“ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul corso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il mio spirito
Card Newman
( Apologia pro vita sua,cit pp381-382)
...Sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboli, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del crocifisso amore.."
( da I nomi del bello e il mistero di Dio; Bruno Forte)
Un aprirsi della porta ed entrar nella luce, vivere in un continuo miracolo del presente, Cristo è presente. Nostra gioia.
L'uomo vive Dio nel sentimento del tutto. Tu sei tutto,ma anche tu, se Dio è in te. Nulla vi è al di fuori di te, nulla tu puoi cercare, perché quello che cerchi è già un te, se Dio è in te
Una vita vissuta "per-con-in Cristo" diventa una vita in cui si riscopre la "sacralità di tutte le cose" ed in cui realmente lo Sposo viene ogni giorno, ogni istante, in ogni azione ben ordinata, in tutto e tutti, perché "se crediamo, tutto è segno di Dio".
Divo Barsotti
Il cristiano è sollecitato così come da tutta la Scrittura, a imitare Dio, il mondo e le sue realtà sono un ostacolo alla sua "divinizzazione", alla sua santità, per il cristiano che vive secondo lo Spirito Amore, il mondo e le sue realtà sono la condizione stessa per divinizzarsi, per entrare per ciò che gli compete, nel disegno e nell'economia della salvezza dell'umanità e del mondo. Così come non v'è salvezza del mondo senza l'opera dell'uomo che lo conduce a perfezione, il cristiano non si salva senza il mondo, poichè è chiamato a santificarlo finchè "Dio sia tutto in tutti", Il mondo è il luogo e il mezzo grazie al quale il cristiano " guidato dallo Spirito" raggiunge la sua santità e il suo essere e vivere nell'Amore"
Padre Lorenzo Rossi
Se smarrite la fiducia, cercate i «meravigliatori», coloro che fanno miracoli e vi rigenerano perché vi fanno sentire voluti come figli, appartenenti. Chi sono? Quelli che per amore fanno e quelli che fanno per amore
Alessandro D'Avenia
Dio ha un solo sogno, quello di “ formare casa”. Formare casa dentro la storia. Questo sogno lo condivide con noi e noi raccogliamo questo sogno per poter imparare a fare casa dentro la nostra realtà storica. Per questo dobbiamo prepararci insieme.
Nel momento storico in cui viviamo, questo verbo “ preparare” è importantissimo, perché il tempo in cui stiamo vivendo può trasformarsi solo se lo viviamo come tempo di preparazione.
Il termine importante è la vita. Quella che vogliamo recuperare oggi, che vogliamo ritrovare nella nostra storia, è la vita. Quella che vogliamo sognare insieme è la vita, chiederci quali sono gli spazi di vita oggi, che tipo di vita vogliamo portare avanti, uomini,donne, giovani, anziani. Tutti insieme sogniamo un progetto profondo di vita. E a partire da questa profondità, riscopriamo che la vita è profondamente religiosa, è una vita profondamente abitata dal mistero.
Per tessere un’altra vita dobbiamo incominciare di nuovo a fare tradizione, imparare un’altra volta a leggere e scrivere.. trasmissione profonda degli avvenimenti presenti. Scambiarci questa narrazione, quello che io vedo, ascolto, tocco
Contemplo nel presente.
In questo momento per essere fedeli Dio bisogna essere fedeli profondamente al presente, pensarlo e ripensarlo e narrarlo e dire queste meraviglie nascoste che si fanno, che malgrado tutto continuano a esistere dentro questa storia.
In questo senso noi vogliamo incominciare di nuovo a leggere e scrivere la storia. A partire da questa ritraduzione della storia possiamo cominciare a vivere la circolarità, questa capacità di sederci e incominciare a scambiare la vita.
Noi tutti
Antonietta Potente
L'uomo è chiamato a nascere, venire alla luce, venire al mondo, per tutta la vita.
In ogni ambito, ciascuno nel suo, vivere è creare condizioni di co-nascenza. Solo così smettiamo di oscillare tra voler occupare tutta la scena e voler toglierci di scena, per paura di non esistere abbastanza, e ci apriamo all'unica forma felice di vita, quella che ci permette di nascere fino alla morte: la ri-co-nascenza.
Alessandro D'Avenia
"L’essenziale non è nel raccolto, l’essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza è nelle lacrime, nel rischio, e nel loro silenzio che finalmente fiorisce di Luce”
André Neher
Limiti
Erri De Luca
A 71 anni Borges scrisse: «Alla mia età si dovrebbe essere consapevoli dei propri limiti». Da parte mia sono consapevole dell’innumerevole elenco di cose che non so fare, ma ho il dubbio che i miei limiti non si trovino in quel catalogo. Stanno invece all’interno delle cose che credo di saper praticare, perciò nella scrittura. So per esempio di non saper scrivere un poema. Per aggiungere un altro esempio ecco che le mie frasi sono brevi e non posso allungarle oltre il fiato necessario a pronunciarle. Finirebbero in debito di ossigeno. Questi e altri impedimenti potrebbero costituire uno stile, ma nel mio caso rimangono dei limiti. Al di fuori del mio ristretto ambito mi accorgo di un’epoca inconsapevole di limiti, e insofferente. Si compiace di ambizioni e di affermazioni personali. Il successo è considerato una conferma, mentre è solo il participio passato del verbo succedere. L’epidemia stabilì un elenco di limiti. Lo impose la severa decimazione e la scarsezza di strutture sanitarie a ricezione limitata. Furono a lungo impoverite dai tagli di spesa, da governi di fiato corto e capacità di previsione zero. Non per virtù ma per necessità si è ricostituito un sentimento di appartenenza a una collettività aderendo a restrizioni e rinunce. Indossare la protezione è diventato un atto civico oltre che di cautela personale. Non considero l’epidemia uno stato di eccezione, ma l’avvento di una nuova normalità. Contare sulla restaurazione di un’epoca spensierata è ipotesi che scarto. Preferisco frequentare la scuola dei limiti nuovi
Sentirmi amato
Alessandro D'Avenia
Da bambino in chiesa vidi l’immagine di un uomo che ne aiuta un altro schiacciato da una trave: si trattava di un contadino di Cirene che sorregge un condannato alla crocifissione, Cristo. Quell’immagine non mi consolava, mi guardava e sfidava. Era il contrario di un tranquillante: Cristo non mi ha protetto dalla vita, mi ci ha spinto dentro o contro.
Per un certo tempo anche io ho vissuto il rapporto con Dio secondo il meccanismo al cuore del sacro in ogni tempo: il sacrificio, cioè io rinuncio a qualcosa per Dio, così lo controllo e mi protegge.
Cristo invece dice: «Misericordia io voglio e non sacrificio»(Mt 9), ponendo fine al rapporto commerciale e sacrificale con Dio (se fai il bravo e ti sacrifichi per lui, Dio ti ama) e inaugurandone uno gratuito (Dio già ti ama, non vuole niente se non che tu lo sappia e lo sperimenti). Cristo è stato ucciso perché metteva in crisi il sistema sacrificale e di potere degli uomini, per restituire all’uomo l’energia creativa e libera dell’amore al posto di quella distruttiva e ripetitiva del potere: non domino dunque sono (qualcuno), fonte di ogni violenza e frustrazione, ma sono amato dunque (vado bene come) sono, fonte di ogni creatività e crescita. Per questo un giorno ho compreso il paradosso di Dostoevskij: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». In una situazione molto dolorosa in cui «la verità» e Cristo si separavano, seguendo Cristo, ho scoperto che quella che ritenevo verità era solo una mia ideologia utile a sentirmi sicuro o migliore, gonfiava il mio ego e copriva la mia mancanza di amore.
Per questo non amo il binomio credente/praticante che riduce la fede da relazione a prestazione. È come chiedere a un innamorato: credi alla tua amata? E la frequenti? O ami o non ami, non è un hobby ma la vita intera: più sei innamorato più diventi attivo, creativo, attento. E si vede, non devi dirlo. Essere amati e amare (cioè ri-crearsi e ri-creare il mondo, ogni giorno, con l’inventiva e l’energia che l’amore ha e dà) è l’unico modo che ho trovato per godermi la vita. Cristo, se è Dio fatto uomo, non è la favola che spinge a puntare sull’aldilà, ma una sfida lanciata all’aldiquà.
Cristiano non significa buono, serioso, angelico, perfetto, ma imperfetto, sveglio, inquieto, innamorato, creativo, combattivo, di buon umore, nei limiti dei propri limiti che diventano bellezza, come il ruscello che feconda i campi correndo negli argini e cantando quando trova un ostacolo.
Come accadde al Cireneo che vidi da bambino non solo mi sento dire: «Dammi una mano, guardati intorno, non scappare, moltiplica la vita in e attorno a te», ma nascono in me energie che vincono la mia pigrizia, indifferenza ed egoismo. E soprattutto la noia. Per me Cristo è adrenalina non oppio, vita che sveglia la vita: inferno, purgatorio e paradiso non sono posti in cui andrò, ma posti in cui sono già in base a quanto amore (vita) ricevo e do. E nessuno come Cristo — e coloro che me ne hanno mostrato il volto, dai miei genitori a don Pino Puglisi (professore di religione della mia scuola, ucciso dalla mafia all’inizio del mio quarto anno di liceo) — mi ha fatto scoprire l’eros della e per la vita. Da Cristo ho imparato la distinzione tra essere vivente ed essere vivo. Mi trovo bene con uno che «salva» il mondo, spendendo trenta di trentatré anni a fare il falegname in un paesino sperduto. Per essere pienamente me stesso non conta che parte io reciti nel teatro del mondo, ma se vivo tutto per amore e per amare. Non è un modo per farmi piacere la vita — ne scorgo e soffro i limiti con il dolore che la passione per la bellezza comporta — ma per non voltarmi dall’altra parte.
Anche in croce Cristo non smette di amare, la sua «passione» è eros per l’uomo e per Dio. E anche io voglio vivere sempre di e con «passione», libero dall’illusione che la felicità consista nel proteggersi dal male e dal dolore, quando è invece vivere tutto, anche il dolore e il male, per e con amore. Così sto a poco a poco imparando a sostituire la domanda «perché mi accade questo?» con «che ci faccio con questo che mi accade?», perché al momento della morte vorrei poter dire: «nulla è andato sprecato». Non so com’è che tutto ciò avvenga, succede grazie alla relazione quotidiana con lui, che più che una presenza è una mancanza: la mia preghiera preferita è «mi manchi». Ma proprio la mancanza mi rende vivo, come testimonia nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea morta nel lager che, ribaltando la prospettiva del «dato questo orrore non si può credere in Dio», scriveva nel 1942: «L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio… E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te». E così si impegna a renderlo presente agli altri in quell’inferno, non usando il male come alibi per fare altro male o per disperarsi, ma per superarlo con un bene, anche minuscolo. Infatti nella stessa pagina Etty annota: «Adesso apparecchio la tavola». Dove qualcuno apparecchia per amore c’è Cristo, cioè Dio che s’incarna in chi glielo permette vivendo con «passione» ogni situazione.
Risolvendo in anticipo il paradosso di Dostoevskij, Cristo ha detto di essere lui stesso la verità, e non perché lo riducessimo a religione, libro o regole, ma perché in lui verità e vita sono la stessa cosa. In che modo? Nel vivere tutto come relazione, che per Lui è la relazione d’amore con il Padre e con gli uomini: egli è sempre generato dal Padre come figlio e uomo, cioè è sempre ri-generato, persino quando muore. Anche io, attraverso i vissuti quotidiani della relazione (gesti, i sacramenti; dialogo, parole e silenzi della preghiera; e amici, la vera chiesa), vengo sempre ri-generatocome figlio e uomo, cioè come uno che riceve, in ogni istante, quello di cui ha bisogno per vivere per amore e per amare, anche quando sono schiacciato dai miei limiti, paure, ferite, fallimenti… Così resto libero perché non mi identifico in qualcosa che rappresento, che ho o so fare (o che non ho e non so fare), o che mi capita, perché so a chi appartengo e chi sono: non devo affermare me stesso, perché sono già «affermato» dall’amore. Devo solo imparare ad amarmi e amare nella misura in cui sono amato.
Per Freud, Marx o Nietzsche forse sono un illuso, ma io Cristo me lo tengo stretto, come Dostoevskij. Non mi serve a farmi piacere la vita, ma a fare della vita un piacere, come quella donna che, in una nazione asiatica dove i cattolici sono un migliaio, si è presentata dal sacerdote chiedendogli il battesimo. Lui, stupito perché la donna non sapeva nulla della fede, le ha chiesto come mai, e lei ha risposto mostrandogli un crocifisso: «Perché con lui mi trovo bene». Nel tempo ho scoperto che mentre si cerca di fare il ritratto al Dio invisibile, come la bambina del disegno, si dà il meglio di sé, perché Dio non è il fine dei nostri desideri ma l’origine, e quindi, in verità, è Lui che fa il ritratto a noi, solo che usa i colori che noi preferiamo. Così il suo ritratto si rivela essere anche il mio e il nostro, come nel sorprendente Autoritratto che Albrecht Dürer dipinse nel 1500 identificandosi con Cristo o come il monaco e pittore Epifanio che, non riuscendo a trovare un modello adatto per dipingerne il volto, decise di prendere il tratto più vero di ogni persona che incontrava: il sorriso di un bambino, la tristezza di una prostituta, la malinconia di un mendicante, la gioia di un’innamorata, il dolore di una madre in lutto, la forza di un contadino… Come posso quindi ritrarre Cristo? Con la poesia che Raymond Carver, scrittore americano morto di tumore a 50 anni, ha voluto fosse incisa sulla sua lapide, poesia che lui stesso aveva scritto: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra».
Trafitto da un raggio di sole
Erri De Luca
Il concorso.. reparto oncologico, tra i malati terminali si sente gridare una giovane donna. Attraverso la cannula dell’intubazione orale, in maniera indistinta la donna continua a ripetere: «Ho vinto il concorso! Ho vinto il concorso!». Non è il tripudio per un prossimo incarico, impossibile da ricoprire. È l’ultima vittoria della sua vita sconfitta. Il concorso: chissà quale, chissà quanto desiderato e meritato. Il concorso, traguardo che inaugura una nuova condizione per chi lo consegue. Per lei no. È la formula del suo addio, l’ottenuto riconoscimento del suo valore. È medaglia appuntata sul petto appena in tempo. In tempo, sì, proprio quando non ce n’è più, quando è scaduto e sgocciola dalle flebo. Ce l’ha fatta, ha vinto il suo concorso. Lo grida da intubata, accorre il personale medico e nel reparto piovono le impensabili congratulazioni. Conosco poesie e preghiere sulla travolgente forza della vita. Una brevissima dice: «Trafitto da un raggio di sole». Il suo concorso vinto, esclamato a gola strozzata, scrive la variante di quel raggio, un verso che non posso dimenticare. Non è stata sconfitta, morendo con un grido di vittoria.
Vito Mancuso “La felicità contro la superficialità”
Vito Mancuso filosofo italiano, intreccia spiritualità e razionalità per dare senso al mistero dell'esistenza. In Non ti manchi mai la gioia invita a coltivare la felicita come resistenza contro la superficialita, riscoprendo la bellezza nelle piccole cose.
Riflessione centrale è l'acqua, simbolo del fluire della vita che modella l’esistenza come fa con le rocce di un flume. L'acqua racchiude la memoria della creazione, rappresentando il divenire continuo che ci guida verso la gioia nutrimento dell'anima. Di questo e molto altro Mancuso parlerà venerdì 6 settembre alle 17.30 a Comano Terme in occasione della rassegna Trentino d’autore.
Mancuso, in «Non ti manchi mai la gioia» lei descrive i momenti di stallo come situazioni in cui ci sentiamo incapaci di avanzare. In che modo possiamo affrontare questi momenti?
«Non c'è nulla di buono senza la chiarezza mentale che nasce dalla conoscenza. Per affrontare i momenti blocco serve saperli riconoscere: conoscere un problema non basta per risolverlo, ma ignorarlo lo aggrava quindi è essenziale prenderne coscienza. Per capire, bisogna prima capirsi. E per capirsi, è necessario ritagliarsi momenti di silenzio isolamento e solitudine, condizioni in cui anziché ascoltare gli altri, ascoltiamo noi stessi. Solo così роssiamo реrсерire il disagio e andare in profondità» …
Nel libro evidenzia che la lotta contro l'impotenza è una costante nella storia dell’umanità. Com'è cambiata questa lotta e quali sono differenze tra passato e presente?
«Prima ci si doveva conformare a un canone, a una tradizione, a un’autorità: l’individuo raggiungeva la sua potenza, il suo benessere, la sua realizzazione quando s’inseriva in un modello comunitario perché si viveva in una società religiosa nel senso sociologico del termine. Mi riferisco a ciò che rilega e unisce. Anche se uno non credeva o non partecipava ai sacramenti, la società rimaneva un punto di riferimento. Ora abbiamo una fortissima individualizzazione, non c’è più un riferimento collettivo, ciascuno è signore di sé stesso. L’individualizzazione accoglie aspetti negativi, come l’individualismo, ma anche positivi come la valorizzazione dell’individualità».
Lei parla di una fede moderna che celebra il culto dell’Io, paragonandola a una forma di narcisismo. Quali sono i pericoli? Il narcisismo contribuisce a una sensazione di prigionia interiore?
«I pericoli di questa deriva li trovai scritti in maniera profetica da Shakespeare, in Troilo e Cressida: “Tutto avrà nome potere e il potere volontà, e la volontà desiderio e il desiderio, lupo universale, assecondato doppiamente dalla volontà e dal potere farà dell’intero universo la sua preda per poi, alla fine, divorar sé stesso“. Una frase scritta nel 1600 che trova oggi una totale realizzazione. Questo lupo universale che ognuno di noi ha dentro di sé non conosce ostacoli e desidera. La manifestazione del narcisismo si verifica quando siamo convinti che non ci sia niente di superiore al proprio io, al proprio desiderio. E il risultato è l’appetito da lupo. Il lupo universale di cui parla Shakespeare vuole fare dell’intero universo la sua preda per poi divorare sé stesso. Ma noi siamo relazione: stiamo bene quando siamo in una relazione armoniosa. Quando l’armonia delle relazioni viene meno a causa dell’aggressività del desiderio, sul momento, chi vince ha un senso di potere e pensa di stare bene. Ma poi viene divorato. Per questo il desiderio come divinità assoluta ci consegna a una solitudine ontologica».
Come possiamo aprirci a una vita più autentica?
«Capendo la nostra posizione: si tratta di compiere all’interno di noi quella fondamentale rivoluzione copernicana, cioè passare dall’immaturo geocentrismo, ovvero l’egocentrismo, alla maturità di chi comprende di non essere il centro perché il centro non esiste, si va costruendo mano a mano. La maturità consiste nel trovare qualcosa di più importante del nostro singolo desiderio trasformandolo in aspirazione. Non si tratta di sopprimere il desiderio, come sottolineano alcune tendenze religiose e ascetiche, ma di riorientarlo. Questo avviene col passaggio all’eliocentrismo, quando troviamo la stella attorno cui gravitare. E comprendiamo la portata delle relazioni rispetto ai grandi valori come il Bene, la Giustizia, la Bellezza, la Verità, l’Amore».
Come raggiungere un equilibrio interiore?
«Ognuno deve trovare la via giusta per sé. La spiritualità è ad personam. Ci sono persone per le quali la via giusta è la preghiera del rosario, per altre invece è impossibile pensarlo e preferiscono la meditazione buddista. Altre ancora raggiungono l’equilibrio camminando nella natura, nella musica, nelle chiese vuote. Ciò che è decisivo è la connessione con qualcosa che è più grande di noi, quella metanoia, cioè il cambiamento della mente che consiste nel seguire la stella proprio come scrisse Dante nelle parole che fa pronunciare a Brunetto Latini: “Se tu segui tua stella, non fallirai a glorioso porto”. La ricerca spirituale consiste nel trovare la tua vita, quella che ti mette maggiormente in pace con te stesso e in connessione con il centro del mondo, con l’anima mundi».
Che cosa rappresenta per lei la gioia profonda di vivere?
«È necessario fare una distinzione tra felicità e gioia. La prima riguarda la psiche e richiede movimento: è quando saltiamo, gridiamo, corriamo. La gioia, quella vera, è pace interiore. Non è una risata ma un mezzo sorriso, come dicono gli spirituali. È la pace del cuore, la quiete di chi si sente a casa, al sicuro. È avere la possibilità di affidare il proprio spirito».
Un’ultima domanda. Nel suo pensiero quale significato attribuisce all’acqua, sia in senso letterale che simbolico?
«Non esiste cosmogonia al mondo che non ponga all’inizio di tutte le cose l’acqua. La mente umana lo ha sentito fin dal principio come elemento originario della vita. E oggi lo attesta la scienza: la vita è nata in ambiente acquatico. Perché l’acqua favorisce le relazioni tra gli elementi: li scioglie, li ammorbidisce. E li rende capaci di relazionarsi l’uno con l’altro».
Graziato
di Alessandro D’Avenia
La misura della felicità è la gratitudine. Alla fine di ogni giorno, anche il più difficile, cerco di scegliere qualcosa per cui ringraziare e alla fine di ogni settimana scrivo su un foglio quale è stato il dono più bello, così da avere alla fine dell’anno un «salvadonaio» di una cinquantina di «presenti» che hanno reso unico l’anno «passato». Volevo partire da qui per «riprendere» la rubrica dopo la pausa estiva. La «ripresa» è ben diversa dalla «ripetizione»: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport... vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. Diverso è «riprendere»: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima... Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti «ripetente» è sinonimo di bocciato e «mi sono ripreso» di salute: facciamo una «ripresa» quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia «ripetuto» ma «ripreso»?
Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. Atena interviene sovente per versare su Ulisse la charis, grazia, che lo rende bello e luminoso come un dio (ne rimane traccia nel nostro «carisma»). La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive. Ricordo le parole di una cugina pochi mesi prima di morire, non la vedevo da tempo e, dopo averle raccontato del periodo difficile che attraversavo, lei, con gli occhi di chi vede oltre le apparenze, mi ha detto: «Sei ammaccato, è vero, ma sei molto più bello». Avevo grazia. La grazia quindi non riguarda solo ciò che è piacevole, il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. Per me è stata una grazia scoprire la mia chiamata a insegnare da giovanissimo ma lo è stata anche grazie all’insufficienza nella mia prima interrogazione in greco, che è così diventato la mia passione. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. Nel racconto evangelico, quando Maria riceve l’annuncio, il messaggero divino la chiama «piena di grazia», ma trattandosi di un verbo si potrebbe tradurlo anche «fatta di grazia, riempita di dono». La radice è sempre quella dell’omerico charis. Ne rimane traccia nel nostro «graziato» per chi scampa la morte o in «grazioso», versione per lo più meridionale forse più sopportabile di «carino». In italiano restano poche tracce della potenza salvifica e quotidiana di questo termine, e i «colpi di grazia» non danno la vita ma la morte. La grazia è invece la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. A Maria veniva annunciata la possibilità di rimanere incinta in modo misterioso e quindi di essere considerata da tutti un’adultera. Sembra paradossale ma quella grazia, essere la madre di Dio, avrebbe comportato un’onta allora meritevole di lapidazione. Per questo non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire. Nel recente film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella. L’aragosta quando deve crescere si nasconde, si spoglia della scorza rigida, rimane in carne viva fino a che non si forma una nuova corazza. È un momento di paura, nudità, dolore, ma necessario alla sua vitalità. Il giorno del mio matrimonio un’amica mi ha chiesto di riassumere in una sola parola il mio stato: «Graziato». Stavo ricevendo un dono inatteso, il dono dell’amore che mi ha raggiunto proprio quando mi sentivo a pezzi. Vorrei allora che questo primo ultimo banco dell’anno, sia una vera ripresa e vi invogliasse a fermare, magari su carta, la grazia che riceverete oggi, domani, dopodomani... fosse anche ruvida o piccolissima, perché in ogni grazia si nasconde una via di salvezza, di compimento, di gioia. Per riconoscere una grazia bisogna chiedersi se ci porta a diventare più veri, belli e compiuti. E magari queste righe, per chi è arrivato fin qui, saranno per due o tre la piccola grazia odierna. Io vorrei imparare a tenere gli occhi sempre ben aperti per saper ricevere le mie grazie quotidiane, come afferma senza mezzi termini Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo, Il passeggero: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta».
Franco Arminio e Guidalberto Bormolini "Accorgersi di essere vivi"
Dall'incontro tra il poeta e paesologo Franco Arminio e Guidalberto Bormolini, che si è consacrato alla vita religiosa e alla meditazione dopo aver fatto in gioventù il falegname e il liutaio, è sbocciata l'idea di scrivere insieme un libro, Accorgersi di essere vivi, uscito il 27 agosto per Ponte alle Grazie. È un breviario per chi ha perso la via, in cui con uno stile lirico e coinvolgente i due autori ci guidano in un viaggio alla scoperta non tanto del mondo, ma di noi stessi nel mondo. Il ragionare poetico di Arminio si interseca con le riflessioni in prosa di Bormolini, dando vita a un testo denso di spiritualità e poesia, che aiuta a ritrovare il senso perduto della vita. In un mondo frenetico e competitivo ci dimentichiamo di essere vivi.
Non sono un letterato, non sono un accademico. Sono un artigiano. Anche spiritualmente mi sento un artigiano. Mi piace costruire e ricostruire sia materialmente che spiritualmente, ed è il cuore della mia missione. Lavorare a questo “breviario per chi ha perso la via” rientra appieno nella mia missione di cura, cioè di “prendersi a cuore”. Mi piace tantissimo incontrare persone e far incrociare percorsi di persone diverse, scrivere per me è un modo speciale di stare con le persone: tutti voi lettori di cui cerco di immaginare i volti e i desideri profondi sin da quando scrivo, chi lavora nelle redazioni, gli amici che mi ispirano e correggono. Rifuggo ed evito il più possibile la televisione e i social (e me ne fanno di proposte!), perché lì non mi sembra di “incontrare”.
In un’interessante raccolta di colloqui mistici di due donne, rimaste anonime, che mi donò il mio padre e amico spirituale, trovai questa frase: «Accogli tutti coloro che vengono, come inviati da Me, e dona loro un benvenuto regale. […] Accogli benevolmente con amore tutti coloro che giungono. Tu non devi vederlo come un lavoro. Oggi essi possono non aver bisogno di te. Domani forse sì. Io posso inviarti strani visitatori. Fa’ in modo che ognuno desideri tornare. Nessuno deve venire e sentirsi indesiderato. Condividi il tuo Amore, la tua Gioia, la tua felicità, il tuo tempo, il tuo cibo, lietamente con tutti. Tali meraviglie vanno rivelate». Ormai da lunghissimo tempo nell’incontrare persone non guardo più idee e ideologie, dogmi o credenze, censo e cultura. Guardo le persone e questo mi basta. Certe volte mi sono sorpreso – ma ormai dovreste sapere quanto mi affascina esserlo – ad ammirare persone che avevano idee o storie lontanissime dalla mia. Mi sono perfino domandato se, inconsciamente, andassi a cercare di proposito personaggi che mai avrei pensato avrebbero potuto attraversare la mia strada tanta era la distanza dal mio pensiero. Ma in fin dei conti il mio amore per l’Infinito, per il Tutto dovrà pure lentamente giungere ai tutti che “abitano” il Tutto. E non vorrei essere equivocato: li cerco per arricchire me, non perché penso di aver da insegnare loro qualcosa. Senza questa pluralità la mia vita sarebbe tanto impoverita. Se fossi davvero innamorato del Tutto, dovrei anche innamorarmi di tutti, e poi andare ancora oltre!
Un giorno fu chiesto a Isacco il Siro, straordinario autore monastico: «Cos’è un cuore compassionevole?» Lui rispose: «È un cuore che brucia per tutta la creazione: per gli uomini, per gli animali, per i demoni, per ogni creatura. Quando pensa a essi e quando li vede, i suoi occhi versano lacrime. La sua compassione è talmente forte e violenta e la sua costanza tanto grande, che il suo cuore si stringe e non sopporta di udire o di vedere il minimo male o la minima tristezza in seno alla creazione. Per questo egli prega in lacrime, a ogni istante, per gli animali senza ragione, per i nemici della verità e per tutti coloro che gli fanno del male, affinché essi siano conservati e perdonati. Nell’immensa compassione che si leva nel suo cuore, che è senza misura a immagine di Dio, egli prega anche per i serpenti». Non sono così, purtroppo. Ma vorrei esserlo. Un piccolo passo è questo “breviario” col quale prendendomi cura di chi ha perso la via ricordo di continuo anche a me stesso quale è la Via che ho scelto e che amo. Il mio cuore ha un fuoco acceso, uno zelo che letteralmente è “ardore”, per andare incontro agli “erranti”, avendo io stesso molto errato.
Guidalberto Bormolini
Poesia e spiritualità strumenti di un nuovo umanesimo
Spiritualità e poesia: due parole vaghe, un connubio altrettanto vago. Se ne può parlare in tanti modi, se ne può parlare solo in modo confuso, con passi che somigliano a quelli di un cielo in un bosco fitto. Io posso dire di aver sempre tenuto con me la parola poesia. Mi sono interrogato su cosa fosse. L’ho letta, ho provato a farla.
La poesia mi ha salvato la vita o forse me l’ha rovinata, in ogni caso è una presenza indiscutibile nella mia mente e nella mia carne: la poesia che non ha a che fare col corpo è un’ingegneria letteraria che non ho mai amato. Io posso dire di avere avuto poche confidenze con la parola spirito, con la spiritualità. Mi sembrava di viaggiare in altre zone. Poi a un certo punto, un punto che ho intravisto pochi anni fa, questa parola ha cominciato a zampillarmi intorno. Mi è sembrato di capire che la questione del mondo più che economica era teologica. Mi è parso di sentire che l’eclissi del Sacro aveva creato nell’umanità una pericolosa condizione di miseria spirituale. E qui, forse, si è prodotto il tentativo di innestare il Sacro nella mia poesia. Il primo tentativo è stato un libro che si chiama Cedi la strada agli alberi. Poi ne sono venuti altri, poi è arrivato Sacro minore e infine Canti della gratitudine. Siamo nel cuore dell’intreccio, del travaso dallo spirito della poesia alla poesia della spiritualità. Non mi sono posto il problema se credo o non credo in Dio, mi sono posto il problema che il mondo non può andare avanti se persiste e si accentua il divorzio dal divino.
Il materialismo brutale e nichilista in cui siamo immersi non solo accentua le ingiustizie sociali e danneggia la salute del pianeta, ma è anche un’implacabile assicurazione sull’infelicità: le nazioni più avanzate economicamente sono piene di depressione e solitudine. Non è un caso che il responsabile della sanità degli Stati Uniti qualche mese fa ha elaborato un documento in cui si parla di pandemia di solitudine e in cui si invoca la riconnessione sociale come via d’uscita. La questione è che non ci possiamo riconnettere se rimaniamo quello che siamo adesso: animali spaventati, incapaci di affidarci e di credere. Prima della riconnessione è cruciale la rigenerazione dell’umano.
Serve tornare alla vita profonda se vogliamo tornare alla vita con gli altri. In superficie ci sono solo fuga e conflitto. Il bene esiste ancora, ma va scavato e portato alla luce con un lungo esercizio. Il bene non è un esercizio di stile, non è una vernice, ma un fuoco che sale da sotto e bisogna liberare le vie per farlo salire in alto e farlo incontrare col fuoco degli altri. Se vogliamo abitare degnamente il mondo, dobbiamo dare grande spazio alla poesia e alla spiritualità nella nostra vita. E questo gesto non è un gesto riposante, non ci mette in salvo. Ci rende più agili e vasti, ci fa sentire che confiniamo con l’infimo e con l’immenso. Siamo animali che possono farsi delle gentilezze, siamo un niente che affratellandosi a un altro niente diventa qualcosa: la stella della nostra vita è la relazione, tutto il resto è un pericoloso equivoco che ci porta alla rissa perenne dell’io, alla solitudine dell’individuo che vede gli altri individui come ostacoli alla sua realizzazione.
È chiaro che è necessario un radicale ripensamento dell’umano e un suo allargamento agli animali e alle piante: siamo tutti abitanti del piccolo pianeta del respiro, l’unico che per ora conosciamo in giro. La poesia e la spiritualità forse vanno pensate come strumenti di un nuovo umanesimo, non come feticci di cui farci mercanti. Sono strumenti preziosi in questo tempo, proprio perché ci mancano. Magari in un tempo, ulteriore avremo bisogno d’altro. Non riesco a scollarmi da un’idea di provvisorietà quando penso alle cose che incontriamo. Noi con la poesia e con lo spirito possiamo avere solo delle intimità provvisorie. Il resto, per chi ci crede, si trova in paradiso.
Acconsentire al viaggio
José Tolentino Mendonça
Ci sono domande che da sempre stanno in agguato. Possiamo evitarle, tentare di schivarle o di non parlarne per lungo tempo, ma dentro di noi sappiamo che questo gioco a nascondino ha un prezzo. Sottrarvisi è sottrarci, mancare alla chiamata che la vita ci fa. Una di queste domande è collegata al desiderio, e nella forma più incisiva e personale può essere formulata così: "Qual è il mio desiderio?". Il mio desiderio profondo, quello che non dipende da nessun possesso o necessità, che non si riferisce a un oggetto ma al senso. "Qual è il mio desiderio?". Il desiderio che non coincide con le quotidiane strategie del consumare, bensì con l'ampio orizzonte del portare a pienezza, della realizzazione di me come persona unica e irripetibile, della consapevolezza del mio volto, del mio corpo fatto di esteriorità e interiorità (entrambe vitali), del mio silenzio, dei miei convincimenti. La domanda "qual è il mio desiderio?" non la incontreremo senza prima aver acconsentito al viaggio che inizia solo quando avremo osato entrare in noi stessi. Quando ci disporremo a comprendere quel che è in noi fin dal principio. Ma questo deve rallegrarci, poiché, come ricordava Françoise Dolto, «quando un essere umano avverte in sé un desiderio abbastanza forte da assumersi tutti i rischi del suo proprio essere, vuol dire che è pronto a onorare la vita di cui è portatore».
Dire
Erri De Luca
Il Salmo trentatre al verso nove annuncia una sintesi fulminante: «Poiché lui ha detto, ed è stato (avvenuto)». Non è previsione di qualcosa, ma fatto compiuto all’istante. Il verbo dire della divinità assegna questo potere enorme alla parola: diventare ciò che è pronunciato. Nel prologo dell’Enrico V, Shakespeare attraverso il coro dichiara agli spettatori i propri limiti e chiede il loro aiuto: «Fate di un uomo mille, createvi di fantasia un esercito poderoso, se noi diciamo “cavalli” figuratevi cavalli veri e vedeteli stampare coi loro zoccoli orgogliosamente le loro impronte sopra il molle suolo… riducendo a un’ora di clessidra il passaggio di molti anni». Qui le parole dette sul piccolo recinto di un palco chiedono di trasformarsi in visioni per chi è seduto in sala. È potenza minore di quella annunciata dal Salmo dove il dire è subito realtà, fatto compiuto. È potenza minore quella del teatro, eppure altrettanto capace di coinvolgere, suscitando immagini e sentimenti. Mi capita di salire su una pedana, prendere la parola per rivolgerla a chi è presente. Ne sento il peso in questa frase dello scrittore argentino Borges: «Nessuno è il sale della terra. Ognuno in qualche momento della sua vita lo è».
Ali sottopelle
Erri De Luca
Un colpo di vento butta a terra gli espositori di cartoline davanti a una libreria. Di passaggio sul marciapiede lei si ferma a raccoglierle, sparse e spostate ancora dalle raffiche. Il suo gesto coinvolge altri passanti. In un minuto sono in salvo le cartoline e gli espositori rimessi in piedi e portati nel negozio. I due commessi usciti ringraziano. Sono le undici di sera, la libreria ancora aperta. Senza il suo gesto, nessuno si sarebbe fermato. Imparo dal suo impulso la prontezza. Alla televisione l’atleta alle Olimpiadi dell’inverno cade, manca il compito al quale ha dedicato anni di allenamenti intensi, rinunce, discipline. Lei si commuove di quel fallimento, partecipa del crollo di una speranza giovanile. Imparo che le commozioni non chiedono permesso e non si lasciano misurare sulla scala della gravità. Sono improvvise e inesorabilmente vere. Unisco qui due esempi di scatti che precedono il pensiero, slanci che solo dopo sono riducibili a resoconto. Le parole che qui si aggiungono a commento e descrizione arrivano in ritardo, al seguito. Ho scritto di avere imparato. Non è vero. Ho solo assistito. So che alla prossima occasione mancherò di prontezza e commozione. Bisogna avere ali sottopelle per essere all’altezza.
Desiderio verso la pienezza
Alessandro D' Avenia
Desiderio, lo sappiamo, viene dal latino de- (distanza) e -sidera (stelle). Si manifesta infatti come inquietudine, mancanza (non assenza) di una stella-guida, tanto che il suo contrario è «disastro», una stella (-astro) avversa (dis-). Il desiderio è il motore della vita, tensione verso la pienezza, tanto che chi non lo rispetta o non lo coltiva, si spegne nell’abitudine o nella menzogna. Ma avere un desiderio non basta, bisogna passare dal «de-siderare» al «con-siderare» (stare con le stelle), cioè trasformare la distanza in frequentazione, come faceva nell’antichità chi doveva orientarsi per mare o voleva indagare il cielo per capire se gli dei fossero favorevoli a un’impresa. E questo richiede silenzio, tempo e attenzione, vita interiore e azione.
Perché le «vacanze« diventino «pienanze», bisogna quindi scegliere i desideri più importanti, quelli che la notte di san Lorenzo ammettiamo a noi stessi solo per gioco, per poi metterci in viaggio con quella stella-guida. Ma non è un gioco, perché prendere i propri desideri più autentici sul serio è la strada della felicità. Per questo vorrei che in questo ultimo o penultimo giorno di scuola, ogni ragazzo uscisse con uno, due, tre... «de-sideri» da «con-siderare», perché sia un’estate «co-stellata» e non «dis-astrata». Lo dice bene ai suoi studenti Frank McCourt, professore, alla fine del suo divertente libro Ehi, Prof!: «L’insegnante si fa serio e pone il Grande Quesito: che cos’è l’istruzione? Cosa si fa in questa scuola? Voi potreste rispondere che volete diplomarvi per andare all’università e prepararvi a una professione. Ma non è tutto qui, cari colleghi studenti. Io stesso ho dovuto chiedermi che cavolo ci faccio in quest’aula. E sono arrivato a formulare un’equazione: alla lavagna scrivo a sinistra una P maiuscola, a destra una L, poi disegno una freccia che va da sinistra a destra, da PAURA a LIBERTÀ. Non credo che sia possibile raggiungere la libertà assoluta. Ma quello che sto tentando di fare io con voi è mettere la paura alle strette». Solo così l’estate diventa il prolungamento e il compimento, in altri modi, del lavoro fatto a scuola: l’accensione di un fuoco che rende vivi nel divertente e serissimo gioco della vita. Io quest’estate «voglio» scrivere un libro, tornare a viaggiare e liberarmi dalla tristezza che questo periodo mi ha seminato dentro. E voi?
La dignità sta anche nel brutto
di Enzo Bianchi
In questi giorni roventi al cuore dell’estate sono andato a Torino e la città mi è parsa diversa: pochissime le auto, una netta diminuzione del traffico più lento del solito, e tanti spazi deserti. Sì, sono quasi tutti in ferie, in montagna o al mare, e con questo caldo torrido anche i turisti sono diminuiti. Ma ci sono ancora alcuni che sono rimasti in città: vecchi, portatori di handicap, in carrozzella o che camminano a fatica, e sembrano molto più numerosi del solito. E guardandoli pensavo alle nostre spiagge, dove c’è un’esposizione di corpi, un’ostentazione di bellezza che tenta di adeguarsi ai canoni dei mezzi di comunicazione. Anche le olimpiadi sono un’esaltazione di corpi, giovani, belli, prestanti, nel pieno del loro vigore e della loro forza muscolare come mentali.
Non dobbiamo essere ipocriti: la bellezza dei corpi ci seduce, soprattutto la loro giovinezza ci può turbare e spingere all’idolatria perché ci incanta... È così che sperimentiamo il “principio piacere”, ma la realtà ci obbliga a confrontarci con la bruttezza, con il corpo deformato dalla malattia, con il volto di chi non ha volto. A volte e per alcuni la tentazione è rifuggire da questa visione del corpo sofferente, ma per un rapporto vero con il proprio corpo occorre accogliere la realtà del corpo dell’altro a partire dal suo aspetto meno piacevole, ritenuto indegno secondo i parametri dominanti. Certo, questa è un’operazione di controcultura che mira a salvare l’essenza stessa della dignità umana.
Anche l’uomo che ha perso la propria forma e ha assunto l’indegnità richiede che si riconosca in lui la dignità umana. Sì, è forse proprio quest’uomo “senza forma né bellezza” a conservare una dignità che richiede rispetto. Ciascuno infatti ha diritto al riconoscimento della propria dignità non per ragioni religiose né per obbligo sociale ma semplicemente perché ridotto a nulla: proprio l’essere umano sfigurato manifesta la propria dignità a chi gli sta di fronte e accetta di accoglierlo, di assumere il peso dell’umanità avvilita, sprovvista dei tratti caratteristici di quella che noi consideriamo dignità.
La dignità umana non è un attributo peculiare della persona nella sua singolarità, ma è di natura relazionale e come tale si manifesta nel gesto con cui ci rapportiamo all’altro per considerarlo nostro simile, ugualmente umano, anche se la forma denuncia un abbrutimento, anche se l’aspetto è disumano.
Di fronte all’essere umano che viene quasi identificato con il letto o la carrozzella in cui giace, che è ferito nelle facoltà fisiche, di fronte all’anziano offeso dall’obnubilamento dell’Alzheimer, siamo chiamati al rispetto della persona umana senza mai identificarla con la sua infermità.
Il nostro corpo rimane, nonostante tutto, il luogo dell’inscrizione nel senso della vita, un compito da realizzare.
In antiche regole monastiche si prescrive che un monaco, incontrando un altro monaco, lo saluti sempre con un inchino profondo, ma si aggiunge che se l’altro monaco è in condizione di demenza senile, o offeso nelle sue facoltà fisiche fino a portarne i segni nel proprio corpo, allora il monaco farà due inchini per mostrare che ha compreso che l’altro va considerato nella sua bellezza o nella sua bruttezza, nella sua forza o nella sua malattia, con uno sguardo di accoglienza e venerazione.
“Non distogliere lo sguardo dai corpi sofferenti è virtù eroica”, direbbe Adriano nelle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Paesaggio
Erri De Luca
«Questo paesaggio è disposto a fare a meno di me». Il verso del poeta Russo Iosif Brodskij stabilisce un punto di osservazione. Quello che ho intorno, luogo e tempo, di cui mi sento parte, continua, continuerà senza di me. La mia presenza, che per abitudine di esserci mi sembra ovvia, non è necessaria. Il paesaggio può fare a meno di me. Ho l’impressione di avere cercato finora di fare in modo che invece il paesaggio sentisse bisogno di me, per giustificarmi la vita. E se non proprio bisogno, almeno riconoscesse che ne faccio parte. Poi viene un momento, seguito da altri, in cui ci si toglie con l’immaginazione dalla cartolina. Ci si accorge da fuori che non manca niente. Il posto a tavola è tolto insieme al nome sulla buca delle lettere. Viene il momento in cui questo pensiero arriva senza essere invitato e allena alla presa di distanza. Mi capita nei punti panoramici, davanti al mare e al suo alto orizzonte, sulla sommità di una montagna. Di fronte a queste vastità è più facile il pensiero affiorato nel verso di Brodskij: non durare a lungo. Per essere efficace deve passare come un vento in faccia. Subito dopo, rientrato nel paesaggio, resto soprappensiero, come chi cerca di ricordare qualcosa sfuggito di mente.
Dio parla al cuore. L’arte della preghiera
di Enzo Bianchi
Da quando ho smesso di essere infante io prego tutti i giorni: ho imparato a pregare sulle ginocchia di mia madre, ho cominciato poi a pregare la preghiera del cristiano del mattino e della sera e dall’adolescenza in poi ho pregato soprattutto con la liturgia della Chiesa e, dunque, con i Salmi come faccio ancora adesso. La mia preghiera è cambiata negli anni, è diventata sempre più contemplativa, ricorro meno al libro e apro il mio cuore a volte arido, a volte turbolento, a volte sofferente, davanti a Cristo, al Dio di Gesù Cristo. Ormai vecchio ho conservato la fede e più ancora ho conservato e accresciuto un grande amore per Gesù Cristo il Signore, e tra molti dubbi avanzo verso l’incontro finale. Prego, ma ho una sola domanda: chiedo misericordia; prego, ma so che pregano tutte le creature, animate e inanimate; prego, ma so che il Signore ha pregato più me di quanto io abbia pregato lui.
Ho scritto molte pagine sulla preghiera, molti libri, e ho cercato di insegnare a pregare a quanti vivevano con me, ma sempre di più la preghiera m’è apparsa un mistero perché ho capito che nella fede cristiana è innanzitutto ascolto di Dio nel nostro intimo, e perché parlare a Dio è temerario e si rischia proprio di parlare molto per non ascoltarlo.
Non ci è naturale dire: «Parla Signore che il tuo servo ascolta!» (cf 1Sam 3,1-18). Ci è più facile dire: «Ascolta Signore che il tuo servo parla» (cf 1Sam 3,1-18).
E poi la preghiera è eloquenza della fede, ma questa a volte si fa debole, poca fede e addirittura mancanza di fede! Allora la preghiera può sembrare un’illusione, un parlare nel vuoto, un esercizio completamente mentale perché nessuno ascolta. Certo, allora, la preghiera resta sempre un monologo, una ricerca di orientamento, un pensare, un’auto chiarificazione che ha un suo valore umano, ma che non mette in relazione l’uomo e il suo Signore.
Tra la preghiera dei credenti in Dio e quella dei non credenti in Dio c’è un confine non chiaramente tracciato... E il fatto che la preghiera sia un fenomeno antropologico presente in tutte le religioni, in tutte le spiritualità e le culture, è significativo: gli umani pregano, hanno questo incredibile bisogno di gridare rivolgendosi a qualcuno, sentono il bisogno dell’invocazione.
Ma attenzione, soprattutto oggi in cui con superficialità si vorrebbe pregare insieme tra appartenenti a religioni diverse: c’è anche una preghiera idolatrica, una preghiera pagana, che non è secondo il Vangelo.
Il Vangelo di Gesù Cristo giudica anche la preghiera e chiede che sia secondo il canone del rapporto tra un Dio padre misericordioso e un figlio confidente. Non può mai essere ciò che vedeva Lucrezio, un “affaticare gli dèi”, non può essere magica, non può essere pretesa o imposizione a Dio dei nostri desideri e della nostra volontà.
La preghiera che i Vangeli riportano, solo insegnata da Gesù, il Padre nostro, è il canone, la regola della preghiera cristiana, un riassunto di tutto il Vangelo. Noi cristiani abbiamo la consapevolezza che quando preghiamo deve venire lo Spirito santo a pregare in noi insegnandoci, unendoci alla preghiera di Cristo e indirizzandoci al Padre: una preghiera che si apre alla comunione della vita divina! Se la preghiera che facciamo è questa allora lo Spirito santo ci rivela la volontà di Dio, ci sussurra nel cuore una parola avvolta nel silenzio che è la voce di Dio fatta voce della nostra coscienza e noi possiamo con confidenza piena dire “Abba!”, pronunciato in un modo che forse non abbiamo mai usato neppure rivolgendoci al nostro padre terreno.
Comprendiamo bene noi cristiani che pregare in modo autentico non coincide con un fare, un recitare preghiere. La preghiera coinvolge l’essere non il fare, non è un’attività tra le altre ma una dimensione, uno spazio in cui penetrare, è una relazione viva che si nutre di scoperte, nuove conoscenze, crescita dell’amore. È significativo che già nei Salmi l’orante quando vuole individuare sé stesso nel pregare arrivi a dire: «Io sono preghiera» (Sal 109,4) e che di Francesco d’Assisi, il somigliantissimo a Cristo, si sia detto che alla fine della vita non pregava ma era diventato preghiera. Solo così il nostro cuore è vicino a Dio. C’è una iniziazione alla preghiera cristiana? A partire dall’Antico Testamento per entrare in relazione con Dio il primo atteggiamento da assumere è quello dell’ascolto! Se il Dio che si rivela a Israele è “un Dio che parla” allora il credente, e di conseguenza il popolo, è colui che ascolta. Ascoltare significa non solo porgere l’orecchio per sentire ma protendere tutta la persona verso colui che parla.
Rendere la preghiera conforme al Vangelo
Ma attenzione, Dio parla nelle nostre profondità, nel cuore dice la Bibbia, là dove sono generati il parlare, il volere e l’operare. La sua voce è silenzio, e perciò va catturata con il silenzio: dev’esserci silenzio esteriore, ma soprattutto deve tacere l’ego sempre loquace e sempre soverchiante. La voce di Dio non si ascolta se non esercitandosi ad ascoltarla, invocandola, desiderandola, chiedendola e allora sarà originata nel cuore come voce della nostra coscienza.
Questa voce sarà innanzitutto quella che ascoltiamo e leggiamo nelle sante Scritture. L’assiduità
nell’ascolto della Parola ci abilita ad ascoltare la parola di Dio per noi qui e ora. Nell’accoglienza interiore della parola di Dio questa cresce con il lettore, come diceva Gregorio Magno, e apre a un’interpretazione infinita. Accade quel che illustra il Salmo come grazia nella preghiera del salmista: Dio ha pronunciato una parola / due ne ho ascoltate: / a Dio appartiene la forza / a te, Signore, la grazia / e tu renderai a ogni uomo / secondo le sue azioni (Sal 62,12-13). E non si dimentichi che dall’ascolto nasce la fede, dalla fede la conoscenza di Dio, dalla conoscenza di Dio l’amore di Dio!
La parola ascoltata, meditata, pregata e contemplata è la preghiera per eccellenza, per la sinagoga e per la Chiesa! E la lettura orante della Parola è capace di plasmare tutta la vita del credente e della comunità cristiana.
Ma allora possiamo noi parlare a Dio? Se si ha l’avvertenza di rendere la preghiera conforme al Vangelo è certamente possibile. Ma si tenga presente che oggi con facilità, troppa facilità, anche nella liturgia ci sono abusi sedicenti creativi, preghiere che sono debitrici di magia, di riti di altre religioni che deificano la natura, preghiere che pretendono guarigioni e si ammantano di miracoli.
