce. Nella luce piena che apre la sezione Dal grande codice:

 

 

 

Genera azzurro l’azzurro,

 

si sfalda e si riforma

 

nelle sue terse rocce,

 

si erge in obelischi, scende

 

nelle sue colate e frane

 

di buio e trasparenza, migra

 

nell’azzurro fumigando, azzurro

 

 

in azzurro sempre –

Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest’albero mutilato

 

Un verso

 

Antonio Prete

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

 

 

È il verso che apre la poesia I fiumi, di Ungaretti. Il titolo ha, come per gli altri testi poetici di Il porto sepolto, un sottotitolo relativo al luogo e alla data di composizione: in questo caso, Cotici il 16 agosto 1916. Un titolo, un luogo, una data: la poesia come parola che accoglie la situazione, ovvero la fisicità del tempo e la visibilità dello spazio, ed è a partire da questa presenza che prende movimento il sentire, oltre che la pronuncia del sé. Che può essere un sé tumultuante o quieto o indecifrato. Cotici è località prossima a San Michele del Carso, teatro di guerra, dunque di trincee, di notti insonni, di assalti nel fumo del fuoco nemico e amico, di caduti, di feriti. Questi e altri versi del Porto sepolto sono scritti, come racconterà il fante Ungaretti, su foglietti: “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute”, ma anche, come dirà ancora, “pezzetti di carta strappati agli involucri delle pallottole”. Foglietti conservati via via nel tascapane, e consegnati un giorno al giovane tenente Ettore Serra (fu costui, in una licenza, a stampare quei versi, a Udine, sul finire del 1916, in un’edizione di 80 esemplari). Nella successiva guerra mondiale, nel corso della Resistenza, un altro poeta, René Char, nel maquis in Provenza, scriverà anch’egli i suoi versi su foglietti casuali: nascosti, prima della notturna partenza in volo per l’Algeria, negli anfratti di un muretto a secco, i versi saranno poi recuperati, e avranno il titolo di Feuillets d’Ypnos. Li tradurrà in italiano Vittorio Sereni.

 

 

 

Il primo verso di I fiumi, Mi tengo a quest’albero mutilato, apre la scena della desolazione, la scena del terreno di guerra, con il disegno di due figure congiunte, appoggiate l’una all’altra in un prima o in un dopo della furia bellica, in una sorta di momentanea sospensione del tempo tragico, che però manderà via via, lungo i versi, i suoi cupi bagliori. Due figure, dicevo: il mi che delinea la presenza di un corpo – il corpo che prende la parola – e l’albero che si mostra nella sua nudità offesa, nella sua mutilazione, corpo d’albero che in quanto anch’egli vivente è dalla guerra ferito, come altri corpi umani che sono fuori dalla scena. Un appoggio – tenersi a un albero – ma anche una solidarietà con un elemento della natura che qui, in questo suo mostrarsi ad apertura di scena, raccoglie come in un emblema il dolore della guerra, il dolore di tutti i corpi dilaniati o feriti nella guerra. Il mi e il questo di un primo verso endecasillabo rinviano a un altro primo verso del poeta più amato da Ungaretti, quel Leopardi che insieme a Mallarmé è stato all’origine della stessa vocazione alla poesia: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Sia il mi sia il questo, un riflessivo e un deittico, come è accaduto nell'Infinito leopardiano, si rifrangeranno come un’onda nel resto della poesia, a dire sia la presenza corporale da cui muove la parola poetica sia la presenza forte e la prossimità del visibile da cui muove il rapporto con l’oltre. In Leopardi questo oltre è l’odissea di una rappresentazione impossibile, e tuttavia tentata, dell’infinito nel pensiero; in Ungaretti questo oltre è l’altrove che nel vuoto del sentire spalancatosi col tragico prende la forma dell’appartenenza a quel che è lontano e che, inattingibile, è memoria e figura sensibile: i propri fiumi, ai quali è un fiume prossimo, il fiume della guerra, l’Isonzo, a rinviare.

 

 

 

Il suono del primo verso dà rilievo alla presenza dell’albero, posto al centro: l’accento sulla quinta (la a di albero), ritenuto perlomeno inconsueto dalla tradizione dell’endecasillabo, mostra subito che sulla misura metrica prevale il ritmo, e questo in relazione con un dire che dà alla parola la sua evidenza di segno: segno di un’interiorità immaginativa e riflessiva. Ma ecco la strofa cui appartiene il verso:

 

 

 

Mi tengo a quest’albero mutilato

 

abbandonato in questa dolina

 

che ha il languore

 

di un circo

 

prima o dopo lo spettacolo

 

e guardo

 

il passaggio quieto

 

delle nuvole sulla luna

 

 

 