Il cristiano sa che può avere fiducia nel rapporto con Dio, che gli può esporre i suoi bisogni e le sue sofferenze, ma sempre affermando: «Sia fatta la volontà del Signore non la mia!». Gesù ce l’ha insegnato: «Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli tanto più il Padre darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiederanno». Il Padre non darà le cose che i figli chiedono, anche se le cose richieste sono buone, ma darà certamente lo Spirito santo, darà forza e consolazione per attraversare le sofferenze e la morte stessa. Il cristiano nella preghiera porta tutta la sua persona, vi porta le relazioni, gli amori che vive, vi porta l’umanità. Beato chi fa silenzio su Dio, e parla invece di colui che ci ha narrato Dio, Gesù Cristo. Beato chi parla a Dio, perché il nostro Dio è un Padre, un amico al quale si può parlare.
Circa il canto
Erri De Luca
Una volta i minatori portavano i canarini nelle gallerie. Non per sottofondo musicale: per indicatore di allarme. Se smettevano il cinguettio c’era fuga di gas. Si vuole che il canto sia libero. Più spesso non lo è. Gli schiavi deportati dall’Africa nelle piantagioni di cotone in America usavano il canto corale per dare ritmo regolare al lavoro e sopportarlo meglio. Nei lutti, nelle nozze, nelle feste, nelle processioni, nelle schiere militari, nelle lotte politiche il canto è strumento che intensifica la condivisione. Da bambino sentivo salire dal cantiere vicino la voce cantante di un operaio. Tra i rumori delle lavorazioni, nel cerchio della polvere s’alzava la strofa musicale esclamativa. Non era allegria, né spensieratezza, ho saputo e capito più tardi, quando è toccato a me. Era sfogo del corpo che sfruttava le corde vocali per dare un ritmo alla respirazione. Il corpo è uno strumento ad accordatura. Mi capita ancora d’intonare qualcosa mentre sto facendo qualcosa di manuale. Considero benefiche le espressioni e le manifestazioni canore, escluse quelle competitive. Nel rumore meccanico della grande officina mi saliva in gola, in sordina e a contrasto, un contrappunto musicale. Avevo l’impressione di mettere un mio ordine in quel marasma di frastuoni. Mi teneva compagnia, non era libero, ma misteriosamente mi affrancava.
Biancheggia, vela solitaria
Del mare nell'azzurra bruma...
Cosa in lontana terra cerca?
Al paese natìo cosa ha lasciato?…
Fremono l'onde, il vento fischia,
l'albero piega e geme...
Ahimè! Felicità non cerca
e da felicità non viene!
Sott'essa il flutto più chiaro del cielo;
sopra, del sole d'oro il raggio…
Ed essa inquieta chiede la tempesta,
come nelle tempeste fosse pace!
Erri De Luca
«Come nelle tempeste fosse pace». Così termina la poesia La Vela, del russo Mikhaïl Lermontov (1814-1841). C’è un punto nel fitto di uno scompiglio in cui le forze contrarie sono così prevalenti che in alcune persone cessa ogni agitazione e sopraggiunge la completa calma. Leggendo il verso di Lermontov ho riconosciuto lo strano effetto. Un’improvvisa invulnerabilità parte dal centro del petto, o s’irradia nei nervi, sgombera i pensieri. Nelle circostanze turbolente si manifestano le molteplici reazioni, dalle sconsiderate alle composte. Mia nonna Emma non si faceva disturbare neanche dai bombardamenti. A chi la sollecitava a scendere al rifugio al suono della sirena di allarme, rispondeva: «Mo’, mo’» e non si muoveva. Lo stesso faceva durante un terremoto. Nelle tempeste trovava in se stessa il punto di equilibrio inalterabile. Qualcosa di lei dev’essere arrivato fino a me, se uscendo da certi trambusti ho avuto in mente lei, come esempio. Non credo alla fortuna, non riconosco alcun effetto pratico alla suggestiva parola destino. Credo alla calma di nonna Emma, nata nell’anno 1900, secolo di tempeste
L'umano nell'umano
«Lavorando al libro negli ultimi dieci anni ho pensato a te costantemente. Il mio romanzo è dedicato al mio amore per il popolo. Questa è la ragione per cui è dedicato a te. Per me tu sei l’umanità e il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi inumani».
Queste parole dello scrittore ucraino Vasilij Grossman, in cui si riferisce al suo capolavoro «Vita e destino», sono tratte da una lettera scritta alla madre nel 1961, benché fosse morta vent’anni prima. Le scrisse infatti due lettere, una a 10 e una a 20 anni dalla morte, cercando di elaborare un lutto impossibile: di lei non era rimasto nulla, neanche la tomba.
Le sue parole mi sono tornate in mente vedendo l’immagine di una madre con in braccio un bambino in fuga da Kiev o quella della madre incinta, ferita e scampata al bombardamento dell’ospedale di Mariupol in cui era ricoverata per l’imminente parto.
In sua madre Grossman vede l’umanità intera. Il suo non è un ricordo sentimentale: cronista dell’assedio di Stalingrado e delle imprese dell’Armata rossa contro Hitler, aderì con convinzione al progetto imperialistico sovietico di Stalin, lo stesso rievocato da Putin. Ma quando, nel 1944, tornò nella sua città natale, Berdicev, in Ucraina, scoprì che la madre era stata uccisa dai nazisti insieme ad altri trentamila ebrei, con la collaborazione di molti ucraini in cui covava la stessa violenza.
L’evento e poi l’orrore che vide nella Russia stalinista incrinarono la sua fede politica: aveva capito che nazismo e comunismo erano figli della stessa volontà di potenza e ciò che salva l’umanità non sono le «ideologie del bene» ma «i buoni». Lo narra in ogni pagina di Vita e destino, il capolavoro dedicato proprio alla madre che, sequestrato dalla polizia sovietica, fu preservato dall’amico fisico Andrej Sacharov nei microfilm dei suoi esperimenti di laboratorio e portato fuori dai confini sovietici: uscì in Svizzera nel 1980, in Italia nel 1984, quando l’autore era morto in disgrazia ormai da vent’anni.
Nella prima delle due lettere alla madre Grossman scrive: «Carissima Mamma, sono venuto a sapere della tua morte nell’inverno del 1944. Sono arrivato a Berdicev, sono entrato nella casa dove avevi vissuto e ho capito che eri morta. Eppure già dal settembre 1941 sentivo nel mio cuore che te ne eri andata. Mentre ero al fronte, una volta ho fatto un sogno: entravo in una stanza, che sapevo essere tua, e vedevo una poltrona vuota. Sono stato a lungo a osservare la poltrona vuota e quando mi sono svegliato sapevo che eri morta. Non conoscevo la terribile morte che avevi patito. Ne venni a conoscenza dopo aver chiesto a quelli che sapevano del massacro avvenuto il 15 settembre 1941. Ho provato a immaginare il tuo assassinio centinaia di volte e il modo in cui sei andata incontro alla tua fine. Ho provato a immaginare l’uomo che ti ha uccisa. E stata l’ultima persona che ti ha vista viva. So che hai pensato a me per tutto il tempo... Oggi ti penso proprio come se fossi viva, come quando ci siamo visti per l’ultima volta e come quando da piccolo ti ascoltavo mentre leggevi ad alta voce. E sento che il mio amore per te e questa terribile agonia sono ancora oggi uguali e rimarranno con me fino alla fine dei miei giorni».
Le due lettere sono state trovate dai biografi di Grossman (John e Carol Garrard, Le ossa di Berdicev) nel fascicolo a lui dedicato negli archivi del KGB, con la foto di corpi gettati in una fossa comune scattata dopo la fucilazione. Vita e destino è un tributo alla madre. Indimenticabile il capitolo in cui immagina che il suo alter ego narrativo, Viktor Strum, riceva l’ultima lettera proprio da sua madre, non a caso ebrea mandata nel ghetto di Berdicev come quella di Grossman e consapevole della fine ormai vicina: «Sento piangere delle donne, per strada, sento i poliziotti che imprecano; guardo queste pagine e mi sento in salvo da questo mondo tremendo e pieno di dolore. Come posso finire questa lettera? Dove troverò le forze, figlio mio? Ci sono forse parole d’uomo in grado di esprimere il mio amore per te? Ti bacio, bacio i tuoi occhi, la tua fronte, i capelli. Ricordati che l’amore di tua madre è sempre con te, nella gioia e nel dolore, e che nessuno potrà mai portartelo via. Viktor, mio caro... È l’ultima riga dell’ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre».
L’amore della madre fu per Grossman la salvezza nell’orrore e il cuore del suo capolavoro: che cosa salva l’uomo? Che cosa gli consente di avere vita e non soccombere al destino? Non trovò la risposta in nessuna filosofia, religione, morale o fede politica, ma nell’esempio materno, a lei infatti Grossman scrive così nella seconda lettera-anniversario: «Piango sulle tue lettere perché in esse vedo la tua bontà, la purezza del tuo cuore, il tuo destino terribile e amaro, la tua onestà e generosità, il tuo amore per me, la tua attenzione nei confronti del prossimo e la tua stupenda intelligenza. Non ho timore di nulla, perché il tuo amore è con me e perché il mio amore rimarrà con te per sempre». La parola «per sempre» chiude sia la lettera immaginaria della madre a lui nel romanzo sia la lettera vera di lui alla madre nell’anniversario della morte. Un per sempre reso possibile solo dall’indistruttibile amore materno, come Grossman, benché non credente, scrisse nel 1955 nel suo racconto più bello, La Madonna Sistina (consiglio di leggerlo in queste ore), in cui, guardando il famoso quadro di Raffaello della Madonna con in braccio il bambino, custodito a Dresda, ricorda le donne che ha visto proteggere i figli nell’orrore della guerra, madri che restarono madri, pronte a «ri-dare» la vita, e così scopre ciò che salva l’uomo e preserva la vita dal destino: «La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni: sono invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta... E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo. Che vivrà in eterno, e vincerà».
L’umano nell’uomo, per Grossman, è la Madre con il Bambino in braccio. Quando noi maschi riusciamo a guarire dall’oscuro fascino della guerra, maschera ultima del potere con cui cerchiamo un po’ di consistenza per il nostro piccolo io che cerca di esistere un po’ di più? Quando scopriamo che a dare consistenza all’io non è il potere ma l’amore, che amore è privarsi volontariamente del potere senza rinunciare per questo alla forza, una forza che serve a difendere e confortare e non a sottomettere, e questo lo possiamo imparare dalle madri che sanno «dare la vita», «mettere al mondo», «dare alla luce», ma non usano questa possibilità per affermare se stesse attraverso l’altro ma per affermare nell’altro l’unicità che hanno trovato in se stesse, come Grossman scrive in righe di Vita e destino che non dimenticherò mai: «La vita diventa felicità, libertà, valore supremo solo quando l’uomo esiste come un mondo che mai potrà ripetersi nell’infinità del tempo. Solo quando riconosce negli altri ciò che ha già colto dentro di sé l’uomo assapora la gioia della libertà e della bontà».
Dare la vita è il compito a cui siamo chiamati tutti, indipendentemente dal generare biologicamente: questo è ciò che Grossman mi ha insegnato e questo è ciò che lui aveva imparato da sua madre.
L’ospitalità
Nella Lettera agli Ebrei San Paolo scrive: «Non dimenticate l’ospitalità poiché per essa alcuni ospitarono angeli senza saperlo» (13,2). C’è da intendersi sulla definizione di angeli. Non sono quelli alati dei dipinti. Sarebbe troppo evidente offrire loro un posto a tavola. Si tratta invece di figure umane, “angheloi” vocabolo greco che indica i messaggeri. Il verso citato dice che gli ospiti potrebbero essere “angheloi”. Questa eventualità dovrebbe disporre a dare il benvenuto. Credo che sia più di un’eventualità. Credo che ogni ospitalità riceva in cambio un messaggio. Ogni ospitalità è una lettera giunta a destinazione. Ogni forestiero è “anghelos”. Ma io, quando sono stato accolto, ho lasciato o recapitato un messaggio? Se è successo, non me ne sono accorto. Ho tentato di essere impercettibile, dileguandomi come i fantasmi prima dell’alba, per andare in fabbrica. Riordinavo il letto, cancellavo tracce di passaggio in cucina prima di uscire. Quando rientravo tardi dal turno serale mi toglievo le scarpe fuori della porta per non fare rumore. Non so di che messaggio posso essere stato portatore. Restituendo le chiavi, chiudendomi l’uscio alle spalle con il mio bagaglio leggero, potevo solo dire a me stesso che non avrei dimenticato l’ospitalità
La metà invisibile delle cose
Alessandro D'Avenia
Ho quasi un centinaio di copie del Piccolo Principe, in altrettante lingue e dialetti: una per ogni Paese visitato da me o dai miei amici. Volevo poter dire in tutte le lingue che «l’essenziale è invisibile agli occhi», eppure oggi è diventato un luogo comune ridotto a kitsch emotivo. Ma che cosa è l’essenziale e in che maniera è invisibile? Lo mostra quel racconto in cui un pellegrino, uno dei tanti in cammino verso un santuario nel Medioevo, s’inerpica su una strada tra grandi cave di pietra, in una giornata di sole cocente. Vede uomini impegnati a sgrossare le pietre con i loro scalpelli e si ferma a osservarne uno, coperto di sudore e polvere, le braccia ferite dalle schegge. «Che cosa fai?» gli chiede. «Non lo vedi?» risponde l’uomo infastidito, senza alzare il capo: «Mi ammazzo di fatica». Il pellegrino riprende il cammino e incontra un altro spaccapietre, altrettanto stanco, sporco e stizzito. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? Lavoro tutto il giorno per far mangiare i miei figli». Il pellegrino continua il viaggio e incontra un terzo scalpellino, malconcio come gli altri, ma sereno. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? — risponde l’uomo sorridendo — sto costruendo una cattedrale» e gli indica l’edificio che sta sorgendo in cima alla collina. L’essenziale, invisibile agli occhi del primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo, non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica in lavoro e vita.
Per questo l’incendio di Notre Dame ci ha ferito, credenti o no: vedendo quelle immagini abbiamo sentito bruciare una parte di noi e non «solo» il legno secolare del tetto di un edificio. Le cattedrali sono sempre state la metà visibile dell’invisibile, lo spazio escogitato dall’uomo per fare abitare il divino sulla terra. Con questo spirito Gaudí concepì la Sagrada Familia: voleva che il futuro collaborasse all’opera grazie ai legami tra artisti e popoli del XIX, XX e XXI secolo. Ci sarà l’Europa solo quando avremo lo spirito con cui si costruivano le cattedrali: non basta una moneta comune tra egoisti a fare un europeo, ma ci vuole un valore comune superiore da realizzare con il meglio del genio e dell’impegno di ogni popolo, così come lo spartito per un’orchestra. Il poeta tedesco Heine, vedendo un’imponente cattedrale medievale, rispose a un amico credente che gli chiedeva perché non se ne costruissero più: «I vostri padri avevano dei dogmi. I credenti d’oggi, solo delle opinioni. E con le opinioni non si costruiscono le cattedrali». La religione ha sempre fornito un ordine simbolico che rimanda a ciò che ci trascende e rende significativa ogni cosa: il mestiere di vivere è lo stesso per tutti, ma chi vede la cattedrale nella pietra che sta lavorando può abitare il limite umano come potenzialità feconda. Le nostre «cattedrali» contemporanee (stadi, ipermercati, parchi divertimenti…), per quanto aggreghino e offrano svago, non riescono a soddisfare la sete di senso, perché non rimandano ad altro se non ad oggetti ed emozioni finiti. La secolarizzazione, piaccia o no, è il deserto dei simboli, nel quale poi inevitabilmente seguiamo i miraggi offerti dai manipolatori del simbolico.
Ma il deserto è la condizione provvisoria di chi aspira a una terra nuova. È assenza, mancanza, smarrimento, necessari a spogliarci da certezze che in realtà ci imprigionano. Il deserto non dà punti di riferimento: è una sfida a trovarli dentro e non fuori di noi. Non a caso il Piccolo Principe è ambientato nel deserto. Il protagonista è un aviatore il cui aereo si è rotto, la sua fede nella tecnica e nel progresso è in panne. Nel deserto torna in balia della vita nuda, senza appigli: «Era questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana». Proprio lì incontra il principe che ha dentro, l’uomo interiore che è «bambino» solo perché ha una voce sottile e non si impone, la parte di noi che vede l’ordine simbolico, il senso da dare all’agire quotidiano, la capacità di trovare la cattedrale nella pietra, il tutto nella parte. Simbolico viene dalla parola symbolon (dal greco: mettere insieme): un disco d’argilla spezzato in due, che permetteva ai possessori di riconoscersi, garanzia di autenticità di un legame. Per questo il credo cristiano si chiama simbolo della fede, per indicare l’ordine di senso in cui le persone più diverse e sparse dappertutto si riconoscono in un legame: sono figli dello stesso Padre. L’ordine simbolico della realtà è quindi ciò che dà significato a ogni cosa grazie a un legame. Senza l’ordine simbolico prevale quello «diabolico» (diabolon: separare, è il contrario di symbolon) la vita diventa un dato muto, che rende impossibile elaborare un lutto, un fallimento, o semplicemente trovare un senso alla ripetizione dei giorni. Il pilota trova nel Principe il «simbolico» perduto: infatti il bambino vuole tornare sulla stella dove ha la sua Rosa, l’essenziale, invisibile agli occhi, ma non per questo irreale. La Rosa è infatti la metà del simbolo che orienta tutti i suoi pensieri e azioni. I personaggi che incontra, dal geografo al re, dal lampionaio all’ubriaco, hanno smarrito la metà invisibile delle cose. Sono «uomini del bisogno»: riducono l’essenziale a oggetti e ruoli «visibili» e, per questo, sono malati, cioè prigionieri della sola evidenza materiale, la loro sete d’infinito è sottomessa al potere delle cose e degli altri. Oggi la cultura del «pienessere» ci spinge a essere continuamente colmati, pieni, soddisfatti, per sentirci amati, mentre per esserlo abbiamo bisogno di riconoscerci la metà visibile di una storia più ampia. L’essenziale è perciò anche visibile agli occhi ma come metà incompiuta, come un volto che racconta la persona: «Cari pittori del ’900, di facce ce n’è una gran varietà. Ma solo di nuovo imparando a leggere l’invisibile nel visibile, restituirete loro la dignità che hanno», scriveva Ungaretti un secolo fa, intuendo che senza il simbolico gli altri diventano «facce» mute, privi di dignità.
L’aviatore stesso è uno di quei personaggi che ha dimenticato la metà invisibile delle cose. Con il suo aereo spera di raggiungere ciò che gli manca, ma quel mezzo non basta. Il piccolo principe è invece «l’uomo del desiderio», l’uomo interiore che trasforma la mancanza in ricerca, traduce il desiderio in pensiero e azione: ogni cosa è la metà visibile della Rosa, l’essenziale invisibile agli occhi ma visibile al cuore. Egli salva «i grandi», uomini senza cuore, perché ha il senso dell’invisibile. Per lui assenza e mancanza sono pieni del significato dato dal legame con la Rosa, il suo symbolon. La perdita del simbolo rende muta la metà invisibile delle cose ed inevitabile si apre il deserto di senso. Educare è proprio costruire il simbolico davanti al pane duro della realtà. Solo imparando ad abitare il deserto, il bambino e l’adolescente costruiscono il soggetto e imparano a organizzare il desiderio, che trasformano in iniziativa e creatività, grazie ai legami stabili con adulti non ossessionati dal produrre l’adulto perfetto. Non è un caso che il principe affermi che il deserto è bello perché «nasconde un pozzo in qualche luogo». Le perdite, le mancanze, le cadute, non «simbolizzate», cioè prive di senso e di legami forti, non vengono eliminate ma diventano (auto)distruttive. La vita interiore ha il compito di «simbolizzare», trovare la metà mancante, per vivere. Ammazzarsi di fatica o costruire una cattedrale si riferiscono alla stessa azione, ma la prima, senza oltre, schiavizza, l’altra invece, avendo un senso, libera.
Quando lessi per la prima volta la fine del Piccolo Principe provai il dolore delle verità scomode ma ineludibili. Per riunirsi alla Rosa si lascia mordere dal serpente proprio nell’anniversario della sua caduta sulla terra: va incontro alla morte perché anche la morte è la metà visibile dell’invisibile, una porta sulla Rosa, non un muro. Grazie al simbolo l’uomo riempie le cose del suo spirito e abbandona il vano tentativo di strappare lo spirito dalle cose. Riempire le cose di spirito significa dar loro un senso che le trascende: la volpe scoprirà il colore del grano perché è quello dei capelli del suo amico biondo, l’aviatore vedrà ridere le stelle perché una è quella abitata dal principe e la sua Rosa. Il Piccolo Principe è il piccolo libro della nostalgia di simboli di una cultura che, rinchiusa in «metà» della realtà, spesso ne perde la «meta»: il lavoro diventa schiavitù, la fragilità colpa, i legami limite, il sesso consumo, l’arte narcisismo, il dolore condanna, la morte muro.
Il letto da rifare oggi è cercare il «rabdomante del simbolico», il piccolo principe che trova il pozzo nel deserto, indica il lato invisibile attraverso quello visibile delle cose e guida i prigionieri del «pienessere» nella terra che non è dopo il deserto, ma dentro: di noi, dove nessuno può strapparcela, una terra interiore in cui ogni pietra è la cattedrale, ogni spina la Rosa. Questo principe interiore è nel silenzio, nella lettura, nella preghiera, nell’amicizia, nel dono di sé, nel dolore, come ha imparato l’aviatore: «Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o no il fiore? E vedrete che tutto cambia. Ma i grandi non capiranno mai che questo abbia importanza». In tutte le mie edizioni del libro l’ultima immagine disegnata dall’autore è un deserto sul quale, finalmente, si è accesa una stella.
Prati
Erri De Luca
Su un cartello in montagna è scritto: «Rispettate i prati». Intorno la neve ricopre ogni superficie. Ecco rispettati i prati, sotto protezione dell’inverno e della sua stesura. Così mi viene in mente un pensiero da rivolgere al pianeta intero: invece di reagire alla pressione umana con il riscaldamento globale, provasse con il raffreddamento. La miglior reazione contro un seccatore è ignorarlo freddamente, piuttosto che surriscaldarsi per irritazione. Ghiacci il Mediterraneo, sia piovoso, temperato e fertile il Sahara, l’Africa diventi rifugio del pianeta insieme ad altre aree intorno all’Equatore. Non esista sud e nord, ma solo centro terra. Chi ha strillato all’invasione da parte di profughi allo sbaraglio su relitti, supplicherà asilo alle sponde africane. Auguro loro la massima longevità per poter apprezzare pienamente l’ironia della Storia e della Geografia, che spesso coincidono. Consiglio alla terra di estendere le aree polari, come ha già fatto in altre epoche del suo clima. Non sarà l’innalzamento dei mari a scoraggiare l’umanità costiera, che andrà invece a gravare all’interno. Sarà il ghiaccio a imporre nuove regole di sopravvivenza, costringendo a inventare risorse non provenienti dal saccheggio del suolo. Saliranno in cattedra gli Esquimesi, i Samojedi, scenderanno dal pulpito gli economisti. Per riscaldamento serviranno più abbracci.
Alleggeriamoci per poter viaggiare con l’essenziale
Marco Voleri
«La perfezione è raggiunta non quando non c'è più niente da aggiungere, ma quando non c'è più niente da togliere» (Antoine De Saint Exupery). Arriva un momento nella vita in cui è utile saper togliere anziché aggiungere. Un po' come fa Luigi, giardiniere esperto che, per far fiorire i suoi fiori sa quali erbacce estirpare. Togliere non è sempre un atto di privazione, ma a volte una selezione attenta di ciò che davvero contribuisce al nostro benessere. Arriva un momento in cui, dopo aver passato anni a mangiare patatine o un salame gustoso, hai voglia di togliere. La privazione volontaria di alcuni cibi – nel mio caso – me li fa apprezzare quando, dopo tanto tempo, ho l’occasione di riassaporarli. Qualche giorno fa ho aperto l’armadio e ho notato molti vestiti che non metto praticamente mai. Che senso ha tenere nell’armadio quella giacca comprata anni fa e messa una volta sola? So che non la metterò, semplicemente perché sono cambiato, insieme ai miei gusti. Eliminare vestiti che non ci sentiamo più di indossare è come liberarsi di un vecchio peso, aprendo spazio per l'autenticità e la comodità. Vogliamo parlare delle cianfrusaglie dimenticate nei cassetti per anni? A volte è doloroso aprirli, i cassetti. Eppure, alleggerirli può corrispondere a liberare la mente da ciò che è superfluo. Il vero atto di coraggio è togliere il cuore da luoghi privi di amore. Chiudere la porta a relazioni tossiche o passate e concentrarsi su quelle che nutrono l'anima. Togliere lo sguardo da chi ha ferito è una forma di auto-preservazione, un modo per dirigere la propria attenzione verso la bellezza che ancora ci circonda. E, ancora: il passato. Togliergli il potere – a volte negativo, spesso malinconico - è un atto di liberazione, permette al presente di brillare. Aggiungere nella nostra vita è molto semplice, quasi automatico, a volte ossessivo. Compiamo azioni quotidiane senza rendercene conto. E così il quotidiano diventa come la borsa di Mary Poppins, che non prevede fine. Come tutte le borse piene di cose, però, nel momento in cui cerchi le chiavi per entrare in casa, rovistando nervosamente, dentro troverai di tutto tranne quelle. Credo che la vera ricchezza non sia nell'accumulare senza fine ma nel saper discernere, nel togliere ciò che non serve più, per fare spazio a ciò che davvero conta. Questo atto elegante di semplificazione può essere la chiave per una vita più leggera, autentica e piena di significato. La perfezione, dunque, potrebbe risiedere nel togliere anziché aggiungere. Questo non si limita alla materialità ma si estende a emozioni, pensieri e aspettative che spesso affollano la nostra vita. Il vero “troppo” da eliminare potrebbe essere l’eccesso di perfezionismo che ci trattiene, impedendoci di esprimerci liberamente. Eppure, la consapevolezza di ciò che serve parte dall'interno, non da uno svuotamento casuale di armadi. Liberarsi da doveri autoimposti, pensieri limitanti e aspettative irrealistiche ci avvicina alla perfezione. La vera ricchezza, quindi, potrebbe risiedere nel discernimento, nel togliere ciò che appesantisce anziché nell'incessante aggiungere. La perfezione potrebbe essere smettere di cercare la perfezione e abbracciare la vita con autenticità e leggerezza.
"Vacanza è abitare con se stessi"
Enzo Bianchi
È arrivato anche quest’anno il tempo delle vacanze per molti, anche se un buon numero a causa della crisi economica e dell’inflazione crescente non può permettersi questo tempo “altrove”, “fuori casa”, in cui si prendono le distanze dal quotidiano vivere e lavorare. Vacare, fare vacanza in realtà non è così facile, non è automatico, soprattutto se siamo convinti che nel vacare ci sia l’idea del “fare niente”. Il far nulla per riposare è infatti un’arte da imparare: non è difficile interrompere un’attività faticosa, ma questo non significa ancora riposare. Spesso si passa da un’occupazione all’altra, non si riesce a stare fermi, ad abitare con se stessi, e si continua a essere divorati da azioni varie che ci impegnano e non ci permettono il “fare niente”. Sembra che il pensiero soggiacente nelle persone sia quello di concedersi il riposo solo per poter lavorare e correre dopo.Eppure Pascal ammoniva: “Ogni male degli uomini viene soprattutto dal fatto di non saper stare a riposo in una stanza”. Diceva questo anche se era a conoscenza che nelle culture umane la tradizione sapienziale ripeteva: “Se vuoi essere un uomo non cercare mai il riposo!”. Ma il riposo non è inazione, bensì un compimento: è staccarsi dal lavoro e dal quotidiano per contemplare, osservare ciò che si è operato, misurarlo sulla bellezza, farne un discernimento a partire dalle proprie convinzioni, e quindi lasciar posto alle diverse domande che sorgono dalle nostre profondità.
Proprio da questo stare in pace con se stessi, permettendo ai tumulti del cuore e alle angosce profonde di calmarsi, si può accedere a uno sguardo più libero che ascolta prima di guardare, che riscopre come la bellezza non sia un’idea, ma un evento da cui può nascere una comunicazione che ci apre alla comunione profonda. In quest’arte di riposare finiamo per tralasciare le molte parole con le quali riempiamo le nostre giornate, e impariamo ad ascoltare il silenzio che non è mai vuoto, ma sempre abitato da voci flebili che sussurrano, voci cariche di verità perché nascono dal nostro profondo.
Ma dall’habitare secum nelle vacanze si deve passare anche all’habitare in mundum, abitando innanzitutto la natura. Facilmente ci possiamo accorgere che noi vediamo ma non guardiamo. Non abbiamo mai tempo nella vita quotidiana di guardare le cose nella loro bellezza o nella loro umiltà: anche un muro sgretolato può essere visto e diventare eloquente quanto un albero o un merlo che si avvicina beccando cibo nell’erba.
C’è tempo per stupirci in vacanza, per la contemplazione, dicevano gli antichi, che è operazione per cui con altri occhi si vedono il mondo, le persone, il Creatore. Saint Exupery chiamava questo “vedere con il cuore”, primo passo per vedere in grande, pensare in grande, diventare visionari e profeti. Anche l’incontro con gli altri, o il “vacare con gli altri”, è un modo diverso per vivere le relazioni, rinnovando la grammatica umana dell’attenzione, della gentilezza, della pazienza. Per questo, Gabo Marquez diceva che le vacanze sono ricche di apocalissi, di. <TB>E nel vacare, almeno nel nostro occidente, fin dal tempo dei greci, non può mancare il libro, e oggi i diversi strumenti informatici, necessari per un dialogo nella solitudine, un dialogo nell’alterità, con altri mondi…
Leggere per rendere abitato il riposo senza rompere il silenzio, leggere per rendere il riposo abitato, luogo di accoglienza culturale, spazio di amicizia senza confini.
Enzo Bianchi, L’arte della lettura
Umberto Eco affermava: «Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro». Immortali a ritroso nel tempo: l’immagine è potentissima, e dà l’esatta misura della ricchezza contenuta in un libro cercato e amato, consultato scegliendo liberamente i ritmi della lettura, le pause, i momenti in cui è opportuno ritornare su certe pagine per rigustare un concetto, stabilire una connessione, annotare una frase incisiva.
Enzo Bianchi aggiunge poi due fondamentali osservazioni relative all’oggi e al predominio apparentemente irreversibile della tecnologia. Leggere è una procedura semplicissima: basta aprire un libro e iniziare nel punto desiderato, niente batterie, aggiornamenti di software, cadute della connessione, esaurimento di giga; leggere, inoltre, è «affermazione della libertà», una resistenza attiva contro la dittatura dell’informazione istantanea e superficiale dei social media, contro le «ciance fatte per durare un giorno» (Giacomo Leopardi, Pensieri LIX).
Il potere della lettura di conferire senso e profondità alle nostre vite risalta con ancor maggiore forza, secondo Bianchi, sullo sfondo del fatto che viviamo in una società in cui «domina l’immagine». E qui ci soccorrono le acutissime e profetiche parole di Italo Calvino (“Esattezza”, in “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, prima edizione Garzanti 1988): «Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza di imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità e di disagio».
Un libro e le sue parole frantumano quegli specchi illusori, ci sottraggono al disagio di quelle immagini senza necessità, rispettano la nostra attenzione e la nostra memoria: ma nulla di tutto ciò si può verificare in pienezza se l’amore per la lettera non viene coltivato nelle famiglie e nelle scuole da genitori curiosi e insegnanti preparati. La sfida collettiva della cultura ci chiama ancora una volta a unire le forze della volontà e dell’impegno.
La parola dell'autore
Passato il clima brioso delle feste natalizie, delle vacanze sulle nostre montagne e delle passeggiate sulle rive del mare per assaporare il sole, siamo tornati alla quotidianità della vita segnata soprattutto dal lavoro.
La nuova ondata della pandemia ci chiede di restare il più possibile ritirati in casa, e il freddo pungente di gennaio non invita a uscire, soprattutto gli anziani. Diventa dunque apprezzabile restare in casa, magari accanto a un camino che con il suo crepitare ci tiene compagnia, e dedicarci alla lettura: infatti, se la si pratica come un’arte, la lettura è scuola di silenzio e di interiorità, leggendo si tace e si fa parlare il libro, ma si impara anche il rispetto, l’attenzione e l’ascolto.
La lettura, di fatto, è una conversazione con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio. Ma soprattutto è un dialogo con chi ha avuto una vita più creativa della nostra: è accoglienza della parola di un altro e sua interpretazione nella propria intimità. Agostino di Ippona paragonava la lettura a uno specchio che rivela il lettore a se stesso, e Gregorio Magno asseriva che lo “sta scritto” cresce con chi lo legge. Marcel Proust, al termine della sua monumentale opera “Alla ricerca del tempo perduto”, si premurava di avvertire che i suoi lettori sarebbero stati “lettori di se stessi”.
Soprattutto nella nostra società, nella quale domina l’immagine, leggere resta operazione di grande umanizzazione, sorprendente nella sua semplicità: non occorrono tecnologie complicate, né iniziazioni particolari perché è sufficiente prendere un libro, aprirlo quando si vuole, e leggere risuscitando lo “sta scritto”. In piena libertà posso poi chiudere il libro, o leggere pagine più avanti o tornare indietro… e posso pensare, meditare ciò che ho letto con il ritmo che decido io e del quale ho bisogno per comprendere le pagine scritte leggendole “dal di dentro”, intus legere. Per questo ho sentito il bisogno di arricchire il comando monastico esprimendolo con le parole: «Ora, lege et labora». Non basta pregare e lavorare, occorre leggere per sentire battere il cuore del mondo, per non cadere nell’abisso autistico, per tenere sempre in esercizio l’ascolto.
Chi non legge o legge pochissimo adduce come giustificazione la scarsità del tempo a disposizione, ma le scelte che operiamo nell’impiego del tempo sono rivelatrici di ciò che davvero per noi conta, è importante nella vita. Leggere è lotta contro l’alienazione al tempo, è affermazione della libertà, una resistenza alla dittatura dell’informazione istantanea dei digital social. Se il tempo ci manca, il libro ci aspetta nello scaffale, sul comodino, accanto alla poltrona, quasi un monito a trovare il tempo per la lettura, prendendo le distanze da ciò che ci distrae.
Sempre mi ha impressionato nella profezia di Ezechiele il racconto biblico secondo cui Dio chiede al profeta di mangiare il libro… Sì, mangiare il libro, che è più che leggerlo, è farlo diventare corpo e vita. Forse non a tutti è data questa manducazione del libro ma, almeno per molti, come scriveva Italo Calvino, «leggere vuol dire cogliere una voce che si fa sentire quando meno ci s’aspetta, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell’autore, al di là delle convenzioni della scrittura».
Beato chi legge, perché saprà anche ascoltare.
Nella storia ritornano periodicamente i falò alimentati da libri dichiarati proibiti. Sono roghi vani. I libri non si lasciano distruggere dal fuoco né dalle censure. Se negati dalle autorità entrano in clandestinità, si nascondono, si travestono da innocui. In tempo di oppressione i libri aumentano di valore, aggiungono volontà di resistenza, consolidano i lettori. In ogni cranio penetrano parole nuove che proteggono dal contagio della propaganda. I libri forniscono spirito di contraddizione alle versioni ufficiali dell’autorità. Un caso del tutto diverso è successo nella rivolta delle città francesi per l’uccisione di un giovane da parte di un agente di polizia. È stata bruciata una biblioteca comunale. In una notte di scontri e di fuochi la collera l’ha accomunata ad altri edifici di potere. È un malcapitato equivoco. Ogni rivolta ha bisogno di attingere a libri per fondare se stessa. Ha bisogno di richiamarsi a esempi precedenti, riprendere le parole d’ordine, altrimenti arde come un carro di paglia. Una biblioteca è l’arsenale di ogni voce in lotta, che trae forza dai libri, oppure grida a vuoto.
Ri-poso!
Alessandro D'Avenia
Quando arriva l’estate tutti bramiamo il riposo come un corridore al traguardo. Lavoriamo per riposare e riposiamo per tornare a lavoro: questa ruota da criceto non mi ha mai convinto.
«Se vuoi trovare il riposo in questo mondo e nell’altro, in ogni occasione poni a te stesso questa domanda: “Chi sono io?”. E non giudicare nessuno». Si tratta della risposta di un vecchio saggio, contenuta nella raccolta dei «Detti e fatti dei padri del deserto», uomini che nei secoli dal III al VI secolo d.C. si allontanavano dalla città in cerca di pace e di Dio: non era il deserto a salvarli ma qualcosa che scoprivano grazie alla nudità del deserto. La risposta infatti indica l’assenza di riposo non tanto nelle molte cose da fare ma nell’ignoranza di sé, che porta al desiderio/disprezzo delle vite altrui.
Nell’agosto 1949, Jack Kerouac, autore del bello e maledetto «Sulla strada», affrontava così il problema nel suo Diario di viaggio: «La vita non è abbastanza. Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere e da cui non mi allontanerò mai. E qual è questa decisione? Un qualche tipo di febbre della comprensione, un’illuminazione, un amore che andrà oltre, trascenderà questa vita, una visione seria, finale e immutabile dell’universo. Questo è ciò che intendo quando dico che voglio degli Occhi. Perché dovrei volere tutto ciò? Perché qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare, o meglio, qui non esiste una singola cosa che io voglia. Perché non mi basta? Perché non mi illumina l’anima, non mi riempie il cervello di eccitazione e non mi fa piangere di felicità.
Agostino avrebbe detto che il cuore dell’uomo è inquieto finché non «riposa» in Dio. Per riposare non basta quindi ritirarsi dall’ordinaria fatica, ma bisogna indirizzare la scelta verso l’infinito. Ma sulla terra nulla lo è o non abbiamo Occhi per vederlo...
La proposta del saggio citata all’inizio indica una via: per trovare riposo dobbiamo chiederci «chi sono io?».
Io sono la storia di tutti gli uomini che mi hanno preceduto per generarmi e quella degli elementi dell’universo che mi costituiscono, ma sono molto di più, infatti la vita ricevuta si mostra in me in un modo che non si è mai dato né mai più si darà: solo io posso essere e fare ciò che posso essere e fare io. Questa unicità, proprio il mio essere così «ri-finito», non è prigione ma luogo del «riposo», perché apre al giusto protagonismo esistenziale: riposo solo se sono e faccio ciò che solo io posso essere e fare.
Come? Due mi sembrano i modi: creare, secondo le proprie attitudini (realizzare la propria vocazione umana e professionale), e amare, coltivando le relazioni fondamentali (Dio, gli altri, il mondo). Se vogliamo riposare, non solo in vacanza ma ogni giorno, dovremo scegliere di coltivare queste due «regioni» e «ragioni» (il «mio» mondo da salvare) dove il finito si apre all’infinito: sono nato unico ma lo divento realmente solo se creo e amo dove e come solo io posso fare, e questo lavoro non ha mai «fine».
Tendo all’infinito senza sfinirmi, come accade invece se inseguo il falso infinito, somma di piccoli finiti (materiali, come don Giovanni, o spirituali, come Faust) mai sufficienti alla felicità, infatti quando raggiungo qualcosa, subito dopo, ne desidero un’altra. E così mi affanno invano e il riposo non arriva mai, perché l’infinito non si dà per «estensione» (accumulo) ma per «intensità» (profondità), creativa e relazionale: più so chi sono e lo divento, nella mia unicità, più mi rinnovo.
Questo è ciò che vi auguro per il periodo estivo.
Un nome scritto bene
Erri De Luca
Passavo sulla spiaggia, dove si ritira l’onda. Ho sentito una bambina dire a suo padre: «Papà, guarda come scrive bene questa penna». Con un bastoncino aveva inciso il suo nome sul bagnasciuga.
La voce raccolta di sfuggita mi ha scaraventato lontano. Il suo nome scritto sulla sabbia: non le importava quanto sarebbe rimasto prima di essere cancellato. Le piaceva che fosse scritto bene.
Anche senza inchiostro aveva usato una buona penna. La frase di quella bambina inventava sul momento un’antica lezione di filosofia. Per quanto poco resti, scrivi bene il tuo nome. Sarà una firma anonima tra le innumerevoli, ma sarà stata scritta bene.
La specialità stava in quel “come”: come scrive bene questa penna. Il suo “come” conteneva la maniera, la cura, la precisione, il garbo, riassunti dalla sua voce appena sopra lo scroscio delle onde.
Il “come” era importante quanto il nome. E giusto era rivolgersi a suo padre che non aveva visto né saputo prima di quel momento com’era scritto bene il nome di sua figlia. Mi allontanavo. Intanto la sua frase cominciava a trovare spazio dentro di me e dopo su un quaderno.
Enzo Bianchi "L’importanza del silenzio"
Siamo nel tempo delle vacanze, il tempo che vorremmo dedicare al riposo, ma facilmente dimentichiamo che per riposare occorre soprattutto il silenzio. Nella nostra società, come scrive Max Picard, “l’uomo è diventato un’appendice al rumore”, non conosce quel silenzio di cui ha assolutamente bisogno per ritrovare la propria umanità. Più che mai si deve riscoprire l’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”: impresa certo non semplice se già Eraclito diceva dei propri simili che erano “incapaci di ascoltare e quindi di parlare”. Da allora ci illudiamo di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma in realtà la nostra parola ha perso autorità e forse proprio per la mancanza del silenzio da cui deve essere generata.
Abbiamo bisogno di una pedagogia all’ascolto autentico e alla comprensione di ciò che sentiamo e quindi è innanzitutto necessario ascoltare il silenzio. È significativo che nella tradizione spirituale dell’occidente sia attestato che l’arte oratoria ha per madre il silenzio e per padre la solitudine. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, l’accoglienza non solo delle parole pronunciate ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio che esprime l’autorevolezza di chi prende la parola, è abilitato ad essere il linguaggio dell’amore, accompagna la parola conferendole una grande capacità di penetrazione.
Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nella nostra giornata: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a invettive o slogan ripetuti inutilmente. Ormai è diventato insopportabile assistere a quello che in teoria dovrebbe essere un “dialogo” o un “confronto” televisivo: prevale l’abitudine di alzare la voce per sopraffare, addirittura per coprire la parola dell’interlocutore. E così il necessario ed elementare ritmo che comprende silenzi alternati alla parola viene stravolto, occupato da parole urlate. E, per chi assiste, il programma che dovrebbe offrire occasioni per pensare, conoscere opinioni e visioni diverse della realtà, diventa un’intollerabile esibizione urlata.
Sì, il silenzio è più che mai necessario e nel tempo delle vacanze può essere più facile che si presentino occasioni per viverlo: in passeggiate nei boschi, sui sentieri delle montagne, o in riva al mare, al mattino o al tramonto. La natura silenziosa ci accompagna a praticare un silenzio che sa ascoltare le voci di ogni creatura e in quei momenti è anche possibile percepire il “non detto” che, come “parola degli altri”, ci risuona nel cuore come un’eco delle nostre relazioni.
So bene che il silenzio, come la solitudine, a chi non lo pratica può fare inizialmente paura e ispirare angoscia, ma occorre dare tempo anche al silenzio di diventare una realtà che possediamo e della quale disponiamo per la nostra umanizzazione.
È certamente cosa triste – e non ne comprendo il motivo – che venga ignorato dalla maggior parte delle persone che oggi ci sono ancora “uomini e donne del silenzio” nelle certose, nelle trappe e negli eremi, esseri umani che vivono in continuità l’esperienza umanissima di ascoltare il silenzio. Incontrando costoro forse capiremmo di più che il silenzio è linguaggio, non è mutismo, ed è relazione, comunione che non conosce barriere.
L’insalata
Erri De Luca
Una volta ho letto un libro camminando. Era piccolo e stava dentro la passeggiata di un’ora. L’avevo preso in prestito senza chiedere permesso. Sarebbe appropriazione indebita se non l’avessi riportato in giornata al suo posto. Era di Agota Kristov e mi sono appuntato, per non dimenticarla, questa frase: «È diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore». A proposito del prelievo da uno scaffale di altro proprietario, credo che ogni lettura sia un’appropriazione di parole altrui, durata quanto il tempo impiegato a leggere. Dopo la dimentico facilmente, titolo e nome dell’autore. Non per questo è spreco di tempo. Me lo ha fatto capire il prete anziano di un piccolo centro, raccontandomi di un suo parrocchiano. Ritornato a casa dalla funzione domenicale diceva alla moglie che il prete aveva parlato tanto bene. Alla domanda di lei su cosa avesse detto, non aveva saputo ricordare nulla. Lei gli aveva rimproverato di avere perso tempo se già si era dimenticato. Lui si era giustificato all’incirca così: «Quando il prete parla per me è come l’acqua che lava l’insalata. L’acqua scorre via, non la trovi più, ma dopo l’insalata è pulita». Così è per me per i libri che leggo. Lo scorrere delle pagine scivola via, ma la testa, come l’insalata, è stata rinfrescata
Paolo Scquizzato: Per far fiorire il «vero sé»
Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.
Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo.
Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso.
La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi.
Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti».
Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute.
Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendor fer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile.
Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente.
Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più.
Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.
Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti.
Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime.
«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando».
La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé.
La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali.
Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite.
Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo.
Vuoto
Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui.
Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto».
L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia.
Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti abbiamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre.
Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della disperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo?
Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una considerazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive:
«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico».
Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi.
La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà».
Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”».
La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo intendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil.
La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco).
Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa?
La grazia è senza sforzo, appunto. È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera».
E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea».
Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35).
Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.
Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalienabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare.
Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura».
Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio.
Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo.
Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi.
Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo.
Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accadere. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consapevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive:
«La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stesso, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione».
Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso:
«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente. Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio.
In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13).
Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione.
«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile.
Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco contemporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò abbandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).
Paolo Scquizzato
Enzo Bianchi Perché dobbiamo imparare a riposare per umanizzarci
Siamo ormai nel tempo delle vacanze, un tempo vuoto che dobbiamo riempire, un tempo alternativo a quello quotidiano che viviamo e dal quale prendiamo le distanze interrompendolo.
Di fatto, la nostra cultura è ispirata dalle prime pagine del Grande Codice, laBibbia, che dichiara che Dio per creare il mondo ha lavorato sei giorni, dalla creazione della luce alla creazione del terrestre, l’Adam, ma il settimo giorno ha riposato, ha fatto shabbat.
Anche per noi, come per Dio, l’azione non è conclusa se non interrompendola per prenderne le distanze, contemplarla e giudicarla.
Vacanze, dal latino vacare,significa certamente far niente, ma un far niente per dedicarsi a fare qualcosa. Nel nostro caso, a far cosa? A riposare. Questa dovrebbe essere la vera attività delle vacanze, perché gli umani hanno bisogno di distanziarsi dalla loro azione, devono ritemprare le forze, prendere consapevolezza di quel che sono e di ciò che fanno.
Ma riposarsi non è, in realtà, facile, e questo lo sappiamo tutti: siamo sedotti dall’attivismo, siamo preda del lavoro, siamo assorbiti da un vortice di impegni che crediamo urgenti e che ci impediscono il “lasciare la presa”, anche momentaneo. Purtroppo, ognuno di noi si presenta agli altri per quello che fa e non per quello che è, così quando uno fa niente è assalito dall’angoscia: chi sono io?
Fare niente per molti è uno sforzo, una fatica e addirittura un vortice di angoscia quando si ritrovano nella solitudine e nel silenzio. È ciò che Pascal nei pensieri giudica essere il più grande male nella vita di una persona. Ma questo riposo, questo far niente può essere in realtà la condizione nella quale si diventa di più sé stessi: un cammino di umanizzazione.
Il riposo dunque lo si impara. Per crescere in umanità occorre conoscere sé stessi, imparare a discernere quella voce che abita ogni umano nelle profondità del suo cuore: è una voce reale anche spesso avvolta dal silenzio, ma è una voce che è presente, ed è la voce che appartiene all’umanità.
Alcuni la chiamano voce di Dio, altri voce dell’autentica vocazione umana, poco importa, quella voce c’è e va ascoltata. Il catalogo delle virtù del nostro mondo sembra tener conto del lavoro, dell’azione, ma dimentica che le posture per raggiungere risultati umani sono la contemplazione, il raccoglimento, il silenzio e il pensare.
Sono queste che permettono agli umani di accumulare l’energia e la verità di cui l’azione necessita.
Cerchiamo di essere occupati attraverso il riposo, ma vivendo il riposo, ascoltando il silenzio, contemplando la natura, imparando a conoscere il vento e a distinguere il canto degli uccelli.
Alberto Moravia in una luminosa raccolta di saggi L’uomo come fine del 1964 affermava che per “ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il posto della contemplazione”. Dunque,vacare, dolce far niente, riposarsi per umanizzarci di più.
ACCONSENTIRE AL VIAGGIO
José Tolentino Mendonça
Ci sono domande che da sempre stanno in agguato. Possiamo evitarle, tentare di schivarle o di non parlarne per lungo tempo, ma dentro di noi sappiamo che questo gioco a nascondino ha un prezzo. Sottrarvisi è sottrarci, mancare alla chiamata che la vita ci fa. Una di queste domande è collegata al desiderio, e nella forma più incisiva e personale può essere formulata così: "Qual è il mio desiderio?". Il mio desiderio profondo, quello che non dipende da nessun possesso o necessità, che non si riferisce a un oggetto ma al senso. "Qual è il mio desiderio?". Il desiderio che non coincide con le quotidiane strategie del consumare, bensì con l'ampio orizzonte del portare a pienezza, della realizzazione di me come persona unica e irripetibile, della consapevolezza del mio volto, del mio corpo fatto di esteriorità e interiorità (entrambe vitali), del mio silenzio, dei miei convincimenti. La domanda "qual è il mio desiderio?" non la incontreremo senza prima aver acconsentito al viaggio che inizia solo quando avremo osato entrare in noi stessi. Quando ci disporremo a comprendere quel che è in noi fin dal principio. Ma questo deve rallegrarci, poiché, come ricordava Françoise Dolto, «quando un essere umano avverte in sé un desiderio abbastanza forte da assumersi tutti i rischi del suo proprio essere, vuol dire che è pronto a onorare la vita di cui è portatore».
Il tempo della lettura
di Enzo Bianchi
Per molti la grande occasione per leggere viene dalle vacanze, quando riusciamo a “dare del tempo” alla quiete, al silenzio, al fare niente e quindi possiamo dedicarlo anche a leggere un libro. Un libro che abbiamo letto e amato tanti anni prima, un libro che sta da tempo sullo scaffale di casa e attente, come un morto nel loculo, di essere risuscitato e reso eloquente. Un libro acquistato all’ultimo momento prima di partire o in viaggio. Per me, il consiglio di Flaubert – “leggere per vivere” – ha sempre rivestito un significato denso e mi ha sempre spinto a leggere proprio alla ricerca di una vita piena.
Leggere infatti non è tanto un’attività intellettuale quanto piuttosto il faticoso ma fecondo sforzo di interrogare e interpretare se stessi e la realtà che ci circonda: si tratta di leggere non un libro ma il mondo, le situazioni, gli eventi attraverso ciò che già “sta scritto” perché altri lo hanno messo “nero su bianco”. E, più in profondità ancora, di leggere se stessi: se ci pensiamo bene, il corpo stesso della persona che legge diviene sovente icona di interiorità, una garanzia palpabile di raccoglimento, diremmo quasi che il lettore si fa tutt’uno con il libro e che in tal modo coinvolge nell’atto del leggere persino l’autore stesso di quelle pagine.
La lettura, di fatto, è una conversazione, un dialogo con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio: è un ricevere la parola di un altro e farla propria, interpretandola nel dialogo della propria intimità. Marcel Proust, al termine della sua opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto, le apriva nuovi orizzonti, ancor più sconfinati, asserendo che i suoi lettori sarebbero stati «lettori di se stessi» in quanto il suo libro era solo il mezzo offerto loro perché leggessero dentro se stessi. Sì, anche e soprattutto nella nostra società dell’immagine, leggere resta operazione di grande umanizzazione, sorprendente nella sua semplicità: non occorrono tecnologie né complicate strumentazioni, e nemmeno iniziazioni particolari perché, in fondo, come ricordava il poeta Fernando Pessoa, «l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge». Non a caso i medievali facevano derivare la parola latina intellegere – letteralmente “capire” – da intus legere, “leggere dal di dentro”.
Purtroppo, oggi si legge ancora poco, adducendo tra le scuse il poco tempo a disposizione. Ma le scelte che operiamo nell’impiego del nostro tempo sono rivelatrici di ciò che per noi davvero conta nella vita. Così leggere può divenire antidoto alla monotonia dei giorni, lotta contro il logorio del tempo, manifestazione del nostro essere signori e non schiavi del tempo: in questa sua valenza, è atto anti-idolatrico, gesto di resistenza contro uno degli idoli della nostra epoca, una autentica opzione etica.
Leggere è abbeverarsi a una sorgente che non si esaurisce quando le ci si avvicina. Chi di noi, di fronte a un libro amato non ha fatto l’esperienza di come questi assuma colori nuovi secondo i momenti, di come emani profumi inebrianti, secondo le stagioni? Il libro è un oggetto strano: lo guardiamo, lo valutiamo, lo sfogliamo, lo posiamo, lo ritroviamo. Una frase è riletta, un passaggio familiare o oscuro è nuovamente decifrato. Leggere un libro significa compiere un’operazione tesa a leggere il mondo e la storia e accettare che questo anelito ha già abitato uomini e donne diversi che hanno diversamente vissuto e diversamente scritto.
Leggere è percorrere un itinerario potenzialmente infinito perché «se alla fine ho chiuso il libro – scriveva Virginia Woolf – era solo perché la mia mente era sazia, non perché avessi esaurito il suo tesoro».
Respirare la brezza del mattino
di Alessandro D’Avenia
Vacanze, così le chiamiamo. Dal latino vacatio, ciò che è vuoto. Dopo un anno di battaglie, fatiche, impegni non vogliamo più scadenze, obblighi, ma uno spazio vuoto in cui nessuno ci imponga niente. Lo chiamiamo anche tempo libero, cioè tempo dotato di libertà, a differenza di quello dedicato al lavoro, il tempo dell’obbligo, della produzione, dello ‘schiavo’.
Trovo inadeguati questi nomi, soprattutto per un cristiano. Il cristiano è figlio di Dio, e figlio – in latino liber – è libero, sempre. Il mio tempo libero è sia quando insegno, sia quando faccio un bagno al mare, quando compilo un noioso registro e quando prendo il sole con la brezza che mi accarezza la pelle, perché sono sempre figlio, sotto lo sguardo di Dio che mi dona tutto quello che sono, faccio e ho.
L’ho capito meglio leggendo un bellissimo libro di Mauro Leonardi sul mistero del celibato, dal titolo Come Gesù. L’autore spiega (p.179) che «Adamo ed Eva si riconoscono essi stessi debitori del dono
dell’essere e del dono egualmente grande del loro amore e della loro unità, verso una presenza più grande, Dio, che costituisce l’orizzonte della loro esistenza. Dio non si presenta come un creditore, ma come qualcuno che elargisce doni e gratuità. Dio viene con il solo intento di passeggiare alla brezza del vento lieve: ‘Passeggiava nel giardino alla brezza del giorno’ (cfr Gn 3,8). A ben vedere è proprio questo, in essenza, l’azione caratteristica dell’amicizia: fare una passeggiata».
Questo è il progetto originario di Dio: passeggiare con i suoi figli nella bellezza del creato che ha elargito loro e condividere cuore e cuore questa bellezza, lasciando liberi i suoi figli di condividerla fra loro, e il peccato non è altro che il principio di opposizione al ricevere e al donare.
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Molti si annoiano più in vacanza che al lavoro e altrettanti anelano la solitudine quando lavorano e poi si vanno a infilare in pochi metri quadrati affollati da decine di ombrelloni. Come è possibile?
Noi vogliamo il tempo libero, ma in realtà ne abbiamo paura.
Perché? Proprio perché è libero, proprio perché è vuoto. Proprio perché è il tempo della libertà, è tempo della scelta. Noi vogliamo tutto il tempo, perché l’unica cosa che il nostro cuore anela è l’eternità, ma poi quando abbiamo il tempo scopriamo il suo paradosso.
Per chi vive nel tempo, il tempo è l’unica cosa che ho a disposizione per amare. Amare è donare tempo e donare nel tempo è morire. Se dedico un’ora a un mio amico, quell’ora non torna più indietro, io faccio vivere di più lui, ma quell’ora non torna più. Il Verbo ci ha dato tutto il suo tempo per salvarci, si è fatto tempo per donarci il senza tempo. Quando arrivano le vacanze e il tempo libero, noi crediamo che sia finalmente venuto il momento di vivere, ma il tempo autoreferenziale, egoistico, senza amore, è un tempo che annoia, perché ci rende più schiavi di quello che abbiamo quando lavoriamo. L’unico tempo liberato e che ci rende felici – sia che lavoriamo sia che riposiamo – è quello dedicato ad amare (noi stessi e il prossimo).
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Vacanza non è svuotarsi e non avere impegni, quello ci stanca più di lavorare, ma è prendere il proprio tempo e decidere a chi e cosa dedicarlo, perché diventi pieno: passeggiare nel giardino con Eva, carezzati dalla brezza del giorno, sotto lo sguardo di Dio. Pieno è il tempo dei figli sotto lo sguardo del padre. Pieno è il tempo dedicato a ciò che il nostro cuore cerca, se lo sappiamo ascoltare.
Abbiamo noi il coraggio, durante le vacanze, di liberare il nostro tempo e di non farne un semplice dato di fatto determinato dal destino: non devo lavorare, allora sono libero?
Solo chi è in vacanza anche quando lavora, sa cosa è la vacanza. Solo chi è libero nella fatica quotidiana, può godere il tempo della festa e viceversa.
Le vacanze parlano del paradiso, luogo in cui avremo tutto il tempo: saremo sempre liberi, perché saremo davvero figli, senza niente che possa offuscare questa condizione. Il nostro tempo sarà solo tempo dell’amore ricevuto e dato. L’amore non vuole durata, ma eternità, a noi non soddisfa che le cose durino (tanto non durano), ma che siano piene, nell’istante. Il paradiso – anche sulla terra – non è durata e immortalità, ma pienezza dell’attimo, eternità. Ecco quale è il vero tempo libero: quello che ha in sé la pienezza e nelle vacanze abbiamo semplicemente più possibilità di sceglierlo. Una chiacchierata con un amico, un bel libro, una passeggiata con la moglie, una nuotata con un figlio, una cantata sotto le stelle, una chiacchierata con Dio. Solo se avremo il coraggio di donarlo il tempo si libererà.
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Se non inseriremo il nostro riposo nella celebrazione del rito della bellezza delle cose che ci sono donate, insieme agli altri, ma lo vivremo come possesso consumistico di beni da ottenere a tutti i costi, inevitabilmente oscilleremo tra l’accidia del non far nulla (noia) e l’agitazione del fare (ansia); consumeremo le vacanze ritrovandoci più stanchi di prima, quasi sperando di ricominciare a lavorare, felici sotto sotto che qualcuno ci strappi via il tempo che non abbiamo il coraggio di vivere, cioè di donare.
Mauro Giuseppe Lepori: Fede è lasciare che Dio si prenda cura di noi
di Rossana Campisi
C’è che adesso sarebbe bello immaginare il deserto. Che è un luogo – ovvero una distesa di sabbia, senza gente e senza acqua – ma anche una metafora luminosa.
Sarebbe bello ricordarsi che qui, nel deserto, padre Mauro Giuseppe Lepori ha piantato le sue radici personali ma anche quelle che hanno dato il titolo a un bellissimo dialogo con la giornalista Monica Mondo (Tea edizioni) su fede, Chiesa e monachesimo.
Radici nel deserto è solo l’ultimo libro di Lepori, che nasce a Lugano nel 1959 e studia all’università di Friburgo e che, prima di diventare (tredici anni orsono) l’abate generale dei Cistercensi, è stato un giovane animato da uno «struggente desiderio di pienezza» che trovava pace camminando e meditando tra boschi e campagne.
Sentirsi chiamati
«La mia vocazione risale a due incontri», racconta. «Ho percepito che questa pienezza di vita era nella Chiesa ed era Cristo. A diciassette anni ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione in una famiglia di operai friulani residenti nel mio paese in Svizzera. Quanto a Cristo, mi si è rivelato come un lampo di luce e di gioia ad Assisi, alla Porziuncola, nel giorno della festa del Perdono del 1977. Tutta la mia vita la vedo sgorgare da queste due sorgenti che in realtà sono una sola: Gesù presente e vivo nel suo corpo ecclesiale», aggiunge Lepori che nel 1989 ha emesso i voti solenni presso l’abbazia cistercense di Hauterive, poco lontano da Friburgo.
La sorgente torna spesso nelle sue parole ed è quella che «al di là di tutte le apparenze può dissetare l’umanità e i nostri cuori: è Gesù che, incontrando la Samaritana, questa donna così rappresentativa dell’umanità confusa e incapace di vivere l’amore per cui è creato il cuore, la porta a desiderare l’acqua viva che Lui le offre, il dono dello Spirito.
Quella donna ha scoperto che nel deserto della sua umanità umiliata e disprezzata c’erano radici ancora capaci di desiderare e assorbire l’acqua viva dell’amore di Cristo», precisa l’abate.
Missione itinerante
Da più di dodici anni, padre Lepori sembra più un missionario che un monaco. È sempre in viaggio per visitare le comunità dei Cistercensi sparse nel mondo.
«È Gesù che mi chiama a questa vita e per questo non mi ha mai privato della sua amicizia. Forse ora sono più cosciente di ciò che il monastero ha forgiato in me: quel dimorare in Cristo che accoglie la vita, le circostanze, gli incontri, le fatiche nel rapporto costante con Lui. Continuo a pregare l’Ufficio monastico, a praticare la meditazione della Parola e la preghiera del cuore che ho imparato vivendo in monastero, ma forse oggi con un sentimento più acuto», aggiunge lui, che non ha scelto i Cistercensi in modo “ragionato”.
«Quando ho incontrato quella realtà ho percepito con chiarezza che era lì che il Signore mi chiamava a stare unito a Lui. Ho capito, meditando il capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni, che questo è l’unico segreto della fecondità della vita: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto”».
Essere monaci oggi
Ascoltando le sue parole, e cercando le radici in questo spazio che è il deserto, viene da chiedersi cosa significhi essere monaci oggi, al di là della paura che ogni scelta comporta. «La paura in me ha spesso il volto dell’ansia, della preoccupazione di non corrispondere alle attese. Così guardo Gesù negli occhi e Lui ogni volta mi dice: “Uomo di poca fede, perché hai ancora dubitato? Perché non ti sei fidato fin dall’inizio? Perché non hai iniziato mendicando il mio aiuto?”. Ecco, essere monaci oggi vuol dire vivere unificati dal rapporto con il Signore. Anche nei monaci c’è tanto “mondo” da recuperare alla verità originale. Per questo in monastero è cresciuta in me una profonda compassione per il mondo – perché siamo tutti peccatori – ma anche la coscienza del fatto che Cristo ci chiama a sé per consolarci e far nuove tutte le cose. La vita monastica scava in noi un ardente desiderio di comunicare Gesù al mondo, che poi è lo stesso del cuore di Cristo».
Un tempo di fragilità
L’abate è consapevole del fatto che oggi, almeno in Occidente, predominano comunità monastiche fragili, di numero e di forze, che sembrano sempre in lotta per sopravvivere. «Il monachesimo in fondo è sempre stato il segno di un’umanità che trae tutta la sua forza dalla salvezza pasquale di Cristo.
Per questo, il diventare fragili, piccoli, e magari il morire, non è di per sé un venir meno del senso del monachesimo: ne accentua la verità e l’invisibile fecondità. Se il monachesimo oggi aiutasse il popolo di Dio a credere alla parabola del chicco di grano che morendo dà molto frutto, raggiungerebbe la pienezza del suo significato», confessa Lepori, che tra le sue preghiere elenca i Salmi, le letture bibliche e patristiche.
«Da quando ero novizio, un monaco mi ha insegnato a pregare col cuore l’invocazione del nome di Gesù, di Maria, domandando lo Spirito Santo e misericordia per me e il mondo intero. Questa preghiera – che potremmo definire giaculatoria, come la preghiera di Gesù della tradizione orientale, quella del pellegrino russo – mi ha sempre aiutato a pregare ovunque, anche ora che sono sempre in viaggio, e mi piace abbinarla coi misteri del Rosario».
Ai giovani, padre Lepori consiglia «di ispirarsi a Gesù stesso, visto che è così accessibile e così affascinante. Consiglierei di conoscerlo nel libro del Vangelo, ma anche nel Vangelo vivo che sono i santi, tutti, e tra loro includo i testimoni viventi che la Chiesa sempre manda, magari fra i propri compagni di studio, di lavoro, di sport, come lo fu il beato Carlo Acutis. Gli suggerirei infine di coltivare un aspetto della vita monastica, ovvero quello di fermarsi, ognuno come può e meglio sente, ad ascoltare in silenzio la presenza e la parola di Dio».
Non vivere distrattamente
«Sa cosa?», mi dice alla fine Lepori.
«La fede perde di consistenza quando pensiamo di poter vivere senza. Ovvero quando viviamo distratti, non tanto da Dio, ma da noi stessi, dal vero dramma della vita, dalle profonde esigenze del nostro cuore. Quando siamo superficiali con i rapporti, gli affetti, il lavoro, la festa, il corpo, la malattia, la morte. Chi è serio con la vita diventa sensibile alla fede, che altro non è che essere presi dall’amore di Cristo per la nostra umanità. La fede è permettere al Risorto di prendersi cura di noi come il samaritano dell’uomo ferito dai briganti. Per questo, per coltivarla direi che bisognerebbe cominciare a voler bene alla propria umanità, a guardarla con tenerezza, stupore, in noi e negli altri. Allora, appena ci sorprende lo sguardo del Signore, non possiamo non essere conquistati dall’offerta di vivere con Lui un’amicizia senza fine».
Comunicare è conoscersi dentro
Eugenio Borgna
Nell’interiorità matura la conoscenza di ciò che siamo, delle nostre emozioni e, ancora più intimamente della nostra anima. Questo ascolto di sé è alla radice di ogni relazione
Si comunica col linguaggio delle parole, che è la comunicazione verbale, e col linguaggio del silenzio e della solitudine, degli occhi e degli sguardi, delle lacrime e del sorriso, che è la comunicazione non verbale: le due grandi aree semantiche della comunicazione. Negli svolgimenti tematici del discorso vorrei indicare come queste due diverse modalità di comunicare si snodano in alcune emblematiche condizioni di vita, e come dovremmo di volta in volta comportarci al fine di renderle sempre più dotate di senso, e creatrici di umanità, e di solidarietà, di sensibi-lità, e di gentilezza, di attesa, e di speranza, che si intrecciano le une alle altre. La comunicazione è l’espressione del comunicare, e in vita non è possibile non comunicare, la sola cosa che ci consenta di uscire dalla solitudine; ma è necessario distinguere ancora due diverse forme di comunicazione: quella razionale e astratta, estranea ai contenuti emozionali, e quella animata dalla passione. Lo diceva Giacomo Leopardi: solo se la ragione si converte in passione, diviene strumento di conoscenza, e di comunicazione. La comunicazione razionale è quella che, nella vita quotidiana, si limita a trasmettere cognizioni, e informazioni, con un’arida elencazione delle cose. La comunicazione emozionale è quella che espone le cose con slancio, e con viva partecipazione dialogica. Le stesse cose, esposte con freddezza, o con passione, cambiano di significato, e si imparano con una diversa rapidità, e anche con una diversa partecipazione interiore. Una bellissima poesia di Clemente Rebora ( Tempo) è la premessa, la fonte, delle mie riflessioni sulla comunicazione, e sulle sue metamorfosi, e sono grato a Roberto Cicala, che è l’attuale editore delle più belle opere del grande poeta rosminiano, di avermela proposta. Leggiamola insieme: Apro finestre e porte – ma nulla non esce, non entra nessuno: inerte dentro, fuori l’aria è la pioggia. Gocciole da un filo teso cadono tutte, a una scossa. Apro l’anima e gli occhi – ma sguardo non esce, non entra pensiero: inerte dentro, fuori la vita è la morte. Lacrime da un nervo teso cadono tutte, a una scossa. Quello che fu non è più, ciò che verrà se n’andrà, ma non esce non entra sempre teso il presente – gocciole lacrime a una scossa del tempo. Questa fragile e umbratile riflessione sulla comunicazione interiore sgorga, così, da questa emblematica poesia di Rebora. Ne ho sempre letto le poesie, e i testi religiosi, che si intrecciano le une agli altri nei loro bagliori, e nella loro arcana e ardente spiritualità. I versi, che parlano dell’anima e degli occhi, colgono le radici della comunicazione, di ogni comunicazione, non solo in psichiatria, ma nella vita. Nell’ultima strofa il tempo, che è il titolo della poesia, rinasce nel suo germogliare e nel suo svanire. Nel riflettere sulla coscienza interiore, sull’interiorità, come premessa alla conoscenza e alla comunicazione di quello che noi siamo nei nostri pensieri e nelle nostre emozioni, vorrei ricordare quello che sant’Agostino ha scritto sulla conoscenza di sé, in una ( De vera religione) delle sue grandi opere teologiche e filosofiche. Le sue parole celeberrime sono: «Non uscire da te stesso, rientra in te, nell’interiorità dell’uomo risiede la verità». La mia domanda è questa: ci conosciamo, meditiamo, sappiamo isolarci dalle nostre impressioni immediate, dedichiamo tempo e pazienza indispensabili a conoscere le sorgenti profonde, e non solo quelle superficiali, dei nostri gesti e delle nostre azioni, delle nostre emozioni e dei nostri pensieri? Non c’è bisogno di essere psicologi, e psichiatri, per giungere a conoscere quello che noi siamo nella nostra vita interiore. Ci sono libri che ci aiutano in questo, e che non sono solo di matrice psicologica, ma anche di matrice poetica. Le poesie di Giacomo Leopardi, e anche quelle di Clemente Rebora, sono nutrite di una profonda interiorità e ci aiutano nel conoscere la nostra interiorità. Sì, ci sono attitudini personali nel seguire il cammino misterioso che porta alla conoscenza di sé, ma siamo (tutti) chiamati a conoscere le nostre emozioni, e quelle delle persone che la vita ci fa incon-trare, se vogliamo comunicare con noi stessi e con gli altri. Cose non facili, che si devono nondimeno tenere presenti, se vogliamo dare un senso alla nostra vita e conoscere quello di cui gli altri hanno bisogno, e che non hanno magari il coraggio di chiedere. Siamo circondati da persone, che non conosciamo nella loro fragilità e nella loro delicatezza, e che dovremmo sapere riconoscere. Una straordinaria filosofa francese, Simone Weil, autrice di libri di una indicibile bellezza e di una radicale profondità, morendo a poco più di trent’anni, ha scritto: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordo a queste grida». Quando conosciamo una persona non dovremmo mai dimenticare queste parole.
Motivi di gioia
Alessandro D'Avenia
La vita felice è infatti un equilibrio tra lasciar essere e fare. Come trovarlo?
Ossessionati dal controllo, soffochiamo la vita, che è invece una sinergia di fare e lasciar essere, prima in noi stessi e poi nel mondo, come accade in un concerto. L'accordo di voci e suoni è presente in natura in modo sorprendente, come ha mostrato qualche anno fa Davide Monacchi nel premiato documentario Dusk chorus, tratto dal progetto «Frammenti di estinzione» atto a esplorare acusticamente le più antiche foreste equatoriali, registrando i suoni delle aree a più alta biodiversità.
Chi ascolta (l'ho fatto in una sfera buia con audio immersivo durante la settimana del design a Milano) diventa parte della foresta, grazie alla tecnologia del suono 3D che ha catturato i versi di insetti, uccelli, anfibi, mammiferi (e persino degli alberi). Monacchi ha poi tradotto i suoni in uno spettrogramma acustico dell'ecosistema, dove si possono vedere le bande sonore in cui i diversi animali si collocano. Il dato commovente è un'armonia in cui i versi non si sovrappongono, ma creano accordi: o occupano frequenze differenti o si alternano se usano la stessa, secondo uno spartito invisibile. Purtroppo però quando l'inquinamento acustico umano occupa alcune frequenze, gli animali che le usano sono costretti ad abbandonare l'ecosistema, e alcuni si estinguono: dal concerto si passa allo sconcerto, dall'accordo al disaccordo, dal canto al disincanto. In natura quindi ogni «voce» occupa il suo posto e si armonizza con le altre. Questa sinfonia, a cui saremmo più educati se frequentassimo i suoni naturali (è significativo della nostra nostalgia di pace che tra le playlist più seguite sulle piattaforme ci siano proprio quelle che riproducono questi suoni), è ciò a cui aspiriamo, ma spesso noi stessi la distruggiamo. Infatti se potessimo fare lo spettrogramma del nostro contesto acustico, scopriremmo quanto siamo esclusi o scappiamo dalla nostra banda sonora, o magari occupiamo quella altrui.
La comunicazione di oggi, urlata e saturata da chi ha i mezzi per far più rumore, tende a coprire le voci, soprattutto quella dei giovani, perché la frequenza su cui esercitarla è occupata da chi non dovrebbe star lì.
Scivoliamo così nella univocità (che significa «una sola voce») e monotonia («una sola tonalità») del controllo. Per vivere serve invece un'ecosistema umano corale che permetta a ciascuno di scoprire e usare la propria voce, che è il modo in cui abbiamo scelto di indicare, metaforicamente, proprio l'unicità personale: trovare la propria voce (da cui vocazione) è infatti sinonimo di vita autentica. Ma vocazione significa anche convocazione: coralità, lo strumento è orchestra, il singolo comunità. Siamo fatti perché le voci si accordino nella loro diversità in una sinfonia che non è data dalla loro somma ma da un superamento collaborativo, come narra in modo affascinante Tolkien nel racconto che dà origine al suo mondo, il Silmarillion. Protagonisti dell'origine dell'universo sono degli spiriti che abitano prima del tempo insieme a Eru Ilúvatar, il dio supremo. Eru per l'appunto li con-voca e propone un grande tema musicale, chiedendo di svilupparlo per dare vita a tutte le cose. La bellezza si espande e incarna coralmente finché uno di questi spiriti decide di mettersi in proprio tradendo l'armonia del tema e dell'orchestra: il male è uno sconcerto, un fare che impedisce il lascia che sia. Let it be. Anche a scuola proviamo a fare lo stesso aiutando i ragazzi a trovare la propria voce, e nei giorni di maturità mi è particolarmente evidente.
Ma abbiamo noi ancora un tema musicale da sviluppare? Esiste ancora uno spartito?
Alla fine dell'anno i maturandi mi hanno regalato un'edizione dell'Odissea, la stessa che abbiamo usato per la lettura integrale del poema ad alta voce durante il primo dei cinque anni di superiori, quello vissuto a distanza. Quell'esperienza di lettura in cui ciascuna voce incarnava un personaggio da un punto diverso e disperso della città, ci è rimasta nella memoria come un concerto, quando invece l'armonia era distrutta dal distanziamento. Nella prima pagina del libro di un racconto di tremila anni fa hanno apposto le loro firme, quelle che cominciano a usare per le loro nuove responsabilità. All'interno c'erano poi le loro voci.
Ognuno aveva infatti sottolineato il passo più amato affiancando il proprio nome alle parole di Omero. Così alla mia collezione di Odissee ho aggiunto la più bella, fatta di nomi e voci (versi). Quando la apro ascolto una musica “di classe”: volti e vocazioni, cioè la scuola, un luogo in cui, se non fossimo oberati da burocrazia, prestazioni e impegni che poco hanno a che fare con l'educazione, siamo chiamati a cercare proprio l'equilibrio tra il fare e il lasciar essere, per evitare sia il controllo sia l'indifferenza. E non è forse questo il lavoro della vita? Questo libro, divenuto per loro una sorta di tema musicale da sviluppare, sarà per me un Inno alla gioia, in cui ogni voce, unica, come ogni vocazione, per altezza, timbro, intensità e durata, si è legata ad altre in una convocazione che supera le singolarità e il tempo. E l'amore non è forse far essere «la voce a te dovuta», come il titolo del libro di un poeta innamorato? Quando tornando a casa tardi per il pranzo dopo gli orali di maturità trovo un post-it con su scritto «ti amo» e «potresti mangiare questo», non ascolto il canto quotidiano della vita? Un'armonia di fare e lasciar essere come il giardiniere cura le sue piante?
In musica tutto questo accade grazie al silenzio. Il mio augurio è che possiate (ri-)trovare la vostra voce, unica e necessaria al concerto della vita. Lo sconcerto, il disaccordo e il disincanto in cui a volte precipitiamo non sono la realtà, ma un tradimento della voce a noi dovuta e di quelle a cui, per ecosistema, siamo legati. La vita aspira e tende infatti al coro delle foreste vergini e al concerto sui tetti di una rumorosa città.
Riconciliarsi
con la bellezza
José Tolentino Mendonça
«Cos'è che può restituire l'entusiasmo e la fiducia, cos'è che può incoraggiare l'animo umano a riscoprire la sua strada, a volgere lo sguardo oltre l'orizzonte immediato, a sognare una vita degna della sua vocazione, se non la bellezza?». Questa domanda così seria, così esistenzialmente decisiva, è stata posta da Benedetto XVI nella Cappella Sistina, nel novembre 2009, in uno storico incontro con gli artisti. Ovviamente, per sua natura, non è una questione che riguardi soltanto le persone legate alle arti: è una sfida lanciata a tutti. La questione della bellezza è, in effetti, assolutamente centrale nell'esperienza cristiana, nell'esperienza cristiana comune, ripeto, ed è urgente che sentiamo la necessità di riconciliarci con la bellezza.
Forse oggi ci meraviglia sapere che una delle discussioni intessute dai Padri della Chiesa era decidere se Cristo era o non era bello. Non si tratta di una questione minore o futile come, forse, possiamo credere a prima vista. In effetti, è la stessa liturgia che continua ad alimentare questo dibattito. Il Salmo 45, per esempio, l'applica a Gesù:
«Liete parole mi sgorgano dal cuore:
io proclamo al re il mio poema,
la mia lingua è come stilo di scriba veloce.
Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo,
sulle tue labbra è diffusa la grazia,
perciò Dio ti ha benedetto per sempre!».
Si tratta di un salmo nuziale, dove prima di tutto si descrive la bellezza del re, i suoi valorosi attributi e la sua nobile missione e, successivamente, si passa a esaltare la promessa sposa:
«Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio:
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre;
il re è invaghito della tua bellezza.
È lui il tuo signore: rendigli omaggio!».
La tradizione cristiana ha interpretato questo salmo come una prefigurazione della relazione sponsale di Cristo con la Chiesa. Commentava in un articolo su La bellezza e la verità di Cristo l'allora cardinale Joseph Ratzinger: «La Chiesa riconosce Cristo come il più bello fra gli uomini, e la grazia che si diffonde sulle sue labbra rimanda alla bellezza intrinseca delle sue parole, alla gloria della sua predicazione. Non è la mera bellezza esteriore dell'aspetto del Redentore che è glorificata; anzi, in lui traspare la stessa bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso, che a sé ci attrae e, al contempo, ci cattura attraverso la ferita dell'amore, la santa passione che ci permette di procedere assieme – con e nella Chiesa, la sua sposa – per incontrare l'Amore che ci chiama».
La bellezza, e la bellezza di Cristo in particolare, cattura il nostro cuore, ci ferisce intimamente, ci schiude la rivelazione, fa in modo che smettiamo di appartenere a noi stessi, ci obbliga a relativizzare ciò che eravamo, a dimenticare molte volte la nostra patria e la casa paterna, ci attrae a sé. È questo che la Chiesa prega nel Salmo 45.
Ma, mentre la liturgia utilizza ampiamente il salmo, considera allo stesso tempo indispensabile la luce che reca al mistero di Cristo il dramma del «servo sofferente», descritto in Isaia:
«Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?
A chi sarebbe stato manifestato
il braccio del Signore?
È cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo
alcuna stima.
Eppure egli si è caricato
delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato» (Is 53,1-4).
Come possiamo, dunque, coniugare spiritualmente i due testi? In uno Cristo è «il più bello fra i figli degli uomini», nell'altro, appare completamente sfigurato, privo di qualsiasi bellezza che attragga il nostro sguardo. Pilato, forse per attirare su di lui un resto di compassione, lo presenta semplicemente come «l'uomo»: «Ecco l'uomo!» (Gv 19,5). Commenta, ancora, il cardinale Ratzinger: «È qui implicita la questione più radicale: sapere se la bellezza è vera o se, al contrario, è la bruttezza che ci conduce alla verità più profonda della realtà. Chiunque creda in Dio, quel Dio che si è manifestato precisamente nell'apparenza sfigurata di Cristo crocifisso come amore fino alla fine (Gv 13,1), sa che bellezza è verità e verità è bellezza; ma, in Cristo sofferente, apprende anche che la bellezza della verità accoglie allo stesso tempo l'offesa, il dolore e persino l'oscuro mistero della morte, e che questa può essere assunta solo quando si accetta la sofferenza, non quando si cerca di ignorarla». In effetti, non esiste bellezza che non sia unita al mistero della croce, che non ci collochi come Maria e Giovanni sotto la croce.
Perché la riconciliazione con la bellezza di Cristo è così decisiva nella maturità di un percorso spirituale? Senza la bellezza, l'esperienza cristiana rimane incompleta. Conosciamo bene i rischi di un cristianesimo puramente sociologico, articolato semplicemente fra convinzioni e pratiche. Come nella storia di quei geologi che nelle loro ricerche scoprirono, sulla vetta di alcuni monti altissimi, un lago, dove riposavano pietre immerse chissà da quante centinaia di anni. Però, quando le spezzarono per studiarne le caratteristiche morfologiche, capirono, con meraviglia, che all'interno erano asciutte. Allo stesso modo, senza la bellezza attraente di Cristo, il cristianesimo rimane «asciutto», funzionale, burocratico, ritualista, un bagno esteriore di convenzioni rispetto al quale il nostro cuore si mantiene impermeabile.
Il nostro cuore, tuttavia, è chiamato a essere ferito dalla bellezza pasquale di Cristo e dall'amore infinito che egli rivela. La nostra vocazione è questa ferita d'amore, questo ampliarsi, questo inzupparsi fino alle ossa nell'amore di Dio, questo vivere un'appartenenza reale che accende nella vita intera il desiderio di Dio, questo sperimentare un sussulto di Dio che si prolunga negli anni: «Io dormivo, ma il mio cuore vegliava» (Ct 5,2), questa passione che non termina se non nell'assoluto di Dio e di Dio soltanto, questa epifania d'amore che quotidianamente ci compromette, trasfigura e trascende, questa inspiegabile luce di Dio che ci abbatte e solleva nel nostro cammino di Damasco.
Platone spiegava così l'impatto della bellezza in noi e la sua spiegazione ci è di grande aiuto, perché essere ferito dalla bellezza è, prima di tutto, un'esperienza antropologica: «Mentre si vede la bellezza, come in un tremore febbrile, si produce dentro di noi un'agitazione, un sudore, un calore insolito. Così è quando gli occhi ricevono il flusso della bellezza. Questo flusso scalda e irriga l'essenza...». Non è la stessa cosa che succede ai discepoli di Emmaus quando domandano: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Il cristiano si definisce come qualcuno che vive «ferito» dalla bellezza singolare di Gesù. E questa «ferita» genera in noi desiderio, volontà, attrazione, disponibilità per quanto può ancora avvenire.
La misteriosa lotta di Giacobbe con Dio (Gen 32,25-32) trascrive, paradigmaticamente, come l'irruzione del divino sia di una bellezza più forte che ci vince, bellezza irresistibile, che non smette mai di essere indicibile. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: "Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!". Gli domandò: "Come ti chiami?". Rispose: "Giacobbe". Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!". Giacobbe allora gli chiese: "Svelami il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?". E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: "Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva". Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all'anca».
«Spuntava il sole». L'incontro con la bellezza è talmente decisivo che esistono un prima e un dopo, è una nuova stagione che comincia per la nostra vita. Ed è interessante il dettaglio di Giacobbe che se ne esce dalla lotta con l'angelo zoppicando. È ferito, perché il bello di Dio ferisce, non ha niente di superficiale. Il bello di Dio convoca l'uomo al suo destino finale, gli rivela la reale grandezza della verità. Il famoso teologo bizantino Nicola Cabasilas ha scritto nell'opera La vita in Cristo (XIV secolo): «È stato lo sposo che ci ha ferito con questa ansia. È stato lui che ha inviato un raggio della sua bellezza direttamente ai nostri occhi. Se l'estensione della ferita dimostra che la freccia ha raggiunto il suo bersaglio, l'ansia dimostra chi è stato a infliggere la ferita».
In effetti, gli altri due elementi trascendenti, «verità» e «bontà», non riescono ad attrarre l'uomo, se questi non si sente toccato da «qualcosa che affascina», come scriveva Plotino. E la bellezza che attrae, fa spostare il cuore, cattura e trasfigura. Dobbiamo, per questo, oltrepassare il silenzio a cui una certa stagione razionalista, persino all'interno della teologia e della spiritualità cristiana, la votava. Riconciliamoci con la bellezza, lasciamoci trasformare interiormente da questa. Dice ancora il cardinal Ratzinger: «Essere colpiti e dominati dalla bellezza di Cristo costituisce una conoscenza più reale, più profonda, che la mera deduzione razionale. È chiaro che non dobbiamo sottovalutare l'importanza della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e preciso; questo continua ed è assolutamente necessario. Ma da qui a disdegnare o rifiutare l'impatto che la risposta del cuore produce nell'incontro con la bellezza, considerata come un'autentica forma di conoscenza, significherebbe impoverirci, esaurire la nostra fede e la nostra teologia. Dobbiamo riscoprire questo modo di conoscere, e si tratta di una necessità urgente al giorno d'oggi».
Nel suo sviluppo storico, l'esperienza cristiana è diventata humus di alcune sorprendenti espressioni della bellezza: l'architettura religiosa, da Michelangelo a Gaudí; le impressioni incandescenti trascritte dai mistici (pensiamo a Ildegarda di Bingen o a san Giovanni della Croce); i registri iconografici che riproducono l'incommensurabile (le moltitudini giornaliere sono la prova che la Cappella Sistina dà i brividi a qualsiasi mortale); le opere musicali che risuonano come inventari dell'anima o come il suo genio; gli immensi dizionari del naturale e del soprannaturale; i simboli, il laboratorio di linguaggi che si sviluppano infinitamente. Ma tutte queste espressioni possono diventare semplicemente equivoche, perché la bellezza non è un patrimonio che la Chiesa ha posseduto, possiede o amministra. La bellezza si lega alla rivelazione della stessa Chiesa, alla sua identità soprannaturale. È questo il «grande mistero» a cui si riferisce la Lettera agli Efesini: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei... per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga» (5,25-26). La Chiesa in Cristo, nel mistero della sua natura e della sua missione, è l'aurora della visione, è questo impeto, storico e infinito, verso il punto di vista di Dio. In modo velato, ma tremendamente efficace, costituisce espressione e dramma della sapienza divina.
Così scrive Dionigi Aeropagita, offrendo l'esempio di san Paolo: «Sublime Paolo caduto sotto il pungolo dell'eros divino e reso partecipe del suo potere estatico, grida con voce ispirata: "Vivo, ma non sono io ormai che vivo. È Cristo che vive in me". Egli parla, dunque, come un vero amante, come qualcuno che, come lui stesso dice, è fuori di sé e vive estaticamente in Dio (2Cor 5,15), in tal modo che non vive ormai la sua vita, ma quella dell'amato, come qualcuno ricolmo d'amore appassionato».
L'affermazione centrale, e tanto citata, di Gesù nel Vangelo di Giovanni (10,11), che ci siamo abituati a vedere, in ogni luogo, tradotta come «io sono il buon pastore», possiede in effetti un'altra possibilità di significato. Si può tradurre con: «Io sono il bel pastore». Nella visita apostolica in Portogallo, durante il discorso al Centro Culturale di Belém, Benedetto XVI ci ha lanciato la sfida: «Fate cose belle, ma soprattutto fate delle vostre vite luoghi di bellezza». Lasciamoci toccare, incantare, innamorare, ferire dalla bellezza che Dio rivela in Gesù.
(Il tesoro nascosto. Per un'arte della ricerca interiore, Paoline 2011, pp.71-80)
SPERANZA
La speranza “sorella più piccola”
Gianfranco Ravasi
La speranza non è né inerzia, né impazienza. È invece fiducia e condivisione dell'azione lenta e nascosta di Dio che conduce la storia alla meta simboleggiata dalla mietitura, nella quale grano e zizzania saranno separati e vagliati per quello che sono
“E’ sperare la cosa difficile
a voce bassa e vergognosamente.
E la cosa facile è disperare/ ed è la grande tentazione”.
Così, nel poema II portico del mistero della seconda virtù (1911), Charles Péguy celebrava questa “sorella più piccola” della fede e della carità, seconda virtù teologale, dono divino da coltivare con pazienza e fatica. Non per nulla, accanto al greco elpis che la designa, S. Paolo userà per descriverla anche il termine hypomonè, “costanza”, letteralmente un “rimanere sotto” un peso da reggere, un restare sotto un cielo oscuro con la certezza che giungerà il tempo della sosta e della luce. È per questo che ai cristiani di Tessalonica l’Apostolo raccomanderà “l’impegno nella fede, l’operosità nella carità e la costanza nella speranza” (1Tess 1,3).
Il credente, infatti, conosce l'amarezza dell'esistenza e le contraddizioni della storia perché la religione biblica non lo invita a decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici, bensì a camminare per le strade della quotidianità. Anche sulle sue labbra affiorano le domande dei Salmisti:
“Perché, o Signore?... Fino a quando, o Signore, te ne starai a guardare?”. O la confessione di Giobbe: “I miei giorni scorrono veloci come una spola, svaniscono senza un filo di speranza... La mia speranza dov’è mai nascosta? Qualcuno ha intravisto la mia felicità?” (7,6; 17,15). È proprio in questo orizzonte concreto e aspro che deve scattare l’impegno: ritrovare la speranza anche quando si procede in mezzo al trionfo dell’ingiustizia. È quello che ripetono i Salmisti: “Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui; non irritarti per chi ha successo, per l’uomo che trama insidie... Io spero nella tua parola” (37,7; 119,81). Due sono, quindi, le componenti che reggono questa virtù. C’è innanzitutto la certezza che la parola ultima sarà quella di Dio che giudicherà questa sghemba e scandalosa storia umana. Emblematica è la parabola del grano e della zizzania (Matteo 13,24-30). La scena del mondo è comparata a quella di un campo ove grano ed erbacce crescono insieme: bene e male si fronteggiano e il male sembra ben più vigoroso. Si ha, allora, la grande tentazione della rassegnazione, dello scoraggiamento o, al contrario, quella della reazione rabbiosa e violenta. La speranza non è né inerzia, né impazienza. Non è assenteismo dimissionario, né irruzione veemente che, anziché salvare il bene, allarga solo le ferite. È invece fiducia e condivisione dell’azione lenta e nascosta di Dio che conduce la storia alla meta simboleggiata dalla mietitura, nella quale grano e zizzania saranno separati e vagliati per quello che sono.
Ecco, allora, a questo punto, l’altro aspetto, quello dell'impegno umano nella resistenza al male, nella fedeltà al bene, nell’attesa operosa. È ciò che un sapiente biblico, forse di Alessandria d'Egitto, suggeriva: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio... Anche se agli occhi degli uomini subiscono prove, la loro speranza è piena di immortalità” (Sapienza 3,1.4). Si costruisce con pazienza il regno di Dio in mezzo alle prove, tenendo sempre alta la fiaccola della speranza perché ciò che attende l’umanità e l’essere intero non è il baratro del nulla ma è quella città che l’Apocalisse descrive a suggello della sua realistica e severa lettura della storia umana: la Gerusalemme nuova e perfetta ove Dio passerà a “tergere ogni lacrima dagli occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (21, 4).
Il filosofo Ernst Bloch, autore della famosa opera Il principio della speranza (1954-59), suggestivamente ricordava che “finché c’è fede, c’è speranza”, al contrario del motto tradizionale “finché c’è vita, c’è speranza”. L'olio della fede alimenta la lucerna della speranza e ci spinge a trascendere il male, a “rimanere sotto” (hypomonè) il giogo delle prove con fedeltà, a proseguire verso quell’orizzonte di luce che ancora è lontano, ma che è certo e preparato da Dio stesso. È per questo che S. Pietro ripete ai cristiani, oggi come allora, il suo appello: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pietro 3,15).
Uomini e donne della speranza
Paola Ricci Sindoni
Dire laicità significa condividere con tutti l'ansia premurosa per il presente e anche la passione per quanto abbiamo davanti a noi
“L’uomo non va capito tanto dal suo passato, quanto dal futuro che egli sogna”, sosteneva qualche anno fa il teologo Ladislaus Boros. Questo non certo perché le ferite del passato e le delusioni del presente debbano esporre l’uomo a una irreale fuga in avanti, ma a motivo della speranza che può e deve diventare una categoria essenziale dell'identità del laico credente.
Dire laicità significa predicare l'amore per il mondo e condividere con tutti l'ansia premurosa per il presente e anche la passione per quanto abbiamo davanti a noi. Non si tratta certo di immaginare idealmente o razionalmente un nuovo progetto di vita, in grado di neutralizzare le inquietudini e le crisi che attraversano ormai le fibre nascoste dell’essere umano nel mondo, quanto individuare nell’uomo vivente la dimensione del suo reale trascendimento. Questo movimento non è altro “che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé, oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando l’impronta di un altro essere, producendo un effetto, agendo oltre se stessi, come se l’essere di ogni cosa terminasse in un’altra” (Maria Zambrano). Esiste, insomma, sul fondo di ogni essere umano un’ansia di trascendenza, che è pura fidatezza nella capacità rivelativa dell’incontro, nella possibilità estrema di intercettare l’alterità, con cui ci si apre con slancio alla compiutezza di ciò che l’uomo vuole essere.
“Il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza”: è sempre la filosofa spagnola Maria Zambrano che parla.
L’essere umano, al contempo solitario e mancante, ha bisogno di una realtà intera in cui vivere, di una terra in cui crescere e dimorare, di un luogo che sia tanto ospitale da condensare la sua totale coscienza temporale. Questa appare, infatti, sempre esposta alla drammatica alternativa di doversi irrigidire in un presente vuoto e assolutizzato, in un passato sterilmente assunto, oppure in un futuro, dato come puro non-essere.
La speranza, in altri termini, non è soltanto per l’uomo la possibilità di realizzare tante opzioni nel presente, ma l’orizzonte aperto verso quell’ulteriorità di “Essere” che preme per un pieno compimento di sé. È anche garanzia di un legame rinsaldato nell’incontro con gli altri uomini, quello che sempre si compie nel presente, nel tempo cioè divenuto luogo originario della presenza dell’Altro.
Un modo per dire che la speranza non è tensione autentica verso un futuro amato e cercato, se non si fa terra presente dell’incontro, luogo che preme, oggi, ora, perché ciò che sta oltre, divenga sogno credibile. Certo, questa non è ancora speranza tematizzata, ma solo innata tensione dell’anima che spinge per ritrovare nel presente il terreno su cui radicare l’attesa, “speranza primordiale”, può essere detta, quella che consente di muovere i primi passi verso il futuro.
La speranza di un futuro migliore è indistruttibilmente fondata nell’umana aspirazione alla felicità, che può rivestire i panni, a volte, dei segni poco appariscenti, ma attraverso i quali può succedere di scoprire i riflessi di una dignità eterna. Ogni credente sa che le sue attese, sempre più grandi delle sue possibilità, possono forzare la realtà e spingerla verso quella sorgente originaria, ancora in parte nascosta. Tale fonte primordiale è indicata in modo grandioso e suggestivo in quel principio di comprensione cristiana dell’esistenza, che Paolo ha così espresso: “Ciò che nessun occhio ha visto, e che nessun orecchio ha udito, e ciò che in nessun cuore umano è emerso, Dio lo ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).
Il Maestro di Nazareth si autopresenta come il “compimento”, il perfezionamento di tutte le promesse, la realizzazione della Speranza, madre di tutte le speranze. Egli è colui che non “passa”; egli resta: “Io resto con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Tutte le promesse hanno in lui il loro adempimento: “Ecco io vi mando la promessa di mio Padre” (Lc 24,49). Ogni anelito dell’uomo sembra, anche inconsapevolmente, puntare su di Lui; ogni slancio impaziente verso il compiersi dell'attesa, che trova espressione nel suo personificare la speranza che implora: “Vieni presto” (Ap 22,17). Una speranza così non delude (Rm 5,5), anzi si pone come dinamica positiva contro le inevitabili ricadute nel dolore e nella disperazione: “Noi sappiamo che il Cristo, una volta risorto da morte, non muore più. La morte non ha potere su di lui(...). Anche voi dovete pensare di voi la stessa cosa” (Rm 6, 9-11). In Gesù “tutti i conti tornano” (L. Boros). Egli realizza pienamente e, quindi, assolutamente comprende la vita umana: “Egli è il giudice dei pensieri e dei sentimenti del cuore: nessuna creatura è nascosta davanti a lui; tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13). La salvezza, già realizzata in Gesù Cristo, attende di compiersi in ciascun uomo, che si pone sulla terra dell’incontro con Lui. Si ha a che fare qui non con una attesa indeterminata, ma con una speranza piena e rivolta a un contenuto di pienezza. Paolo può dire al riguardo: “Gioite nella speranza” (Rm 12,12), anche quando si è travolti dal dolore e dalla delusione.
Senza un pensiero forte sul senso dell’alleanza, capace di istituire l’assolutezza della speranza, non sarebbe comprensibile l’esperienza ebraico-cristiana della delusione e della sofferenza. Questo non significa certo che la lunga pazienza dello sperare annulli d’incanto l’ineliminabile presenza del male nel mondo, là dove il rischio del fallimento è sempre in agguato. E tutto ciò deve diventare carne e sangue del laico credente, aperto alle attese del mondo senza facili ottimismi, ma anche senza consolanti certezze.
Non è più tempo, anche all’interno della vita ecclesiale, di facili fughe in avanti, destinate a lasciare inevase le grandi questioni dell’umanità che pure ci appartengono e ci accompagnano. Né è più possibile convivere con progetti di piccolo calibro, quelli che ci rassicurano dentro le pareti chiuse dello spazio privato o della propria comunità di appartenenza. La nostra coscienza di credenti, uomini e donne che vivono la fedeltà alla loro storia, ci conduce sempre al di là, dove la speranza indica, senza fragore ma con urgenza, che è possibile e necessario dare compimento alla nostra apertura verso l’Altro: Altro che è insieme il mio prossimo, vicino e lontano, oltre che il segno di una Trascendenza creduta e amata.
La speranza è come una corda tesa tra due abissi, il mio presente che tende ad un futuro. Speranza è coltivare nel
presente un buon futuro. Coltivare tutte le condizioni di fecondità delle vite e degli spiriti.
La speranza è una cordicella di filo scarlatto, appesa la balcone della mia vita, alla quale mi aggrappo, perché so che
il capo del filo rosso della storia è saldamente nelle mani di Dio. E Dio salva, questo è il suo nome.
Fino a che c’è fatica c’è speranza, scriveva don Milani. La speranza è la fatica del non arrendersi alla sproporzione
tra ciò che ho tra le mani e ciò che attendo, la fatica degli occhi che si aprono.
Dio apre gli occhi anche a noi, e vediamo ciò che già è qui, strade di cui non
ci eravamo accorti, bellezza che c’era sfuggita, vediamo un fratello in chi ci
pareva straniero, la poesia nel quotidiano. Il filo scarlatto della salvezza.
I segni della speranza vengono a noi mansueti come colombe (Camus) La
corda della speranza si tende verso il futuro per lo più con piccole cose: un
incontro, una
telefonata, un amico,
un sms quando
pensavi di non
farcela più, una
parola ascoltata alla
radio, letta in un
libro, una luce
interiore. Una
carezza. Alle volte
non fornisce neppure
pane, ma solo un
pizzico di lievito.
Padre Ermes Ronchi
La Speranza ogni cosa della Sua Luce
Bruno Forte
La speranza è, prima di tutto, una distensione dell’io… Essa entra nella situazione più profonda dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo” (Emmanuel Mounier). Accogliere la sfida della speranza vuol dire allora volersi veramente umani, sanando le ferite dell’anima. Rinunciarvi è rinunciare alla vita. Ne è consapevole Cesare Pavese in questi versi struggenti, scritti poco prima della sua tragica fine, in cui il bisogno di speranza del suo cuore solitario cedette alla disperazione: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla [1] Benedetto XVI, uomo del nostro tempo, pensatore rigoroso e testimone della fede, raccoglie questa sfida, questa sete di speranza, questo bisogno “che ci accompagna dal mattino alla sera”, su cui si gioca la vita o il nulla: sin dall’inizio della sua Enciclica sulla speranza - intitolata Spe salvi, “salvati nella speranza”, con le parole di Paolo nella lettera ai Romani (8,24) - si riferisce alla speranza come all’urgenza decisiva cui corrispondere per vivere e dare senso alla vita: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (n. 1). Solo se c’è in noi una speranza certa potremo dare senso alla vita e riusciremo ad amare al di là di ogni misura di stanchezza. Nasce da qui l’ineludibile domanda con cui si confronta il Papa nella sua Enciclica: “che cosa possiamo sperare?” Si tratta di un interrogativo largamente umano, che ci riguarda tutti, dal momento che tutti abbiamo bisogno di una “speranza affidabile, in virtù della quale poter affrontare il nostro presente”.