L’amor che move il sole e l’altre stelle

 

 

 

L’ultimo verso del Paradiso di Dante, l’ultimo verso della Commedia. Certo, è un verso che viene dopo l’ultima terzina, conclusivo, ed è parte di una frase poetica, che è questa:

 

    

 

     ma già volgeva il mio disio e ‘l velle

 

     sì come rota ch’igualmente è mossa

 

     l’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

   

 

L’amore, quell’amore che è principio e anima dell’universo, quell’amore che muove il sole e le stelle, volgeva già il desiderio del poeta e il suo volere, lo volgeva, cioè accoglieva, nel suo ritmo, come ciascun punto di una ruota partecipa del movimento che ad essa è impresso. L’ultimo verso dice, dopo l’estrema visione, l’appartenenza dell’essere umano, di ogni essere, al ritmo dell’universo, all’unico movimento, un movimento che ha come sorgente e anima l’amore. Il libro della Commedia, il grande viaggio nei tre regni in cui vivono passioni e memorie e gesti e fremiti e sogni e fantasmi terrestri, ha al suo estremo la sconfinata apertura di una fisica cosmologica nella quale principio e respiro, energia e movimento sono compendiati nella parola amore. L’ultimo verso rinvia certo al movimento che apre la prima cantica, “La gloria di colui che tutto move”, ed ha la stessa apertura verso il cielo notturno e stellato, che è detta nella chiusa delle precedenti cantiche, dove sigillo ed emblema è ugualmente la parola stelle: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, ultimo verso dell’ Inferno, “Puro e disposto a salire alle stelle”, ultimo verso del Purgatorio. Ma qui sentiamo che la congiunzione di amore e stelle (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”) è misura e respiro dell’universo e compendia tutta la tradizione che ha legato l’amore, la poesia d’amore, alla cosmologia, al cielo stellato, al desiderio d’infinito.

 

 

 

Dante dà fondamento anche con questo ultimo verso – “l’amor che move il sole e l’altre stelle” – alla poesia d’amore occidentale, la quale declinerà in mille varianti la relazione tra l’amore e l’orizzonte cosmologico e stellare. Ma quest’ultimo verso raccoglie anche, come in uno sconfinato abbraccio, tutto quel che il canto, il XXXIII del Paradiso, il canto dell’ultima visione, ha messo in scena. A partire dalla preghiera di san Bernardo alla Vergine, nel corso della quale il santo indica, come in una pala d’altare, il poeta, il penitente giunto al termine della sua peregrinatio nell’oltremondo. Il poeta è invitato da Bernardo, dopo la bellissima sua intercessione, a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Dove si dischiude il trionfo della luce. La luce, qui, è pura luce, non affidata a raffigurazioni di colori e forme: non ci sono esseri di luce con il loro volto, le loro ali fiammeggianti, le loro vesti abbaglianti. La luce è tutta dispiegata nella sua astrazione, nella sua coincidenza con la verità, potremmo dire. Portare nella lingua il sentimento di questa visione di luce è impossibile, c’è solo il resto, il riflesso, la traccia, di questa visione: come il sentimento del sogno che persiste dopo che il sogno è svanito, lasciando una diffusa dolcezza, come la neve che al sole si scioglie, si dissigilla, come le foglie lievi su cui la Sibilla scriveva i responsi, foglie subito perse nel vento. Una dolcezza resiste dopo la visione. E il lettore può evocare la stessa dolcezza che appare nell’ultimo verso dell’Infinito leopardiano, “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, anche quella dolcezza resto di un’estrema impossibile visione.

 

 

 

 

Ma lo sguardo di Dante tenta l’azzardo: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Riesce a vedere “la forma universal di questo nodo”, il nodo che unisce sostanze e accidenti, il nodo che lega ogni cosa del mondo: respiro dell’universo, del suo ordine. Ma si può rendere visibile, dicibile la divinità? Dante ne dà solo una similitudine: tre cerchi “di tre colori e d’una contenenza”. Solo un’approssimazione, una terrestre raffigurazione. In quella “luce eterna” che è intendimento di se stessa, amore di se stessa, ordine impenetrabile, fondamento che sfugge allo sguardo, il poeta non può penetrare, e tuttavia gli sembra che in quella luce traspaia un colore, un’immagine: “mi parve pinta della nostra effigie”. È l’immagine della terrestrità, del vivente umano osservato nel cuore di uno splendore indecifrabile. E il poeta si ferma dinanzi a ogni altro azzardo della comprensione, e della visione, come il geometra dinanzi al problema della quadratura del cerchio, si attesta sulla soglia delle approssimazioni per immagini, della lingua come luogo delle parvenze, delle tracce, dei riflessi d’una verità sottratta da sempre alla comprensione. Un ultimo fulgore percuote la mente e porta il desiderio di conoscenza verso la sua meta, ma in quell’istante cessa ogni fantasia, deflagra ogni potenza fantastica. Il poeta è già nel cuore di quel movimento che ha l’amore come principio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.


Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi

Un verso

Antonio Prete

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono : frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

 

 

Leopardi, A Silvia: il verbo da cui questo verso dipende, da cui pende come una collana, sta nel verso precedente: splendea. “Quando beltà splendea /negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”. Ridenti e fuggitivi: due modi dell’apparire, contrastanti, accostati per la prima volta nella poesia italiana. Il riso degli occhi: nella galleria della figurazioni femminili, il lampeggiamento del riso negli occhi appartiene anzitutto alla Beatrice di Dante. Il "viso ridente", il "dolce riso" , gli "occhi rilucenti", "li occhi suoi ridenti". Un riflesso che unisce quella luce degli occhi ai cieli, il riso degli occhi al "riso dell'universo". Fisiologia dell'amore e teologia dell'amore si congiungono in questo mostrarsi della luce come sorriso. Ma questa radice teologica dell'amore è estranea al verso leopardiano.

 

 

 

Qui il riso degli occhi è circoscritto nel tempo fuggitivo dell'esistenza umana. Silvia ora è solo parvenza. Il riso degli occhi suoi lampeggia nel tempo di una mortalità crudele. È una luce che appare come già stata. Transitorietà della bellezza: John Keats questa bellezza che declina l’ha descritta anch’egli come tremito di luce negli occhi, e insieme nel paesaggio. Negli occhi della Silvia leopardiana il declino è detto dal contrasto tra lo sfolgorio del sorriso e il gelo della finitudine, tra l'onda di vita che c’è in quel sorriso e il corpo d'ombra degli ultimi versi:"... e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano". Un corpo luminoso e un corpo d'ombra. Un corpo d’ombra come l'Euridice di un bellissimo poemetto di Rilke, Orfeo, Euridice, Ermes. Negli occhi ridenti di Silvia c'è il riflesso del riso della natura, della primavera.

 

 

 

 

 

 

 

Questa corrispondenza tra il riso della natura e il riso degli occhi attraversa la poesia: ancora la Beatrice della Vita Nuova, Petrarca nel Canzoniere, il Tasso delle Rime, e Leopardi stesso nelle Ricordanze: "Nerina mia, per te non torna / primavera giammai, non torna amore". Ma la relazione – di velature e di contrasti – tra "ridenti" e "fuggitivi" sbalza il verso leopardiano sopra gli altri versi. È proprio questo reciproco illuminarsi e ombreggiarsi di "ridenti" e "fuggitivi" che dà al verso leopardiano il suo singolare, unico timbro. Certo, c’era già un petrarchesco "fugitivo raggio", ma si tratta di un annuncio molto parziale, perché privo di quella polisemia che sfavilla nell'aggettivo leopardiano. L’energia di quel "fuggitivi" è proprio nel legame con "ridenti". Legame assente negli esemplari di Dante, Petrarca, Tasso. Leopardi, componendo, ha variato più volte ridenti, ma non ha mai toccato fuggitivi.

 

 

 

Da "ridenti" a "fuggitivi" c'è uno slargarsi e, insieme, un incresparsi del senso: il mostrarsi luminoso dell'immagine è accompagnato, e sfumato, dal tremito di un'ombra, perché c’è nel fuggitivi il ritrarsi pudico degli occhi, c’è una verecondia che combatte con il desiderio, e c’è anche una malinconia dello sguardo, presagio del declino, della caducità. La luce degli occhi "ridenti e fuggitivi" si raccoglie tutta in un lampo. Sarà l’"éclair", il lampo, degli occhi della passante di Baudelaire, nel rumore di una strada parigina: in quel lampo degli occhi ci sarà l'esperienza di un amore non vissuto ma più forte di un amore vissuto.

 

 

 

 

Come non richiamare l'immagine di Silvia dinanzi al mostrarsi della passante come "fugitive beauté", come bellezza fuggitiva? La passante di Baudelaire apre la sequenza delle fuggitive: in Proust, nella poesia di Sbarbaro, di Campana, di Machado. Eppure, osservati da questi margini, gli occhi "ridenti e fuggitivi" di Silvia mostrano che è davvero irripetibile e inconfondibile il cerchio d'ombra che dà risalto al loro fulgore. Ma sia la luce sia l'ombra provengono da tutti gli altri versi del testo poetico. E dunque, a questo punto, un'altra lettura può avere inizio, seguendo ordinatamente il tempo, e il ritmo del testo poetico: "Silvia, rimembri ancora...".