La varietà di risposte offerte a questa domanda, ne mostra la radicalità e l’ineludibile ritorno. In un’epoca di passioni ideologiche, Roger Garaudy aveva definito la speranza “l’anticipazione militante dell’avvenire”, con una sottolineatura - tipica di quella stagione - dello sforzo prometeico del soggetto personale e collettivo nella realizzazione del futuro sognato e atteso. In un contesto analogo, anche se in forma alternativa a un’aspettativa solo mondana, il teologo della speranza, Jürgen Moltmann, l’aveva definita come “l’aurora dell’atteso, nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce”, evidenziando come vivere nella speranza significhi “tirare l’avvenire di Dio nel presente del mondo”. In questo senso, egli aveva polemizzato col filosofo della speranza, Ernst Bloch, marcando la differenza fra l’“homo absconditus” del “principio speranza”, risolto nelle sole possibilità dell’umano, e il “Deus absconditus”, il Dio nascosto che viene dal futuro, indeducibile e sorprendente rispetto a ogni calcolo o misura del mondo.
Benedetto XVI ci ricorda come alla domanda decisiva “Che cosa possiamo sperare?” la fede cristiana dia sin dall’inizio una risposta chiara: “La salvezza… ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza” (Spe Salvi 1). Certo, dire che la speranza è dono non significa ignorare lo sforzo che essa esige: “Oggetto della speranza - affermava già Tommaso d’Aquino - è un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi”. Sperare, insomma, non è la semplice dilatazione del desiderio, ma l’orientare il cuore e la vita a una meta alta, che valga la pena di essere raggiunta, e che tuttavia appare raggiungibile solo a prezzo di uno sforzo serio, perseverante, onesto, capace di sostenere la fatica di un lungo cammino. Nello stesso senso, Kierkegaard aveva definito la speranza “la passione per ciò che è possibile”, mettendo in particolare l’accento sull’elemento del “pathos”, di quell’amore dolente e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e attesa. E tuttavia il solo sforzo umano non basta per vivere nella speranza che non delude…
La speranza è ciò che può dare senso all’attesa, la rende efficace e ne accelera il compimento, e noi umani portiamo nella nostra interiorità il seme della speranza, di cui siamo dotati fin dalla nostra nascita. È vero che all’origine di ogni nostra virtù c’è la fiducia (fede), ma la speranza la accompagna sempre e resta la più necessaria nei tempi di incertezza e di dubbio, quando la nostra fede si fa debole.
Oggi la speranza sembra essere la virtù più difficile e molti non arrivano neppure a formulare la domanda fondamentale: «Cosa posso sperare?». Non essendoci capacità di ascoltare una promessa, non riuscendo più a intravedere un orientamento, la speranza resta confinata a un sentimento di sopravvivenza.
E i cristiani? Più volte mi sento spinto a ripetere l’interrogativo di Ilario di Poitiers, vescovo e padre della Chiesa del IV secolo: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Eppure Cristo nostra speranza è la forza della nostra vita.
Se Cristo è la nostra speranza, allora «noi attendiamo cieli nuovi e terra nuova» (2Pt 3,13), non nel senso che attendiamo il paradiso, ma che sperando operiamo, ci impegniamo in questa nuova creazione che è già iniziata con la risurrezione di Gesù Cristo.
La speranza è per oggi, per questo è una virtù! La nostra speranza partecipa a quella di tutta l’umanità, è quella della creazione che geme e soffre, nutrendo la speranza della liberazione (cf. Rm 8,20-22).
La speranza – dobbiamo avere il coraggio di dircelo – è speranza che la morte non abbia più l’ultima parola.
Questo è il proprium della nostra fede cristiana: speranza nella risurrezione, nella vita piena, nel risarcimento donato a quanti su questa terra hanno sofferto e conosciuto ingiustizia e oppressione, malattia e povertà.
Quando l’apostolo Pietro, indirizzandosi ai cristiani in diaspora in mezzo ai pagani, li invita alla missione, non chiede loro particolari azioni o strategie, ma solo di essere «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
Sperare è vivere da cristiani, sperare è già evangelizzazione. Non sarà forse che oggi la nostra evangelizzazione è sterile proprio perché negli evangelizzatori manca la speranza?
Certo, occorre esercitarsi alla speranza: deposta come un seme nella vita di ciascuno di noi, deve essere confermata, esercitata impegnando anche la propria volontà. Bisogna decidere di sperare, come Abramo che «ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18).
Esercitare la speranza rende visionari, nel senso che si scruta l’oggi e si intravede il domani, si contemplano le cose visibili ma si vedono quelle invisibili.
La speranza è la virtù dei poveri, dei viandanti e dei pellegrini, è la virtù che chiede di essere vissuta insieme agli altri: solo “insieme”, infatti, si può sperare, e allora si è capaci di sperare per tutti.
Pensiamoci bene: preferiamo sempre lamentarci, ci rifugiamo nelle valli dell’indifferenza e del sonnambulismo spirituale, ci accontentiamo di sopravvivere senza attendere più nulla, e così la nostra vita rimpicciolisce, si fa misera, senza più slanci né passioni.
Aveva dunque ragione Charles Péguy quando scriveva in forma poetica: «La virtù che preferisco, dice Dio, è la speranza. La fede non mi stupisce… la carità neppure. Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce: è proprio la più grande meraviglia della mia grazia». Questo è davvero un tempo per impegnarci tutti insieme a sperare.
Il coraggio della Speranza
Eugenio Borgna
La speranza fa parte della vita, è una esperienza umana che ha molteplici espressioni tematiche e che ha una sua radicale significazione non solo in filosofia e in teologia, ma anche in psichiatria e, cosa ancora più importante, nella vita di ogni giorno; e di speranza vorrei parlare in queste pagine, intessute delle mie esperienze di vita.
La speranza non è l’attesa
L’attesa e la speranza sono esperienze di vita contrassegnate da concordanze tematiche ma che non si confondono l’una nell’altra.
Ci sono attese che non finiscono mai e attese che nascono e muoiono rapidamente; ci sono attese che si rievocano con ansia e inquietudine e attese che si rivivono invece con serenità; ci sono attese incentrate su eventi felici e altre su eventi ricolmi di angoscia e di dolore; ci sono attese che sconfinano nella speranza e attese che nulla hanno a che fare con la speranza; ci sono attese che riguardano il nostro destino e attese che riguardano il destino di altre persone; ci sono attese che invece cambiano di giorno in giorno e attese che non si concludono mai.
Ma ci sono altre attese: attese terrene e attese metafisiche, attese di qualcosa che ci consente di continuare a vivere, di ritrovare un senso alla vita, e attese disperate che non si realizzano mai.
Non saprei come meglio avviarmi alle riflessioni conclusive sull’attesa, e sulla sua ragione d’essere tematica, se non richiamandomi alle cose scritte da Eugène Minkowski, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, in testi di straordinaria importanza, non solo fenomenologica, ma anche psicopatologica. Anche nelle sue più alte e complesse considerazioni, alle quali non sono mai estranee implicazioni filosofiche bergsoniane e husserliane, egli non si allontana mai dalla sua esperienza clinica. Così definisce l’attesa: «Essa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro.
Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo». A queste considerazioni Minkowski ne aggiunge altre: «L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà.
L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa».
L’attesa non si identifica così con la speranza; benché l’una e l’altra siano tematizzate dal loro distendersi nel futuro: nell’orizzonte delle cose che ancora non sono state, e che nondimeno saranno, o potranno essere; ma cosa si può dire della speranza, come definirla nelle sue fondazioni esistenziali?
La speranza nelle sue fondazioni esistenziali
La speranza come categoria esistenziale non può essere intesa nella sua emblematica radicalità se non nel contesto di riflessioni non solo psicopatologiche, ma anche filosofiche, che ci consentano di avvicinarci al nucleo eidetico della speranza: ai suoi infiniti orizzonti di senso. Come è possibile non citare, nel contesto di questo discorso, le parole vertiginose di Blaise Pascal sul tempo e sulla speranza? «Noi non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce con cui predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine.
Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai».
La dialettica e il mistero della speranza, gli abissi di significato che sono in essa, riemergono da queste parole che sfidano il tempo; e a noi, a chiunque di noi intenda fare una psichiatria fenomenologica e antropologica, non rimane se non di riversare nel solco delle esperienze cliniche il senso di quello che le riflessioni pascaliane racchiudono in sé. Noi non viviamo mai ma speriamo di vivere; e allora, quando la speranza viene meno in noi, quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando cioè la depressione, la malattia che recide drasticamente la speranza, nasce in noi, come è possibile vivere e continuare a vivere?
La speranza nelle sue radici fenomenologiche
Nel suo splendido libro, dedicato al tempo vissuto, Eugène Minkowski ha scritto pagine bellissime sulle radici fenomenologiche della speranza. «La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa.
Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me». E ancora: «Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire- ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».
Conoscere gli andamenti della speranza nelle aree delle esperienze psicopatologiche è senz’altro utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assenza, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: nelle sue crisi e nei suoi naufragi. La speranza, nella sua trascendenza, ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose, mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell’anima con le loro angosce e le loro lacerazioni.
Ridestare la speranza
Dalle parole di chi sta male, di chi sia immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso, di un qualche senso, nella vita, riemergono l’importanza e i significati della speranza, e dei suoi naufragi.
Questi si riflettono nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiarsi e nello svuotarsi degli orizzonti di vita, nel dilatarsi del presente e del passato, nell’inaridirsi dell’avvenire del quale non sopravvivono se non alcuni frammenti che non danno sollievo, e che non creano comunicazione e comunione con il mondo delle persone e delle cose. Dalla evanescenza della speranza discendono poi solitudine e isolamento che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri.
Quando questo avviene, quando la disperazione depressiva, psicotica o esistenziale, svuota di senso la vita, e la morte volontaria ne è una delle conseguenze possibili, la cosa essenziale è quella di ascoltare e di valutare se la condizione psicotica, depressiva o esistenziale mantenga aperti gli spazi a una qualche attesa, a una qualche speranza, che possano essere ridestate nel contesto del progetto terapeutico.
Confrontandoci, noi che viviamo nella speranza e nelle speranze, con chi non abbia più speranze nel cuore (bruciate dall’angoscia e dalla disperazione), non dovremmo mai dimenticare la debolezza e le ambivalenze delle nostre parole e dei nostri gesti che non sempre sono dotati di una radicale testimonianza terapeutica. Le parole leggere, o le parole pesanti come piombo: quali parole abbiamo nel cuore quando ci avviciniamo al destino, al volto e agli sguardi, ai silenzi e agli scoramenti, alla tristezza e all’angoscia, alla timidezza e alle insicurezze, alle speranze recise di chiunque fra noi sia colpito dalla malattia mortale e dalla disfatta della speranza?
La speranza nella cura
Non solo negli incontri che la vita ci propone ogni giorno, ma anche, e soprattutto, negli incontri che si hanno con pazienti divorati dall’angoscia e dalla disperazione, è davvero necessario intendere il senso misterioso di un dialogare nel silenzio; e questo al fine di intuire cosa questi pazienti sentano, e cosa provino, quali attese e quali speranze inquiete essi abbiano, e quali ombre scendano sugli orizzonti della loro vita.
Grande importanza, in ordine alle risultanze terapeutiche, ha la presenza in chi cura della speranza, della capacità e della possibilità di mantenere viva la fiaccola, o almeno la scintilla, di una speranza come atteggiamento interiore; e questo, in particolare, quando ci confrontiamo con le esperienze psicotiche che si esprimano nell’autre monde della follia. La speranza è come l’anima di una psicoterapia che tenda a fare riemergere le risorse nascoste e galleggianti nella vita interiore dei pazienti.
La nostalgia della morte volontaria
La speranza, senza confondersi mai con l’ottimismo, ci conduce a rivivere la sofferenza degli altri da noi come la nostra possibile sofferenza e a partecipare alla loro angoscia e al richiamo in loro della morte volontaria. Non è possibile, in ogni caso, confrontarsi con esperienze oscure e ambiva- lenti, come sono quelle che si correlano in particolare con la nostalgia della morte volontaria, se non si riconoscono le emozioni che sono in noi: la qualità delle nostre relazioni controtransferali che, se sono impregnate di inquietudine e di paura, non ci consentono di svolgere un utile lavoro psicoterapeutico.
Se non accettiamo interiormente l’esperienza del suicidio come possibilità radicata nella condizione umana e se la riviviamo come destituita di ogni possibile orizzonte di senso, allora non nascerà mai in noi una speranza capace di trainare una psicoterapia adeguata alla comprensione di quello che avviene nella vita emozionale, e nella storia della vita, di chi sia affascinato dal desiderio del suicidio, dall’anelito a rifuggire da una vita rivissuta come insopportabile e insostenibile. Se la speranza è in noi, se comprendiamo il senso dello scacco esistenziale che c’è nel suicidio, allora ci sarà possibile parlare sinceramente con i pazienti della cosa evitando inutili e vaghe allusioni.
Senza dimenticare mai che, quando il suicidio fallisce, essi si vergognano del gesto compiuto e tendono a banalizzarlo e a tacerlo, a rimuoverlo.
Il parlarne, in ogni caso, esige una grande delicatezza e una grande discrezione, e anche una grande attenzione alle motivazioni che vengono espresse, e a quelle, magari molto più importanti, che vengono taciute. Le parole con le quali si conclude lo splendido saggio di Walter Benjamin sulle goethiane Affinità elettive dovrebbero essere incise nel cuore di ciascuno di noi quando la vita si fa difficile e non è lontana da noi la disperazione.
Le parole sono queste: «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».
La speranza che rinasce
Come si vive la speranza quando la tristezza, la malinconia, il male di vivere, la depressione, che ne è la definizione clinica, scendono nella nostra vita, velandola e immergendola nella notte oscura dell’anima? Non conosco testimonianza più umana e struggente di quella che mi è stata data da una mia giovane paziente, curata in anni lontani e mai dimenticata, che ho chiamata Maria Teresa, nella quale l’eclissi della speranza e la sua rinascita sono state la conseguenza di una condizione depressiva di vita.
Ne vorrei ricordare alcune sue parole, che sono state di disperazione prima e di rinascita della speranza poi. «Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa tremenda sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non più alcuna speranza». A queste parole si univa una angoscia lacerante e una stremata tristezza dell’anima, che sembravano non finire mai; e invece dopo alcune settimane di cura un cambiamento radicale: la speranza perduta, a mano a mano si rigenera, e queste sue parole lo dimostrano.
«Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo nel miglioramento di mia figlia.
Avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ma ieri è nata improvvisamente in me una diversa speranza. Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Una speranza che contiene il futuro ma un futuro che è vita. La presenza di un avvenire. Il futuro mi spaventava, prima, perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente.
Ieri, non avvertivo più questo senso negativo. La speranza che si apriva, ed era come una nuova vita ». Sono parole emblematiche della significazione umana della speranza, del suo rinascere dal cuore, come fonte di conoscenza, del suo scomporsi in speranza e in speranze, una differenza di radicale importanza, del suo essere la splendida descrizione di una speranza che si forma muovendo dalla interiorità.
Sono parole che sanno dare di questo passaggio dalla disperazione alla speranza una straordinaria evidenza, che si è accompagnata ai cambiamenti delle espressioni del volto, da dolorose e straziate a luminose e ridenti. Sono esperienze che danno un senso alla psichiatria, come scienza umana, che aiuta, direi, ad avvicinarsi al cuore della speranza.
Le ultime cose
La vita dell’uomo è la speranza, e alla speranza vorrei invitare i miei occhi e gli occhi delle lettrici e dei lettori di questa meravigliosa rivista a guardare come alla coda di una cometa che non possa né oscurarsi né spegnersi.
Ma non mi è ora possibile dimenticare quello che della speranza dice Giacomo Leopardi in celebri pensieri dello Zibaldone; e in particolare in questi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza»; e ancora: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amore di se stesso.
Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita».
Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce; e la speranza, come diceva sant’Agostino, è misteriosamente intrecciata alla memoria. Questo ci dice che passato, presente e futuro scorrono senza fine l’uno nell’altro; e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel suo cuore la speranza che è fragile come cristallo e dura come diamante. Sapere testimoniare la speranza, che vive in noi, a quanti l’hanno perduta è una esperienza che ne allarga i confini; e nella speranza si riesce a donare un senso all’infinito del dolore. Ma non potrei concludere queste mie riflessioni se non dicendo che la speranza ha bisogno di coraggio: quello di non lasciarsi affascinare da quello che avviene nel momento in cui viviamo, quello di ricercare senza fine il possibile che si nasconde nell’impossibile, quello di non identificare la speranza con l’ottimismo, che non ha nulla a che fare con lei, quello di non dimenticarsi mai che la speranza è apertura al mistero e che ci saranno sempre più cose in cielo e in terra di quelle che non conoscano le nostre filosofie, e le nostre psichiatrie: le celebri parole, aggiornate, dell’Amleto.
Una bellissima poesia di Emily Dickinson sigilla questo mio discorso sulla speranza.
È la “speranza” una creatura alata / che si annida nell’anima – / e canta melodie senza parole– / senza smettere mai – E la senti dolcissima nel vento – / e ben aspra dev’essere la tempesta che valga a spaventare / il tenue uccello che tanti riscaldò – Nella landa più gelida l’ho udita – / sui più remoti mari – / ma nemmeno all’estremo del bisogno / ha voluto una briciola – da me.
L’esercizio della speranza
Enzo Bianchi
In Occidente, ma non solo, si percepisce da decenni il segno dominante della “crisi”. Da più parti questo nostro tempo è addirittura letto come tempo della “fine”: fine della civiltà occidentale (Jacques Derrida), fine della modernità (Gianni Vattimo), fine non solo della cristianità ma anche del cristianesimo, che sembra perdere la capacità propulsiva innestata dal tentativo di riforma ecclesiale del concilio e del post-concilio.
Dominano la precarietà del presente e l’incertezza del futuro, e soprattutto per le nuove generazioni vi è un’incognita che desta diverse paure per la sua imprevedibilità e per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano: viviamo in un mondo in fuga, che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di comprendere dove stiamo andando. Per questo nel suo saggio Le nuove paure Marc Augé giunge a denunciare che oggi si teme più il vivere che il morire. In particolare, i nostri ragazzi si lasciano vincere da qualcosa che non sanno neppure nominare e guardare in volto, eppure sperimentano come distruttivo: il nichilismo, che spesso impedisce ogni ricerca di senso e di felicità. Per queste ragioni credo che oggi più che mai occorrerebbe riascoltare la domanda: “Che cosa posso sperare?”. E anche: “Che cosa possiamo sperare insieme?”. È una domanda a volte muta, che con fatica ho sentito e sento risuonare in molti incontri e dialoghi con i giovani. È la domanda più profonda, che essi non sanno neppure facilmente articolare. La speranza, infatti, non è un atteggiamento da assumere o rifiutare tout court, ma è il frutto di un discernimento, di un’attesa fondata sul pensare, sul riflettere, sull’ascoltare, sul confrontarsi, ed è anche un esercizio di grande responsabilità.
L’umano non è un dato una volta per tutte, bensì è un divenire che abbisogna di un orientamento, di una progettualità, di uno scopo per cui operare, in modo da trovare un senso. Ha ragione Fëdor Dostoevskij quando afferma che «vivere senza speranza è impossibile», perché le persone alle quali è sottratta la speranza divengono aggressive, violente, apatiche, fino a cadere in una sorta di angoscia autodistruttiva.
Vi è però un’errata comprensione della speranza dalla quale guardarsi: quella di chi tende costantemente oltre il presente, senza coglierlo nella sua irripetibilità, costringendosi così a un’esistenza vissuta al futuro anteriore. No, non si vive aspettando di vivere, preparandosi sempre, e invano, a una felicità che non arriva mai… Sperare è un’arte, è l’essere pronti a ciò che ancora non è nato, è un atto di fede e un’adesione convinta a una promessa: è una lotta contro la disperazione, ed è per questo che è capace di sperare in profondità solo chi ha conosciuto la tentazione di disperare.
La speranza, infine, è il frutto di relazioni vive, si nutre dell’essere insieme: mai senza l’altro! E non lo si dimentichi: si può solo “sperare per tutti”, mai solo per se stessi.
Nel fiore il profumo del frutto..nascere di nuovo
José Tolentino Mendonça
Sbaglia chi pensa che nasciamo una volta sola. Per chi vuole vivere, la vita è piena di nascite. Nasciamo molte volte durante l'infanzia, quando gli occhi si aprono in gioia e meraviglia. Nasciamo nei viaggi senza mappa nei quali la giovinezza si arrischia. Nasciamo nella seminagione della vita adulta, maturando, tra inverni e primavere, la misteriosa trasformazione che mette sullo stelo il fiore e dentro il fiore il profumo del frutto. Nasciamo molte volte in quell'età avanzata in cui le attività non cessano, ma si riconciliano con i vincoli interiori e i cammini che erano stati posticipati. Nasciamo quando ci scopriamo amati e capaci di amare. Nasciamo nell'entusiasmo del riso e nella notte di certe lacrime. Nasciamo nell'orazione e nel dono. Nasciamo nel perdono e nel conflitto. Nasciamo nel silenzio o illuminati da una parola. Nasciamo nel portare a termine un impegno, e nella condivisione. Nasciamo nei gesti o al di là dei gesti. Nasciamo dentro di noi e nel cuore di Dio. Per questo ti chiedo, Gesù, di insegnarmi a nascere: quando le speranze si rompono come cose logore; quando mi mancano le forze per lo scalino successivo, e io esito; quando della semina mi par di raccogliere solo il vuoto; quando l'insoddisfazione corrode anche lo spazio della gioia; quando le mani hanno disimparato la trasparente danza del dono. Quando non so abbandonarmi in te.
Enzo Bianchi "Ascoltare il silenzio"
Viviamo in una società rumorosa, siamo vittime addirittura dell’inquinamento sonoro e nel quotidiano siamo invasi dalle chiacchiere.
Si comprende dunque perché in questo clima cacofonico molti avvertano il bisogno del silenzio e lo esaltino, ne facciano l’elogio senza conoscerlo nella sua realtà.
Perché il silenzio è plurale. Ci sono silenzi paragonabili ai digiuni del corpo, salutari quando lo esigono il corpo, la psiche e la vita interiore.
Ma ci sono anche silenzi negativi, mortiferi. Sono silenzi che rendono inquieti, incutono spavento, instaurano oppressioni, veri silenzi di morte, come abissi disperanti.
E dobbiamo confessarlo: esistono anche silenzi complici, pieni di viltà, che permettono che il male trionfi, e silenzi di ostilità, che penalizzano la comunicazione e possono diventare omicidi. Sono i silenzi più vergognosi, nascosti e inconfessati, neppure considerati nella loro ignominia, eppure consumati con un’indifferenza amara. E non dimentichiamo il mutismo della malattia psichica, quando il silenzio è rigetto di ogni comunicazione perché chi si è chiuso nel mutismo in realtà è imprigionato da grate che non vediamo e che restano un enigma.
Elias Canetti ha descritto bene il silenzio cattivo che si nutre di rabbia e di rancore fino al disprezzo dell’altro, fino a volerlo morto.
Sì, abbiamo questo grande potere di uccidere anche con il nostro silenzio che con un’ostilità sorda e muta toglie vita ed esistenza.
Elie Wiesel, nel suo Testamento di un poeta ebreo assassinato, scrive: “Nessun maestro mi aveva detto che il silenzio poteva diventare una prigione. Non sapevo che si potesse morire di silenzio come si muore di dolore, di fatica e di fame”.
Ecco, ci sono uomini e donne che conoscono e vivono questi silenzi e anche noi possiamo a volte nella vita esserne inghiottiti. Non è facile combattere queste potenze.
E qui va detto con chiarezza che l’altro è quanto mai necessario perché ci si salva insieme, ci si rialza insieme, si ricomincia a parlare se c’è un “tu” a cui rivolgersi.
Ai silenzi negativi solo un ascolto attento può essere di vero aiuto, risposta redentiva. Per questo oggi, in una società in cui l’ascolto è morto, frequenti sono i silenzi negativi. Ascoltare... Per essere autentico l’ascolto deve ascoltare i silenzi e il silenzio. Lo dico per esperienza, ma le ore notturne nel silenzio della cella, nella solitudine del corpo, insegnano ad ascoltare i silenzi disperanti e il silenzio che non è muto ma ha anch’esso una voce. Mettere in silenzio il nostro ego per ascoltare l’altro, far tacere i nostri pregiudizi per aprirci all’altro, abilitare l’orecchio del cuore ad ascoltare la voce tenue come un silenzio trattenuto che ci apre alla relazione. Se c’è un invito che oso fare agli uomini e alle donne è solo quello di praticare un tempo di solitudine e silenzio con continuità e perseveranza, come un ritmo della respirazione, accettando di attraversare silenzi a volte enigmatici, disperanti, altre volte capaci di esultanza. Allora anche gli enigmi diventano misteri.
Quali parole diventano destino
Alessandro D'Avenia
Più abbiamo parole precise più mondo vediamo e meno siamo manipolabili. Credo sia fondamentale allenare l’uso preciso e concreto della parola, ed è quello che chiedo ai ragazzi nella scelta di quella annuale: ne va del loro destino. Ecco alcune delle loro parole: vivere non sopravvivere, resilienza, ambizione, squilibrio, mietitura, fioritura, accettazione, evoluzione, luce, spensieratezza, fuori, paraocchi, avocado... Sono sicuro che quelle che incuriosiscono di più sono le più concrete, per questo ho usato la più strana per titolare l’articolo! Io ho scelto «creazione» che, in una mia personale lingua Yagan, suonerebbe «fare come le api, nutrirsi da buone fonti per fare un buon miele» e se parlassi la lingua di Pormpuraaw starebbe a est, dove sorge il Sole. Avendo sperimentato che nella mia vita c’è tanta gioia quanta creazione, spero che questa sia la parola a incarnarsi, portandone con sé altre come studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità, attenzione, cura, bellezza... proteggendomi da altre ancora come fretta, rumore, approssimazione, pigrizia, invidia, distrazione... E voi a che parola/e vi affidate? Potremmo dedicare qualche minuto a scegliere le cinque più significative e ripeterle ad alta voce. Quella sarà la nostra patria, la nostra bussola, la nostra carne.
Un'esplorazione in cordata
Alessandro D'Avenia
I quattro indizi provano che la vita è un'esplorazione, spesso paurosa e faticosa, che può avvenire solo nella misura in cui apparteniamo a qualcuno. Che si tratti di un genitore, di un mentore, di un amore, di un autore conosciuto direttamente o attraverso i suoi scritti, per venire al mondo abbiamo bisogno, come nelle traversate difficili in montagna, di una corda, cioè di appartenenza, che non è certo vincolo e possesso, ma legame che rende stabili e permette di avanzare. In fondo la maturità (non l'esame) è diventare capaci, attraverso la cultura, di scoprire che niente e nessuno ci è estraneo, che la vita cresce per legami, dalle molecole alle grandi civiltà. Questo soggettivamente accade solo se diventiamo consapevoli di quando e quanto «apparteniamo»: che cosa mi rende vivo, cioè che cosa mi lega profondamente e stabilmente alla vita, tanto da essere libero poi di avanzare? Essere vivi e non solo viventi è infatti essere in comunione. La cultura del farsi da soli genera individualisti in guerra con il mondo, e invece la vita fiorisce quando partecipiamo (ne siamo parte e facciamo la nostra parte) alla sua trama come uno dei suoi nodi. Kafka aveva la ferita dell'inappartenenza, come scrive nei suoi Diari: «La mia educazione ha fatto più guasti di quanto riesca a comprendere... Questa imperfezione non è innata e perciò è tanto più doloroso sopportarla. Anch’io infatti come qualunque altro ho in me fin dalla nascita il centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo buon centro di gravità, ma in certo qual modo non ho il corpo adatto. E un centro di gravità che non lavori diventa piombo ed è fitto nel corpo come una pallottola» (1910). Da questa ferita ogni sua riga sgorga come sangue: «Non c’è nessuno che abbia comprensione di me nel mio complesso. Oh, possedere qualcuno che abbia questa comprensione, vorrebbe dire essere sostenuto in ogni parte, avere Dio» (1915). Per questo era attentissimo alle relazioni, come racconta Janouch ricordando la propria adolescenza e riassumendo il ruolo di ogni mentore: «Franz Kafka fu la prima persona a prendere sul serio la mia vita interiore, a parlare con me come con un adulto, rafforzando la mia coscienza di me stesso. Il suo interesse nei miei confronti era un regalo». Grazie a questo interesse il diciassettenne Gustav maturò consapevolezza di se stesso e la sua vocazione artistica. Sorprende il ritratto, non privo di idealizzazione, che Janouch confeziona all'autore di storie come La metamorfosi, Il processo, Nella colonia penale, Il castello... eppure la luce, implicita nella minacciosa ombra di questi racconti che hanno richiesto l'invenzione dell'aggettivo «kafkiano», mostra una ricerca di legami, orizzontali e verticali, che è altrettanto «kafkiana». In merito Janouch riporta le parole dell'addetta alle pulizie dell'Assicurazione presso cui lavorava Kafka: «È completamente diverso dagli altri. Lo si capisce da come ti offre le cose. Gli altri te le danno di nascosto, quasi ti feriscono. Non danno qualcosa, ma umiliano. Il dottor Kafka invece ha un modo di donarti le cose che fa veramente piacere. Non mi tratta come una vecchia donna di servizio». Janouch conferma: «Possedeva l’arte del donare. Non mi diceva mai: “Prenda, glielo regalo” ma sempre soltanto: “Non occorre che me lo restituisca”». Un giorno Gustav tra le lacrime confidò allo scrittore la separazione violenta dei genitori: «Ascoltò con calma il mio racconto rotto dall’agitazione, poi si alzò e disse: “Andiamo a fare il giro dell’antica capitale. I passeggiatori che si rispettano solitamente iniziano bevendo un bicchiere di vino o di cognac. Noi però non ci accontentiamo di un’ebbrezza così modesta e abbiamo bisogno di droghe più elaborate. Quindi andiamo da Andrée”». Questi era un libraio: «Il dottor Kafka mi comprò il David Copperfield di Dickens, Prima e dopo di Gauguin e Poesia e vita di Rimbaud». I due passeggiarono a lungo parlando di quei libri e, quando il ragazzo si fu rasserenato, Kafka disse: «“La crisi che è scoppiata a casa sua non fa soffrire solo lei, ma logora e ferisce ancor più i suoi genitori. Divenendo estranei l’uno all’altro, perdono gran parte del bene più prezioso posseduto da noi uomini, gran parte della vita e del suo senso. Così i suoi genitori, come la stragrande maggioranza degli uomini del nostro tempo, sono in realtà mutilati nello spirito... Perciò non deve respingerli, anzi, li deve guidare e sorreggere come si fa con i ciechi e con gli invalidi”. “Come faccio?” chiesi disperato. “Con il suo amore”. “Anche se mi danno addosso?”. “Proprio allora. Con la sua calma, il suo riguardo, la sua pazienza - in poche parole, con il suo amore - deve cercare di risvegliare nei suoi genitori ciò che in loro sta per morire”. Mi accarezzò lievemente e di sfuggita la guancia. “Arrivederci, Gusti”. Si voltò e scomparve dietro la porta di casa. Restai lì come paralizzato. Mi aveva chiamato Gusti, come facevano i miei genitori». Questa è cultura (dal latino prendersi cura): curare la sofferenza, la fragilità, la ricerca, le domande. Essere chiamati per nome fa sentire l'appartenenza che rende capaci, come scriveva la mia studentessa, di amare la bellezza nel e del quotidiano, in incontri che, coltivati, diventano legami, e quindi esplorazioni, come quella del bambino che gattona. Un incontro mancato con la bellezza è un legame mancato con la vita, e senza legami a poco a poco la vita diventa una minaccia, come il ragazzo che chiede come «non essere paralizzati dalla paura». Kafka lo spiega così a Janouch che aveva definito pieno d'amore un suo racconto: «“L’amore non è nel racconto, bensì nell’oggetto della narrazione, nella gioventù”, fece notare Kafka serio. “Sono i giovani a essere pieni di sole e di amore. La gioventù è felice, perché possiede la facoltà di vedere la bellezza. Quando si perde questa facoltà, comincia la vecchiaia, la decadenza, l’infelicità”. “La vecchiaia esclude dunque ogni possibilità di essere felici?”. “No. È la felicità che esclude la vecchiaia: chi mantiene la facoltà di vedere la bellezza non invecchia”». Kafkiano.
L'educazione al vero desiderio
di Enzo Bianchi
Nel nostro vivere quotidiano risuona con insistenza crescente l’invito ad ascoltare, ad assecondare il desiderio. “Segui il tuo desiderio!” è l’imperativo martellante, soprattutto quando ci si rivolge alle nuove generazioni.
Sì, ogni umano è homo desiderans, conosce la forza e l’esperienza del desiderio che lo abita come una pulsione. Il desiderio è un sentimento personale, intimo, che scaturisce dal profondo della persona, ma nello stesso tempo a volte si mostra come una dominante, un daimon che tende a superare la soglia oltre la quale non può più essere governato. Noi siamo abitati dal desiderio e possiamo essere posseduti dal desiderio fino all’alienazione. Il nostro desiderio può accrescersi fino a diventare pretesa di possesso, di consumo, di appropriazione di quelle cose o persone che lo hanno destato in noi. Comprendiamo allora il comandamento: “Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo!” (Esodo 20,17; Deuteronomio 5,21).
Proprio il verbo presente in questo comando, chamed, esprime un desiderio da soddisfare che è già azione, movimento teso a realizzare un desiderio così forte che spinge a possedere, a impossessarsi, e quindi a rubare. La cupidigia è una forza che travolge il soggetto e lo porta a realizzare il suo desiderio senza tener conto degli altri e del limite che contraddistingue ogni azione umana. Avviene in questa seduzione una perdita della libertà: appare il falso antropologico dell’idolo, al quale va la soggezione dell’uomo.
Comprendiamo quindi l’ossessiva predicazione dei profeti contro la cupidigia: da cosa nascono i litigi, le violenze, il furto, l’ingiustizia, l’oppressione del povero e le guerre nei rapporti tra popoli? Il profeta Michea denuncia quanti “sono avidi di terreni e li usurpano, di case e se le prendono”; Isaia maledice “quelli che aggiungono casa a casa e terreno a terreno fino a essere i soli proprietari”; Amos minaccia “quanti vivono nella corruzione e nell’illegalità”. La condanna del desiderio senza limiti, del desiderio che non tiene conto degli altri e della giustizia, attraversa tutta la profezia.
Occorre dunque una vera educazione del desiderio, perché soprattutto da come viviamo il desiderio dipendono le nostre relazioni, le nostre storie d’amore, i rapporti che instauriamo nella società. Nella vita personale come nella vita nella polis occorre saper “desiderare” e occorre saper “non desiderare!”. È significativo che il premio Nobel per l’economia del 2001, Joseph Stiglitz, abbia pubblicato il libro Le trionphe de la cupidité per illustrare l’attuale situazione economica mondiale e la sua crisi: all’origine e al cuore di questa crisi c’è la cupidigia del denaro che richiede al mercato di diventare l’idolo indiscusso. C’è una voracità legittimata, che ha impregnato la mentalità della nostra società e impedisce ogni promozione della giustizia e dell’uguaglianza. Di fronte alla pulsione del desiderio non ci si domanda cosa è giusto fare, ma piuttosto come possiamo soddisfare il nostro desiderio! E così si apre lo spettacolo della corruzione, per un lusso senza freni, per un’ostentata festa dei potenti, per un arrogante esercizio del potere.
Il divieto del comandamento non chiede di spegnere il desiderio, ma di discernere sempre se esso, una volta appagato, apporta vita, comunicazione, creatività, o se apporta alienazione e schiavitù; se è desiderio non contro gli altri e senza gli altri, ma desiderio in vista di una vita buona e bella, vissuta nell’onestà e nella giustizia.
Paolo Scquizzato: Per far fiorire il «vero sé»
Qui l'introduzione a questo testo.
Limite
Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.
Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo.
Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso.
La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi.
Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti».
Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute.
Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendor fer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile.
Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente.
Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più.
Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.
Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti.
Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime.
«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando».
La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé.
La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali.
Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite.
Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo.
Vuoto
Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui.
Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto».
L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia.
Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti abbiamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre.
Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della disperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo?
Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una considerazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive:
«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico».
Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi.
La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà».
Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”».
La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo intendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil.
La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco).
Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa?
La grazia è senza sforzo, appunto. È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera».
E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea».
Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35).
Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.
Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalienabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare.
Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura».
Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio.
Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo.
Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi.
Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo.
Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accadere. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consapevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive:
«La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stesso, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione».
Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso:
«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente. Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio.
In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13).
Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione.
«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile.
Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco contemporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò abbandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).
Paolo Scquizzato
Enzo Bianchi “In mezzo a loro. Riflessioni sulla spiritualità cristiana e non”
Messaggero Cappuccino maggio 2024
di Saverio Orselli
Enzo Bianchi con grande disponibilità ha accettato di parlare a lungo di spiritualità con la Redazione del Messaggero Cappuccino. Ecco una sintesi del dialogo.
In generale, cosa significa spiritualità?
Oggi il mercato editoriale è pieno di autori che trattano di spiritualità: una spiritualità alla fin fine estremamente superficiale, una spiritualità che tende verso il nulla, come le spiritualità orientali oppure panica, cosmica, evoluzione della spiritualità new age. La spiritualità cristiana, che ha al centro non l’uomo ma Gesù Cristo, viene meno per mancanza di fede. È vero, per molti aspetti prosperano le spiritualità, ma non la spiritualità cristiana. È una spiritualità tutta centrata sulla ricerca di sé stessi, che si consuma in maniera individuale, che non ha bisogno assolutamente della comunità: ognuno la consuma per sé e inoltre produce un comportamento molto individualista. Questo mi fa paura.
Anche all’interno della Chiesa cattolica – salvo qualche eccezione – non c’è davvero la ricerca di una spiritualità che sia cristocentrica. Si cerca di entrare in sé stessi, ma per ascoltare il Signore, per ascoltare la sua parola e per conoscere sia Lui che me stesso - che resterò sempre un enigma a me stesso - dovrò riconoscermi in Cristo. Per molti aspetti, devo dirlo, uno dei pochi che ha capito questo è san Francesco, la cui spiritualità è cristocentrica. La grazia è l’amore di Dio, che non deve mai essere veritata e che raggiunge tutti, anche il peccatore nel suo peccato e, anzi, il peccato è occasione per fare esperienza della grazia di Dio. Ci sono persone che non fanno l’esperienza della grazia di Dio perché pensano di non aver mai peccato, e forse non l’avranno fatto col corpo, ma certamente hanno peccato con lo spirito, con l’orgoglio, con la superbia, col disprezzo degli altri. La spiritualità è la vita dello Spirito Santo in noi, è ben qualcosa di più del rientrare in sé stessi.
Quale conseguenza ha avuto la pandemia?
Secondo me, è cresciuta l’indifferenza, per cui è aumentato il numero, soprattutto di giovani che non sentono il bisogno di spiritualità. Non sono solo refrattari ai discorsi di Dio ma proprio non sentono il bisogno della spiritualità, vivono nell’immediato, oppure addirittura vivono del nulla, sono nichilisti. Sovente spiritualità per loro, io lo vedo, è piuttosto cultura, cioè se loro partecipano a un evento culturale è cultura ma la chiamano spiritualità, e pensano di essere entrati nella sfera della spiritualità. Molti festival, per me, hanno una grande funzione e certamente fanno ragionare la gente, ma quella non è ancora spiritualità. Ci sono poi gli anziani che vivono una certa spiritualità ma anche la loro è sempre più solo culturale. Se ci pensate, la Chiesa attualmente offre la messa e nient’altro: come può fare uno con la messa e basta?
Lei ricordava un adagio: «A ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio». Questo vale anche per la spiritualità?
Secondo me è così, come è vero che cambia la fede, e questo dobbiamo oggi accettarlo perché basta che uno della mia età faccia una anamnesi della sua vita e vede che la fede di adesso non ha niente a che fare con quella dei vent’anni. Poi la difficoltà grossa arriva dopo i quarant’anni: la crisi dei quarant’anni io vedo che è sempre più pesante e faticosa per le generazioni attuali. Poi c’è l’età dell’anzianità, in cui la spiritualità non ha più grosse passioni, non ha più grande slancio, è fatta sovente di molti dubbi, sia sul futuro sia sull’aldilà che ci attende ed è quindi una spiritualità che bisogna combattere perché non diventi una spiritualità segnata dal timore, dalle paure. Dopo i cinquant’anni le persone sono tentate dal cinismo: “non vale la pena”, “a cosa serve?”, “ma perché…”, “finora ho pensato ai figli, adesso è tempo di pensare a me”. Se è il cinismo che domina dopo i cinquanta, dopo i sessantacinque sovente sono le paure a prendere il sopravvento. Ho tanti vecchi che vado a trovare e mi dicono: «Padre, perché nel dormiveglia ho tanti sogni, tante angosce, tanti incubi? Non li avevo prima…». Una volta alla settimana mi piace andare al supermercato, anche se non ho quasi nulla da comprare, perché tra le corsie e alle casse la gente parla e si rivela il vero mondo della gente che altrimenti non avvicini, perché se le avvicini qua e là sono già selezionati, non sono ‘la gente’… e invece anche solo a sentirli parlare al cellulare con la moglie a casa scopri i rapporti che ci sono, e ti accorgi anche solo per acquistare una bottiglia di sugo di pomodoro, quanto sono difficili oggi le relazioni…
Lei ha detto che il giovane rischia di vedere le cose da vicino, come un miope che non sa vedere le cose da lontano: capita anche per la spiritualità?
È esattamente così, d’altronde la passione è sempre fatta per qualcosa che è vicino, non è fatta per qualcosa che è lontana. Ma da vecchio tu devi esercitarti a vedere l’invisibile, come Mosè. I giovani cercano proposte di senso, ma credo che la Chiesa continui a proporre soluzioni prefabbricate, mentre i giovani hanno bisogno di empatia, di uno che sia in mezzo a loro, che li ascolti e che risponda alle loro domande, non a quelle prefabbricate che proponiamo noi. È un’illusione che la spiritualità venga dalle giornate della gioventù o nei grandi incontri: una volta finito l’evento, ognuno va per suo conto.
Il nostro mondo, sempre più secolarizzato, sembra però attraversato da un’aspirazione religiosa diffusa e fragile.
Bisogna che la Chiesa smetta – ma non ce la fa – di parlare di morale. Deve parlare di fraternità, la quale certo implica una morale, ma si parte dal fatto che mi sei fratello, poi vengono i doveri. La Chiesa ha parlato troppo di morale e soprattutto di morale sessuale… e adesso piglia quello che si merita. La Chiesa lasci perdere la morale e pensi alla fraternità, da cui discende la morale. Noi dobbiamo credere soprattutto che Gesù Cristo è uomo; certo poi diremo che è anche Dio. Lo diceva già Ippolito di Roma, papa del terzo secolo: aveva il coraggio di affermare che Dio per noi cristiani è una parola ambigua e insufficiente, meno la usiamo e meglio è… noi dobbiamo parlare di Gesù Cristo come uomo, vedere come lui ha vissuto, quel che lui ha detto e ha fatto umanamente, perché lui ci ha rivelato Dio con l’umanità, solo con l’umanità: “Dio nessuno l’ha mai visto”, è solo nell’umanità di Gesù che noi possiamo vedere Dio.
La dottrina cattolica io spero che sparisca presto e che si tolga dall’orizzonte, perché ha fatto troppi danni. Bisogna ripartire da una grammatica della vita umana di Gesù, far vedere come Gesù vedeva, come Gesù guardava, come Gesù si accostava alla gente, come parlava, come sceglieva i posti in cui andare… Questo soprattutto in città è essenziale, perché in città mancano le relazioni; noi oggi in un mondo senza relazioni, senza fraternità, se vogliamo ricucire la comunità cristiana dobbiamo ricominciare così. Anche la liturgia ha bisogno di aggiornare il linguaggio: un giovane come fa ad andare in chiesa e sentire questo linguaggio assurdo, che parla della tua maestà che deve essere placata… Macché placata! Noi abbiamo ancora un linguaggio che va bene per la curia romana e per i vescovi, ma già per i preti non va più bene: tanti preti dicono che la messa, così come la leggono, non dice niente. Così molte persone se ne sono andate, sono andate a bere dove c’era l’acqua. Da noi non la trovavano più.
Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.
Il cacciatore e il consolatore
Alessandro D'Avenia
«Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non ha il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui attirare l’attenzione di un dio. Di una cosa sono convinto: il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto». Così scriveva l’autore svedese Stig Dagerman in un breve monologo del 1952, in righe laceranti sul paradosso della condizione umana, stretta tra desiderio infinito di felicità e impossibilità di soddisfarlo. Aveva intitolato il testo Il nostro bisogno di consolazione ed è quest’ultima parola che vorrei oggi esplorare, per scoprire se contiene la preda in cui sperava Dagerman: «Sono a caccia di consolazione come un cacciatore. Là dove la vedo apparire, sparo». Possiamo veramente essere consolati? Consolazione, dal latino, è una parola composta da con e solus (solo), da cui vengono termini distanti come solitudine e sollazzo. Come mai? Perché sembra che solus nasconda la radice (ol-) che indicava pienezza, integrità, totalità, rimasta per esempio in ad-olescente (teso alla pienezza), olistico (che abbraccia tutto). «Solo» è quindi «uno» perché integro e saldo, e non perché «isolato», che viene invece da isola. Può stare «solo» chi è «pieno», ma questa totalità, per esseri finiti come siamo, non è alla nostra portata e, quindi, è necessario essere con-solati: resi pieni.
Il con-, prefisso della relazione (coniuge, compagno, complice…), conferma infatti che la pienezza di qualcosa si raggiunge «insieme», come si dice anche per la forza, che richiede con-forto, o per il cuore che richiede con-cordia. Per questo ci consola ciò che ci restituisce interezza (si pensi al cerchio dell’abbraccio), ed è invece de-solante ciò che ce la toglie (il de- indica privazione): per Leopardi infatti la ginestra «consola» il deserto che è una terra desolata. La consolazione provoca sollazzo (gioia), perché è come una festa tra amici. Cristo, riferendosi alla sua futura morte per amore degli uomini, dice infatti: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro Consolatore», indicando lo Spirito Santo, di cui ricorreva ieri la festa (Pentecoste: 50 giorni dopo la Pasqua). La traduzione italiana evoca un verbo ebraico che significa «far respirare»: il Consolatore è chi ci fa respirare sempre. Cristo definisce quindi se stesso il primo Consolatore e lo Spirito il secondo e più necessario, perché rende vivi gli uomini di tutti i luoghi e tempi, e non solo i contemporanei di Gesù. Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.
Ma lo Spirito dov’è? Al modo della luce è visibile nei suoi effetti. Se infatti vi chiedessi di dimostrarmi quanto amate, ci riuscireste solo portandomi la persona amata, che mi racconterebbe una serie di eventi e parole del vostro amore: una lettera, un gesto, un regalo, un piatto, una canzone… cose molto semplici che però, colpite dal cono di luce della gratuità e unicità del dono, diventano e mostrano l’amore stesso. Allo stesso modo, per chi lo frequenta, lo Spirito trasforma in Amore ogni cosa, anche la più materiale o oscura (come lo scultore rende «viva» la pietra con il suo spirito). Di una persona piena di vita diciamo infatti che è ispirata o di ispirazione (parole derivate da spirito) perché, anche in situazioni difficili, conserva la luce e la leggerezza dell’innamorato. Lo Spirito permette di amare se stessi (non ci si sente mai brutti o abbandonati), il mondo (tutto diventa casa) e gli altri (anche quelli più difficili e lontani da noi). Chi è «con-solato», sentendosi sempre amato, non ha paura di amare: infatti libera attorno a sé energie creative, genera legami e molti sospetti (dov’è la fregatura?), come accadeva a Cristo. Spirituale non è, come purtroppo si intende oggi, chi è lontano dalle cose terrene, ma chi «respira pienamente» in mezzo a quelle cose senza soffocare, perché trova la vita che hanno dentro. Far la lavatrice o la spesa può essere più spirituale di leggere e pregare: non è l’azione in sé, ma quanto amore ci metto (come e per chi lo faccio?).
Due anni dopo quel monologo, purtroppo Dagerman si tolse la vita, benché avesse intuito la via da percorrere: «Tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso — l’incontro con una persona amata, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino — si svolge al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è indifferente». La bellezza, per quanto a frammenti, ci mostra l’origine della luce di cui andiamo a caccia, ma la luce non si può catturare, solo ricevere. Il Consolatore non è la preda che sfugge ai nostri proiettili, ma l’Amante che, per darci il dono della vita, aspetta solo che lo chiamiamo per nome: Amore.
Riparare
Chandra Candiani
Lo chiamano «perdono». Ma cosí la giustizia resta indifesa. Il dono, se è per qualcuno, non è piú dono. Nella visione orientale, donare è vero donare solo se non c'è piú né chi dona né chi riceve e nemmeno il dono stesso, solo il puro gesto. Allora la giustizia è trascesa.
Ma sulla terra, nell'immanenza, c'è un gesto magnifico e in via di sparizione: il riparare. Posso ripararmi dal pericolo e dalla pioggia e posso riparare le scarpe come fa il ciabattino, o l'orologio come fa l'orologiaio e cioè posso non buttare via né il danno né quello che è danneggiato. Sono parole che hanno a che fare con il lavoro anziché con il dono. Non hanno trascendenza ma rappezzatura. Stanno qui. Guardano con attenzione il danno, lo studiano, progettano passo passo la riparazione.
E un'andatura che ha a che fare con il passo della compassione, perché si può aver compassione del cosiddetto "nemico", di chi ci ha ferito e danneggiato anche per sempre. Chi è ferito è danneggiato ma chi ferisce è condannato a vivere di fronte a se stesso ogni minuto della sua vita, e sa. Anche se a tutti gli altri è ignoto, sa.
Ripararsi da altro male, non permetterlo piú, fermare la mano anche quando è ben travestita.
Chi sa rammendare, rattoppare, è addestrato a lottare al buio e al buio inizia a lavorare con i fili, a separare, unire, cucire e disfare. Non ha niente a che fare con la superiorità di chi perdona.
Una volta, è stato chiesto a un grande Lama tibetano, sopravvissuto ad anni di torture nelle prigioni cinesi, quale fosse stato il suo momento peggiore. E lui rispose: «Quando sotto tortura odiavo i cinesi, quello era il momento piú brutto, quando cedevo all'odio per il nemico».
E il Dalai Lama, quando gli chiesero se detestasse i cinesi, rispose: «Si sono già presi la mia terra, non permetterò che si prendano anche la mia mente».
Inviare frasi di compassione al nemico significa slegalo da noi. Personalmente, sento il bisogno di inviare: «Che tu possa sapere quello che hai fatto, che tu possa esserne consapevole, che tu possa essere libero dalla sofferenza». Perché credo nel potere guaritivo della consapevolezza, una guarigione ad alto costo, l'unica che non sappia di oblio.
Ha detto Liliana Segre ai giovani a proposito del nazismo: «Io non perdono e non dimentico, ma non odio».
Riparare e ripararsi significa staccare il filo che ci lega al danneggiatore, affidarlo al suo karma, alle conseguenze delle sue azioni, non assomigliargli, non cadere negli stessi sentimenti di distruzione e occuparsi del baratro, il vuoto lasciato dal danno e assaporarne la sconfinatezza, e la libertà di essere diversi. Sentire il male significa che il male è già altro da noi. Non condonare, non perdonare, ma lavorare alla possibilità di nascere di nuovo, di portare con dignità il passato e di rivolgersi al futuro con fiducia nelle proprie strumentazioni. Le strumentazioni di un radar, di una nave che si inoltra nel buio ma sente, avverte ogni pericolo e possibilità di ripeterlo.
Compassione è comprendere che il male va fermato definitivamente. Per noi, per tutti. Inviare compassione al nemico è comprendere il gioco delle parti e augurargli di cambiare posizione grazie alla consapevolezza del male inflitto.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 98-100)
Non sapere
Chandra Candiani
Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura, fino a farmi smettere anche solo di provare a colmarle. Restavo allibita dal non sapere.
Lo stesso poi con la letteratura e con la poesia: piú leggevo e piú mi sfuggiva tutto di mano.
Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo piú sperimentavo. E piú tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. Perché il sapere dell'esperienza non si può accumulare, l'esperienza inganna come tutto il resto, se credi di poterla ripetere quando ti addentri nei territori del non conosciuto. Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti, e al massimo ti preparano bende e cerotti per quando sosti un momento e li guardi disperato negli occhi: la disperazione dei cani quando non capiscono i nostri comportamenti discontinui. In ognuno di noi c'è un cane spaventato dalla discontinuità dell'esperienza.
Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora.
La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore piú ferito della terra.
Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c'è sempre, anche in. città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre piú piccole man mano che lo sgitardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 8-9)
Soffio!
Alessandro D'Avenia
Il poeta soldato dice di soffrire non perché «non è» ma perché «non si crede» in armonia, differenza abissale: l'armonia non è un traguardo da raggiungere ma uno stato che perdiamo o dimentichiamo. Se dico ai miei studenti: «Adesso prestate molta attenzione», si mettono in tensione, quando invece dovrebbero chiudere gli occhi e rilassarsi, come nell'abbandono alle acque che fanno sentire il poeta «una docile fibra dell'universo», unito nelle tre direzioni, personale, relazionale e trascendente. Se il nostro corpo è arrivato a credere che l'armonia sia allerta e non abbandono, è perché siamo permeati dalla spossante convinzione che la felicità sia una performance, qualcosa da ottenere, raggiungere, afferrare, e non semplicemente da ricevere, coltivare, liberare. Mi ha spesso guarito da questa idea tossica la doppia (è rivolta alle due categorie sociali degli ascoltatori) parabola che Cristo usa nel vangelo per descrivere non una religione ma la vita: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13).
Il regno dei cieli o regno di Dio nel vangelo non è un posto sulle nuvole o da raggiungere dopo la morte, ma una metafora per indicare dove Dio regna cioè dove la vita trabocca, una vita viva da subito: la gioia qui, ora e sempre, anche nelle burrasche. E come si legge non è qualcosa da raggiungere ma che ci raggiunge dove siamo, una grazia, un dono. Di fronte a questa «fortuna», si vende tutto, come quando ti innamori e tutto il resto passa in secondo piano. Credenti o no, qui ci si libera dalla felicità-traguardo e ci si apre a una possibilità diversa: la vita ti trova lei, tu lo senti dove e quando sei vivo, fai esperienza di ciò che ti fa crescere, e a quel punto non puoi perder tempo con il resto, perché hai l'essenziale e in abbondanza. Nel compleanno mi sono chiesto a che punto sono con questo essenziale nelle tre dimensioni dell'eros: me stesso, il mondo (cose e persone), dio. A che punto sono con l'esser vivo in ogni circostanza, anche nella tempesta? Lo psichiatra Viktor Frankl, pochi mesi dopo la liberazione dal campo di concentramento, tenne tre affollate conferenze all'Università popolare di Vienna, nella prima delle quali descrisse l'esperienza della prigionia da una prospettiva insolita: «Ciò che rimane è l’essere umano, il mero essere umano. Tutto lo aveva abbandonato: denaro, fama, potere; non c’era più niente di sicuro: non la vita, non la salute, non la felicità; tutto era stato messo in discussione: vanità, ambizione, relazioni. Tutto si era ridotto alla nuda esistenza. Reso incandescente dal dolore, tutto l’inessenziale si era fuso riducendo l’essere umano a ciò che, in ultima analisi, era: o uno qualunque nella massa, cioè nessuno di reale, cioè l’anonimo, nient’altro che il numero di matricola di un prigioniero; oppure riducendolo al suo sé». Se ci tolgono ogni cosa che resta di noi? Nulla o il sé autentico? Il discrimine tra la prima o la seconda opzione per Frankl dipende da «qualcosa di simile a una decisione... perché l’esistenza, alla cui nudità e inermità l’uomo era stato ricondotto, non è altro che questo: decisione». Che cosa intende lo psichiatra viennese per “decisione”? «Compiere un rovesciamento di 180° attraverso cui la domanda non è più “Cosa devo aspettarmi dalla vita?”, bensì “Cosa si aspetta la vita da me?”. Quale compito mi aspetta nella vita? Adesso comprendiamo quanto sia mal posta la domanda sul significato della vita, se la poniamo come si fa di solito: non siamo noi a poter fare domande sul senso della vita, ma è la vita stessa che le rivolge a noi, è lei a interrogarci! E siamo noi quelli tenuti a rispondere. La vita è un essere-interrogati, tutto il nostro essere è un rispondere alla, o della, vita, un esserne responsabili. Assumendo una posizione del genere più nulla può spaventarci, nessun futuro, nessuna apparente mancanza di futuro. Ora, infatti, il presente è tutto, poiché racchiude l’interrogativo eternamente nuovo che la vita ci rivolge. Quello che ci riserva il futuro, invece, non abbiamo bisogno di saperlo» (Sul senso della vita). Parole a cui sono tornato spegnendo le candeline: quante altre ne avrò? In questa prospettiva la domanda è mal posta e senza risposta. Il punto è invece sgombrare il presente, il più grande serbatoio di sorprese, nel bene e nel male, dal rumore, la paura, le illusioni che gli impediscono di farmi la domanda su cosa si aspetta da me. Che cosa mi chiede la vita ora? Che cosa mi rende vivo nei tre spazi del fiorire: me stesso, il mondo, dio? Mi sono allora chiesto quali siano i tesori nascosti trovati sino ad ora in ognuno di questi ambiti, per vendere tutto ciò che è nulla al confronto. Mi è tornato allora in mente che trent'anni fa, il 1 maggio, nel Gran Premio di Imola moriva il più forte pilota della storia: Ayrton Senna. Allora seguivo con passione la Formula Uno con mio padre. Vidi in diretta l'incidente, ricordo tutto. Avrei compiuto 17 anni l'indomani, e sentii il morso di quella fine incombere sul mio inizio da rinnovare. Volevo sapere tutto dell'incidente: se anche Senna muore, figurati io... Lessi che nella tuta che indossava in gara era stato trovato un biglietto con scritto: «Nessuno mi può togliere l’amore che Dio ha per me». Quello era tutto il suo presente, il tesoro nascosto. Più cresco più mi sembra che la vita non abbia un traguardo da raggiungere ma che il traguardo siamo noi se ci lasciamo raggiungere, qui e ora, dalla grazia di essere nati per poi, forti di questo eros, far nascere il presente. Solo quando trovo in me ciò che non può essermi più strappato riesco a vedere nelle candeline non quanti anni di vita compio, ma quanta vita si compie negli anni. E soffio.
Ad Amare non si sbaglia mai..
Paolo Ricca
La bellezza è da amare perché è un riflesso della bellezza di Dio. L’amore nelle sue tante forme è da amare perché è ciò che di più bello c’è nella nostra vita, ed è anch’esso un segno di Dio che è amore. L’arte è da amare perché è un modo nobile per cercare di penetrare nell’enigma della vita e del mondo, è anche un modo per rendere loro omaggio e per festeggiarli: in fondo l’arte è celebrazione, quindi una forma di preghiera. La vita è da amare, ma non solo la nostra, anche quella degli animali, dei fiori, delle piante, del colori, dell’acqua, dell’aria, del vento, della terra e del fuoco, di tutte le creature evocate da Francesco d’Assisi nel suo stupendo Cantico, perché la vita è bella, è Dio che l’ha inventata, voluta, suscitata e resa possibile. La natura è da amare sia perché è splendida (benché anch’essa attraversata, come la nostra esistenza, da un «gemito» e da un «travaglio»: Romani 8, 22), sia perché è opera «delle mani» (Salmo 19, 1) e «delle dita» (Salmo 8, 3) di Dio, ed è il teatro della sua gloria. Insomma: non bisogna aver paura di amare. Direi anzi: ad amare non si sbaglia mai. Purché si ami in Dio. In Dio possiamo amare tutto e tutti, non perché il nostro cuore sia capace di tanto, ma perché Dio rende tutto amabile.
L’amore autentico offre tempo e presenza
di ENZO BIANCHI
Vorrei tentare una rilettura della sua prassi dall’ottica del nostro stile di vita. Ovvero, non citerò brani evangelici, ma vorrei tenerli sullo sfondo, per vedere come essi agiscono su noi suoi discepoli e discepole, nel nostro stile di vita quotidiano. In quale modo lo stile di vita di Gesù plasma e ispira il nostro vivere la comunione?
Gesù ha vissuto l’amore innanzituttooffrendo il suo tempo e la sua presenza. Oggi la contraddizione all’amore autentico viene soprattutto dalla mancanza di tempo (prospettiva che si è rovesciata in questo periodo di pandemia!), dal non dare all’altro la propria presenza. I ritmi della vita, gli impegni di lavoro, le molteplici cose da fare, le scadenze che ci paiono inderogabili, tutte queste realtà ci mangiano il tempo; sicché, pur avendo tempo per molte altre cose, non abbiamo più tempo per le cose gratuite, quelle che non ci portano guadagno. Ci manca il tempo dell’incontro: incontriamo le persone che dobbiamo incontrare per ragioni di lavoro, anzi cerchiamo di moltiplicare gli incontri che possono “rendere”, ma non c’è più tempo per l’incontro che non fa parte del nostro lavoro e che non ci fa guadagnare. Dare tempo per amore, dare la presenza all’altro senza fare nulla e anche senza dire nulla, ci sembra tempo sprecato. Eppure non c’è amore dove non c’è presenza dell’uno all’altro.
Gesù ha inoltre avuto una grande attenzione per l’altro, a cominciare dal suo corpo. Occorre avere la percezione che l’altro non è un partner ideale davanti a me, né un tu qualsiasi, un altro e basta, ma è un corpo con cui devo relazionarmi, un corpo che aspetta da me degli atteggiamenti, un linguaggio, perché per comunicare i corpi devono esprimersi. Si tratta dunque di riconoscere il corpo dell’altro realmente, non di definirlo solo in base a criteri di bellezza, avvenenza, crescita sana.
È normale che un corpo seduca, attragga, interessi, oppure respinga e faccia provare repulsione. Al riguardo, per incontrare l’altro occorrono molta attenzione, molta sapienza, molto esercizio per disciplinare le nostre emozioni e i nostri sentimenti: non possiamo amare l’altro solo se ci piace! È facile provare sentimenti di attrazione per chi è bello, giovane, piacevole, ma per amare l’altro occorre accogliere innanzitutto quel preciso corpo, perché la sua vita che voglio e devo incontrare è inscritta in quel corpo, nei suoi occhi, nelle sue labbra, nelle sue mani… L’altro non ha un corpo: è un corpo! Se è un corpo, allora non posso accendere l’amore senza accogliere il suo corpo. Solo attraverso il corpo passa l’amore.
Non esiste un contatto, una relazione con una persona, che non passi attraverso la relazione con il suo corpo. Chiediamoci semplicemente: perché Francesco di Assisi ha baciato un lebbroso? Non ha amato un lebbroso facendogli la carità o pregando per lui: l’ha baciato! Nella relazione è anche il corpo che parla: parla da giovane e da anziano, da sano e da malato, da bello e da brutto. Va detto che ogni corpo è una persona, ogni corpo – dice il cristiano – è “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Ogni corpo è un membro del corpo di Cristo.
Gesù ha voluto entrare in relazione con gli altri interrogandoli, conversando e dialogando.Per crescere nella conoscenza e nell’amore occorre avvicinarsi all’altro, accogliere il suo corpo con attenzione e quindi entrare in dialogo con lui, ascoltandolo e parlandogli. Si inizia ascoltando l’altro, restando silenziosi, a volte ascoltando il silenzio dell’altro. Occorre poi intervenire, magari rispondendo o ponendo domande, ma sempre con un atteggiamento che dica l’interesse per la relazione. Solo a queste condizioni si accende la comunicazione: comunicazione di parole, di silenzi, di gesti, di sguardi, di un “toccare” l’altro. La comunicazione è vitale, per questo esige che vi siano impegnati il cuore, la mente, il corpo con i suoi atteggiamenti. Ascolto dell’altro per cogliere dove lui è; ascolto dell’altro per conoscere ciò che lui porta nel cuore e vuole comunicare a me; ascolto dell’altro per far crescere l’amore; ascolto dell’altro per predispormi a riconoscerlo affidabile, in una relazione che ci impegnerà reciprocamente.
Se uno non ascolta, non si predispone ad amare, non può accedere all’amore; e se uno non parla, non entra nella dinamica dell’amore, perché non parlare è il primo modo per sottrarsi alla relazione e per negarla. Sincerità e verità diventano allora assolutamente necessarie alla comunicazione e rendono possibile l’edificare la relazione nell’amore. Si pensi solo a una parola semplice eppure così decisiva: “Io ti amo”, parola detta in sincerità, detta come confessione e promessa. Parola che sempre sottintende la domanda: “E tu mi ami?”, attendendo una risposta. In queste parole si gioca “il senso dell’eternità” (‘olam: Qo 3,11) che ogni essere umano porta in sé!
In ogni relazione d’amore accade tuttavia che il male prevalga sul bene, che l’amore sia tradito, si ammali, sia contraddetto. Nessuna illusione: nell’amicizia, nella storia dell’amore vissuta nel matrimonio, nei rapporti di amore prima o poi avviene una contraddizione. A volte è uno che viene meno, mentre l’altro resta saldo; a volte entrambi i partner dell’amore diventano infedeli l’uno all’altro. Ciò accade, ma non deve essere così deludente da impedire la relazione d’amore, né essere giudicato quale morte dell’amore. Bisogna prepararvisi, bisogna metterlo in conto anche quando ci si promette reciprocamente la fedeltà, il non venire meno. Anzi, occorrerebbe che chi ama metta in contro che l’altro mancherà e, di conseguenza, si impegni a perdonare per ripartire, per ricominciare, fino a dimenticare il venire meno dell’altro. Qui si misura la maturità dell’amore: amore vissuto concretamente, non idealizzato, amore innestato in ciò che io sono e in ciò che l’altro è.
Ecco perché è decisiva la capacità, la volontà, la responsabilità del perdonare, sulla quale Gesù ha dato l’esempio fino alla fine. Perdonare è amare con coraggio, è credere che l’amore che si vive è più forte delle contraddizioni che riceve. Chi ha un cuore che sa perdonare, ha un cuore grande, abitato dall’amore, un amore che sa accogliere dall’altro non solo la bellezza, le virtù, i doni, ma anche i difetti, le fragilità, le cadute, anche le cattiverie. A volte il cammino di chi ama è gravemente ferito, quasi impossibile da percorrere: i questi casi occorre fermarsi, sostare, non muoversi, restare in attesa dell’altro che si è smarrito… Ci vuole molta pazienza e poi, sì, la capacità di perdonare, di riprendere con sé l’altro e di ripartire nell’amore. Questa è la vittoria dell’amore sulla morte (cf. Ct 8,6) che possiamo sperimentare qui sulla terra! Questa è la comunione che la chiesa, corpo di Cristo, può vivere e testimoniare al mondo.
Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che da valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla.C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere; vuole soltanto amare.”
Herman Hesse
Enzo Bianchi: leggo, voce del verbo vivere
Sarà anche a motivo del mio iniziare ogni giornata con un’attività chiamata lectio divina, ma per me il consiglio di Flaubert – “Leggere per vivere” – riveste un significato particolarmente denso: non solo perché la parola di Dio contenuta nella Bibbia è per il credente “parola di vita”, ma perché l’esperienza mi conferma che chi non legge fatica a vivere in pienezza e finisce ben presto per accontentarsi di “sopravvivere”.
Leggere infatti non è tanto un’attività intellettuale quanto piuttosto il faticoso ma fecondo sforzo di interrogare e interpretare se stessi e la realtà che ci circonda: si tratta di leggere non un libro ma il mondo, le situazioni, gli eventi attraverso ciò che già “sta scritto” perché altri lo hanno messo “nero su bianco”. E, più in profondità ancora, di leggere se stessi: se ci pensiamo bene, il corpo stesso della persona che legge diviene sovente icona di interiorità, una garanzia palpabile di raccoglimento, diremmo quasi che il lettore si fa tutt’uno con il libro e che in tal modo coinvolge nell’atto del leggere persino l’autore stesso di quelle pagine.
La lettura, di fatto, è una conversazione, un dialogo con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio: è un ricevere la parola di un altro e farla propria, interpretandola nel dialogo della propria intimità. Sant’Agostino paragonava la scrittura a uno specchio che rivela il lettore a se stesso, Gregorio Magno parlava della «Scrittura che cresce assieme al lettore» e Marcel Proust, al termine della sua opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto, le apriva nuovi orizzonti, ancor più sconfinati, asserendo che i suoi lettori sarebbero stati «lettori di se stessi» in quanto il suo libro era solo il mezzo offerto loro perché leggessero dentro se stessi. Sì, anche e soprattutto nella nostra società dell’immagine, leggere resta operazione di grande umanizzazione, sorprendente nella sua semplicità: non occorrono tecnologie né complicate strumentazioni, e nemmeno iniziazioni particolari perché, in fondo, come ricordava il poeta Fernando Pessoa, «l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge».
Non a caso i medievali facevano derivare la parola latina intellegere – letteralmente “capire” – da intus legere, “leggere dal di dentro”. Per fare questo occorre ritirarsi dal “commercio” che ci attornia, dimenticare ciò che è presente ai nostri sensi e concentrarci su ciò che vogliamo leggere, fissare gli occhi e l’attenzione su dei segni scritti – un susseguirsi di spazi bianchi e di lettere disposte ordinatamente sulla superficie di una pagina, cartacea o meno che sia – fino a uscire quasi da noi stessi (o a scendere nelle nostre profondità...) per immergerci nello scritto. Anche in mezzo alla folla, in treno, in autobus, questa operazione rimane possibile e il lettore diviene, anche per chi lo osserva, un’allusione evocatrice del viaggio della mente.
Certo, al cuore della vita cristiana ci dev’essere la lettura della parola di Dio, quella lectio divina che permette di assaporare il vino delle sante Scritture, ma la sapienza di Dio è presente anche in tanti libri, a volte ispirati proprio dall’incontro tra la Parola stessa e un suo lettore appassionato. Saggiamente nella sua Regola, san Benedetto prevede che ogni monaco all’inizio del tempo di Quaresima riceva un libro dalla biblioteca e lo «legga di seguito e interamente», ogni giorno, al mattino presto (RB 48,14-15). Disposizione fissata in un’epoca in cui rari erano i libri e, per contro, numerosi i monaci analfabeti: paradossale conferma del fatto che il leggere resta una pratica importante nella vita cristiana, non tanto come operazione intellettuale, ma piuttosto come strumento per approfondire il senso dell’esistenza e la propria fede, per accogliere i doni di una tradizione ricca di conoscenza, per vincere la paura di pensare, per aprire il cuore alla novità e a ciò che è stato cercato dall’altro.
Per un cristiano – consapevole che la parola di Dio è contenuta nei libri per eccellenza, la Bibbia – l’operazione del leggere diventa necessaria quasi quanto l’ascoltare: la Bibbia è sacramento della Parola. Purtroppo, oggi si legge poco e anche i cristiani leggono poco, adducendo tra le scuse il poco tempo a disposizione. Ma le scelte che operiamo nell’impiego del nostro tempo sono rivelatrici – che noi ne siamo consapevoli o meno – di ciò che per noi davvero conta nella vita. Così leggere può divenire antidoto alla monotonia dei giorni, lotta contro il logorio del tempo, manifestazione del nostro essere signori e non schiavi del tempo: in questa sua valenza, è atto anti-idolatrico, gesto di resistenza contro uno degli idoli della nostra epoca, opzione etica che accomuna credenti e non-credenti.
In questo non dimentichiamo che il libro possiede una qualità che manca ad altri strumenti di comunicazione: sa aspettare. Se il tempo ci manca davvero, il libro ci aspetta, resta lì sul comodino, tra gli scaffali, nella borsa, accanto al giornale e aspetta finché noi troviamo il necessario silenzio interiore, finché accettiamo di ritirarci in disparte, di prendere le distanze da ciò che distrae: esercizio di pazienza, la lettura sa quindi attendere il momento opportuno, ma è anche in grado di suscitarlo, di anticiparlo. Bisogna desiderare leggere, come si desidera un bene prezioso, perché leggere è una scelta ma anche una ricchezza: quella dei tempi riservati, in cui si rivela una parte segreta che appartiene solo a sé ma della quale si può comunicare qualcosa.
Leggere è abbeverarsi a una sorgente che non si esaurisce quando le ci si avvicina. Chi di noi, di fronte a un libro amato – e non parlo solo della Bibbia – non ha fatto l’esperienza di come questi assuma colori nuovi secondo i momenti, di come emani profumi inebrianti che danno alla testa o scendono nel cuore, secondo le stagioni, al ritmo dei desideri. Il libro è un oggetto strano: lo guardiamo, lo valutiamo, lo sfogliamo, lo posiamo, lo ritroviamo. Una frase è riletta, un passaggio familiare o oscuro è nuovamente decifrato. Leggere un libro significa compiere un’operazione tesa a leggere il mondo e la storia e accettare che questo anelito ha già abitato poeti, letterati, profeti, musicisti, uomini e donne diversi che hanno diversamente vissuto e diversamente scritto.
Così annotava Italo Calvino: «Leggere vuol dire spogliarsi di intenzione e di ogni partito preso per essere pronti a cogliere una voce che si fa sentire quando meno ci si aspetta, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell’autore, al di là delle convenzioni della scrittura. Dal non detto, da quello che il mondo non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire». Così la lettura, questo viaggio intrapreso con le parole dell’altro, diviene un cammino per ritornare al proprio cuore, un itinerario potenzialmente infinito. Sì, perché «se alla fine ho chiuso il libro – scriveva Virginia Woolf – era solo perché la mia mente era sazia, non perché avessi esaurito il suo tesoro».
Fede, cultura e società
Gianfranco Ravasi
Una premessa
L’orizzonte tematico suggerito dal trinomio “fede, cultura, società” è evidentemente immenso e ammette infiniti percorsi di analisi e molteplici esiti di bilancio e di sintesi. È indubbio, perciò, che la nostra potrà essere solo una riflessione emblematica all’interno della quale si aprono spazi bianchi, passibili di ulteriori e ampie considerazioni. Procederemo, dunque, in modo quasi didascalico con una premessa e un corpus successivo di quattro ideali “punti cardinali”, iscritti su una mappa che ammette evidentemente altre definizioni orientative.
Iniziamo con la premessa generale. Lo scrittore cattolico inglese Gilbert K. Chesterton affermava: «Tutta l’iconografia cristiana rappresenta i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l’iconografia buddhista rappresenta ogni essere con gli occhi chiusi». Si tratta, quindi, di due differenti tipologie riguardo al nostro tema. Da un lato, c’è una concezione più squisitamente trascendentale, assoluta, che cerca di andare, chiudendo gli occhi, oltre il mondo, la storia, il tempo e lo spazio, con la sua fragilità, la sua finitudine, i suoi limiti, la sua pesantezza.
Dall’altro lato, invece, c’è la visione cristiana profondamente innervata all’interno della società e della cultura, tanto da costituire una presenza imprescindibile, a volte perfino esplosiva. Infatti, come è noto, la tesi centrale del cristianesimo resta l’Incarnazione: «Il Verbo divenne carne» (Giovanni 1,14). Si tratta di una contrapposizione radicale rispetto alla concezione greca che non ammetteva che il lógos si confondesse, si stingesse immergendosi nella sarx, la carne, ossia la storia. Nel cristianesimo si ha, invece, un intreccio tra fede e storia e, perciò, un contatto tra religione e politica.
Trattare, perciò, un tema simile rientra nei fondamenti stessi dell’esperienza ebraico-cristiana, e quindi della Bibbia, che tra l’altro è anche il “grande Codice” della nostra cultura occidentale. È noto che Goethe riteneva il cristianesimo la “lingua materna” dell’Europa, perché rappresenta una sorta di “imprinting” che noi tutti ci portiamo dietro. Per alcuni forse potrà essere un peso; per altri, invece, rimane un’eredità preziosa. Ebbene, per sviluppare il tema sia pure in modo semplificato, ci affideremo – come si diceva – a quattro componenti o principi emblematici fondamentali, lasciando tra parentesi altri ugualmente rilevanti.
Il principio personalista
La prima concezione radicale che proponiamo potrebbe essere definita come il “principio personalista”. Il concetto di persona, alla cui nascita hanno contribuito anche altre correnti di pensiero, acquista infatti nel mondo ebraicocristiano una particolare configurazione attraverso un volto che ha un duplice profilo e che ora rappresenteremo facendo riferimento a due testi biblici essenziali che sono quasi l’incipit assoluto dell’antropologia cristiana e della stessa antropologia occidentale.
Il primo testo proviene da Genesi 1,27, quindi dalle prime righe della Bibbia: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Di solito questa frase è incisa all’interno della tradizione – basti pensare a s. Agostino – come dichiarazione implicita dell’esistenza dell’anima: l’immagine di Dio in noi è la spiritualità. Tutto ciò è, però, assente nel testo, anche perché l’antropologia biblica non ha particolare simpatia per la concezione anima/corpo separati, posti in tensione secondo il modo platonico, oppure uniti alla maniera aristotelica.
Qual è, allora, la caratteristica fondamentale che definisce l’uomo nella sua dignità più alta, “immagine di Dio”? La struttura tipica di questa frase, costruita secondo le norme della stilistica semitica, rivela un parallelismo progressivo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina [è, questo, il parallelo di “immagine”] li creò». Ma forse Dio è sessuato? Nella concezione biblica la dea paredra è sempre esclusa, in polemica con la cultura indigena cananea. E allora, come mai l’essere maschio e femmina è la rappresentazione più alta della nostra dignità trascendente? Appare qui la prima dimensione antropologica: essa è “orizzontale”, cioè la grandezza della natura umana è situata nella relazione tra maschio e femmina.
Si tratta di una relazione feconda che ci rende simili al Creatore perché, generando, l’umanità in un certo senso continua la creazione. Ecco, allora, un primo elemento fondamentale: la relazione, l’essere in società è strutturale per la persona. L’uomo non è una monade chiusa in sé stessa, ma è per eccellenza un “io ad extra”, una realtà aperta. Solo così egli raggiunge la sua piena dignità, divenendo l’“immagine di Dio”. Questa relazione è costituita dai due volti diversi e complementari dell’uomo e della donna che si incontrano (rilevante, al riguardo, è la riflessione di Lévinas).
Sempre restando nell’ambito di questo primo fondamentale principio personalista, passiamo a un’altra dimensione non più orizzontale, ma “verticale” che illustriamo ricorrendo sempre a un’altra frase della Genesi: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo». Ciò è tipico di tutte le cosmologie orientali ed è una forma simbolica per definire la materialità dell’uomo. Ma si aggiunge: «e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (2,7).
Per intuire il vero significato del testo è necessario risalire all’originale ebraico: nishmat hayyîm, locuzione che nell’Antico Testamento ricorre 26 volte e, curiosamente, è applicata solo a Dio e all’uomo, mai agli animali (rûah, lo spirito, l’anima, il respiro vitale per la Bibbia è, invece, presente anche negli animali). Questa specifica categoria antropologica è spiegata da un passo del libro biblico dei Proverbi dal dettato originale molto barocco e semitico: la nishmat hayyîm nell’uomo è «una lampada del Signore, che illumina le camere oscure del ventre» (20,27). La versione CEI scioglie la metafora traducendo: «è una lampada del Signore: essa scruta dentro, fin nell’intimo».
Com’è facile immaginare, mediante tale simbolica, si arriva a rappresentare la capacità dell’uomo di conoscersi, di avere una coscienza e perfino di entrare nell’inconscio, appunto nelle «camere oscure del ventre». Si tratta della rappresentazione dell’interiorità ultima, profonda, quella che la Bibbia in altri punti descrive simbolicamente coi “reni”. Che cosa, dunque, Dio insuffla in noi? Una qualità che solo egli ha e che noi condividiamo con lui e che possiamo definire come “autocoscienza”, ma anche “coscienza etica”. Subito dopo, infatti, sempre nella stessa pagina biblica, l’uomo viene presentato solitario sotto “l’albero della conoscenza del bene e del male”, un albero evidentemente metaforico, metafisico, etico, in quanto rappresentazione della morale.
Abbiamo, così, identificato un’altra dimensione: l’uomo possiede una capacità trascendente che lo porta a essere unito “verticalmente” a Dio stesso. È la capacità di penetrare in se stesso, di avere un’interiorità, un’intimità, una spiritualità. La duplice rappresentazione etico-religiosa molto semplificata della persona, finora descritta, potrebbe essere delineata con un’immagine molto suggestiva di Wittgenstein che, nella prefazione al Tractatus logicophilosophicus, illustra lo scopo del suo lavoro.
Egli afferma che era sua intenzione investigare i contorni di un’isola, ossia l’uomo circoscritto e limitato. Ma ciò che ha scoperto alla fine sono state le frontiere dell’oceano. La parabola è chiara: se si cammina su un’isola e si guarda solo da una parte, verso la terra, si riesce a circoscriverla, a misurarla e a definirla. Ma se lo sguardo è più vasto e completo e si volge anche dall’altra parte, si scopre che su quella linea di confine battono anche le onde dell’oceano.
In sostanza, come affermano le religioni, nell’umanità c’è un intreccio fra la finitudine limitata e un qualcosa di trascendente, comunque poi lo si voglia definire.
Il principio di autonomia
Il secondo principio dell’ideale mappa socio-antropologica che stiamo delineando è parallelo al precedente ed è, come quello, duplice. Potrebbe essere detto “di autonomia” e, per illustrarlo, ricorreremo a un testo che è fondamentale non solo nella religiosità ma anche nella stessa memoria della cultura occidentale, sebbene non sia stato sempre correttamente interpretato. Si tratta di un celeberrimo passo evangelico: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22,21). Una formulazione lapidaria, l’unico vero pronunciamento politico-sociale di Cristo, mentre tutti gli altri sono più indiretti e meno espliciti. Per comprendere correttamente questa affermazione, bisogna entrare nella mentalità semitica che ricorre molto spesso alle cosiddette “parabole in azione” attraverso le quali il messaggio viene formulato con un gesto, con una serie di comportamenti simbolici e non solo con le parole.
Cristo, infatti, all’inizio dice ai suoi interlocutori: «Datemi la moneta», facendo seguire una domanda fondamentale: «Di chi è l’immagine e l’iscrizione?». E la risposta è: «Di Cesare». Di conseguenza: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare». La prima parte della frase di Cristo riconosce, dunque, un’autonomia alla politica. Una vera concezione cristiana dovrebbe sempre escludere qualsiasi tipo di teocrazia sacrale. Non appartiene all’autentico spirito cristiano l’unione fra trono e altare, anche se nella storia, purtroppo, il cristianesimo l’ha favorita in molte occasioni.
La concezione giuridica islamica nella forma più conosciuta della shariyyah è estranea allo spirito cristiano: il codice di diritto canonico non può essere automaticamente il codice di diritto civile o penale, così come la carta costituzionale di uno stato nazionale non può essere il Vangelo. Si tratta di realtà che devono rimanere sempre ben distinte. La politica, l’economia, la società civile hanno un loro spazio di autonomia, al cui interno si sviluppano norme, scelte, attuazioni dotate di una loro immanenza, sulle quali non devono interferire altri ambiti esterni.
Ma le parole di Cristo non finiscono qui: c’è una seconda parte implicita, sempre basata sul tema dell’“immagine”. Gesù, infatti, chiedendo di chi sia l’“immagine” a proposito della moneta, indirettamente fa riferimento al testo biblico sopra citato riguardante l’uomo come “immagine” di Dio. Ecco, allora, una seconda dimensione: la creatura umana deve, sì, rispettare le norme proprie della pólis, della società, ma, al tempo stesso, non deve dimenticare di essere dotata di una dimensione ulteriore. È, questo, l’ambito specifico della religione e della morale, nel quale emergono le questioni della libertà, della dignità umana, della realizzazione della persona, della vita, dell’interiorità, dei valori, dell’amore.
Tutti questi temi hanno una loro precisa autonomia e non ammettono prevaricazioni o sopraffazioni da parte del potere politico-economico. Infatti, se è vero, che non ci dev’essere una teocrazia, è altrettanto inammissibile una statolatria che incomba secolaristicamente sull’altro ambito, svuotandolo o addirittura annullandolo. È facile comprendere quanto sia complessa e fin ardua la declinazione concreta di tale autonomia, come lo è il contrappunto fra queste due sfere perché unico è il soggetto a cui entrambe si dedicano, cioè la persona umana, singola e comunitaria.
Il principio di solidarietà, giustizia e amore
Giungiamo, così, al terzo principio che è fondamentale per il cristianesimo e per tutte le altre religioni, anche se con accenti diversi.
Ritorniamo al ritratto del volto umano che, come abbiamo detto, ha la dimensione di maschio e femmina, ossia ha alla base il rapporto interpersonale.
Nel capitolo 2 della Genesi la vera ominizzazione non si ha solo con la citata nishmat hayyîm, che rende la creatura trascendente; non la si ha neppure soltanto con l’homo technicus che «dà il nome agli animali», ossia si dedica alla scienza e al lavoro.
L’uomo è veramente completo in sé quando incontra – come dice la Bibbia – «un aiuto che gli sia simile», in ebraico kenegdô, letteralmente “che gli stia di fronte” (2,18.20). L’uomo, dunque, tende verso l’alto, l’infinito, l’eterno, il divino secondo la concezione religiosa e può tendere anche verso il basso, verso gli animali e la materia. Ma diventa veramente se stesso solo quando si trova con “gli occhi negli occhi” dell’altro. Ecco di nuovo il tema del volto.
Quando incontra la donna, cioè il suo simile, può dire: «Costei è veramente carne dalla mia carne, osso dalle mie ossa» (2, 23), è la mia stessa realtà.
E qui si ha il terzo punto cardinale che formuliamo con un termine moderno la cui sostanza è nella tradizione ebraico/cristiana, vale a dire “il principio di solidarietà”. Il fatto di essere tutti “umani” viene espresso nella Bibbia col vocabolo “Adamo”, che in ebraico è ha-’adam con l’articolo (ha-) e significa semplicemente “l’uomo”. Perciò, esiste in tutti noi una “adamicità” comune. Il tema della solidarietà è, allora, strutturale alla nostra realtà antropologica di base. La religione esprime questa unitarietà antropologica con due termini che sono due categorie morali: giustizia e amore. La fede assume la solidarietà, che è anche alla base della filantropia laica, ma procede oltre. Infatti, stando al Vangelo di Giovanni, nell’ultima sera della sua vita terrena Gesù pronuncia una frase stupenda: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13).
È molto più di quanto si dichiarava nel libro biblico del Levitico, che pure Cristo aveva citato e accolto: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (19,18).
Nelle parole di Gesù sopra citate ritorna quell’“adamicità”, ma con una tensione estrema che spiega, ad esempio, la potenza dell’amore di una madre o di un padre pronti a dare la propria vita per salvare il figlio. In tal caso, si va anche contro la stessa legge naturale dell’amare se stessi, dell’“egoismo” pur legittimo, insegnato dal libro del Levitico e dall’etica di molte culture, si va oltre la pura e semplice solidarietà. Evitando lunghe analisi, pur necessarie, illustriamo ora 8 simbolicamente in chiave religiosa le due virtù morali della giustizia e dell’amore con due esempi attinti a culture religiose diverse.
Il primo esempio è un testo sorprendente riguardante la giustizia: «La terra – [è il tema della destinazione universale dei beni, e quindi della giustizia] – è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri. Perché, allora, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? Quando aiuti il povero, tu, ricco, non gli dai il tuo, ma gli rendi il suo. Infatti, la proprietà comune che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi. La terra è di tutti, non solo dei ricchi, dunque quando aiuti il povero tu restituisci il dovuto, non elargisci un tuo dono». Davvero suggestiva questa dichiarazione che risale al IV secolo ed è formulata da Ambrogio di Milano nel suo scritto De Nabuthe.
Questo forte senso della giustizia dovrebbe essere un monito e una spina che la fede innesta nel fianco della società, l’annuncio di una giustizia che si attua nella destinazione universale dei beni. Essa non esclude un sano ed equo concetto di proprietà privata che, però, rimane solo un mezzo – spesso contingente e insufficiente – per attuare il principio fondamentale dell’universale dono dei beni all’intera umanità da parte del Creatore. In questa linea, volendo ricorrere ancora una volta alla Bibbia, è spontaneo risentire la voce autorevole e severa dei Profeti (si legga, ad esempio, il potente libretto di Amos con le sue puntuali e documentate denunce contro le ingiustizie del suo tempo).
La seconda testimonianza che vogliamo evocare riguarda l’amore e, nello spirito di un dialogo interreligioso, la desumiamo dal mondo tibetano, mostrando così che le culture religiose, per quanto diverse, hanno in fondo punti di incontro e di contatto. Si tratta di una parabola dove si immagina una persona che, camminando nel deserto, scorge in lontananza qualcosa di confuso. Per questo comincia ad avere paura, dato che nella solitudine assoluta della steppa una realtà oscura e misteriosa – forse un animale, una belva pericolosa – non può non inquietare. Avanzando, il viandante scopre, però, che non si tratta di 9 una bestia, bensì di un uomo. Ma la paura non passa, anzi aumenta al pensiero che quella persona possa essere un predone. Tuttavia, si è costretti a procedere fino a quando si è in presenza dell’altro. Allora il viandante alza gli occhi e, a sorpresa, esclama: «È mio fratello che non vedevo da tanti anni!».
La lontananza genera timori e incubi; l’uomo deve avvicinarsi all’altro per vincere quella paura per quanto comprensibile essa sia. Rifiutarsi di conoscere l’altro e di incontrarlo equivale a rinunciare a quell’amore solidale che dissolve il terrore e genera la vera società. Qui fiorisce l’amore che è l’appello più alto del cristianesimo per l’edificazione di una pólis diversa (il rimando scontato è al celebre inno paolino all’agápe-amore presente nel capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi).
Il principio di verità
Il vocabolo “cultura” è divenuto ai nostri giorni una sorta di parola-chiave che apre le serrature più diverse. Quando il termine fu coniato, nel Settecento tedesco (Cultur, divenuto poi Kultur), il concetto sotteso era chiaro e circoscritto: esso abbracciava l’orizzonte intellettuale alto, l’aristocrazia del pensiero, dell’arte, dell’umanesimo. Da decenni, invece, questa categoria si è “democratizzata”, ha allargato i suoi confini, ha assunto caratteri antropologici più generali, sulla scia della nota definizione creata nel 1982 dall’Unesco, tant’è vero che si adotta ormai l’aggettivo “trasversale” per indicare la molteplicità di ambiti ed esperienze umane che essa “attraversa”.
È in questa luce che si comprendono le riserve avanzate dal sociologo tedesco Niklas Luhmann, convinto che il termine “cultura” sia «il peggiore concetto mai formulato», e a lui farà eco il collega americano Clifford Geertz quando affermerà che «esso è destituito di ogni capacità euristica». Eppure, questa genericità o, se si vuole, “generalismo” ci riporta alla concezione classica allorché in vigore erano altri termini sinonimici molto significativi: pensiamo al greco paideia, al latino humanitas, o al nostro “civiltà” (preferito, ad esempio, da Pio XII).
È in questa prospettiva più aperta che la parola “cultura” è stata accolta con convinzione dal Concilio Vaticano II che, sulla scia del magistero di Paolo VI, la fa risuonare ben 91 volte nei suoi documenti. Partendo proprio dal Concilio con la Gaudium et Spes, il tema è stato sviluppato successivamente in vari documenti del Magistero tra encicliche ed esortazioni apostoliche, per approdare ad altre autorevoli pagine ecclesiali di vario genere, capaci alla fine di comporre un vero e proprio arcobaleno tematico nel quale si riflettono le diverse iridescenze di una nozione rilevante, anzi, decisiva per la stessa teologia e per la pastorale.
Il Pontificio Consiglio della Cultura nel 2003 – su impulso dell’allora presidente, il cardinale Paul Poupard, – aveva allestito un’«antologia di testi del magistero pontificio da Leone XIII a Giovanni Paolo II» sotto il titolo Fede e cultura, nella convinzione che, come si esprimeva Giovanni Paolo II nel suo discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite (1995), «qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri, il mistero di Dio».
Al concetto di “cultura” che ha sollecitato infinite riflessioni e precisazioni, si deve associare quello di “acculturazione” o “inculturazione”, che un saggio dell’American Anthropologist del 1935 così delineava: «Si tratta di tutti quei fenomeni che hanno luogo quando tra gruppi di individui con culture diverse intercorrono per lungo tempo dei contatti primari, provocando una trasformazione nei modelli culturali di un gruppo o di entrambi i gruppi».
Tendenzialmente il termine volse verso un’accezione negativa: la cultura egemone non si piega a un’osmosi, ma cerca di imporre il suo marchio a quella più debole, creando uno shock degenerativo e una vera e propria forma di colonialismo.
Se si vuole essere meno astratti, si pensi all’ideologia eurocentrica che ha imposto non solo la sua “eredità epistemologica”, ma anche il suo modello pratico ed economico al “sistema mondo”, rivelandosi spesso in Africa e in Asia come l’interfaccia del colonialismo. In questo processo anche il cristianesimo fu trascinato a diventare una delle componenti acculturanti. Si comprende, così, il fenomeno di reazione costituito dai movimenti “revivalisti” o da forme di etnocentrismo, nazionalismo, indigenismo, fenomeno così vigoroso da aver spinto non pochi osservatori a variare la terminologia da “globalizzazione” in “glocalizzazione”.
È con questo antefatto che si spiega perché la Chiesa contemporanea abbia preferito evitare il termine “acculturazione” sostituendolo con “inculturazione” per descrivere l’opera di evangelizzazione. Giovanni Paolo II, nella Slavorum Apostoli del 1985, definiva l’“inculturazione” come «incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone e insieme introduzione di esse nella vita della Chiesa». Un duplice movimento dialogico di scambio, quindi, per cui – come lo stesso Papa aveva detto ai vescovi del Kenya nel 1980 – «una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano». Il vocabolo “inculturazione” si è, così, connotato soprattutto a livello teologico come segno di compenetrazione tra cristianesimo e culture in un confronto fecondo, gloriosamente attestato dall’incontro tra la teologia cristiana dei primi secoli e la poderosa eredità classica greco-romana.
A questo punto è naturale entrare – sia pure sempre in modo molto essenziale – nella questione del nesso più specifico e delle interazioni tra le diverse culture che vengono a contatto tra loro. Ora, fu proprio in quel Settecento tedesco, nel quale – come si è detto sopra – si era coniato il termine Cultur/Kultur, che si iniziò anche a parlare di “culture” al plurale, gettando così le basi per riconoscere e comprendere quel fenomeno che ora è definito come “multiculturalità”.
Ad aprire questa via, che superava il perimetro eurocentrico e intellettualistico e si inoltrava verso nuovi e più vasti orizzonti, era stato Johann Gottfried Herder con le sue Idee sulla filosofia della storia dell’umanità (1784- 91), lui che tra l’altro si era già dedicato nel 1782 allo Spirito della poesia ebraica. L’idea, però, balenava ancora nel pensiero di Vico, Montesquieu e Voltaire che riconoscevano nelle evoluzioni e involuzioni storiche, negli stessi condizionamenti ambientali, nell’incipiente incontro tra i popoli, al seguito delle varie scoperte, nelle prime osmosi ideali, sociali ed economiche, l’emergere di un pluralismo culturale.
Certo, questo approccio si innestava all’interno di una dialettica antica, quella che – con qualche semplificazione – vedeva incrociarsi etnocentrismo e interculturalità. È stata costante, infatti, l’oscillazione tra questi due estremi e noi ne siamo ancor oggi testimoni. L’etnocentrismo si esaspera in ambiti politici o religiosi di stampo integralistico, aggrappati fieramente alla convinzione del primato assoluto della propria civiltà, in una scala di gradazioni che giungono fino al deprezzamento di altre culture classificate come “primitive” o “barbare”.
Lapidaria era l’affermazione di Tito Livio nelle sue Storie: «Guerra esiste e sempre esisterà tra i barbari e tutti i greci» (31,29). Questo atteggiamento è riproposto ai nostri giorni sotto la formula dello “scontro di civiltà”, codificata nell’ormai famoso saggio del 1996 del politologo Samuel Huntington, scomparso nel 2008, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.
In questo testo erano elencate otto culture (occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slavo-ortodossa, latino-americana e africana), enfatizzandone le differenze, così da far scattare nell’Occidente un segnale d’allarme per l’autodifesa del proprio tesoro di valori, assediato da modelli alternativi e dalle «sfide delle società non-occidentali». Significativa in questa visione era l’intuizione che, sotto la superficie dei fenomeni politici, economici, militari, si aveva uno zoccolo duro e profondo di matrice culturale e religiosa.
Certo è, però, che, se si adotta il paradigma dello “scontro delle civiltà”, si entra nella spirale di una guerra infinita, come già aveva intuito Tito Livio. Ai nostri giorni tale modello ha fortuna in alcuni ambienti, soprattutto quando si affronta il rapporto tra Occidente e Islam, e può essere adattato a manifesto teorico per giustificare operazioni politico-militari di “prevenzione”, mentre in passato avallava interventi di colonizzazione o colonialismo (già i Romani erano in questo maestri).
La prospettiva più corretta sia umanisticamente sia teologicamente è, invece, quella dell’interculturalità, che è un ben differente approccio alla “multiculturalità”. Esso si basa sul riconoscimento della diversità come una fioritura necessaria e preziosa della radice comune “adamica”, senza però perdere la propria specificità. Si propone, allora, l’attenzione, lo studio, il dialogo con civiltà prima ignorate o remote, ma che ora si affacciano prepotentemente su una ribalta culturale finora occupata dall’Occidente (si pensi, oltre all’Islam, all’India e alla Cina), un affacciarsi che è favorito non solo dall’attuale globalizzazione, ma anche da mezzi di comunicazione capaci di varcare ogni frontiera (la rete informatica ne è il simbolo capitale).
Queste culture, “nuove” per l’Occidente, esigono un’interlocuzione, spesso imposta dalla loro presenza imperiosa, tant’è vero che ormai si tende a parlare di “glocalizzazione” come nuovo fenomeno di interazione planetaria. Si deve, dunque, parlare di un impegno complesso di confronto e di dialogo, di interscambio culturale e spirituale, che potremmo rappresentare in modo emblematico – in sede teologica cristiana – proprio attraverso la stessa caratteristica fondamentale della Sacra Scrittura.
La Parola di Dio non è, infatti, un aerolito sacrale piombato dal cielo, bensì – come si è già detto – l’intreccio tra Lógos divino e sarx storica. Si è, così, in presenza di un confronto dinamico tra la Rivelazione e le varie civiltà, dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica, almeno per quanto riguarda l’Antico Testamento, mentre la Rivelazione neotestamentaria si è incrociata col giudaismo palestinese e della Diaspora, con la cultura greco-romana e persino con le forme cultuali pagane.
Giovanni Paolo II, nel 1979, affermava davanti alla Pontificia Commissione Biblica che, ancor prima di farsi carne in Gesù Cristo, «la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche».
La stessa esperienza di osmosi feconda tra cristianesimo e culture – che dette origine all’ “inculturazione” del messaggio cristiano in civiltà lontane (si pensi solo all’opera di Matteo Ricci nel mondo cinese) – è stata costante anche nella Tradizione a partire dai Padri della Chiesa. Basti citare un passo della Prima Apologia di s. Giustino (II sec.): «Del Logos divino fu partecipe tutto il genere umano e coloro che vissero secondo il Lógos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come fra i Greci Socrate ed Eraclito e altri come loro» (46, 2-3).
Giungiamo, così – dopo questo lungo itinerario preliminare nelle varie dimensioni del concetto di “cultura” – al quarto principio, quello che denomineremo con un termine divenuto, se non proprio obsoleto, certamente fonte di equivoci e di contrasto, quello di “verità”. La cultura, infatti, si fonda sostanzialmente sulla conoscenza che comporta appunto l’importante profilo della verità, categoria base del conoscere. Se partiamo dalla concezione contemporanea, anticipata però nei secoli precedenti, si scopre un filo costante che ora cercheremo di semplificare ed esemplificare.
Se noi seguiamo il percorso culturale di questi ultimi secoli, infatti, possiamo dire che il concetto di verità è diventato sempre più soggettivo fino ad arrivare al “situazionismo” del secolo scorso. Si pensi, ad esempio, alla famosa frase abbastanza significativa e spesso citata, attinta al Leviathan di Hobbes: Auctoritas, non veritas facit legem. In ultima analisi è, questo, il principio del contrattualismo, secondo il quale l’autorità, sia civile sia religiosa, può decidere la norma e, quindi, indirettamente la verità, in base alle convenienze della società e ai vantaggi del potere.
Tale concezione fluida della verità è ormai abbastanza acquisita, basti pensare all’antropologia culturale. Il filosofo francese Michel Foucault, studiando le diverse culture, invitava caldamente ad accentuare questa dimensione soggettiva e mutevole della verità, simile a una medusa cangiante, che muta aspetto continuamente a seconda dei contesti e delle circostanze.
Questo soggettivismo è sostanzialmente ciò che Benedetto XVI chiama “relativismo”: è curioso notare come la pensatrice americana, Sandra Harding, faceva il verso alla celebre frase del Vangelo di Giovanni (8,32): «La verità vi farà liberi», affermando al contrario in un suo noto saggio che «La verità non vi farà liberi», poiché essa viene concepita come una cappa di piombo, come una pre-comprensione, come una sterilizzazione della dinamicità e dell’incandescenza del pensiero.
Tutte le religioni, e in particolare il cristianesimo, hanno invece una concezione trascendente della verità: la verità ci precede e ci eccede; essa ha un primato di illuminazione, non di dominio. Anche se il pensiero di Adorno andava in ben altra direzione, è suggestiva una sua espressione tratta dai Minima moralia. Il filosofo tedesco parla della verità comparandola alla felicità e dichiara: «La verità non la si ha, vi si è», cioè si è immersi in essa. Musil, nel suo famoso romanzo L’uomo senza qualità, al protagonista fa dire una frase interessante: «La verità non è come una pietra preziosa che si mette in tasca, la verità è come un mare nel quale ci si immerge e si naviga».
Si tratta, fondamentalmente, della classica concezione platonica espressa nel Fedro mediante l’immagine della “pianura della verità”: la biga dell’anima corre su questa pianura per conoscerla e conquistarla, mentre nella Apologia di Socrate, al di là delle obiezioni che qualche specialista potrà muovere per quanto concerne la traduzione del passo in questione, si legge: «Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta», ed è proprio questo l’itinerario da compiere nell’orizzonte “dato” della verità. Da tale punto di vista le religioni sono nette: la verità ha un primato che ci supera, la verità è trascendente, compito dell’uomo è essere pellegrino all’interno dell’assoluto della verità. E questo è talmente decisivo da far sì che il cristianesimo applichi a Cristo l’identificazione con la verità per eccellenza (Giovanni 14,6: «Io sono la Via, la Verità, la Vita»).
Conclusione
La tetralogia di principi che abbiamo delineato in modo discorsivo non esaurisce, certo, la complessità delle relazioni e le stesse tensioni che intercorrono tra fede, cultura e società. Altri principi si potrebbero allegare, altrettanto rilevanti e delicati. Pensiamo, ad esempio, a un’altra tetralogia che si potrebbe sviluppare e che condiziona fortemente il dibattito contemporaneo sul tema: la categoria “natura”, il concetto di “bene comune”, la questione del rapporto etica-diritto, la prospettiva progettuale dell’“utopia”.
La nostra è stata solo un’introduzione un po’ scontata attorno a quattro assi antropologici. Al centro, infatti, c’è sempre la persona umana nella sua dignità, nella sua libertà e autonomia, ma anche nella sua relazione all’esterno di sé, e quindi verso la trascendenza. Tenere insieme le varie dimensioni della creatura umana nell’ambito della vita sociale e politica è spesso difficile e la storia ospita una costante attestazione delle crisi e delle lacerazioni.
Eppure, la necessità di tener insieme “simbolicamente” (syn-bállein) queste differenze è indiscutibile se si vuole edificare una pólis autentica, non spezzata “diabolicamente” (dià-bállein) in frammenti fondamentalisticamente opposti l’uno all’altro. È ciò che delineiamo sinteticamente, in conclusione, ricorrendo a un’altra testimonianza di indole etico-religiosa desunta ancora una volta da una cultura diversa dalla nostra occidentale. Ci riferiamo a un settenario proposto da Gandhi che definisce in modo folgorante questa “simbolicità” di valori necessaria a impedire la distruzione della convivenza sociale.
«L’uomo si distrugge con la politica senza principi; l’uomo si distrugge con la ricchezza senza fatica e senza lavoro; l’uomo si distrugge con l’intelligenza senza la sapienza; l’uomo si distrugge con gli affari senza la morale; l’uomo si distrugge con la scienza senza umanità; l’uomo si distrugge con la religione senza la fede [il fondamentalismo insegna]; l’uomo si distrugge con un amore senza il sacrificio e la donazione di sé».
Raccontare
fatti di speranza
Riccardo Tonelli
Desidero condividere qualche riflessione sulla speranza. Considero la speranza una esigenza fondamentale per vivere oggi da autentici discepoli di Gesù, nella vita di tutti i giorni, facendo cioè sport, studiando e lavorando, impegnandosi nell’ambito civile e politico per costruire una società migliore dell’attuale.
Mi rendo conto che è un’impresa difficile.
Non nascondiamoci infatti dietro un dito: la parola “speranza” è una di quelle trattate peggio oggi. Ne parlano tutti. Moltissimi promettono rimedi efficaci alla disperazione che ci avvolge come una cappa inesorabile di smog. E poi ci accorgiamo subito che troppi stanno prendendoci in giro. Ci circondano di belle parole solo per vendere i prodotti del loro paniere.
Qualche volta lo fanno anche i cristiani, abusando del riferimento a Gesù per invitarci ad una strana e ingiusta rassegnazione. Un grande teologo ha avuto il coraggio di scrivere che a molti che predicano la croce di Gesù… sarebbe meglio usarla per dare ad essi legnate sulla testa.
La prima cosa da fare è proprio metterci d’accordo sul suo significato.
Quale speranza
Considero la speranza il corrispettivo della vita. Vita è esperienza di felicità e di senso, capace di assicurare uno spazio dove sia possibile essere restituiti alla gioia, al protagonismo, alla sicurezza, alla responsabilità. Vita è quindi capacità di trovare quotidianamente senso e futuro anche di fronte all’incertezza, alla sofferenza, al dolore e alla morte.
La vita è vissuta nella speranza quando siamo in grado di sperimentare, nell’incertezza della ricerca e nella fatica della quotidiana esperienza, che tutto questo ci è consegnato con quella dose di sicurezza che l’esistenza quotidiana permette. Facciamo i conti con il dolore e la morte. E siamo disposti a gridare forte, anche se con voce rotta dal pianto, che la morte non è l’ultima parola sulla vita ma è una porta da cui transitare - obbligatoriamente proprio per la dignità e l’autenticità della nostra vita – per consolidare, passo dopo passo, felicità e senso nel futuro.
Ci rendiamo conto che tutto questo non dipende da noi: le nostre mani e la nostra potenza collettiva, sono davvero inadeguate per restituirci vita e speranza. Non rinunciamo alla speranza, perché affidiamo ad un mistero più grande, che ci avvolge e che respiriamo (la vita stessa, il suo Signore e Salvatore), il quotidiano consolidamento di una speranza che percorrere i passi concreti del nostro vivere quotidiano.
Speriamo, perché dalla vita alziamo le mani invocando chi ci accolga, ci afferri e ci restituisca alla gioia di vivere e all’esperienza impegnativa del protagonismo esistenziale.
Legando in questo modo vita e speranza, suggerisco che la radice della speranza sta fuori di noi, nelle mani alzate verso un mistero che posso incontrare solo sfondando il mio vissuto. Questo mistero ha un nome, nella testimonianza dei cristiani: Gesù, volto e parola di Dio, unico nome in cui essere pienamente nella vita.
Può sembrare un modo strano di comprendere cosa sia la speranza. Qualcuno può concludere che parlare così di speranza richiede il gesto folle di scoprire che i problemi sono dentro la nostra vita quotidiana e la soluzione va cercata fuori.
Non è proprio questo il mio modello di speranza.
I problemi che portano alla disperazione sono dentro la mia vita. Chi li ignora o fa finta che non ci siano, si consegna con le sue stesse mani alla follia della disperazione.
La radice della speranza non siamo noi stessi. Non ci bastiamo davvero sulle realtà che contano maggiormente. Per questo dobbiamo alzare la braccia verso l’alto, il “fuori” e “sopra” di noi. Ma le braccia alzate sono afferrate da due mani robuste, che ci riconsegnano a noi stessi e ci sollecitano a scoprire di più la nostra stessa esistenza… per trovare, nel profondo di essa, la ragione e il sostegno alla vita piena e alla felicità, facendo i conti con l’incertezza, il dolore, persino la morte.
Siamo in buona compagnia
A te che leggi – e un poco anche a me che ho scritto queste parole – viene subito spontanea una reazione: tutto sommato è bello… ma sarà poi vero? Non si tratta di un altro, raffinato imbroglio?
Ci ho pensato tante volte: È bello restare critici, soprattutto di fronte alle cose più impegnative.
Ho trovato una risposta nella storia che voglio raccontare. È la storia di quei due amici che abbiamo imparato a chiamare “i discepoli di Emmaus”. Sono un grande progetto di speranza: va dall’entusiasmo alla disperazione, alla conquista di una ragione più profonda e matura che ha cambiato loro la vita, rendendoli capaci di raccontare a tutti la loro avventura.
Ecco la loro storia, come la propone il Vangelo di Luca.
Ci avevano sperato tanto. Avevano accettato l'invito di Gesù con entusiasmo. Avevano lasciato tutto per seguirlo, affascinati dalla sua persona e convinti della sua causa.
Ora però tutto sembrava finito. Nel peggiore dei modi.
I suoi nemici avevano catturato Gesù. L'avevano sottoposto ad un processo che era tutto una presa in giro. L'avevano condannato, come fosse un malfattore, lui che aveva solo fatto del bene a tutti quelli che aveva incontrato. Poi, dopo averlo torturato, l'avevano ucciso. Tutto era finito così. Gesù aveva promesso di vincere anche la morte. L'aveva fatto con quella degli altri. Con la sua però... nulla da fare. Gesù era stato cancellato dagli occhi e dal cuore dei suoi amici. Avevano vinto i suoi nemici. Tutto doveva ritornare come prima.
Pazienza... era stato un bel sogno, finito troppo presto e nel modo più tragico.
Adesso non c'era proprio più nulla da fare. Bisognava tornarsene a casa, con l'amarezza della nostalgia e con un pizzico di vergogna. Era necessario riprendere in mano gli attrezzi del lavoro, abbandonati con troppa foga qualche mese prima.
Ritornare... quelli di prima: come se nulla fosse accaduto, superando persino il sorriso beffardo degli amici di un tempo, che non avevano capito la strana voglia di mettersi dietro quel tipo di Nazareth, che stava facendosi un mucchio di nemici con le sue idee.
Molti discepoli avevano già preso la strada del ritorno. Adesso toccava anche a loro. Buoni buoni, avevano deciso di ritornare ad Emmaus, a casa propria. Come se nulla fosse successo.
Camminavano senza scambiarsi una parola. Non ne avevano più: le ultime si erano spente in gola con il saluto triste agli amici che restavano a Gerusalemme.
All'improvviso, si avvicina un viandante, spuntato quasi dal nulla. Veniva come loro dalla direzione di Gerusalemme. Ma non l'avevano notato prima.
"Buongiorno". "Salve". "Dove andate?". "Veniamo da Gerusalemme e torniamo a casa nostra ad Emmaus. Manca ormai poco, per fortuna".
Insiste il pellegrino: "Posso unirmi a voi? Io vado oltre. La strada è lunga e, di questi tempi, anche un po' pericolosa. Possiamo farci compagnia?".
"Accidenti... che facce tristi avete. Non l'avevo notato prima. Mi sembrate appena spuntati da un funerale. Mi sbaglio?".
La risposta è pronta. Le parole corrono come uno scroscio di pianto. "Veniamo davvero da un funerale. Ne parla tutta Gerusalemme. Come fai a non saperlo? Hanno ucciso Gesù di Nazareth. Era nostro amico e nostro maestro. Noi stavamo con lui, condividevamo la sua passione per la liberazione d'Israele e la sua speranza nel futuro di Dio. L'hanno ucciso, inchiodato sulla croce, dopo un processo che sembrava studiato apposta per condannarlo".
Una pausa per prendere fiato e per riandare agli ultimi bagliori di quella speranza che aveva loro infiammato il cuore.
"Aveva fatto solo del bene: guariva gli ammalati, trattava bene i poveri, aveva una parola buona anche per i peccatori. Ha resuscitato persino dei morti. Hai sentito parlare di sicuro di Lazzaro, quello di Betania. Gesù l'ha riportato in vita, tre giorni dopo che era morto. Purtroppo parlava con eccessiva libertà di Dio e della legge. Voleva troppo bene alla povera gente.
L'hanno ucciso. Chi? Lo sai di sicuro... i romani, ma con la complicità dei nostri sacerdoti e dei dottori della legge...
Prima di morire, aveva promesso che sarebbe ritornato in vita, anche lui, come il suo amico Lazzaro. Ma ormai sono passati tre giorni... e non è capitato proprio nulla".
Il secondo incalza: "Proprio nulla... non è vero. Sai, nel nostro giro c'erano anche delle donne. Stavano con noi per servire Gesù. Un paio di loro dice di aver visto Gesù risorto. Nessuno ci crede. Sono donne fanatiche... Se lo sono immaginato, accecate dal dolore e dall'amore.
I capi, Pietro e i dodici, non hanno visto nulla.
Tutto è finito. Torniamo anche noi a casa".
"Calma. Non correte troppo nelle conclusioni", riprende la parola lo strano compagno di viaggio. "State facendo una lettura scorretta degli avvenimenti. Vi fermate a quello che avete visto con gli occhi. Mi spiace per voi: siete un po' ciechi. Non sapete leggere dentro gli avvenimenti".
"Aiutaci tu... se ci riesci". "Volentieri. Ascoltate".
Un passo dopo l'altro si avvicinano a casa. Un passo dopo l'altro, il compagno di strada aiuta a rileggere gli avvenimenti dal mistero che si portano dentro. Cita brani della Scrittura. Ricorda profezie antiche e nuove. Rende attuali lontani ricordi.
Neppure nei tempi in cui stavano con Gesù, avevano vissuto un'esperienza simile. Allora erano tutti proiettati verso il futuro. Si erano quasi dimenticati del passato. Il presente e i progetti su esso erano troppo importanti per pensare ancora al passato.
Adesso, invece, dal presente vanno verso il passato. Lo ricomprendono, immergendolo nel mistero di Dio. Le cose meravigliose che Dio ha compiuto per il suo popolo, diventano una specie di nuova lettura del presente. Anche il buio, l'incertezza e il dolore cambiano tono. Brillano di qualcosa che non avevano mai scoperto.
Si guardano negli occhi. "Strano... ma allora non hanno ucciso la nostra speranza. Ce l'avevano spenta. Avevano tentato di spegnerla ed eravamo caduti nella trappola. Senza passato il nostro presente diventava disperato. Tornavamo a casa perché eravamo senza futuro. Invece... c'è speranza. Aveva ragione Gesù quando ci parlava del chicco di grano che deve morire per diventare spiga".
"L'hanno ucciso... ma non hanno vinto. Dio vince la morte. Era tutto programmato nei piani misteriosi di Dio".
Spontaneamente sulle labbra affiorano le parole dei Salmi. Hanno un sapore nuovo. Non se n'erano mai accorti prima.
"E se tornassimo a Gerusalemme?". "Domani. Oggi è tardi. Non possiamo rifare il cammino di notte. È troppo pericoloso. Domani".
Poi, ormai, ecco le prime case d Emmaus. Sono arrivati a destinazione: domani mattina, alle prime luci, si torna a Gerusalemme.
Il compagno di viaggio fa finta di salutarli per rimettersi in cammino. "Prosegui? A quest'ora?". Insistono: "Fermati con noi. Nella nostra casa, un posto per te lo troviamo senza problemi. Dai... fermati".
Erano rassegnati a tornare alla vita di prima. Avevano tirato i remi in barca, scoraggiati e delusi. Ma l'esperienza di Gesù li aveva segnati dentro. Respiravano l'esigenza dell'ospitalità, quella vera. Le loro parole non erano di circostanza. Venivano dal cuore. "Sta' con noi. Sei ospite nostro".
Il viandante misterioso si ferma. Qualche resistenza, forse per saggiare l'autenticità dell'invito. Poi si ferma. Accetta l'atto di ospitalità.
Si mettono a tavola.
Ad un certo punto... si aprono gli occhi.
Gesù ha fatto strada con loro. Ha pregato lungo la via con loro, aiutandoli a rileggere gli avvenimenti dal mistero che essi si portavano dentro. Li ha aiutati a pregare contemplando.
Ora la preghiera esplode nella celebrazione. Gesù prende il pane e la coppa del vino. Li benedice e li condivide.
Un grido: "È lui, il crocefisso è risorto. Possibile che non ce ne siamo accorti prima? Eravamo proprio ciechi, di dolore e di rassegnazione".
Non c'è più. È tornato nel silenzio da cui è venuto.
Le poche ore trascorse con loro, hanno lasciato il segno. Li ha guidati per mano in un'intensa esperienza di preghiera, che li ha cambiati profondamente.
La speranza e la passione ritorna prepotente nei loro cuori intorpiditi. La preghiera e la celebrazione si spalancano verso la vita.
Adesso non è più tardi per tornare a Gerusalemme. Non ci sono più i pericoli del viaggio notturno. Partono, di corsa: l'esperienza vissuta va comunicata agli altri.
Ritornano a Gerusalemme, per gridare a tutti: Gesù è risorto, la sua avventura per la vita e la speranza di tutti... continua. Anzi: ricomincia.
(Luca cap. 19)
Narrare speranza: fatti + parole
Un ultima cosa voglio condividere: la gente che ha trovato la speranza è contagiosa… perché riempie la testa degli amici, il territorio in cui abita, il lavoro che fa… della narrazione della speranza.
Come?
Della speranza parliamo producendo fatti.
I fatti sono quelli di una qualità nuova di vita, che lascia tutti a bocca aperta, perché fa sperimentare che si può vivere come tutti, in uno stile e in una prospettiva tutta originale, come hanno fatto tanti cristiani impegnati e tanti uomini e donne coraggiose.
I fatti però non bastano: abbiamo bisogno di “parole”, che li interpretino e li amplifichino.
Molto lavoro resta da fare per restituire alle nostre abituali parole la capacità di interpretare – in modo consapevole e convincente – i fatti come fatti di speranza, riconducibili all’annuncio del Crocifisso risorto.
Sono convinto che, nell’educazione e nella pastorale, dobbiamo dimenticare la vecchia lingua, che purtroppo abbiamo ormai nel sangue, per imparare una lingua nuova, l’unica che può davvero interpretare bene i fatti di speranza che produciamo.
La lingua da dimenticare è… il “matematichese”: lo strumento linguistico attraverso cui comunichiamo le informazioni, sicure e precise, come sono le nozioni di matematica e le norme giuridiche…
Quella da apprendere e utilizzare è l’ “amorese”: lo strumento linguistico attraverso cui, con parole e segni, diciamo ad altri il nostro amore, la nostra stima, i nostri progetti di vita.
La comunicazione di regole matematiche, le norme giuridiche e quelle economiche esigono formulazioni precise ed esigenti. La scelta di altre modalità risulterebbe a scapito della comunicazione stessa. Le dichiarazioni di amore, la poesia e l’arte si collocano in quello stile di comunicazione in cui prevale il riferimento all’oggetto attraverso giochi di libertà e responsabilità molto personali.
Magari, un giorno o l’altro, ne parliamo con più calma. Intanto, ripensa al cammino percorso: in “amorese” ti ho raccontato il “fatto” dei due discepoli di Emmaus.
L'ordinario diventa straordinario rinascita del nostro sguardo
Alessandro D’Avenia
Sulla polverosa strada verso Emmaus, un paesino a pochi chilometri da Gerusalemme, due uomini parlano animatamente, quando un solitario viandante li affianca incuriosito: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Hanno il volto triste, e uno di loro gli risponde tra lo stupito e l’ironico: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Il viandante chiede: «Che cosa?». I due riassumono i fatti: avevano sperato che Gesù di Nazareth fosse il Messia e ne erano diventati discepoli, ma era stato brutalmente crocifisso e il suo corpo era sparito dal sepolcro. Il 24° e ultimo capitolo del Vangelo di Luca, che ho riletto in questi giorni pasquali, spiazza ogni aspettativa del lettore, credente o no che sia. Il viandante che si fa dare dell’ignorante è proprio quell’uomo: «Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Il mistero è doppio: un uomo morto cammina con i suoi amici che, benché siano in grado di percepirne la presenza, non lo riconoscono. Percepire e riconoscere sono qui posti su due livelli diversi e, pare, incompatibili. Il testo e il mistero che contiene mi hanno sempre intrigato.
Il lettore si aspetterebbe adesso la grande luce del lieto fine: lo straniero si rivela e li annichilisce. Ma è già successo in tutte le storie in cui la realtà viene ribaltata con la forza, dai poemi omerici in poi. Qui no, la rivoluzione accade in modo inatteso: lo straniero, invece di rivelarsi apertamente, continua il cammino con loro, perché sono loro a dover rivoluzionare un punto di vista inadeguato. I due infatti speravano in un posto nel regno del Messia, ma «ai loro occhi» Gesù si era dimostrato un sognatore, e così se ne tornano alla solita vita di prima, senza gusto. Il gusto che si perde quando si è malati: tra i cinque sensi è infatti quello che usiamo come metafora per la qualità della vita. Una vita «senza sapore» è priva di «senso»: prova gusto solo chi sa percepire e riconoscere il valore di qualcosa. Per questo il viandante spiega «in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui», e raddrizza le loro aspettative accecate dal desiderio ristretto di auto-affermazione. Così cura la loro delusione: è inevitabile che tutto ciò da cui speriamo di ricevere senso, se è finito, ci deluda, perché il desiderio umano è infinito per definizione e nessun «finito» potrà mai bastargli. Ma è proprio in situazioni (come la attuale) in cui perdiamo le nostre finite o finte certezze che ci disponiamo a riconoscere l’infinito. Lo straniero ripara la loro «svista»: non è la quantità di potere a dare senso alla vita bensì quella di amore. Non possono riconoscerlo perché lui è venuto a servire, non a dominare. Loro si aspettavano il trionfo (che scendesse dalla croce e sbaragliasse i nemici), ma l’amore non domina, si dà e lascia liberi, non vince ma avvince e convince. Spesso cerchiamo di nascondere la povertà di amore ricevuto e dato con maschere auto-rassicuranti. Ma quando cadono le maschere, chi siamo?
«Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista». Cresce il mistero: quando lo vedono non lo riconoscono, quando lo riconoscono sparisce. Riconoscere non è dato agli occhi, ma allo spirito. Capita anche a noi di dire a chi amiamo: non ti riconosco più! L’altro è sparito alla nostra vista, perché dobbiamo ritrovarlo più in profondità. Infatti la delusione dei due, frutto di false aspettative, viene curata («Non ci ardeva il cuore mentre conversava con noi lungo il cammino?») e trasformata in desiderio: gli chiedono di rimanere a cena. Ed è allora che lo riconoscono. Il luogo in cui c’è «gusto» è nelle cose quotidiane, vissute con l’apertura e la cura di chi invita un amico a cena. I due infatti ripartono subito verso Gerusalemme per raccontare tutto agli altri. Dovrebbero essere ancora più tristi perché l’hanno perso di nuovo, e invece hanno scoperto che è ovunque, a loro disposizione («Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo»), perché la resurrezione è una rivoluzione da ricevere non da fare («Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me»). Quando umano e divino cenano alla stessa tavola, allora l’ordinario diventa straordinario. Risorgere è la ricetta per dare infinito gusto alla vita, perché permette di riconoscere la vita nascosta in ogni cosa: a casa, a lavoro, nel dolore, nella fatica, nelle relazioni, nella luce sulle foglie... in tutto, perché solo ciò che viene fatto con e per amore diventa vivo. Così la «vita di sempre» diventa la «vita per sempre». Solo così «ce la faremo».
Il consolatore
Alessandro D’Avenia
Il nostro bisogno di consolazione ed è quest’ultima parola che vorrei oggi esplorare, per scoprire se contiene la preda in cui sperava Dagerman: «Sono a caccia di consolazione come un cacciatore. Là dove la vedo apparire, sparo». Possiamo veramente essere consolati? Consolazione, dal latino, è una parola composta da con e solus (solo), da cui vengono termini distanti come solitudine e sollazzo. Come mai? Perché sembra che solus nasconda la radice (ol-) che indicava pienezza, integrità, totalità, rimasta per esempio in ad-olescente (teso alla pienezza), olistico (che abbraccia tutto). «Solo» è quindi «uno» perché integro e saldo, e non perché «isolato», che viene invece da isola. Può stare «solo» chi è «pieno», ma questa totalità, per esseri finiti come siamo, non è alla nostra portata e, quindi, è necessario essere con-solati: resi pieni.
Il con-, prefisso della relazione (coniuge, compagno, complice...), conferma infatti che la pienezza di qualcosa si raggiunge «insieme», come si dice anche per la forza, che richiede con-forto, o per il cuore che richiede con-cordia. Per questo ci consola ciò che ci restituisce interezza (si pensi al cerchio dell’abbraccio), ed è invece de-solante ciò che ce la toglie (il de- indica privazione): per Leopardi infatti la ginestra «consola» il deserto che è una terra desolata. La consolazione provoca sollazzo (gioia), perché è come una festa tra amici. Cristo, riferendosi alla sua futura morte per amore degli uomini, dice infatti: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro Consolatore», indicando lo Spirito Santo, di cui ricorreva ieri la festa (Pentecoste: 50 giorni dopo la Pasqua). La traduzione italiana evoca un verbo ebraico che significa «far respirare»: il Consolatore è chi ci fa respirare sempre. Cristo definisce quindi se stesso il primo Consolatore e lo Spirito il secondo e più necessario, perché rende vivi gli uomini di tutti i luoghi e tempi, e non solo i contemporanei di Gesù. Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.
Ma lo Spirito dov’è? Al modo della luce è visibile nei suoi effetti. Se infatti vi chiedessi di dimostrarmi quanto amate, ci riuscireste solo portandomi la persona amata, che mi racconterebbe una serie di eventi e parole del vostro amore: una lettera, un gesto, un regalo, un piatto, una canzone... cose molto semplici che però, colpite dal cono di luce della gratuità e unicità del dono, diventano e mostrano l’amore stesso. Allo stesso modo, per chi lo frequenta, lo Spirito trasforma in Amore ogni cosa, anche la più materiale o oscura (come lo scultore rende «viva» la pietra con il suo spirito). Di una persona piena di vita diciamo infatti che è ispirata o di ispirazione (parole derivate da spirito) perché, anche in situazioni difficili, conserva la luce e la leggerezza dell’innamorato. Lo Spirito permette di amare se stessi (non ci si sente mai brutti o abbandonati), il mondo (tutto diventa casa) e gli altri (anche quelli più difficili e lontani da noi). Chi è «con-solato», sentendosi sempre amato, non ha paura di amare: infatti libera attorno a sé energie creative, genera legami e molti sospetti (dov’è la fregatura?), come accadeva a Cristo. Spirituale non è, come purtroppo si intende oggi, chi è lontano dalle cose terrene, ma chi «respira pienamente» in mezzo a quelle cose senza soffocare, perché trova la vita che hanno dentro. Far la lavatrice o la spesa può essere più spirituale di leggere e pregare: non è l’azione in sé, ma quanto amore ci metto (come e per chi lo faccio?).
Dagerman si tolse la vita intuì la via da percorrere: «Tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso - l’incontro con una persona amata, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino - si svolge al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è indifferente». La bellezza, per quanto a frammenti, ci mostra l’origine della luce di cui andiamo a caccia, ma la luce non si può catturare, solo ricevere. Il Consolatore non è la preda che sfugge ai nostri proiettili, ma l’Amante che, per darci il dono della vita, aspetta solo che lo chiamiamo per nome: Amore.
Vito Mancuso "La speranza ci rende altruisti"
È possibile oggi sperare? La situazione è tale che la scritta posta da Dante sulla porta dell’inferno, «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», verrebbe collocata da molti all’interno dei reparti di ostetricia quale benvenuto ai nuovi arrivati.
Siamo così in preda all’ansia che avvertiamo il mondo come una nave alla deriva carica di disperazione destinata presto a sprofondare nei gorghi del nulla. Dominati da questi neri sentimenti, è logico che il nostro cuore si restringa e che noi ci rapportiamo agli altri solo in funzione del nostro interesse, lo sguardo avido, freddo, calcolatore: ritorniamo allo stato di raccoglitori-cacciatori, ma senza nessuna meraviglia originaria. Io credo, però, che il compito del pensiero responsabile sia di opporsi a questa disperazione e per quanto mi riguarda nei reparti di ostetricia quale frase di benvenuto per i nuovi arrivati appenderei quest’altra frase di Dante: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto». Occorre tornare a coltivare speranza e ad avere fiducia nella navigazione nella vita.
È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Come tutte le cose esistenzialmente importanti della vita, anche questa scelta a favore della speranza non è “razionale”. Lo stesso vale per l’amore, l’amicizia, la passione, l’entusiasmo, il desiderio, l’ispirazione: nessuno di questi ambiti vive di sola ragione. Irrazionale, però, non vuol dire necessariamente falso, perché la verità non coincide sempre con ciò che è razionale, così da poter sempre essere afferrata e definita dalla ragione. È piuttosto l’esattezza a coincidere con il razionale, ma la verità è più dell’esattezza: è anche forza, energia, impeto, passione. È questa condizione onniavvolgente della mente e del cuore a meritare il nome di verità, la quale, quindi, ha strettamente a che fare con la speranza. Ha scritto Adorno nei Minima moralia: «Senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile».
Di solito si ritiene che la speranza sia un atteggiamento esclusivamente cristiano, ma non è vero. Gli antichi romani veneravano la dea Spes, le dedicavano templi e ne celebravano la festa il 1° agosto. Per questo Kant collocò la speranza tra le questioni decisive della vita: «Ogni interesse della mia ragione si concentra nelle tre domande che seguono: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?». L’uso della prima persona singolare da parte del filosofo segnala che qui non sono in gioco disquisizioni accademiche, ma l’esistenza concreta. Nella nostra epoca il filosofo marxista dissidente Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza, di Adorno ho già detto e di molti altri non cristiani potrei dire. Quanto al cristianesimo, esso considera la speranza una virtù teologale, altrettanto fondamentale quanto la fede e la carità.
Ma è soprattutto una celebre pagina di Eschilo a sottolineare l’importanza della speranza per tutti gli esseri umani: Prometeo è incatenato per ordine di Zeus, un’aquila gli mangia il fegato che di notte gli ricresce per poi essere nuovamente divorato, e una corifea gli chiede il motivo di questa terribile condizione. Prometeo le risponde: «Gli uomini avevano sempre, fissa, davanti agli occhi, la morte: io ho fatto cessare quello sguardo». Domanda: «E quale rimedio hai trovato per questo male?». Risposta: «Ho fatto abitare dentro di loro le cieche speranze». E conclude: «E poi procurai a loro il fuoco». Prima del fuoco Prometeo dà agli uomini le speranze, che sono dette “cieche” non perché fatue, ma perché la speranza per definizione non vede e non sa come andrà a finire e per questo, appunto, spera. Ma per quanto cieca, essa è forte e conferisce forza, come si capisce dal fatto che lo stesso utilizzo del fuoco ne richiede la presenza. Non a caso Aristotele definiva la speranza «il sogno di un uomo sveglio».
In cosa avere speranza? Io sono convinto che la stella seguendo la quale possiamo ritrovare speranza sia l’amore. È l’amore la sorgente della speranza nella vita. Ma che cos’è l’amore? Da sentimento privato occorre, molto più profondamente, considerarlo logica cosmica. Novant’anni fa il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, esiliato in Cina dalla Chiesa a causa delle sue idee sul peccato originale, a un amico che gli aveva chiesto di esprimere in sintesi il suo credo, rispose così: «Se a seguito di un qualche capovolgimento interiore, io dovessi perdere la mia fede in Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello Spirito, a me sembra che io continuerei invincibilmente a credere nel Mondo. Il Mondo (il valore, l’infallibilità e la bontà del Mondo), ecco in ultima analisi la prima, l’ultima e la sola cosa in cui io credo. È di questa fede che io vivo. Ed è a questa fede che io, lo sento, nell’ora della morte, oltrepassando tutti i dubbi, mi abbandonerò».
La domanda sull’essenza dell’amore trova qui la sua risposta: l’amore è la logica relazionale che ha reso e che rende possibile il mondo, dapprima il formarsi degli elementi e del pianeta, poi il sorgere della vita, dell’intelligenza, della libertà, infine di quella libertà che si dedica gratuitamente a un’altra libertà e così raggiunge la pienezza dell’amore. L’amore esprime la logica della relazione che fa sì che le cose esistano, dato che non esiste nulla che non sia ontologicamente un sistema e in quanto tale risultanza di relazione e di armonia.
L’esito più alto del processo cosmico in cui siamo inseriti si chiama mente, pura energia di consapevolezza, e si chiama anche cuore, pura energia operativa che riproduce la medesima dinamica di armonia all’origine dell’esistenza. Mente + cuore: questo è il risultato più alto del processo cosmico. Questo possiamo essere noi: una mente che sa e un cuore che ama. Questo va insegnato ai bambini e ripetuto ai giovani, e mai dimenticato fino all’ultimo giorno dell’esistenza. La sorgente della speranza è la consapevolezza della (possibile) ricchezza della nostra umanità.
Questa forza cosmica ci riguarda in quanto oggetto, perché ne siamo il risultato, e ci riguarda in quanto soggetto, perché possiamo a nostra volta esercitarla. Essa è la dimensione generatrice dell’essere, che gli antichi greci chiamavano Logos e l’ebraismo Hochmà, seguendo la quale ognuno di noi da caos può diventare mondo. Lo può diventare anche nel senso dell’aggettivo, mondo cioè nel senso di pulito. Inserito in questo processo, ognuno di noi può essere mondo: lo può essere nel senso del sostantivo che rimanda a organizzazione e nel senso dell’aggettivo che rimanda a pulizia. Il senso dell’esistere viene così compendiato dal termine greco per mondo, “cosmo”, da cui cosmesi: il senso della vita è fare esperienza di bellezza, fisica e morale. Si può ragionevolmente sperare in tutto ciò? Si può. Anzi, oggi si deve, e si deve insegnare a farlo, se non vogliamo naufragare nel nichilismo.
I problemi di oggi sono tali da sfiduciare chiunque eserciti il raziocinio: la guerra mondiale sempre più incombente il cambiamento climatico sempre più devastante, le migrazioni sempre più massicce, la tecnologia sempre più padrona delle anime, e si potrebbe continuare. Ma, annotava Hannah Arendt, «negli uomini esiste un’inclinazione, forse un bisogno, a pensare al di là dei limiti della conoscenza». È a causa di ciò che si origina la speranza, da sempre connessa all’essenza del pensiero umano. Per Isidoro di Siviglia, un dotto del VII secolo esperto di etimologie, il termine latino “spes” viene da “pes”, piede; fondata o no, l’etimologia è suggestiva: la speranza è ciò che fa camminare nella vita. Senza speranza non si cammina. La speranza, infatti, è performativa: occorre sperare per realizzare. Lo vide già Eraclito: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile». Speranza e fuoco, fiducia e tecnica, sapienza e scienza, devono tornare a essere strettamente connesse nella società e ancor prima nella singola esistenza. Quanto a tecnica, non siamo mai stati così forti. Se ritroveremo una speranza alla sua altezza, forse riusciremo a rivedere la nostra stella e a «non fallire a glorioso porto».
Ridestare la Speranza
Eugenio Borgna
La speranza fa parte della vita, è una esperienza umana che ha molteplici espressioni tematiche e che ha una sua radicale significazione non solo in filosofia e in teologia, ma anche in psichiatria e, cosa ancora più importante, nella vita di ogni giorno.
La speranza non è l’attesa
L’attesa e la speranza sono esperienze di vita contrassegnate da concordanze tematiche ma che non si confondono l’una nell’altra.
Ci sono attese che non finiscono mai e attese che nascono e muoiono rapidamente; ci sono attese che si rievocano con ansia e inquietudine e attese che si rivivono invece con serenità; ci sono attese incentrate su eventi felici e altre su eventi ricolmi di angoscia e di dolore; ci sono attese che sconfinano nella speranza e attese che nulla hanno a che fare con la speranza; ci sono attese che riguardano il nostro destino e attese che riguardano il destino di altre persone; ci sono attese che invece cambiano di giorno in giorno e attese che non si concludono mai.
Ma ci sono altre attese: attese terrene e attese metafisiche, attese di qualcosa che ci consente di continuare a vivere, di ritrovare un senso alla vita, e attese disperate che non si realizzano mai.
Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo». A queste considerazioni Minkowski ne aggiunge altre: «L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà.
L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa».
L’attesa non si identifica così con la speranza; benché l’una e l’altra siano tematizzate dal loro distendersi nel futuro: nell’orizzonte delle cose che ancora non sono state, e che nondimeno saranno, o potranno essere; ma cosa si può dire della speranza, come definirla nelle sue fondazioni esistenziali?
La speranza nelle sue fondazioni esistenziali
La speranza come categoria esistenziale non può essere intesa nella sua emblematica radicalità se non nel contesto di riflessioni non solo psicopatologiche, ma anche filosofiche, che ci consentano di avvicinarci al nucleo eidetico della speranza: ai suoi infiniti orizzonti di senso. Come è possibile non citare, nel contesto di questo discorso, le parole vertiginose di Blaise Pascal sul tempo e sulla speranza? «Noi non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce con cui predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine.
Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai».
La dialettica e il mistero della speranza, gli abissi di significato che sono in essa, riemergono da queste parole che sfidano il tempo; e a noi, a chiunque di noi intenda fare una psichiatria fenomenologica e antropologica, non rimane se non di riversare nel solco delle esperienze cliniche il senso di quello che le riflessioni pascaliane racchiudono in sé. Noi non viviamo mai ma speriamo di vivere; e allora, quando la speranza viene meno in noi, quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando cioè la depressione, la malattia che recide drasticamente la speranza, nasce in noi, come è possibile vivere e continuare a vivere?
La speranza nelle sue radici fenomenologiche
Nel suo splendido libro, dedicato al tempo vissuto, Eugène Minkowski ha scritto pagine bellissime sulle radici fenomenologiche della speranza. «La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa.
Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me». E ancora: «Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire- ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».
Conoscere gli andamenti della speranza nelle aree delle esperienze psicopatologiche è senz’altro utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assenza, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: nelle sue crisi e nei suoi naufragi. La speranza, nella sua trascendenza, ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose, mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell’anima con le loro angosce e le loro lacerazioni.
Ridestare la speranza
Dalle parole di chi sta male, di chi sia immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso, di un qualche senso, nella vita, riemergono l’importanza e i significati della speranza, e dei suoi naufragi.
Questi si riflettono nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiarsi e nello svuotarsi degli orizzonti di vita, nel dilatarsi del presente e del passato, nell’inaridirsi dell’avvenire del quale non sopravvivono se non alcuni frammenti che non danno sollievo, e che non creano comunicazione e comunione con il mondo delle persone e delle cose. Dalla evanescenza della speranza discendono poi solitudine e isolamento che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri.
Confrontandoci, noi che viviamo nella speranza e nelle speranze, con chi non abbia più speranze nel cuore (bruciate dall’angoscia e dalla disperazione), non dovremmo mai dimenticare la debolezza e le ambivalenze delle nostre parole e dei nostri gesti che non sempre sono dotati di una radicale testimonianza terapeutica. Le parole leggere, o le parole pesanti come piombo: quali parole abbiamo nel cuore quando ci avviciniamo al destino, al volto e agli sguardi, ai silenzi e agli scoramenti, alla tristezza e all’angoscia, alla timidezza e alle insicurezze, alle speranze recise di chiunque fra noi sia colpito dalla malattia mortale e dalla disfatta della speranza?
La speranza che rinasce
Ne vorrei ricordare alcune sue parole, che sono state di disperazione prima e di rinascita della speranza poi. «Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa tremenda sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non più alcuna speranza». A queste parole si univa una angoscia lacerante e una stremata tristezza dell’anima, che sembravano non finire mai; e invece dopo alcune settimane di cura un cambiamento radicale: la speranza perduta, a mano a mano si rigenera, e queste sue parole lo dimostrano.
«Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo nel miglioramento di mia figlia.
Avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ma ieri è nata improvvisamente in me una diversa speranza. Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Una speranza che contiene il futuro ma un futuro che è vita. La presenza di un avvenire. Il futuro mi spaventava, prima, perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente.
Ieri, non avvertivo più questo senso negativo. La speranza che si apriva, ed era come una nuova vita ». Sono parole emblematiche della significazione umana della speranza, del suo rinascere dal cuore, come fonte di conoscenza, del suo scomporsi in speranza e in speranze, una differenza di radicale importanza, del suo essere la splendida descrizione di una speranza che si forma muovendo dalla interiorità.
Sono parole che sanno dare di questo passaggio dalla disperazione alla speranza una straordinaria evidenza, che si è accompagnata ai cambiamenti delle espressioni del volto, da dolorose e straziate a luminose e ridenti. Sono esperienze che danno un senso alla psichiatria, come scienza umana, che aiuta, direi, ad avvicinarsi al cuore della speranza.
Le ultime cose
La vita dell’uomo è la speranza, e alla speranza vorrei invitare i miei occhi e gli occhi delle lettrici e dei lettori di questa meravigliosa rivista a guardare come alla coda di una cometa che non possa né oscurarsi né spegnersi.
Ma non mi è ora possibile dimenticare quello che della speranza dice Giacomo Leopardi in celebri pensieri dello Zibaldone; e in particolare in questi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza»; e ancora: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amore di se stesso.
Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita».
Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce; e la speranza, come diceva sant’Agostino, è misteriosamente intrecciata alla memoria. Questo ci dice che passato, presente e futuro scorrono senza fine l’uno nell’altro; e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel suo cuore la speranza che è fragile come cristallo e dura come diamante. Sapere testimoniare la speranza, che vive in noi, a quanti l’hanno perduta è una esperienza che ne allarga i confini; e nella speranza si riesce a donare un senso all’infinito del dolore. Ma non potrei concludere queste mie riflessioni se non dicendo che la speranza ha bisogno di coraggio: quello di non lasciarsi affascinare da quello che avviene nel momento in cui viviamo, quello di ricercare senza fine il possibile che si nasconde nell’impossibile, quello di non identificare la speranza con l’ottimismo, che non ha nulla a che fare con lei, quello di non dimenticarsi mai che la speranza è apertura al mistero e che ci saranno sempre più cose in cielo e in terra di quelle che non conoscano le nostre filosofie, e le nostre psichiatrie: le celebri parole, aggiornate, dell’Amleto.
Una bellissima poesia di Emily Dickinson sigilla questo mio discorso sulla speranza.
È la “speranza” una creatura alata / che si annida nell’anima – / e canta melodie senza parole– / senza smettere mai – E la senti dolcissima nel vento – / e ben aspra dev’essere la tempesta che valga a spaventare / il tenue uccello che tanti riscaldò – Nella landa più gelida l’ho udita – / sui più remoti mari – / ma nemmeno all’estremo del bisogno / ha voluto una briciola – da me.
Che speranza diamo agli uomini d’oggi?
Enzo Bianchi
I cristiani sono chiamati a dare una forma pratica, concreta alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. La carità cristiana esige sempre un’opzione per l’umanizzazione in assoluta gratuità, senza ansie di evangelizzazione o di autoconservazione della chiesa. La concezione cristiana della carità è eversiva e può essere “anormale” (parole di Paul Valadier, gesuita ex direttore della rivista Études), nelsenso che resta sorda alle voci mondane, al miraggio dell’audience, e si distacca da ciò che nella storia è vincente e più facilmente attestato. Non dunque dei cristiani fuori del mondo, ma nel mondo altrimenti, nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17,11-16); senza paure e senza esigere di essere vincitori. La Buona notizia che i cristiani sono chiamati a dare all’umanità è solo quella dell’amore offerto in modo incondizionato, un amore che non va mai meritato. In estrema sintesi, è questo annuncio, fatto con autorevolezza: “Hai visto un uomo, hai visto un fratello? Hai visto Dio” (parole di Gesù tramandate da Clemente Alessandrino).
Ma nella missione, quale speranza? Forse questa è la cosa più difficile oggi per il cristianesimo e per la missione. Tutta la storia della chiesa, infatti, è segnata dalla testimonianza della carità, in particolare verso i poveri e i malati. Mai nessuno ha dubitato di questa capacità della carità, anche oggi e anche nelle nostre chiese. Ma quale speranza diamo agli uomini e alle donne di oggi? Viviamo in un tempo segnato da molte paure, un tempo in cui si sono spente e anestetizzate le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate. Il nostro tempo è spesso posto sotto il segno della crisi, o addirittura della fine. La precarietà del presente e l’incertezza del futuro alimentano paure che abitano la nostra convivenza – “nuove paure”, come ha scritto sociologo Marc Augé – indeboliscono la fiducia, paralizzano l’insurrezione delle coscienze. Papa Francesco chiede con insistenza di combattere e di vincere le paure come decisivo antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, asfittico, ripiegato su di sé, e quindi assorbito in un vortice di egoismo.
Immerso in questa situazione, il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi innanzitutto in una spiritualità seducente, accattivante ed efficace, una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come benessere individuale. Siamo di fronte a un teismo etico, terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e aspira al conforto interiore. Il primato viene accordato a un Dio “Energia”, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace e calma interiore. Ed è così che la speranza, proprio perché è rinchiusa in dimensioni individuali, non è più speranza, tanto meno quella cristiana: o si spera per tutti, o non si spera! Ma allora quale speranza annunciare nella missione cristiana?
Sono sempre più convinto che dobbiamo partire dalla narrazione cristiana per eccellenza: l’amore vince la morte. Nelle diverse culture umane si è sempre giunti a pensare, in varie forme, a un duello tra amore e morte, eros e thanatos, i due nemici per eccellenza. Non è un caso che l’Antico Testamento nel Cantico dei cantici arrivi ad affermare che l’amore può combattere la morte, anche se non si spinge fino a dire che ne è vincitore. Si ferma all’espressione: “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). Ma l’annuncio cristiano testimonia esattamente a questo proposito l’inaudita novità di Gesù Cristo: avendo amato fino all’estremo, fino alla fine (cf. Gv 13,1), essendo vissuto operando il bene e spendendo la vita per i poveri, i sofferenti, gli oppressi, gli esclusi, gli scarti della società e i peccatori, non è restato preda della morte. Dio lo ha resuscitato perché non era possibile che quell’amore vissuto andasse perduto. Così possiamo intendere le parole dette da Pietro a Gerusalemme, nel primo discorso dopo Pentecoste: “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere” (At 2,24).
Forte come la morte è l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù. Questo è l’annuncio cristiano, che possiamo rivolgere anche ai non cristiani, ai non credenti, facendo loro capire che la resurrezione è davvero il nucleo incandescente di tutta la nostra fede in Gesù Cristo. La morte non è l’ultima parola, è questo che noi dobbiamo saper comunicare all’interno del nostro annuncio evangelizzatore. Solo così rendiamo ancora Cristo non un maestro di umanità o di spiritualità, ma colui che è capace di salvare realmente le nostre vite.
Ecco alcuni tratti radicali di cosa dovrebbero essere la nostra fede, la nostra carità e la nostra speranza, affinché possa germinare lo slancio missionario. Sono convinto che, soltanto andando alla radice e vedendo bene ciò che manca oggi alla chiesa, potremo uscire da questa situazione di sterilità e di crisi di fede. E se la fede è debole, lo è anche la missione. Ammettiamolo, i problemi sono molti: la città è sempre più post-cristiana, noi siamo una minoranza nella società, avvolti dal regno dell’indifferenza nei confronti di Dio e della chiesa, ma non per questo viene meno la speranza, la quale potrà far germinare in futuro dei segni che possano davvero essere all’insegna della fede, della speranza e della carità.
Noi abitiamo “la Galilea delle genti” (Mt 4,15), quelle genti che ormai sono qui tra di noi. Il mondo è cambiato. E la mia speranza è che il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia dello scorso ottobre, unitamente a quello che si sta celebrando in Germania, possa fornire delle tracce per tutte le chiese. Il problema, infatti, non riguarda solo quelle chiese, peraltro così diverse, ma riguarda noi: come inculturare la fede in questo mondo globalizzato e post-cristiano? Rispondere a questa domanda richiede di compiere passi nuovi, richiede nuovi modi di far vivere la liturgia, richiede un altro linguaggio, richiede di mettere a fuoco gli elementi essenziali del cristianesimo, senza timori né paure. Ci è chiesta una grande conversione, forse simile a quella che il cristianesimo del primo secolo dovette compiere per aprirsi dal giudaismo a tutte le genti della terra.
Un cambio radicale del vivere la chiesa
Negli ultimi tempi c’è una domanda che molti mi rivolgono e che io stesso mi pongo con frequenza: la chiesa è ancora capace di essere missionaria, di rendere eloquente la fede che professa? I mezzi della missione mutano sempre più rapidamente, ma la missione sarà sempre ineludibile perché fa parte dell’essere cristiani: non si è alla sequela del Signore senza essere da lui inviati. Siamo di fronte a un mutamento radicale, che riguarda tutta la vita cristiana, la vita della chiesa, ma in particolare ciò riguarda proprio la missione ad gentes. Abbiamo lasciato la sponda e navighiamo verso un’altra terra che ancora non conosciamo. Le sfide si presentano con una novità inedita e dunque alla chiesa tutta è richiesta un’operazione di discernimento, per attuare il mandato di Gesù risorto, sempre attuale: “Andate, evangelizzate in tutto il mondo, portate la Buona notizia a ogni creatura” (cf. Mc 16,15).
Dobbiamo confessare oggi un’astenia delle chiese locali, soprattutto nell’emisfero settentrionale del mondo: un’astenia nei confronti della missione, una mancanza di coraggio nel lasciare la propria terra segnata dal benessere per terre che sono ancora toccate dalla fame, dalla miseria e spesso anche dalla violenza e dalla guerra. È sufficiente constatare la mancanza delle vocazioni alla missione ad gentes; è sufficiente vedere come gli istituti missionari, che hanno dato una testimonianza eroica di evangelizzazione, conoscono, almeno nelle nostre terre di antica cristianità, sterilità e invecchiamento, che rende alcuni di essi addirittura precari. Da quando ha assunto il ministero di Pietro, papa Francesco chiede con frequenza alle chiese di porsi “in uscita”, di volgersi alla missione in condizioni dinamiche, aperte, libere, per poter portare la Buona Notizia del Vangelo. Ma dietro a queste espressioni, che rischiano di essere ripetute semplicemente come slogan, c’è in realtà la richiesta di un cambiamento radicale del vivere la chiesa, ben prima del vivere la missione che le è inerente.
Non spetta a me fare un’analisi di queste urgenze, ma occorre almeno mettere in evidenza che si richiede in primo luogo che ogni battezzato e ogni comunità cristiana si sentano responsabili dell’evangelizzazione, cioè del portare ovunque la Buona Notizia del Regno. Le espressioni che si usano per parlarne sono meno importanti, ma a mio avviso occorre una vera e propria conversione della vita cristiana. Bisogna che la vita cristiana ecclesiale sia impegnata in un esercizio, in un’attenzione reale alla sinodalità, affinché popolo di Dio e pastori camminino insieme. Tutti i cristiani sono chiamati ad assumere la responsabilità di essere inviati a uomini e donne che non conoscono Gesù Cristo; devono dunque essere innanzitutto soggetti capaci di esprimere la fede cristiana e, di conseguenza, di edificare la chiesa con il loro specifico contributo culturale, religioso e umano. È la dinamica alla quale il papa ritorna sovente nei suoi discorsi missionari, ricordando parole come ascolto, incontro, dialogo, testimonianza, annuncio.
Credo inoltre che sia importante ricordare che oggi la missione non è rivolta solo alle genti ma riguarda le nostre chiese. Se alla fine della seconda guerra mondiale il cardinale di Parigi parlava della Francia come di una terra di missione, oggi siamo tutti convinti che l’Europa è terra di missione, come scrive il teologo Christoph Theobald. Viviamo in un’epoca che non è soltanto secolarizzata: siamo in un’epoca post-cristiana, e nelle nostre terre di antica cristianità ci sono delle situazioni che fanno sì che la missione sia quanto mai urgente. Soprattutto le nuove generazioni, quelle dei millennials, sono segnate da una profonda indifferenza verso la religione, verso la ricerca di Dio, verso l’appartenenza alla chiesa. Sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia profondamente il volto delle nostre comunità, nelle quali le nuove generazioni e le donne sono la chiesa che manca, secondo l’efficace espressione di don Armando Matteo. Sì, sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia e cambierà profondamente il volto delle nostre comunità.
Abbiamo sognato una chiesa evangelizzante e invece ci troviamo di fronte a una chiesa in realtà non evangelizzata e con generazioni senza più alcun contatto con la fede cristiana. In questa situazione inedita occorrerebbe da parte nostra una capacità di lettura, un esercizio di discernimento per assumere la responsabilità della mancata trasmissione della fede alle nuove generazioni. Non basta parlare dei millennials, bisogna riferirsi ai loro padri e alle loro madri, cioè la prima generazione che ha veramente tradito la trasmissione della fede, a partire dalla famiglia e dai vari contesti educativi. Risulta evidente che in una chiesa così debole va riconosciuta ormai una crisi di fede: dobbiamo avere il coraggio di dirlo, il problema è la debolezza della fede!
Ma allora quale missione e quale evangelizzazione, non nei mezzi, ma alla radice? Occorre innanzitutto prendere coscienza dell’indifferenza regnante nei confronti di Dio e della ricerca di lui. Da anni ormai ripeto che la chiesa deve prendere atto di tale indifferenza, ma sembra che in realtà nessuno ci voglia credere, e così si continuano a studiare le strategie per l’annuncio, nella stessa maniera di prima. Per le nuove generazioni – ma anche per alcuni delle generazioni post ’68 – Dio non è più interessante, non è più necessario per vivere bene, nella felicità. Si continuano a ripetere alcuni slogan ma, se si ascoltano veramente i giovani, si comprende che stanno bene senza ricerca di Dio. Il problema è eventualmente quello della “gratuità” di Dio, il che ci richiede nuovi atteggiamenti per annunciarlo: Dio non sta più nello spazio della necessità! Dio è addirittura una parola ambigua, respinta dalle nuove generazioni, perché spesso è legata al fanatismo religioso, all’intolleranza, alla violenza.
Per molti aspetti, fatte le dovute differenze, siamo in una stagione analoga a quella dei primi secoli della chiesa, quando i cristiani per difendere la loro singolarità avevano il coraggio di dire: “La parola ‘Dio’ non è un nome per noi cristiani, è un’approssimazione naturale dell’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile” (Giustino). Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca di senso fatta dall’uomo. Ciò che invece è decisivo nella fede cristiana è la meta di un percorso compiuto alla sequela di Gesù Cristo, “l’iniziatore della nostra fede” (Eb 12,2). Questo richiede che, nella nostra missione ed evangelizzazione, sia davvero Gesù Cristo l’annuncio, l’uomo Gesù Cristo vissuto nella carne: l’uomo come noi, totalmente uomo in una vita mortale, nella storia, dalla nascita alla morte, con tutti i nostri limiti umani, eccetto il peccato, perché è con la vita umana che egli ci ha rivelato Dio e ci porta alla comunione con lui. E Cristo non solo ci rivela Dio: egli infatti si fa conoscere come Dio, Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo.
Qui sta lo specifico del cristianesimo, anche in un tempo di confronto con gli altri monoteismi e con altre vie religiose. Io amo parlare della “differenza cristiana”, che è una differenza non contro o senza gli altri, ma una differenza che nasce dalla convinzione che Gesù Cristo è davvero colui che ha unito umanità e Dio. Dopo di lui, non si può dire l’umanità senza dire Dio e non si può dire Dio senza dire l’umanità. Questa è la nostra fede: confessiamo che Gesù Cristo è uomo e Dio, Dio fatto carne, Dio sempre vivente nei secoli dei secoli. Benedetto XVI, in apertura dell’enciclica Deus caritas est (2005), aveva il coraggio di scrivere: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con una persona”, Gesù Cristo. Questo secondo me è il punto centrale, a partire dal quale può veramente mutare la situazione astenica della fede e, di conseguenza, quella dello slancio missionario. Il problema della crisi della missione ad gentes in realtà è un problema della missione anche qui nelle nostre terre di antica cristianità, non c’è molta differenza. Le nostre comunità cristiane si sono assestate, spesso per loro sono più decisivi i valori o le prassi etiche che non la passione bruciante e la fede in Gesù Cristo. Al contrario, nell’evangelizzazione siamo chiamati a mettere al centro Gesù Cristo e la sua umanità, rivelazione del Dio vivente, non lo si ripeterà mai abbastanza. E si faccia attenzione: nessuna negazione della divinità di Gesù, ma neppure nessun debito della fede cristiana al teismo, perché è Cristo che ci conduce a Dio, non un qualsiasi dio che ci conduce a Cristo.
Non si risorge da soli
di Tomaso Montanari
La Pasqua è il trionfo di quel salvarsi insieme che don Milani definiva semplicemente ‘politica’. Oggi tutto questo, lo sappiamo, è ribaltato nel suo contrario.
Il mondo povero non scrive la storia, e oggi il copione sembra ripetersi. Ma con una differenza fondamentale, e cioè che le vaccinazioni occidentali potrebbero essere radicalmente vanificate dal ritorno ‘a casa nostra’ delle varianti del virus generate in un terzo mondo abbandonato a se stesso.
Pensiamoci un attimo: se dovessimo finire per il nostro egoismo, se dovessimo morire tutti perché abbiamo pensato a salvarci da soli, chi potrebbe piangere sul nostro egoismo suicida?
La Pasqua è resurrezione di uno che diventa resurrezione di tutti. È salvarsi insieme.
Giovanni racconta che, dopo la resurrezione, Gesù si manifestò ai discepoli nel modo più fraterno e commovente: «Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: “Portate un po' del pesce che avete preso or ora”» (21, 9-10). Gesù cucina per i suoi amici, prepara un fuoco sulla spiaggia, e aspetta che tornino dal lavoro. Un’immagine indimenticabile di convivialità e amicizia, che dice, nel modo più forte e insieme più semplice, cos'è che davvero importa nella vita: condividere.
Gesù, vero uomo, avrà imparato molte cose nella sua vita tra gli uomini. Anche che una vita senza arrostire del pesce per i propri amici, una vita (perfino una vita eterna) da solo non è umana, anzi non è nemmeno immaginabile.
Se vogliamo che l’umanità si salvi, dobbiamo essere umani: scardinando le porte degli inferni che noi stessi abbiamo costruito. Gli umani si salvano insieme, risorgono insieme: o non si salvano, e non risorgono.
La Pasqua è la speranza che questo accada. La resurrezione è «la speranza che, nonostante tutta questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola» (Max Horkheimer).
Discendere per risalire
Maria Rattà
Il verbo discendere, nella sua etimologia, contiene già la radice del salire: descèndere, composto da de e scàndere, di e salire. Senza discesa non c'è risalita, perché senza chicco che muore nella terra non c'è spiga che sale verso il cielo, senza vita che si perde nel tempo non c'è vita che continua nell'eterno.
Il futuro dell'umanità è tutto racchiuso in questi verbi di movimento, ma – e soprattutto – nella discesa e risalita di Cristo. La sua discesa: quella dalla condizione di Dio per farsi Uomo-Dio; quella dalla gloria terrena di Messia osannato alla fama di malfattore appeso a una croce; quella dalla vita alla morte; quella dal sepolcro fin negli inferi, per liberare chi era in catene.
Da questa discesa, compiuta per amore degli uomini e in obbedienza al Padre, il sangue di Cristo origina la sua discendenza, la discendenza dei redenti in Lui, la discendenza dei salvati dal peccato e dalla morte. Una discendenza di risorti in Cristo.
Scendere non è necessariamente, infatti, sinonimo del percorrere l'ultima tappa, dell'arrivare alla fermata finale. A volte la discesa è un trampolino di lancio, per raggiungere traguardi più alti.
Così è la discesa di Cristo: necessaria per spiccare il salto della risurrezione, dell'ascesa al Cielo, della riconquista della gloria che da sempre Egli aveva quale Verbo di Dio; della rinascita dell'intera umanità.
E la discesa di Gesù ci ricorda che ogni uomo ha la sua "personale" discesa nella morte, il salto senza il quale non si può raggiungere la vita eterna. E ogni uomo ha pure le sue personali piccole discese del vivere quotidiano: quelle dell'umiliazione, dell'ingiustizia, dell'indifferenza subite, a volte anche dell'odio ricevuto... Proprio come nell'esistenza terrena del Maestro, esperto di discese tramutate in rampe di lancio.
Queste nostre umane, sofferte, temute discese non sono però dei salti nei buio: Gesù le ha percorse prime di noi, vivendole nella loro interezza, nella loro mistura di paura e dolore, di affidamento e tentazione, di angoscia e speranza. E come ad Adamo, anche a noi quel Cristo disceso negli inferi ricorda la grande, stupefacente verità che la Pasqua è: la Croce non è la fine, ma l'asta per raggiungere il Cielo; non siamo stati creati per essere prigionieri degli inferi, ma abitanti della luce, delle Altezze... atleti del salto in alto, pronti a spiccare il volo verso il traguardo che non ha fine.
Elogio dell'attenzione
I grandi uomini e le grandi donne di ogni epoca si caratterizzano per la loro notevole capacità di attenzione. È stata proprio l'attenzione a renderli grandi. Non c'è da stupirsene, perché solo grazie a essa vediamo le cose come sono; e in questo, nel vedere che un albero è un albero, una pietra una pietra e un uccello un uccello, consiste l'autentica spiritualità. Non bisogna elucubrare, basta guardare. La realtà non nasconde nessun enigma all'infuori della realtà stessa. Voler scorgere enigmi nelle cose ci priva delle cose stesse.
Nel Sahara ho imparato a stare attento. Le attività quotidiane qui si sono trasformate nella miglior scuola di meditazione. Quando coltivo la terra, coltivo la terra; quando preparo la cena, preparo la cena; quando vado a dormire, vado a dormire. Nulla interferisce col mio lavoro mentre lavoro, perché in quell'istante il lavoro per me è tutto; nulla interferisce mentre mangio, perché il cibo che assaporo per me è tutto in quell'istante; nulla turba il mio riposo quando vado a dormire, e proprio per questo riposo. Dal momento che queste attività sono necessarie, sono anche il cammino più giusto per la realizzazione dell'essere umano.
Se si presta attenzione, è semplicemente impossibile fare male qualcosa. E l'opera ben fatta compensa sempre e generosamente il nostro sforzo di attenzione. Non si tratta nemmeno di uno sforzo; è più che altro un vigilare; ma non un vigilare teso, bensì rilassato e armonico. Lo spirito più vigilante non è il più teso, è il più ricettivo.
Ho scritto questo libro per dirvi che la più grande miseria dell'uomo è la dispersione. Siamo dispersi da molte parti e in nessuna: è così che cominciamo a non trovarci, finendo per non sapere chi siamo.
Vivendo attentamente, si smette di pensare a sciocchezze o futilità. Perché di sicuro ciò che siamo soliti considerare trascendente, è quasi sempre una futilità; i pensieri sulla vita quotidiana, invece, nonostante l'apparente futilità, sono davvero trascendenti. Sì, la salvezza si trova nelle cose elementari. Ecco perché a nessuno è preclusa la possibilità di un'autentica vita interiore. L'attenzione prestata nei confronti di qualcosa è l'indicatore più preciso del nostro amore. L'amore è uno stato di attenzione completa; e l'attenzione totale conduce all'amore. Dio stesso, che è fondamentalmente un mistero di attenzione, esiste solo nella misura in cui gli dedico attenzione. E dunque amiamo solo quello a cui badiamo. Risulta impossibile amare qualcosa a cui non si è prestata attenzione. La compassione o la carità fioriscono spontanee se ci mostriamo attenti nei confronti di chi ha bisogno. Non è possibile prestare attenzione a chi ha bisogno e non essere compassionevoli o caritatevoli nei suoi riguardi. L'egoismo, l'avarizia, l'invidia...: tutto ciò, invece, è frutto della dispersione.
Nessuno riuscirà a concentrarsi nella preghiera se non è stato in grado di farlo nella vita quotidiana. Il miglior indicatore di una vita di preghiera è l'atteggiamento di chi prega mentre svolge le faccende domestiche. Pregare non significa altro se non ringraziare per la vita quotidiana a cui abbiamo riservato la nostra attenzione.
E come possiamo ringraziare per quello di cui non ci siamo accorti? Per questo, il miglior luogo dove imparare a pregare non è l'oratorio, ma la camera da letto, il bagno, la cucina... Tutti questi spazi sono autentici templi per il vero credente. Qualsiasi educazione indirizzata ai giovani dovrebbe basarsi sullo stimolo dell'attenzione.
(Pablo d'Ors, L'oblio di sé. Un'avventura cristiana (Diario in prima persona di Charles de Foucauld), Vita e Pensiero 2016, pp. 381-383)
Evangelizzazione e ascolto
Non si può evangelizzare un popolo se prima non lo si è ascoltato. L'evangelizzato deve sempre sentirsi protagonista dell'evangelizzazione. «Di cosa stavate parlando lungo il cammino?» ha chiesto il Risorto ai discepoli a Emmaus. Evangelizzare consiste nell'interessarsi delle storie altrui, ma interessarsi per davvero, e non sperare che il resoconto finisca in fretta per poter diffondere subito la presunta e vera Buona Novella.
Naturalmente non tutte le storie che mi venivano raccontate riuscivano a interessarmi allo stesso modo: all'inizio la maggior parte di esse mi sembravano banali o insignificanti; ma ciò accadeva perché non le stavo ancora ascoltando bene. Non bisogna cercare il nesso tra quanto ci viene raccontato e il Vangelo: la storia stessa, la sua semplice umanità, è già di per sé Vangelo; e l'evangelizzatore non deve fare altro che scoprirlo.
Quante storie ascoltavo in quei giorni! Quanti Vangeli vivi mi regalava Dio in ognuna di quelle frequenti e inopportune visite! Perché nulla al mondo è più eloquente di una biografia. E perché in ogni biografia umana si nasconde – la si scorga o meno – quella di Dio stesso. Non pretendo di trasformare la mia esperienza in una regola, ma non credo che il compito di noi cristiani sia cristianizzare il mondo; il mondo è già cristianizzato senza bisogno della nostra mediazione. A mio parere, dobbiamo solo essere dei testimoni e dire: «È qui, è qui, e anche qui!», per rimanere poi stupefatti e meravigliati di fronte alla discrezione e all'onnipresenza del nostro Dio. Mentre ascoltavo gli sventurati, io, il seminatore solitario, provavo la sensazione non solo di assecondare la volontà di Dio, ma di somigliare – mentre li ascoltavo – come mai prima di allora al mio Signore. Sì, perché ascoltare, ascoltare e basta, senza consigliare o riprendere, senza orientare, senza trarre nessuna conclusione, soltanto ascoltare, è quanto Dio fa di solito con gli uomini. Nel momento in cui riuscivo ad avere quell'approccio così puro con i poveri, mi sentivo come deve sentirsi Dio stesso. Se sono arrivato a essere un buon ascoltatore di poveri è perché Dio mi ha prestato parecchia attenzione, non c'è altra ragione. Dio, nel corso della mia vita, non ha fatto altro se non ascoltarmi, quindi ho dovuto per forza imparare qualcosa dal Suo comportamento.
Il mio cambiamento, che mi aveva consentito di ascoltare per davvero, dipendeva dall'essere diventato, finalmente, un povero come loro. Continuavo a essere lo straniero, ovvio; ma ero anche quasi un oriundo: un tuareg. Per prima cosa avevo imparato, come loro, il nome delle stelle, sapendo che il cielo d'Oriente ne contiene un numero molto più elevato rispetto a quello occidentale; camminavo scalzo, come loro, cosciente finalmente dell'importanza del contatto con la terra; temevo l'invasione dei senussiti quanto loro; e addirittura riverivo l’amenokal quanto il mio vescovo o ancor di più. L'Europa cominciava a sembrarmi, come a loro, lontana.
Anni addietro avevo compreso che se non avessi capito cosa diceva tutta quella gente non sarei stato in grado di amarla, e quindi mi ero impegnato a studiarne la lingua. Adesso potevo parlarla – cosa che, inevitabilmente, li divertiva molto – sapendo però di dover studiare anche la loro cultura e le loro tradizioni. Fu nel prendere questa decisione, e ancor di più nel metterla in pratica, che davvero desiderai essere uno di loro: un tuareg. Non amiamo veramente qualcosa fino a che non desideriamo una piena identificazione. Per questo Dio, che tanto ha amato il mondo, ha desiderato farsi uomo. A mio parere questo desiderio, e la sua realizzazione, è la prova migliore del Suo amore per noi. Dio ha desiderato essere ebreo; io, da parte mia, ho voluto essere un tuareg. Se la Francia è la mia patria naturale, il Sahara è la mia patria soprannaturale: il luogo dove Dio mi stava aspettando, il posto in cui la mia sterilità umana sarebbe potuta risultare divinamente feconda.
(Pablo d'Ors, L'oblio di sé. Un'avventura cristiana (Diario in prima persona di Charles de Foucauld), Vita e Pensiero 2016, pp. 327-329)
La speranza di un uomo
Vito Mancuso
Ho scritto che il vero uomo è colui che "ha trovato" qualcosa di più grande di sé per cui vivere. Ora intendo sottoporre ad analisi critica questa mia affermazione: che cosa significa che un uomo ha trovato?
In un celebre passo della Critica della ragion pura Kant presenta le questioni filosofiche fondamentali secondo tre domande, formulate in prima persona:
1. Che cosa posso sapere?
2. Che cosa debbo fare?
3. Che cosa mi è lecito sperare? [1]
L'uso della prima persona è decisivo. Non si tratta di disquisire gratuitamente ma di trovare la prospettiva giusta per dare una forma autentica alla propria vita, a questa esistenza qui e ora, nella sua solitudine e nella sua capacità di relazione con gli altri: è questo che ha a cuore il più profondo pensare, e per questo Kant utilizza la prima persona singolare.
Che cosa posso sapere? Il sapere riguarda l'intelletto e la ragione, e di esso Kant si occupa nella Critica della ragion pura. Il risultato cui approda è che di me e del mio destino non posso sapere nulla di certo, perché sulle questioni essenziali della vita si danno ragioni per sostenere una tesi e il suo contrario, sicché pensare onestamente alla mia identità e al mio destino significa imbattermi in inevitabili paralogismi e antinomie. Che cosa devo fare? Il fare riguarda la morale, e di esso Kant si occupa nella Critica della ragion pratica. La sua risposta è che esiste un dovere sopra di me che io devo compiere, non perché me lo imponga qualcosa di esterno a me (la religione, il libro sacro, la società, il rango sociale, l'appartenenza politica...), ma perché si tratta di un dovere radicato nella mia stessa natura umana; è vero, gli uomini possono vivere rispettando oppure no questo dovere, ma solo chi lo riproduce con giustizia dentro e fuori di sé sarà veramente uomo e non tradirà la sua natura di essere razionale e pensante.
Rimane infine la terza domanda: che cosa mi è lecito sperare? Per poter rispondere occorre sapere quale facoltà venga messa in gioco dalla speranza e la cosa non doveva essere del tutto chiara neppure per Kant che ne tratta nella terza critica, la Critica del giudizio, il cui messaggio centrale è difficilmente sintetizzabile in poche parole. Rimane però il problema sollevato, cioè quale possa essere un legittimo orizzonte di senso per dare energia e voglia di vivere alle mie giornate. Che cosa posso sperare per la mia vita e per quella dei miei cari? Che cosa mi è lecito sperare senza tradire la mia natura razionale? Sono alla ricerca di una speranza legittima, tale che non tradisca la mia ragione, ma insieme tale da salvarmi dal gorgo del cinismo di chi ritiene la vita solo un inganno dove vincono inevitabilmente solo i più furbi. I furbi... Ricordo il senso di ribellione che saliva in me da bambino quando gli adulti mi dicevano che la vita è dei furbi e che dovevo imparare a essere furbo se volevo farmi strada nel mondo. Non so perché, ma ho sempre istintivamente detestato la furbizia, che ritengo un uso distorto dell'intelligenza. Il che naturalmente non significa che si debba essere ingenui, perché, come insegna l'etica classica, la virtù sta nell'equilibrio tra due estremi (anche se tra i due estremi in questione io sento un'istintiva simpatia per l'ingenuità del principe Miškin, il protagonista dell'Idiota di Dostoevskij, e un'altrettanto istintiva repulsione per la furbizia ingannatrice di cui è purtroppo inutile fare esempi, tanto è diventata uno stereotipo dell'essere italiani).
Tornando alla speranza, devo dire che per anni l'ho sempre ritenuta una virtù accanto alle altre, anzi persino inferiore alle altre, di cui gli uomini forti avrebbero anche potuto fare a meno, come riteneva Aristotele. Ora penso invece che si tratti di una virtù che è la sintesi dell'intera personalità, nel senso che ogni uomo è la sua speranza, ogni uomo è definito dall'oggetto del suo sperare. La vita è paragonabile a un viaggio, e l'oggetto della speranza è la meta verso la quale si viaggia. La vita è paragonabile a una caccia al tesoro, e il tesoro che un uomo cerca è ciò che lo definisce, perché è in base a esso che egli interpreta e gerarchizza le persone che incontra e le esperienze che fa. Se il tesoro che cerca è il denaro, farà tutto in funzione del denaro, anche le amicizie e le frequentazioni, persino il matrimonio e l'educazione dei figli vi saranno funzionali. Se il tesoro che cerca è il potere, farà tutto in funzione del potere, persino la fede religiosa potrà essere abbracciata o di-smessa a seconda dell'evenienza, perché chi determina così la propria esistenza sa bene che Paris vaut bien une messe, come ebbe a dire Enrico IV passando dal protestantesimo al cattolicesimo per diventare re di Francia, e come prima e dopo di lui hanno ripetuto molti altri, divenuti cattolici, protestanti, ortodossi, musulmani, atei e via dicendo, a seconda di come il potere avrebbe ricompensato.
Il tesoro che un uomo cerca con la sua vita di ogni giorno è la sua speranza, e quindi ogni uomo consiste nella sua speranza, perché "dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore". La speranza ha a che fare con una dimensione unitaria dell'essere umano, dove l'intelletto e la volontà si uniscono dando origine a qualcosa di superiore che dà il sapore complessivo alla personalità. Un vero uomo è tale non in base a ciò che ha, non in base a ciò che sa, neppure in base a ciò che fa, ma in base a ciò che è; ma ciò che un uomo è, in quanto essere individuale e irripetibile, è sì il suo corpo fisico, è sì la sua professione, ma è ancor più la sua speranza, cioè la tensione complessiva della sua vita e il sapore di fondo che ne deriva all'intera personalità, la musica che fuoriesce quando lui si presenta e che gli altri percepiscono, che lo si voglia oppure no. Se infatti la speranza non si può misurare come l'intelligenza mediante test, e neppure come si misura la volontà per la quale pure vi sono metodi appositi (alcuni dei quali molto singolari come camminare tra carboni ardenti o rimanere chiusi per ore in una bara con solo una minuscola fessura per l'aria), ciò che un uomo interiormente è si può tuttavia percepire lo stesso, forse si può dire che lo si vede con il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza verso la fine della sua Etica [2]. Nessuno sa se ci sarà davvero una pesatura delle anime alla fine del mondo, ma la bilancia della psicostasia esiste dentro ciascuno di noi, perché ciascuno è in grado di capire quanto pesa la propria e l'altrui personalità e di sentire se chi abbiamo di fronte è in vendita, e per quanto, oppure no.
La speranza per cui un uomo vive e che costituisce il suo tesoro ideale definisce la sua più peculiare personalità, dà forma e sostanza alla sua anima. Ed è questo che intendo col dire che il vero uomo ha trovato. Non ha trovato nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. Purtroppo (o per fortuna) la vita è fatta in modo tale da non lasciar sussistere nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. La speranza è destinata a rimanere speranza, a non trasformarsi mai in sapere. L'uomo che definisco vero ha trovato una speranza (non una dottrina né un'ideologia) per la quale vivere, come una specie di luce, lontana, verso cui camminare. Questa speranza non è un possesso che si può materializzare (né come dottrina né come ideologia), perché assomiglia alla manna che pioveva nel deserto al tempo dell'esodo, la quale generava vermi e imputridiva se non veniva mangiata al momento ma si tentava di conservarla (vedi Esodo 16,20). La lotta contro l'idolatria che attraversa la Bibbia ebraica va attualizzata oggi anzitutto contro le strumentali materializzazioni della speranza, il cui ideale purissimo non può essere manipolato a fini terreni, altrimenti imputridisce e si riempie di vermi.
Sostengo quindi che l'uomo compie la sua vita, rendendola oggettivamente autentica e uscendo dalle trappole dell'Io, quando vive per una speranza più grande di lui, in base alla quale egli, a poco a poco, giunge a dare forma a tutto quello che fa e che dice. Ma ritorna la domanda di Kant: che cosa, dal punto di vista del contenuto, è lecito sperare? La risposta è semplice e insieme stupefacente: è lecito sperare che l'ultimo orizzonte dell'essere sia non l'assurdo ma il senso, non il male ma íl bene, non il nulla ma l'essere, non la morte ma la vita. Questo, a un uomo ragionevole, è lecito sperarlo. Saperlo no, ma sperarlo in modo ragionevole sì. Anzi, continua Kant, "io avrò fede nell'esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei principi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi". [3] Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia, cioè vivere l'esistenza all'insegna della più pura prospettiva etica, apre la speranza della mente al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, che esiste una dimensione dell'essere più grande di quella di questo piccolo Io destinato a finire, una dimensione che i popoli di tutti i tempi hanno intuito e chiamato divino, assegnandovi poi il nome particolare di cui erano capaci, tutti comunque inadeguati. Sperare in un senso complessivo dell'essere che si dice come vita e come bene significa aver fede in un Dio.
Un uomo può essere abitato da questa speranza sul senso complessivo della vita, e un altro no, e perché questo avvenga nessuno lo sa. Ma per una vita autentica è necessario credere in un Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però, che non sia possibile una vita pienamente autentica senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell'essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e alla giustizia. Se la logica del mondo non è indirizzata al bene e alla giustizia, perché costruirvi sopra la vita? Ma se vi è indirizzata, facendo sì che valga la pena impostarvi la vita, come chiamare questa direzione verso cui la logica del mondo conduce, direzione che è dentro il mondo ma che è anche più grande del mondo?
Io sono convinto che la dimensione etica, in quanto anelito al bene e alla giustizia, sia il fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana di tutti i tempi. Per questo, anche a prescindere da qualunque fede religiosa, "beati quelli che hanno fame e sete di giustizia" (Matteo 5,6). Infatti, se la speranza per cui uno vive è complessivamente orientata al bene e alla giustizia (intesi anche solo come forma delle relazioni umane e non come senso complessivo dell'essere), essa produce in chi la vive una luce particolare, la luce calma e benevola dell'uomo buono. Dell'uomo giusto. La dedizione della libertà a questa luce interiore rende la vita soggettivamente oggettivamente autentica. Da qui la terza tesi: "L'uomo autentico è l'uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità".
NOTE
1. Immanuel Kant, Critica della ragion pura (1781), B 833, A 805; ed. it. a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino 2005, p. 607.
35. "Lo sforzo supremo della Mente e la sua virtù suprema è comprendere le cose con il terzo genere di conoscenza": Baruch Spinoza, Etica, cit., v, 25, p. 362.
36. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, cit., B 856, A 828, p. 621.
(FONTE: La vita autentica, RaffaeloCortina Editore 2009, pp. 127-137)
Costi quel che costi
Alessandro D'Avenia
Ognuno di noi è chiamato a farsi capolavoro, compiere la sua «forma», il peccato «de-forma» come un vandalo il capolavoro. Io pecco, manco il bersaglio, tutte le volte che mi tradisco, cioè mi illudo di non essere chi sono e quindi tradisco il mio desiderio, che è la chiamata rivolta dalla vita a me e solo a me: principio di animazione che mi conferisce un posto unico al mondo. Dante nel suo lungo percorso d’ascesa a spirale impara a non tradirsi (inferno), a liberarsi da ciò che lo spinge a tradirsi (purgatorio), a volar dritto verso il proprio compimento (paradiso).
Il cammino di ogni persona verso il centro di sé: essere e fare ciò che solo io posso essere e fare, vivere la vita autentica da cui mi allontano o a cui mi avvicino per tentativi, anche dolorosi, in ascesa verso me stesso. I miraggi di esistenza, desideri fallaci di esistenza e d’amore, ci de-centrano facendoci vivere vite non nostre: «un vero peccato!». Per con-centrarsi, raccogliere le energie e indirizzarle al bersaglio di cui siamo freccia assetata, è necessario avanzare salendo, cioè riconoscere nell’esperienza quotidiana ciò che porta a tradirsi o a essere «centrati»: disperazione, tristezza e gioia ne sono segni infallibili.
La nostra vita è un inferno se siamo fuori dal centro (disperazione); un purgatorio se, trovatolo, ci dis-perdiamo in altro (tristezza); un paradiso se ogni nostro gesto nasce dalla nostra unicità (gioia).
Lo scriveva già Pavese nel suo Mestiere di vivere: «Come mai, senza saperlo, hai diretto tutto a un centro? Logica interna, provvidenza, istinto vitale?». Qualunque risposta diamo, il centro (originalità e ispirazione: ciò per cui sono al mondo e vengo sempre più al mondo) agisce in noi: se siamo in traiettoria siamo in paradiso, se deviamo in purgatorio, se rinunciamo all’inferno. La vita allora è necessariamente un cammino per capire che cosa ci fa fiorire o marcire, una continua messa a punto del desiderio: il contrario di «peccare» è «fare centro».
Ma come capire se siamo (con-)centrati? Diamo frutto («concentrato» si dice di un succo genuino) nel modo di essere che ci rende originali, cioè originari: una mela è il fine del seme ma al tempo stesso l’origine di nuovi semi. Anche a Dante accade così. Alla fine del viaggio, faccia a faccia con Dio, non si dissolve ma si compie, cioè diventa il Dante che solo Dante può essere, e infatti «torna» sulla Terra, cioè a se stesso, rinnovato: è sempre in esilio e senza nulla, ma del tutto centrato, restituito al suo sé autentico, figlio del Dio, creatore e amore, che ha incontrato faccia a faccia. Adesso le energie che lo rendono pienamente uomo, creare e amare, sono libere: noi ci realizziamo dando al mondo ciò che in noi è al mondo già da sempre destinato, costi quel che costi.
Dalle aspettative alla speranza
José Tolentino Mendonça
Un’arte che la vita ci richiede, per vie diverse ma insistentemente, è quella di tramutare le aspettative in speranza. Dobbiamo riconoscere che tante volte, invece di essere un moltiplicatore di vita, le nostre aspettative diventano un’inconfessata spina nel fianco che ci trasciniamo per anni e anni. Siamo lenti a capire che le aspettative corrispondono alla proiezione dei nostri desideri, mentre la speranza si libra su di noi e ci coinvolge in una gestazione più grande, più generosa e polifonica. Facilmente le aspettative diventano creazioni astratte e illusorie, disegnate come forme ideali, determinate dalla nostra visione parziale. Mentre l’esperienza della fede, per esempio, ci fa abbracciare una speranza crocifissa, che si costruisce in direzione contraria al cammino lineare e senza scosse che avevamo previsto, e ci apre alle sorprese a cui l’amore concretamente ci conduce. Le aspettative sono una forma nervosa di intervenire nella realtà e di accompagnare gli altri. Senza rendercene conto, facciamo pressione, condizioniamo, riduciamo la vastità con il nostro stile affannoso. La speranza, invece, ci insegna a prendere il tempo come nostro alleato, poiché crede nel potere vitale di ciò che pare appena una briciola, quasi un niente. Ma ci sono briciole, infine, che si rivelano essere semi prodigiosi: il loro schiudersi riscatta la storia.
Ancora imparo
José Tolentino Mendonça
Uno degli autoritratti più commoventi, e al tempo stesso più riusciti, è quello realizzato dal pittore Francisco Goya (1746-1828). Si tratta di uno schizzo su un minuscolo foglio di carta, tracciato a matita negli ultimi anni di vita, quasi come un testamento. Per decenni è rimasto praticamente inosservato, dal momento che di Goya non mancano le opere monumentali e memorabili. A poco a poco, però, quel piccolo disegno è divenuto una chiave non solo per entrare nella storiografia dell’artista ma anche per penetrare nella sua anima. Vediamo in quell’immagine la fragilità di un anziano, che cammina appoggiandosi a due bastoni, come se per l’ultima volta stesse provando dei passi esitanti come lo furono i primi, accennati nella sua balbettante e remota infanzia. Egli porta una chioma candida e una lunga barba che ci raccontano, senza parole, inverni interi di neve. Il segreto, però, è quello del suo sguardo indimenticabile, dove si indovina certamente la fatica, ma anche un’energia interiore capace di vincere la stanchezza: una curiosità incrollabile, che resta sorprendentemente accesa; un’apertura a continuare il cammino nella scoperta e nella meraviglia. Nell’angolo in alto del disegno si legge infatti: «Aun aprendo» (Ancora imparo).
Silvano Petrosino "La perfezione del quotidiano"
Che cosa c’è di «perfetto» nei giorni che trascorre a Tokio il signor Hirayama, protagonista dell’ultimo film di Wim Wenders (Perfect days, 2023)? Nulla, si potrebbe rispondere. In effetti la storia narrata dal film è in verità una non storia: non ci sono colpi di scena, nessun mistero da risolvere, nessuna tragedia da testimoniare, nessuna storia d’amore da esaltare. Le giornate di Hirayama (il cui nome, è bene ricordarlo, è lo stesso del protagonista de Il gusto del sakè [1962] di Ozu, uno dei maestri di Wenders) procedono lentamente, semplicemente, obbedendo ad una progressione di gesti che è sempre la stessa: il risveglio al mattino (senza l’uso della sveglia), l’attenta sistemazione del futon, il lavarsi i denti e l’igiene personale, il lavoro mattutino presso i bagni pubblici di Tokio progettati da famose archistar, la regolare frequentazione dei sentō (bagni a pagamento pubblici), la cena nel solito locale, il ritorno a casa, la lettura serale, il riposo notturno. Una vita semplice, quasi fin troppo semplice, caratterizzata da una ripetitività senza inquietudine che sembra rasentare la monotonia; non a caso alcuni hanno criticato il film proprio per questa dolciastra sottolineatura della semplicità, per questa retorica delle «cose semplici», che non sarebbe altro che un evidente sintomo dell’intellettualismo del regista tedesco.
Ma alla domanda posta all’inizio si potrebbe anche rispondere: tutto. In effetti l’intero film è una sorta di celebrazione di un’idea di «perfezione» liberata da ogni contaminazione con l’«eccezionale» o con lo «straordinario» o con lo «stravagante». All’interno di una simile prospettiva il «perfetto» rinvia ad uno «splendore» che è proprio non di un qualche essere particolare, ma di ogni singolo esistente (ad esempio, anche della fragile piantina di cui Hirayama decide di prendersi cura).
Le due risposte ricordate – nelle giornate del protagonista del film di Wenders sembra che non ci sia nulla di particolarmente perfetto, ma al tempo stesso sembra anche che tutto in un certo senso lo sia o lo possa diventare –, queste due risposte non sono in contraddizione tra di loro. L’esperienza dello stupore – e lo stupore è senza alcun dubbio uno dei temi fondamentali attorno ai quali il film ruota – conferma la pertinenza di questo strano intreccio tra il nulla e il tutto. In effetti, di per sé nulla stupisce, o meglio: non c’è qualcosa o qualcuno che abbia in sé la misteriosa proprietà di stupire; al tempo stesso tutto può stupire, ed anzi sembra che proprio gli esseri più «insignificanti» abbiano lo strano potere di attirare la nostra attenzione e di meravigliarci. In Spuren (1936, trad. it. Garzanti 1994) Ernst Bloch afferma che ciò che stupisce può essere «il modo in cui una foglia si muove nel vento […] il sorriso di un bambino, la sguardo di una ragazza, la bellezza di una melodia». D’altra parte, non sempre una foglia che si muove nel vento, o il sorriso di bambino, o lo sguardo di una ragazza, o la bellezza di una melodia stupiscono; bisogna così riconoscere la particolarità del carattere d’eccezione che contraddistingue lo stupore: quest’ultimo, infatti, è senza alcun dubbio un’esperienza eccezionale ma altrettanto certamente non è mai un’esperienza dell’eccezionale.
Ciò che il film di Wenders mette in scena è l’evidenza di questa «eccezione non eccezionale»; esso, infatti, da una parte riprende il quotidiano, e, come osserva acutamente Blanchot, «Il quotidiano è ciò che noi siamo innanzitutto e in genere: nel lavoro e nel tempo libero, durante la veglia e il sonno, per la strada, nell’esistenza privata. Il quotidiano siamo noi di solito […]Quali che siano i suoi aspetti, esso ha un carattere essenziale, non si lascia cogliere. Sfugge. Appartiene all’insignificante, e l’insignificante è privo di verità, di realtà, di segreti […] È ciò che passa inosservato, è ciò che non vediamo mai per la prima volta, ma che possiamo solo rivedere dopo averlo sempre già visto […] Il quotidiano sfugge. È la sua definizione» (L’Éntretien infini, 1969, trad. it. Einaudi 2015). D’altra parte, evitando con cura la trappola degli «effetti speciali» e le attraenti sirene del «fantastico» e del «sentimentale», esso mostra lo splendore di tale «insignificanza», mostra come proprio il quotidiano possa essere vissuto e guardato come il luogo dello splendore più concreto, l’unico a poter essere abitato da un’esperienza autenticamente umana. Sempre Blanchot, citando Lukács, osserva: «È questo il confuso quotidiano […] Ma ecco sopraggiungere bruscamente una luce, “Qualcosa si accende, appare come un lampo sulle via della banalità… è il caso, il grande istante, il miracolo”. E il miracolo “irrompe nella vita in modo imprevedibile… senza relazione col resto, trasformando l’insieme in modo chiaro e semplice”. Col suo splendore, separa i momenti indistinti della vita quotidiana […]».
L’esperienza dello stupore, dunque, rappresenta una rottura della quotidianità, del «confuso quotidiano», senza per questo essere una fuga dalla realtà; qui non vi è alcuna estasi o rapimento, ma anzi l’istituirsi di un rapporto più interno e intimo con la realtà che ora appare nell’evidenza di uno splendore che va al di là del semplice apparire. Forse i giorni di Hirayama sono «perfetti» proprio perché illuminati, anche se solo occasionalmente, da questo splendore che finisce per trasformare – ecco un miracolo senza allucinazione, ecco il miracolo del cinema stesso quando quest’ultimo, come voleva Bresson, riesce ad essere «cinematografo» – il mondo stesso, tutto «l’insieme in modo chiaro e semplice».
Silvano Petrosino (Milano 1955), studioso di filosofia contemporanea, si è occupato prevalentemente dell’opera di M. Heidegger, E. Lévinas e J. Derrida.
Oggetto dei suoi studi sono la natura del segno, il rapporto tra razionalità e moralità, l’analisi della struttura dell’esperienza con particolare attenzione al rapporto tra la parola e l’immagine.
Insegna Filosofia della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano.
Il suo ultimo libro, pubblicato da Vita e Pensiero, è "Piccola metafisica della luce".
Dio esiste ed è qui!
Divo Barsotti
Se c’è la fede, tutto nasce da lì: ecco, Dio non è più un Dio
di carta, è il Dio vivente! Lo conosci, ma lo conosci in quanto è
una Persona, non lo conosci perché sai il catechismo, non lo conosci perché conosci la teologia, lo conosci perché l’hai veduto,
perché Egli è entrato nella tua vita, perché Egli si è manifestato a
te, e perché la manifestazione di Dio alla tua anima ha voluto dire
per la tua anima un desiderio incoercibile di essere unita a Lui e,
nello stesso tempo, una grande paura per il senso della tua debolezza, per il senso della tua impotenza, della tua povertà spirituale.
Conoscenza di fede che è molto maggiore, molto più importante
di una conoscenza teologica. Un teologo può parlare della Santissima Trinità fumando una sigaretta, ed è una cosa spaventosa, se
si pensa bene, ma lo può fare perché Dio è un Dio un po’ di carta,
un Dio con il quale si ragiona facilmente: è un Dio senza potenza, che non ha alcuna forza nella tua vita interiore. Perché? Per[1]ché la fede è poca, la fede è poca! Una persona, una donna, una
semplice donna, magari analfabeta, che non conosce altro magari
che un po’ di catechismo può vivere una unione con Dio, può vivere una fede più viva, anche dei teologi. Senza dubbio santa Teresa, o santa Gemma Galgani avevano più fede del vescovo della
loro diocesi. Pensiamo santa Gemma Galgani e il vescovo di Luca del tempo. È impressionante la differenza che vi è fra un vescovo buono ma mediocre, e questa anima che è totalmente presa
dall’amore del Cristo, che non vede altro che Lui, che non pensa
altro che a Lui, che vive una vita in cui veramente viene consumata dall’amore. Certamente la fede di santa Gemma era molto più
grande della fede del suo vescovo, anche se il vescovo era vescovo e Gemma Galgani era una povera scema, come lei si firmava.
Quello che conta nella vita religiosa, dunque, è la fede perché la
fede è l’organo che ci mette in comunione con Dio. Vorrei sapere: è lo stesso guardare una fotografia della montagna o scalare la
montagna? Vi sembra la stessa cosa? Vediamo, vi sembra davvero
la stessa cosa? Non credo davvero, ebbene quelli che vivono, che
parlano anche di Dio possono essere come quelli che guardano una
fotografia. Altro è guardare la fotografia, altro è scalare la montagna, altro è vivere un contatto vero con Dio. Guardate bene che la
fede vi deve mantenere in un contatto reale con una persona vivente. Dio è, Dio esiste, Dio è qui!
D. Barsotti, Brevi meditazioni, in «Rivista di Ascetica e Mistica» (2002) 1,
pp. 16, 15, 14.
23
Don Divo Barsotti
Dal libro “La via del ritorno” (capitolo “la Parola di Dio)
“Nulla è più indifferente all'uomo: la pioggia che cade è il dono che il Signore ti fa, il sole sorge oggi per te, per te fino dall' eternità Egli ha preparato la fragile bellezza del fiore che cogli. Oh! era giusto quello che faceva andare in estasi S. Maria Maddalena de' Pazzi quando aspirando il profumo di un fiore esclamava: «Fino dall' eternità il Signore ha pensato a quest'ora, quando io avrei ricevuto questo fiore dalle sue mani per aspirarne il profumo».
Sì, l'uomo, qualunque cosa faccia, dovunque egli viva, si trova davanti al volto di Dio. Sta a lui scoprirlo e ascoltare attraverso ogni cosa la parola di Dio. Egli è qui, Egli si rivolge a me, mi dice il suo amore, mi manifesta la sua volontà, mi annuncia le sue promesse, si rivolge a me per donarmi il suo amore.
Non soltanto ogni cosa ci parla di Dio, dice Dio, ma attraverso ogni cosa è Lui stesso che parla. Non soltanto la creazione ha come un riflesso della bellezza divina. Ogni cosa è veramente lo strumento di un'azione personale di Dio verso di te, il mezzo onde Egli si comunica personalmente.
Dio ha un volto ed è Padre. Si rivolge a te per comandarti, ti invita a sé, ti guida, ti minaccia, ti dice il suo amore. Tu sei davanti a Dio, come nel cielo. Ora tu lo vedi attraverso dei segni, domani faccia a faccia, ma Lui solo in definitiva è davanti a te, non le cose, non gli uomini. Gli uomini, le cose, tutto è occasione onde l'anima viva questo rapporto, e la vita di fatto tutta si raccoglie e si riassume e tutto termina in questa comunione dell'anima con Lui. Non un Dio che è l'immenso, l'infinito, di cui poteva parlare Leopardi, ma un Dio che è Padre, un Dio che ha un nome e un volto; che è una persona, e si rivela al tuo cuore e vuole stringere un patto con te: si chiama Gesù. Non una pura rivelazione di bellezza. Sì, la creazione rivela anche la bellezza di Dio. Più ancora Egli ti parla attraverso la creazione medesima e stringe con te un'alleanza, sicché, anche attraverso la visione dell' alba, il rompere del vento e l'odore della terra è veramente una comunione personale con Dio quella cui il Signore ti chiama.
Quando si dispiega davanti a te la meraviglia delle cose, quando ascolti il passare del vento, odi il rotolare del tuono, vedi il balenare dei fulmini, ne intravedi la veste.
E Dio stringe con te un' alleanza, vive questa sua alleanza con te; un' alleanza che si esprime precisamente ora in una minaccia, ora in un invito carezzevole, ora in un dono di tenerezza, ora in un castigo; ma è Dio, sempre Dio, Dio solo che vive con l'uomo. In ogni istante Dio esce dalla sua solitudine per venire incontro a te e in ogni istante lo incontri; tutta la vita non è che questo rinnovarsi di un incontro con Lui.
Portatori di un dono nuovo
Carlo Molari
Ogni situazione della nostra esistenza può essere vissuta in modo da consentirci di crescere come persone autentiche. Noi possiamo vivere tutte le situazioni, anche quelle causate dal peccato e dalla violenza degli uomini, in modo da renderle spazi di novità, stimoli di rinnovamento, occasione di profezie. Da farne cioè luoghi di crescita per noi e per gli altri. Ma non siamo in grado di farlo da soli. Sono i rapporti con gli altri, gli incontri, le esperienze storiche che ci consentono di crescere, offrendoci ogni giorno possibilità nuove. Non è sufficiente essere nati, per poter vivere intensamente e neppure per poter sopravvivere. Occorre che qualcuno ci offra continuamente la possibilità di crescere. Ciò non vale solo per i più piccoli ma per ogni uomo. Anzi più la persona è grande e più esige offerte intense e profonde. Solo che mentre gli adolescenti, i giovani e soprattutto gli adulti sono in grado di cercarsi da soli ambienti di offerte vitali e di muoversi per allargare gli orizzonti e intensificare i rapporti, gli infanti ed i fanciulli sono costretti all'ambiente e quindi necessariamente condizionati dalle offerte di vita che concretamente essi ricevono.
Quando, nell'orizzonte della fede, diciamo che la salvezza è dono di Dio, intendiamo appunto esprimere questa nostra condizione di creature: abbiamo bisogno di accogliere la nostra perfezione dagli altri. L'amore di Dio, infatti, non è efficace per noi se non quando diventa amore di persone umane: gesto e sorriso di madri e di padri, affetto di amici o di sposi. Ognuno di noi porta per gli altri un dono che è più grande di sé, un dono che però non può trattenere nelle sue mani, ma deve saper offrire perché la vita non venga tradita e possa esprimersi in tutte le sue forme.
Soprattutto quando avvertiamo da qualche parte situazioni di emarginazione, di solitudine, ricordiamo che a nessuno è possibile uscire dalla sua condizione se altri non gli tendono la mano.
Oggi, forse, per qualcuno siamo noi i portatori di un dono nuovo. Come altri forse sono pronti ad offrirci la loro presenza, se saremo attenti ad avvertirla e ad accoglierla senza riserve.
Pensiamoci, oggi, quando ci si offrirà un incontro
Figli della stessa sete
Alessandro D'Avenia
L’amore nasce da qui: dal riconoscersi figli della stessa sete. La religiosità autentica non corazza l’ego, ma lo smonta per far emergere il Sè, cioè l’uomo compiuto, che è l’io in relazione, aperto alla vita. L’io isolato, amando, esce dalla sua prigione auto-inflitta e genera vita: ci vuole una «egografia» per far nascere l’io che sa amare, che rinuncia all’esclusiva sul mondo perché, solo amando, relativizza la paura della morte che lo porta a volere tutto per sé. Mi ha sempre colpito che in origine i cristiani, per l’eucarestia, non si riunivano in un luogo sacro ma nelle case, senza differenza di classe o cultura. Un gesto quotidiano e necessario, un pasto, rimescolava rapporti di forza e li trasformava in legami: non sorprende che i Romani, pronti pragmaticamente a tollerare tutte le religioni, perseguitarono (la loro violenza viene smascherata) proprio quella che minava un intero sistema di potere e non era disposta ad adorare l’imperatore.
La vita veramente religiosa si mostra come un modo nuovo di vivere le relazioni: non è un’esperienza «esclusiva» come si dice oggi per rendere appetibile qualcosa di costoso, ma è gratis, per tutti, così come sono. Ed è l’Amore. Dio non è onnipotente, onnisciente... ma, dice l’evangelista Giovanni, è Amore, cioè relazione e vita data gratis, che comincia dal riconoscere all’altro il valore assoluto che pretendiamo sia solo nostro, proprio perché in relazione a Dio siamo tutti paradossalmente «fratelli unigeniti», ognuno necessario (unico) e relativo (cioè in relazione, collegato). Dio non è dove c’è il potere religioso e purtroppo spesso la religione si riduce ad apparato di potere, ma dove c’è un modo nuovo di vivere le relazioni con gli altri e con il mondo: non sono dettate dal controllo e dalla paura ma dalla libertà e dalla ricerca comune di senso. La religiosità autentica fa nascere l’io compiuto, aggiunge una d- a -io, perché Dio è la possibilità di creare relazioni vere. Dio c’è solo dove uno diventa custode dell’altro e il sangue di Abele smette di scorrere
Cosa ti rende vivo?
Alessandro D'Avenia
Il mondo in cui viviamo ci illude che possiamo essere e volere tutto, che essere liberi sia avere scelte infinite, ma questo accade, illusoriamente, solo al supermercato. Noi i destini non li possiamo comprare, ma solo ricevere. Il consumismo scambia le scelte infinite per libertà, mentre veramente libero è solo chi, messo in condizione di ricevere la verità, poi la sceglie, cioè sceglie di essere chi solo lui può essere. Non è vero che hai illimitate scelte, è vero piuttosto che tu hai un destino da trasformare in destinazione, e il mondo comincerà a splendere, non della luce falsa delle illusioni come era disposto ad accettare, pur di sopravvivere alla noia, il diciannovenne Leopardi nella lettera a Giordani da te citata, ma della luce che hai già in mano e non devi puntare invano sull’intera valle oscura in cui cammini, ma sul prossimo passo. La vita ti verrà incontro nella misura in cui le andrai incontro, con coraggio, perché può aver coraggio solo chi ha paura, così come può guarire solo chi ha dolore. Che cosa puoi essere e fare solo tu? A che cosa sei chiamata? Perché sei venuta al mondo? Non concentrarti su ciò che il mondo si aspetta, ma su ciò che ti rende viva, perché il mondo ha bisogno di persone vive.
E allora, se spiritualità è fare ciò che serve a trasformarsi per vedere la verità, coltiva la tua vita spirituale (o cuore), cioè fai pratica ed esperienza di ciò che ti rende viva. Non aspettare di avere anni di vita, ma metti vita nei tuoi anni. A poco a poco ti trasformerai, cioè abbandonerai le illusioni di destino, per abbracciare il tuo. La vita autentica infatti ha due movimenti: liberazione e scoperta. Elimina ciò che ti fa sentire morta, coltiva ciò che ti fa sentire viva. Due movimenti accompagnati da un inevitabile timore: rinunciare a ciò che rassicura ed esplorare l’ignoto. Posso dirti che in me avviene questa trasformazione verso la verità quando leggo, prego, scrivo, mostro le mie fragilità a chi mi ama o le accolgo, cerco bellezza nel quotidiano, cammino nella natura, faccio sport, cucino per qualcuno, faccio una lezione... Ma per fare queste cose ho dovuto prima liberarmi da altre che mi davano l’illusione di essere vivo, facendomi perdere tempo o avvelenandomi.
Che cosa ti rende viva e rende vivo il mondo attorno a te? Quanto tempo dedicherai oggi a questo? La risposta non la troverai fuori, nel supermercato delle false esistenze felici, ma fiorirà in te e da te, nel tempo, perché avrai coltivato la tua umanità, cioè il tuo cuore. Mentre scrivo i rami spogli di un albero tagliano un cielo grigio e piovoso: la sua vita è solo nascosta, lavora senza sosta. Sembra morto, ma è solo raccolto. È il suo ballo del qua. E anche tu scoprirai, in questo inverno dello spirito, che la linfa che cerchi non è altrove, è nella tua carne. Non scappare, raccogliti. La stagione dei frutti arriverà a tempo debito e nutrirà molti. Tu balla, qua.
Le parole che diventano melodia, la lezione di Allevi a Sanremo
Il pianista e compositore Giovanni Allevi è tornato a suonare davanti a un pubblico dopo due anni di stop per la malattia, il mieloma multiplo, una neoplasia cronica che non si vince mai. Incantando il pubblico dell'Ariston con la sua umanità e il suo sorriso, ha detto: "All'improvviso mi è crollato tutto. Ho perso il lavoro, i capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare”.
Ha elencato i doni inaspettati che gli ha porto il dolore, e ha raccontato che all’inizio della sua carriera ha suonato davanti a 15 persone ed era felicissimo, perché “dopo la malattia so che è un dono suonare davanti a 15 persone. I numeri non contano perché ognuno di noi è unico irripetibile e a suo modo infinito”.
"Quando non c'è più certezza del futuro, ha affermato, bisogna vivere più intensamente il presente. È come se avessi strappato alla mia fine una manciata di anni e voglio viverli più intensamente possibile”. “Se nei mesi scorsi mi avessero detto che sarei stato qui oggi a suonare, non ci avrei mai creduto. E poi, se posso, per dare un po' di forza e speranza agli altri pazienti perché loro me la danno e voglio ricambiare con la stessa forza ed energia. La malattia coinvolge direttamente o indirettamente molti di noi”.
Queste parole di sapienza umana, spirate da un’esperienza di dolore, vissuta con speranza e coraggio, non possono non far riflettere. Per Allevi, l'accettazione del dolore non è una scelta di rassegnazione. È una scelta di coraggio, che accetta nella propria vita la presenza di un altro, un “ospite”, come talvolta viene chiamato il tumore.
Ma, per chi ha il dono della fede, è anche una scelta di profezia, che, sempre nella stessa vita, accetta la presenza di un Altro, sia nel suo inizio che nella sua fine. La vita non ci appartiene. Essa non ha avuto inizio quando lo abbiamo deciso noi, e non ha termine neppure quando lo stabiliamo noi.
L'esistenza umana è come la volta del firmamento sulla quale appendiamo le stelle dei nostri desideri e dei nostri progetti, la tela sulla quale disegniamo i contorni del nostro futuro. Ma questo firmamento, questa immensa tela celeste sulla quale disegniamo il mosaico della nostra vita e della nostra felicità ci sono stati concessi solo in prestito. Non ci appartengono.
Questo è il limite fondamentale della creaturalità, che include tutti gli altri limiti, i quali, in qualche modo, sono da esso derivati. Se si accetta questo limite fondamentale, si accettano anche gli altri limiti da esso derivati. Possiamo affermare che, secondo una prospettiva di semplice ragione, l'uomo è ciò che diviene, e, secondo questa prospettiva, egli non accetta la presenza di un Altro nella propria vita. Egli non conosce altro punto di partenza, per i suoi progetti e per i suoi orientamenti esistenziali, che la propria autonoma esistenza.
Secondo una prospettiva di fede, invece, l'uomo diviene ciò che è. In questo caso, egli accetta che all'inizio della sua vita ci sia il disegno di un altro. Questo disegno non è attinto nel campo dell'esperienza umana, ma affonda le sue radici nell'eternità, nel cuore stesso di Dio. Divenire ciò che si è significa accettare di realizzare il progetto di un altro, nella convinzione che, nella misura in cui si accetta il progetto di un altro, si accetta il proprio progetto, si è fedeli a se stessi, si realizza se stessi. È proprio vero che per essere se stessi, bisogna essere di un Altro. Ciò significa, però, che non basta essere per vivere, ma bisogna vivere per essere.
In ultima analisi, la vita umana è un disegno a quattro mani: le due mani invisibili di Dio e le due mani visibili dell'uomo. Insieme esse disegnano una vita, che è frutto di due amori ed opera di due libertà. Le mani di Dio non operano da sole. Ma nemmeno le mani dell'uomo operano da sole. Dio opera per mezzo dell'uomo, e l'uomo agisce sotto la guida invisibile di Dio. Il mosaico che risulta da questa duplice paternità è contemporaneamente aperto al futuro di Dio e alla libertà dell'uomo.
Questa duplice paternità, però, non è facile da accettare e costituisce uno dei più forti misteri della vita umana. Infatti, in base a questa duplice paternità, l'uomo è soggetto ed oggetto allo stesso tempo: soggetto della sua risposta di libertà, oggetto della chiamata creatrice di Dio.
La differenza che esiste tra soggetto e oggetto, tra il progetto stabilito dal cuore di Dio e la sua attuazione da parte del cuore dell'uomo, tra quello che si è in realtà e quello che si vorrebbe essere secondo il proprio desiderio, si traduce indirettamente in una nostalgia della trascendenza.
Il differire della perfezione nel tempo e il differire dalla perfezione nella concretezza della vita segna la distanza che intercorre tra l'eternità e la storia, tra l'infinito e il tempo, tra Dio e l'uomo. Esso, qualora sia vissuto ed accolto positivamente, contribuisce ad acuire il desiderio e la nostalgia della patria futura più che ad alimentare la rassegnazione del tempo presente.
Ignazio Sanna
teologo e arcivescovo emerito
Alessandro D’Avenia "Toccare il cielo con un dito. Un felice paradosso."
Chinarsi sulle ferite
La scorsa settimana Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò ci ricordava che la dimensione religiosa è necessaria a umanizzarsi, dove c’è trascendenza si diventa uomini (sono le prime sepolture a dirci che qualcosa di mai visto è apparso sulla Terra). Sapere che esistano cose immortali non è difficile, si lamenta il personaggio pavesiano del dialogo Le Muse, ma «toccarle è difficile», cioè trovare l’infinito nel finito, l’assoluto nel relativo, il sempre nel qui e ora. La Musa risponde che il segreto è vivere per esse, avere cuore puro, cioè trasparente, fecondo, gioioso, innamorato, danzante. Il cuore dell’uomo desidera «toccare» ed «essere toccato» dall’eterno per non soccombere allo scorrere del tempo che conduce tutti alla morte.
Dal relativizzare il tempo dipende la fisica della felicità, non a caso diciamo felici i momenti in cui sembra che l’eterno entri nell’istante, quando la vita è talmente viva che dobbiamo ricorrere a un’espressione poetica: il tempo si è fermato. Accade quando ci innamoriamo, creiamo il nuovo, assistiamo al meraviglioso... Beatitudini che vorremmo perenni e paragoniamo al «toccare il cielo con un dito» o al «cielo in una stanza». E se la settimana scorsa Pavese suggeriva di salire simbolicamente in montagna per avvicinarsi a un cielo divenuto distante, mi chiedo oggi: c’è modo di far venire il cielo a noi, che sia lui a toccare noi quando siamo a valle? Per rispondere mi servirò di un testo che ritengo essere un’iniziazione alla vita felice, a prescindere dall’essere o meno credenti.
Alla fine del vangelo di Giovanni, c’è un personaggio, Tommaso, che, assente al momento in cui il risorto sorprende i suoi amici riuniti a compiangerlo, afferma che non crederà mai alla resurrezione di Cristo, a meno di non «toccarne» le ferite. In Tommaso ci siamo tutti noi, vogliamo fare esperienza del metodo per vincere la morte già in vita, solo questo darebbe senso a tutto, persino al morire. E così, narra Giovanni, una settimana dopo, Cristo si mostra a Tommaso, invitandolo a fare ciò che desiderava: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non mostrarti più incredulo ma fiducioso!» (Gv, 20).
Non è un rimprovero da catechismo per bambini ma un invito a toccare l’eterno e la gioia per cui il cuore è fatto, attraverso un paradosso: la porta di scambio tra l’infinito e il finito sono «le ferite». È proprio dove moriamo che il divino si fa toccare. La via di accesso al cielo non è la potenza, e per questo, in una cultura in cui è vero ciò che è potente ed è più vero ciò che è più potente (dall’archibugio alla bomba atomica), è diventato assai difficile toccare Dio, perché le ferite, i limiti, di ogni specie (esteriori e interiori), sono il contrario della potenza, sono divenuti privi di senso, e se gliene diamo uno è purtroppo quello di colpa.
In Giovanni invece c’è una prospettiva spiazzante per la vita quotidiana. Vuoi credere al fatto che le cose morte possano rinascere? Metti il dito nella tua piaga, non cercare la felicità nella potenza, nell’apparenza, nella forza, perché queste cose si procurano a fatica, non sono mai garantite del tutto e svaniscono, mentre i limiti li hai già, a portata di mano, gratis e sino alla fine. Il cielo è lì. Metti il dito nella piaga degli altri, non per farli soffrire, ma per curarli, non cercare la loro influenza, luce, forza, per poter esistere, ma la loro fatica: chiedi come stanno, che cosa li fa soffrire. Il cielo è lì. Le ferite di Cristo sono nelle mani, nei piedi, nel costato, ferite dello stare (chi sei?), del fare (che fai?) e delle relazioni (che o chi ami?). Ma sarà vero che il cielo è nella «ferita» e non nella «potenza», che l’infinito e il finito si toccano in una cicatrice?
Lo sperimento quando mi chino sulle fragilità dei miei studenti, non solo nei momenti di particolare fatica, ma in generale perché l’adolescenza è una «ferita» che brucia alla ricerca del senso delle cose, di un posto nel mondo, della propria identità. In ambito educativo i veri innovatori, da Socrate a Montessori, sono stati infatti quelli che si sono chinati sulle ferite, e lo stesso è accaduto in ambito medico, economico, politico... Lo sperimento anche quando tocco una mia ferita e invece di vergognarmi o disprezzarmi perché non sono «abbastanza», provo ad amare ciò che mi rende unico, per renderlo occasione creativa (un pensiero nuovo, una nuova pagina) o di relazione (chiedo aiuto o riconosco amico chi ha la stessa fragilità). Chi sono gli artisti se non persone che si sono tuffate nelle proprie e altrui ferite per capirle e magari curarle? Come Etty Hillesum.
La settimana scorsa, nella Giornata della Memoria, ho riletto alcune righe del Diario di questaragazza ebrea morta ad Auschwitz, righe in cui mostra ciò che cerco di dire: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». Non incolpa Dio, attribuendogli il male o il silenzio che per molti è prova della sua inesistenza, indifferenza o crudeltà, ma parte proprio dall’impotenza di Dio per trovarlo, è lì dove lei è. Il Dio che tace, una parola l’ha detta: te. Infatti Hillesum, riferendosi al ruolo di educatrice per i figli dei deportati, prosegue: «Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere. E io, sono io già abbastanza avanti da poter dire sinceramente: spero di andare al campo di lavoro, per poter essere di appoggio alle ragazze di sedici anni che ci vanno? Per rassicurare i genitori rimasti indietro: non siate inquieti, io vigilerò sui vostri figli».
Lei diventa la parola di Dio. Eterno e finito si toccano e le parole si rinnovano dove l’amore è portato nel mondo attraverso la nostra carne: è l’amore a relativizzare il tempo, a fermarlo, proprio dove «siamo». Il divino è nell’impotenza che interpella e risveglia la nostra libertà e creatività, possiamo essere noi il cielo per molte dita. Cristo infatti dice che se diamo (o no) un bicchiere d’acqua a chi ne ha bisogno lo diamo (o no) a lui stesso: dissetare Dio, negli altri, è essere uomini. E nel farlo diventiamo noi eterni, cioè capaci di stare nelle situazioni senza soccombere, anzi riempiendole di senso e di miracolo. Di fronte a uno studente in crisi che cosa invento? Di fronte a una mia crisi che cosa invento? Cioè come posso ricevere e tradurre in azione l’amore che può entrare nel mondo proprio da questa frattura nella superficie uniforme dell’indifferenza? Ogni ferita è una potenziale porta di scambio con il cielo, perché l’amore è l’unica forza capace di relativizzare la morte. Lo dice l’ultimo pensiero scritto da Hillesum: «Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa? Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Erano così affamati... Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». E se il tempo si è fermato, leggendo le sue parole, è perché lei «ha creduto» in una vita nuova, proprio lì dov’era, come Tommaso: «Perché non mi hai fatto poeta, mio Dio? Ma sì, mi hai fatto poeta, aspetterò pazientemente che maturino le parole della mia doverosa testimonianza: cioè che vivere nel Tuo mondo è una cosa bella e buona, malgrado tutto quel che ci facciamo reciprocamente noi uomini».
Piccola fenomenologia della carezza
(a mio padre)
Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.
Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.
La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.
La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.
Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.
La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.
Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.
Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.
La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.
Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.
È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.
La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.
E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.
Mario Domina
Una dimensione dell'invisibile nel visibile: la carezza
Emmanuel Lévinas
“La carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire mai abbastanza avvenire nel sollecitare ciò che si sottrae come se ‹non fosse ancora›. Essa ‹cerca›, fruga. Non è un’intenzionalità di svelamento, ma di ricerca: cammino nell’invisibile. In un certo senso ‹esprime› l’amore ma soffre per un’incapacità di dirlo. Ha fame di questa espressione stessa, in un continuo incremento di fame. Va dunque al di là del suo termine, è tesa al di là di un ente, anche futuro, che, appunto in quanto ‹ente›, bussa già alla porta dell’essere. Nella sua soddisfazione, il desiderio che l’anima rinasce, alimentato in qualche modo da ciò che ‹non è ancora›, e ci riporta alla verginità, eternamente inviolata, del femminile. Questo non significa che la carezza cerchi di dominare una libertà ostile, di farne il suo oggetto o di strapparle un consenso. La carezza cerca al di là del consenso o della resistenza di una libertà ‹ciò che non è ancora›, qualcosa che è «men che nulla» che sta come rinchiuso e sopito al di là dell’‹avvenire› e, quindi, sopito in modo completamente diverso dal ‹possibile› che si offrirebbe all’anticipazione. La profanazione che si insinua nella carezza risponde in modo adeguato all’originalità di questa dimensione dell’assenza. Assenza diversa dal vuoto di un niente astratto: assenza che si riferisce all’essere, ma vi si riferisce a modo suo, come se le «assenze» dell’avvenire non fossero avvenire, tutte allo stesso livello e uniformemente.”
EMMANUEL LÉVINAS (1906 – 1995), “Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità” (1961), introduzione di Silvano Petrosino, trad. di Adriano Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2006 (sesta ristampa della II ed. 1990, I ed. 1980), Sezione quarta ‘Al di là del volto’, B. ‘Fenomenologia dell’eros’, p. 265.
Come amare nel rispetto della libertà dell’altro
Valerio Stagno
Molte volte facciamo coincidere con l’Amore un sentimento di proprietà e di appartenenza, saltando il livello della libertà che rappresenta il luogo stesso dove l’Amore vive e ha bisogno di vivere. L’eros vive al suo interno una condizione di continua ambiguità equivocando, all’interno della relazione etica come metafisica, tra l’immanenza e la trascendenza, passando dall’altruismo all’egoismo e rischiando continuamente di trasformare il desiderio metafisico, dell’invisibile, mistero in cui si racchiude l’enigma della femminilità, in bisogno fisico del visibile che si esprime nella voluttà e nel godimento. La partita dell’eros come relazione che mantiene la metafisicità, rischiando continuamente di perderla, viene giocata tutta nel desiderio dell’intimità erotica attraverso la ricerca della nudità senza profanazione.
Come scrive Sergio Labate, ricercatore in filosofia teoretica all’Università di Macerata: “andando incontro all’amata, l’amato desidera di approfondire il mistero, di instaurare una relazione al di là del volto; percepisce che questo desiderio si può esaudire come profanazione […], ma se questa relazione è oltre l’egoismo, nella sfera della gratuità, desidera ancora più fortemente che la relazione con l’infinito mistero celato nella nudità dell’amata avvenga senza profanazione, o come profanazione che pure lascia lo spazio perché ciò che è profanato sia mantenuto nella sua essenza di intoccabilità, di improfanabile”[1].Questa tensione desiderante che muove l’attenzione del desiderio su se stesso “per non decadere in semplice bisogno”[2], si traduce nella concretezza nell’evento della “carezza”. Questa indica a pieno titolo “il movimento dell’amante di fronte alla debolezza della femminilità, che non è, né pura compassione, né impassibilità, ma si compiace di questa compassione”[3], ponendosi come esperienza profonda della relazione erotica, in quanto relazione con la trascendenza, la quale allo stesso tempo cerca continuamente il contatto con l’intimità della nudità.
La carezza come momento della concretezza dell’eros, e come contatto con l‘altro, “è sensibilità”[4] , ma non di una sensibilità qualsiasi tale da restare imprigionata nella forma tutta immanente di un estetismo senza evoluzioni, ma di una sensibilità che attraverso la carezza, “trascende il sensibile”[5], non in un modo tale “che essa senta al di là del sentito, più profondamente dei sensi, né significa che essa si impadronisca di un cibo sublime, […], un’intenzione di fame che si dirige sul cibo che si promette e si dà a questa fame, la scava, come se la carezza si nutrisse della propria fame, al contrario, la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire-mai abbastanza avvenire-nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora”[6]. Amando l’amata, la carezza “ama il trascendente celato nel non-ancora-essere dell’amata”[7] permettendo così all’amato di donarsi all’amata in un “desiderio senza voluttà”[8] proponendosi come un atto profanatore di ciò che non può essere profanato, perché per natura improfanabile. Nonostante questo, la carezza è il segno tangibile della non “rinuncia alla comunicazione segnica corporea, non spirituale”[9] che traccia i confini di “un incontro integrale e paradossale, corpo e trascendenza uniti l’uno come desiderio che desidera la trascendenza, l’altra come trascendenza che si dona al desiderio come nudità o intimità”[10]. Quindi l’eros seppur interpretato in chiave prettamente metafisica, non rifiuta l’esperienza della corporeità che con la carezza viene descritta come “l’azione di una mano diretta dal desiderio verso l’intimità dell’amata, in un contatto del tutto sensibile con la pelle nuda, profanazione dell’intimità di Altri”[11]. Tuttavia se fosse solo questo, la carezza perderebbe di eticità e quindi di metafisicità, avvicinandosi invece sempre più ad una relazione di tipo ontologico, tale che il contatto tra io e Altri perderebbe la nozione di separazione da cui è caratterizzata la prossimità. Senza dubbio ciò che nella carezza è interpretato come voluttà, e cioè l’appetito della soddisfazione sensuale, “non viene soddisfatto nella pienezza di un compimento”[12], in quanto, in questo tipo di relazione che si viene a creare, con la carezza erotica, io non possiederò mai ciò di cui sento il bisogno[13] perché “l’appetito sensuale o il bisogno si soddisfano della nudità dell’amata, ma non si saziano di essa – soddisfazione che non coincide mai con il nutrimento”[14] o meglio coincide con un nutrimento del tutto particolare[15], che resta allo stadio dell’appetito, “che si sazia della sua fame”[16], “di una fame che rinasce all’infinito”[17] in quanto rivolto più che al cibo alla sua assenza, nella quale la carezza come non-ancora-essere trova la sua intenzionalità. Cosi la relazione etica in eros, non solo è salvata, non potendo essere assolutamente compresa, ma l’alterità “resta intatta nella sua nudità”[18], nella misura in cui l’Amata “si mantiene nella sua verginità”[19], nella notte dell’erotico, nella quale nello stesso istante in cui scoperto Eros, Eros sfugge “per esprimere in modo diverso la “profanazione”.
[1] S. LABATE, La sapienza dell’amore, Cittadella Editore 2007 cit., p. 150.
[2] Ibidem.
[3] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book – Milano, 1971, p.264.
[4] Ivi, p. 265.
[5] Ivi, p. 265.
[6] Ibidem.
[7] S. LABATE, La sapienza dell’amore, cit., p. 151.
[8] Ibidem.
[9] Op. cit., p. 151.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 152.
[12] Ibidem.
[13] “La carezza erotica non cerca una comprensione concettuale dell’altro; sull’orlo della profanazione dal di dietro del pudore, appare l’Altro non come oggetto del bisogno, ma come oggetto di un bisogno particolare tracciato dal desiderio dell’Altro, il bisogno voluttuoso.” A. JARNUSZKIEWICZ, Separazione e prossimità, cit., p.116.
[14] S. LABATE, op. cit., p.152.
[15] “L’amore è caratterizzato da una fame fondamentale e inestinguibile”, E. LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 37.
[16] Ibidem.
[17] Il tempo e l’altro, op. cit., p. 58.
[18] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.
[19] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.
Attesa e speranza
Jean D'Ormesson
Se non avessimo la certezza, o l'illusione, di essere liberi, se non avessimo comunque la sensazione di esserlo, cosa faremmo? Niente di niente. L'uomo è libero di agire. Di essere Alessandro o Diogene, Diderot o Marie Curie. O, più spesso, M. Homais, M. Pipelet, M. Prudhomme o Mme Verdurin. Non viviamo nel passato. Viviamo a malapena nel presente.
Viviamo nell'attesa e nella speranza del futuro.
Quando non c'è futuro e non c'è speranza, la morte è già qui.
Viviamo nel futuro perché viviamo. Tutta la vita è magnetizzata, attratta dal futuro. Il passato ci sostiene e ci tiene al limite, ma il futuro ci risucchia.
Siamo solo memoria e siamo solo progetto.
Il tutto non è mai stato altro che un'immensa speranza. Il Big Bang spera nella Terra, nel Sole e nella Luna. La Terra attende e spera nella vita. La vita attende e spera nell'uomo. L'uomo, che è emerso dal tutto, dalla Terra, dalla vita, si aspetta tutto dalla vita, dalla Terra e dal tutto. Forse si potrebbe sostenere, non so, che l'eternità aspetta e spera nel tempo? Il tempo attende l'eternità.
La speranza è la più grande e la più bella delle virtù, più grande della fede che solleva le montagne, più grande della carità che dà senso a tutto, perché è la speranza che ci lega alla vita. È la traduzione metafisica e morale della forza che abita e anima tutti gli esseri: il desiderio. L'uomo ha il desiderio di mantenersi nell'esistenza e di perseverare nell'essere. Quando questo desiderio scompare - e di tanto in tanto scompare - la disgrazia si abbatte su di noi. Finché c'è, invece, guardiamo al domani. Nonostante i dispiaceri, le sofferenze, le lezioni del passato, la stanchezza di una storia sempre nuova e sempre uguale, ci buttiamo con avidità nel futuro. Questo è ciò che chiamiamo speranza.
La malinconia suscitata da un presente che crolla continuamente nel passato è riscattata dall'impazienza e dall'euforia di vedere finalmente il futuro diventare presente. Nonostante l'angoscia della prima vita e la sua improvvisa disperazione, questa euforia e questa impazienza sono proprie soprattutto della gioventù, che è il sale della terra: si aspetta tutto dal mondo. Implacabile e così bello, il mondo è fatto solo di mattine e solo di bambini.
La giovinezza, l'impazienza, il desiderio e la speranza danno all'insieme il suo splendore.
C'è una tristezza straziante e una bellezza serale. In verità, non c'è nulla nell'insieme che non sia bello. Anche i ragni, le vipere, le meduse, il tradimento, la menzogna, l'ingiustizia e il crimine hanno la loro bellezza. Lucifero era bello. E la morte è molto bella. Ma non c'è niente di più bello del desiderio di vita e della speranza dei figli a cui passiamo un testimone che a loro volta passeranno ai loro successori. La speranza è come un riflesso dell'eternità. Un riflesso ironico. Ma pur sempre un riflesso. Se il futuro non fosse speranza, il mondo sarebbe un inferno. E si fermerebbe. Ma crudele, ingiusto, spesso disperato, quasi sempre deluso, il mondo, nonostante tutto, è prima di tutto speranza. E va avanti.
(Da: Presque rien sur presque tout)
(traduzione, ahimé, con deepl.com... ma sembra sensata)
Riscattarsi da ogni avvilimento ma senza passare sopra gli altri
Pierangelo Sequeri
Nella nostra memoria, ancora risuona l’associazione dell’onore con la violazione sessuale della donna, che ne porta lo stigma persino quando ne è vittima (“disonorata” non come participio passato che rinvia la censura all’aggressore ma come aggettivo che getta una macchia indelebile sulla vittima!).
E non ne siamo ancora fuori, a quanto pare. Questa memoria della perversione dell’onore, non del tutto estinta, continua ad avere riscontro in molte retoriche e in molte pratiche. Non riguarda solo le donne (Anche se la violenza sulle donne continua a rappresentare un punto di attrazione – reale e simbolico – che salda, paradossalmente, l’umiliazione e la riparazione sotto il “delitto d’onore”). Le ferite dell’onore hanno un raggio assai ampio di pertinenza: nella sfera dei rapporti individuali e familiari, come nei rapporti fra i popoli e le nazioni. L’onore, insomma, porta con sé l’ombra oscura – ma per alcuni luminosa – di una questione di vita e di morte. Questa ombra appare nella storia di tutte le civiltà e culture, intercettando inevitabilmente la dimensione del sacro. Le guerre di religione sono guerre d’onore. L’oltraggio iscritto nella profanazione dell’inviolabile, la lesa maestà dell’offesa irreparabile del dio, si identificano automaticamente con il peccato mortale, nel senso più letterale del termine. (La sua sanzione – ancora oggi! – giustifica automaticamente la pena capitale). Infine, il delitto d’onore del Faraone è sempre giustificato: a priori e a prescindere.
Nella nostra società mediatica, l’onore è attribuito e tolto ancora più facilmente: con poco, e anche per futili motivi. La complicità mimetica ed esplosiva dell’anonimato degli impuniti (i “leoni da tastiera”) ne moltiplica gli effetti devastanti: affina le tecniche, modifica i mercati, genera mostri (come se non ce ne fossero già abbastanza). E comportamenti disonorevoli, che incitano alla perse-cuzione e all’odio degli indifesi, si conquistano facile seguito: producono assuefazione, e persino ammirazione con un semplice clic. La novità contemporanea – non l’abbiamo neppure vista arrivare, ma ormai è qui – sta proprio nella straordinaria abilità con la quale la retorica postmoderna mescola l’ideologia del rispetto universale e il dogmatismo dell’opinione persecutoria. Il prestigio e l’impunità si avvicinano molto: fino a scambiarsi i ruoli. Nello stesso tempo, nessuno è al riparo dalla gogna del disonore: la circolazione del disprezzo produce le sue conseguenze molto al di là dell’accertamento di merito. Insomma, per quanto possa essere imbarazzante – e persino doloroso – ammetterlo, “onore”, “dignità” e “ rispetto”, sono diventati radicali molto liberi, per così dire: attendono di saldarsi con il riconoscimento, prendono distanza dalla giustizia. Lo spostamento era stato puntualmente previsto (Hegel). Nella tarda modernità, la lotta per la giustizia ha incominciato a mostrare una forte tendenza a essere sostituita dalla lotta per il riconoscimento (Nietzsche). Il diritto al riconoscimento è certo anche il tema di una nobile battaglia civile: ma, associato all’abbandono della ricerca di una giustizia condivisa, esalta la competizione per l’affermazione di sé e rende insensibili all’avvilimento dell’altro. Nella nostra attuale fase culturale, anche i grandi temi dell’emancipazione moderna e progressista, tradizionalmente legati al riscatto sociale dell’avvilimento umano, hanno subìto una grande erosione. La ricerca della giustizia di una convivenza solidale ha incominciato a spostarsi verso il riconoscimento legale del desiderio autoreferenziale. Il diritto all’affermazione di sé, che non si cura minimamente della giustizia per l’altro, si lascia facilmente declinare nella retorica della giustificazione di condotte possessive e aggressive, prevaricanti e predatorie. E così è successo. Il crescente anonimato burocratico delle regole di convivenza civile consente una larga diffusione di forme perfettamente legali di legittimazione della prepotenza dei forti e della umiliazione dei deboli. (Nella mia personale scala gerarchica dell’insopportabile non c’è la rapina in banca per ottenere denaro facile: c’è l’umiliazione del cameriere, solo perché è un cameriere. Un paradosso, lo so: ma la madre di tutti gli avvilimenti, dal conflitto domestico alla guerra religiosa, nasce così).
Vi faccio qualche esempio semplice e un po’ rozzo (ma non insignificante, per me, dell’insidia strisciante dell’avvilimento). Siamo orgogliosi del nostro progresso nelle scienze della cura. Bene. E come mai è cresciuta la vergogna sociale di essere “molto” malati, che ci costringe a nasconderlo (perché forse “ce la siamo cercata”, con uno stile di vita sbagliato)? Dobbiamo dissimulare il disagio, per non essere tagliati fuori dal consorzio dei più sani e più belli (oppure a esibire con spavaldo stoicismo la nostra assicurazione che stiamo lietamente togliendo il disturbo). Lo stigma di una maledizione divina non era una cosa arcaica? La sua versione secolarizzata è forse meno umiliante? Un altro esempio. Siamo fieri del nostro progresso nella minuziosa organizzazione della sfera pubblica. Bene. E come mai ci accade di essere commossi fino alle lacrime per un raro funzionario che si intenerisce delle nostre inutili peregrinazioni agli sportelli, senza mostrare disprezzo per la nostra inettitudine a comprendere istruzioni deliranti e modulistiche kafkiane? Un ultimo esempio, di casa nostra. La nostra coscienza ecclesiale è piacevolmente evoluta: l’uguale dignità battesimale, la partecipazione comunitaria, e ora lo stile sinodale. Molto bene. Ma è proprio necessario incalzare la moltitudine di coloro che già considerano un miracolo trovare nella fede un sostegno per la vita e per l’amore, che sentono a rischio ogni giorno, ossessionandoli per una fede mai abbastanza matura e per un amore mai abbastanza eroico? L'onore viene, in primo luogo, dal contrasto dell’avvilimento: dovunque si nasconda. Se manca questo, è sicuramente sospetto. Nella nostra costellazione sociale è sempre più facile che un riconoscimento privo di ogni giustizia offra legittimazione ad ambizioni che non lo meritano. L’onore va riservato a quelle doti relazionali che rendono abitabile ai più indifesi l’umanità che ci è comune. L’evento fondatore della fede cristiana va a stanare l’equivoco – spesso intenzionalmente aggravato – dell’onore di Dio mal riposto, collocando la giustizia del voler-bene di Dio proprio nei luoghi in cui l’avvilimento estremo dell’umano è ignorato, conculcato, disprezzato persino. La povertà insanabile, la malattia incurabile, la marginalità sociale, l’estraneità religiosa, sono sospinte (anche oggi!) verso la soglia della colpa, di cui vergognarsi. Capite allora che cosa significa “opzione preferenziale” per i poveri, gli abbandonati, gli invisibili della comunità? Non è un programma sociale di redistribuzione della ricchezza (obiettivo per altro più che apprezzabile, intendiamoci). Piuttosto, è l’annuncio – impensabile – di una redenzione dell’umano, che – in nome di Dio – ne combatte l’avvilimento: ossia il marchio di una vita senza dignità e senza speranza. La giustizia dell’amore di Dio, predicata e praticata da Gesù, non si limita ai segni forti della liberazione dal male. Cancella l’avvilimento, che annienta il soggetto. L’avvilimento, che toglie dignità all’umano, è un buco nero. La mortificazione che esso aggiunge alla privazione e all’abbandono è il delitto più grave dell’uomo sull’uomo. La disposizione a godere dell’avvilimento dell’altro è l’ombra oscura dell’intera condizione umana: capace di trascinare l’intera storia verso l’abisso. Il cristianesimo non potrebbe ritrovare l’ironia fulminante di Gesù nei confronti dei lapidatori ipocriti della donna adultera? E testimoniare la passione con la quale il Cristo crocifisso onora il gesto del ladrone che ha compassione del suo avvilimento? L’onore della comunità umana non si decide forse nei luoghi dell’umano avvilimento? L’onore di Dio, Gesù lo decise proprio lì.
"Quali parole diventano destino? Lo decidiamo noi?"
Alessandro D’Avenia
Nel primo appello dell’anno 2024 ho invitato ciascuno dei miei studenti di quinta al consueto gioco di scegliere una parola per l’anno nuovo.
Le parole che ci abitano diventano nell’ordine: pensieri, azioni, carattere, destino, in una parola, carne. Quindi scegliere la parola che deve farsi carne mi sembra essenziale per difendersi dalle parole che la cultura dominante ci impone. Dove c’è il vuoto interiore è lo spirito del tempo a occuparlo, perché abbiamo bisogno di legami con il mondo, ma così rischiamo di accettare i fili di cui cantava Bennato nel 1977: «E’ stata tua la colpa allora adesso che vuoi/ volevi diventare come uno di noi/ e come rimpiangi quei giorni che eri/ un burattino senza fili/ e invece adesso i fili ce l’hai!». Le parole possono essere fili che soffocano, come mostrano i recenti fatti di cronaca, parole dette con superficialità e ampliate da un sistema mediatico vorace e spietato. Quale parola avrebbe guidato ognuno dei miei studenti nell’anno che li porterà nella tappa di vita per cui sono serviti 13 anni di scuola? È stato interessante raccogliere le loro scelte per poterle magari rispolverare lungo i prossimi mesi. La parola è chiamata a farsi vita, ma se la parola che domina la mia interiorità è «successo» la mia vita sarà di un tipo, se è «gioia» sarà di un altro. Quali parole si stanno facendo carne in noi? Ma poi hanno veramente questo potere?
Bruce Chatwin racconta nel libro «In Patagonia» che il missionario anglicano Thomas Bridges per spiegare il vangelo agli aborigeni della Terra del Fuoco compilò un dizionario della lingua Yaghan, popolo di pescatori di quei fiordi. Si rese presto conto che mancavano i concetti astratti di cui aveva bisogno, perché in quella lingua tutto era concreto: la monotonia si indicava con l’assenza di amici maschi; la depressione con la fase vulnerabile del granchio che, perso il guscio, aspetta che cresca il nuovo; pigro deriva da un tipo di pinguino; adultero da un falchetto che svolazza qua e là per scagliarsi poi sulla vittima; il singhiozzo è un groviglio di alberi caduti; la vecchiaia è come le cozze (il loro cibo base) fuori stagione. Fu proprio Bridges a chiamarli «Yaghan» dal nome di un luogo, ma loro si riferivano a se stessi come Yámana che, come verbo, significa «vivere, respirare, essere felice, guarire o essere sano» e, come nome, «persone» in contrapposizione ad animali. Concludeva Chatwin, per spiegare l’assurdità di sottrarli ai luoghi natii: «le associazioni metaforiche che formavano il loro terreno mentale incatenavano gli indios alla loro terra natale con legami che non potevano essere spezzati. Un territorio della tribù, per quanto scomodo, era sempre un paradiso». Lingua e parole che usiamo ci ancorano a una terra simbolica che è la nostra patria. Come è la terra delle nostre parole? Che patria abbiamo? Mi è tornato in mente l’articolo in cui Lera Boroditsky, professoressa di scienze cognitive a Stanford, mostra come la lingua modella il pensiero: «Sono accanto a una bambina di cinque anni a Pormpuraaw, comunità aborigena nel nord dell’Australia. Quando le chiedo di indicare il nord lo fa con precisione e senza esitare: la mia bussola conferma. Tornata in un’aula alla Stanford University, faccio la stessa richiesta a un pubblico di eminenti studiosi: chiudere gli occhi e indicare il nord. Molti si rifiutano o non sanno rispondere. Coloro che lo fanno ci pensano a lungo e poi puntano il dito in tutte le direzioni possibili. Ho ripetuto l’esperimento a Harvard e Princeton, a Mosca, Londra e Pechino, ottenendo sempre lo stesso risultato. Una bambina di cinque anni in una cultura può fare con facilità ciò che eminenti scienziati faticano a fare in altre. È una gran differenza nelle abilità cognitive. Come si spiega?». La risposta sembra essere la lingua: «A differenza dell’inglese, la lingua parlata a Pormpuraaw non utilizza termini spaziali relativi come sinistra e destra. Ci si esprime in termini di punti cardinali assoluti (nord, sud, est, ovest). Anche in inglese li utilizziamo ma solo per scale spaziali più vaste. Non diremmo, ad esempio: ”Hanno messo le forchette per l’insalata a sudest di quelle da cena!”, ma in Kuuk Thaayorre i punti cardinali si usano in tutte le scale. Si dirà ”la tazza è a sudest del piatto»” o ”il ragazzo in piedi a sud di Mary è mio fratello”. A Pormpuraaw è necessario rimanere sempre orientati» (Scientific American, febbraio 2011).
Questo perché la comunità abita in un territorio dove perdersi è fatale e bisogna sapersi orientare in ogni istante e circostanza. Fuor di metafora, le parole che usiamo ci permettono di abitare il mondo e orientarci nella vita? Già anni fa Italo Calvino si scagliava contro l’anti-lingua, che non dice le cose con precisione rifugiandosi in perifrasi e approssimazioni che rendono le parole prive di energia e sostanza (avete presente il politichese, o quello che chiamo il «temese»: quando allungavamo i temi per fingere di aver qualcosa da dire?). Scriveva in «Esattezza»: «Mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze... la letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio» (Lezioni americane). Più abbiamo parole precise più mondo vediamo e meno siamo manipolabili. Credo sia fondamentale allenare l’uso preciso e concreto della parola, ed è quello che chiedo ai ragazzi nella scelta di quella annuale: ne va del loro destino. Ecco alcune delle loro parole: vivere non sopravvivere, resilienza, ambizione, squilibrio, mietitura, fioritura, accettazione, evoluzione, luce, spensieratezza, fuori, paraocchi, avocado... Sono sicuro che quelle che incuriosiscono di più sono le più concrete, per questo ho usato la più strana per titolare l’articolo! Io ho scelto «creazione» che, in una mia personale lingua Yagan, suonerebbe «fare come le api, nutrirsi da buone fonti per fare un buon miele» e se parlassi la lingua di Pormpuraaw starebbe a est, dove sorge il Sole. Avendo sperimentato che nella mia vita c’è tanta gioia quanta creazione, spero che questa sia la parola a incarnarsi, portandone con sé altre come studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità, attenzione, cura, bellezza... proteggendomi da altre ancora come fretta, rumore, approssimazione, pigrizia, invidia, distrazione... E voi a che parola/e vi affidate? Potremmo dedicare qualche minuto a scegliere le cinque più significative e ripeterle ad alta voce. Quella sarà la nostra patria, la nostra bussola, la nostra carne.
L’amore è tutto
Pierangelo Sequeri
L’amore è tutto. Figurati se ci tiriamo indietro noi, testimoni del vangelo dell’amore. Eppure. Non sentite anche voi un nuovo bisogno di decifrare un po’ meglio la nebbia lattiginosa di questa avvolgente nuvola dell’amore totale, che inghiotte nell’indistinto le case e le cose, le persone e le strade? L’aura dell’amore nobilita tutto. E il contrario di tutto, anche. Noi siamo pronti ad andare dove ci porta il cuore: ma portiamo realmente il cuore, là dove stiamo andando? (Lo so che tocco un tasto delicato: la conversione narcisistica dell’amore romantico, grazie alla pubblicità commerciale, resiste alla grande. Però vedete anche voi che, nella vita reale, sta prendendo corpo il doppio pulsionale e distruttivo di quello che, nondimeno, si continua spensieratamente a chiamare amore. Qualcosa vorrà dire). L’amore chiede giusto attaccamento, certamente: ma senza giusto distacco rischia sistematicamente la con-fusione col narcisismo (e se religioso, con il fanatismo). Impressionante, vero? Ebbene, se vogliamo giocare a carte scoperte, non si tratta delle due maggiori fonti di destabilizzazione del nostro tempo?
Il narcisismo “del sé” e il fanatismo “del dio” rovesciano l’imperativo dell’amore nel suo contrario, cercano l’assoluto: a costo di abbattere persone e cose, case e chiese, persino. È questo l’amore, quando diventa illimitato? Tu dici che non è vero amore, ma loro dicono di sì, che lo è. Il deliramento dell’amore arriva a non riconoscere più, neppure emozionalmente, i propri passi verso l’abisso: e a lambire la soglia del nichilismo suicida e omicida. (Con preferenza per il femminicidio, perché il narcisismo e il fanatismo sono vili: colpiscono preferibilmente il più debole; e al tempo stesso, si scatenano contro il fantasma della sconfitta di un io che si è abituato a concepirsi come significante-padrone).
L’illimitato è una brutta bestia, quando vuole abitare il cuore dell’io, che finisce per confondere l’amore di sé con l’adorazione di Dio. La declinazione del narcisismo autistico e del fanatismo religioso nelle figure del “patriarcato” e del “clericalismo” non è priva di senso, certo (anche se non è esente da equivoci). In ogni caso, mi appare persino più debole che utile). La realtà è più avanti, ormai. I figli che vengono al mondo ora sono già “orfani” del padre e del prete, le cui figure residuali, anche con tutta la buona volontà di molti, mancano largamente la presa. Magari c’è pulsione di affetto, ma non c’è lavoro di intesa. La sconfitta del narcisismo autistico e del fanatismo religioso, dato che si tratta proprio di contro-figure dell’amore, non si produrrà rinforzando moralmente la norma e contrattando democraticamente l’alleanza. L’intesa del voler bene deve andare più a fondo, molto più a fondo.
I ragazzi e le ragazze, che ora patiscono l’analfabetismo affettivo e il vuoto progettuale in cui sono sospinti dalla ricerca pulsionale di identità nell’intransigenza emotiva dell’odio-amore, sanno già di non poter contare sulla comunità adulta. L’effetto paradossale di questo disorientamento, senza linguaggio neppure per nominarsi, è proprio lo sviluppo di un movimento regressivo di imitazione – persino inconsapevole – della rigida disciplina paternalistica e clericalistica che doveva essere superata. Lo si osserva agevolmente nelle dinamiche di parti significative della vocazione-identità religiosamente orientata, come anche del rigorismo della censura-social mediaticamente praticata. (Entrambe, naturalmente, si rovesciano poi nella realtà, con effetti inevitabilmente conflittuali che inibiscono ogni intesa). Il fatto è che si sono moltiplicati discorsi (laici e anche religiosi) gravidi d’amore e sterili di intelligenza. La povertà di intelligenza dell’amore lo riduce a un grumo di pulsioni e di sogni: ne fa una maionese impazzita. Pretende di spalmarsi su tutto, non dà sapore a niente. Incapace di affinarsi e di trasmettersi culturalmente, non ha alcuna speranza di incidere socialmente e di rallegrare comunitariamente. E rimane del tutto vulnerabile alle sue contraffazioni (persino a quelle più orribili). La perversione dell’amore, che contraddice orribilmente il fascino e la profondità della sua giustizia, è parassitaria, si occulta, si giustifica. E cova a lungo le sue uova di serpente. L’intuizione del limite, l’attenzione all’interiorità, l’intenzione del rispetto – tutte figure lessicalmente imparentate con l’intesa – sono un corredo di sapienza essenziale per l’amore.
La sapienza dell’amore, che lo riabilita come fine esercizio di intesa, riscopre la bellissima varietà delle forme del voler bene. Ecco quello che ci manca. La maturazione personale e comunitaria di questa sapienza, che apprende la delicatissima arte di conciliare dedizione dell’attaccamento e delicatezza del distacco, è certo al limite delle nostre possibilità. Ma non così impossibile. Vorrei evidenziare brevemente i tratti che mi lasciano pieno di incanto e di stupore nello stile delle affezioni di Gesù. L’elegante minimalismo dei suoi segni miracolosi (“Datele da mangiare”, si limita a dire ai parenti della fanciulla risuscitata); la libertà paradossalmente restituita ai discepoli (“Volete andarvene anche voi?”). E penso anche allo struggimento per la ricerca di una sorta di “intesa nell’intesa”, che viene definitivamente – e assolutamente – alla luce nella rivelazione di Gesù. L’amore incondizionato di Dio non vuole essere “subìto”, vuole essere “capito”: proprio in questo modo desidera essere amato (“Vi ho chiamati amici perché vi ho detto tutto. E lo Spirito vi spiegherà tutto il resto”). Insomma, proprio Dio – che potrebbe – non travolge la creatura con la passione di un amore sovrano e possessivo, che non cerca l’intesa. Dio cerca il riconoscimento del voler bene, ne conosce la fragilità, ne sopporta il limite, tiene il punto. E vorrebbe che noi credenti, anzitutto, fossimo suoi alleati nello smascheramento dell’amore che impone sé stesso per il godimento di sé.
Incanta l’attaccamento, incanta il distacco. Niente di appiccicoso, niente di possessivo, niente di esibizionistico, niente di enfatico. Eppure, l’entusiasmo quasi infantile per l’eleganza dei gigli che Dio semina in terra, dandoci l’esempio di come si tiene la casa; la passione persino veemente per l’inviolabile privilegio concesso ai bambini, i cui angeli sono i più vicini a Dio. Non vi sembra straordinaria questa combinazione di passione ed eleganza della sapienza d’amore? Quando sarà necessario, questo amore non si sottrarrà al sacrificio, non scioglierà il legame.
La fine intelligenza dell’amore è la lezione più alta del “vangelo” dell’amore: però, la sua capacità di ispirare “civiltà” dell’amore non è così surreale come sembra. Siamo sicuri che la nostra generosa concentrazione sull’amore io-tu, che lascia nell’indistinto ogni altra forma del voler-bene (come se fosse versione debole, meno eroica, della coppia erotica), sia stata una mossa risolutiva? L’amore, io-voi, noi-voi, per esempio, che non passa necessariamente attraverso l’identifica-zione e reciprocità duale dei singoli, è forse meno alto, meno intelligente, meno profondo? Come si farebbe una comunità d’amore, fatta di soli io-tu? La famiglia stessa, in cui l’amore personale ed erotico della coppia è essenziale, non si riduce alla sua replica in tutti i rapporti d’amore (anzi, la interdice). L’invenzione dell’amore paterno, materno, filiale, fraterno, in questo senso, è semplicemente strepitosa, per l’espansione sociale della creatività intelligente e differenziata del voler bene. La nostra intelligenza di questa potenza simbolica – dei suoi attaccamenti, dei suoi distacchi – è vecchia. Non all’altezza dell’intesa oggi richiesta.
Una migliore intelligenza dell’amore, che cerca l’intesa, neutralizza malinconiche ossessioni di possesso e genera felici abitudini di scambio: di grande intensità e a vasto raggio. Se abbiamo imparato questa passione d’intesa da Dio, che poteva fare eccezione, figurati se non ci deve diventare normale tra umani.
Dove sono i tuoi occhi?
Alessandro D'Avenia
Ma che cosa comporta «rispettare», avere occhi, per qualcosa? Suscitare la vita che ha da donare. Non basta imbattersi (letteralmente «scontrarsi») in qualcosa o qualcuno, anonimo meccanismo di azione e reazione. Per incontrare occorre invece accogliere volontariamente cose e persone, lasciarsi sedurre dalle loro particolarità; perché ci sia incontro, bisogna impegnare la propria libertà e il proprio tempo, cioè quell’attenzione che il poeta Paul Celan definiva «la preghiera spontanea dell’anima» e, senza la quale, smettiamo, prima, di meravigliarci, e poi, di amare. Sì, di amare. Incontrare qualcosa o qualcuno infatti spinge a prendere posizione nei suoi confronti: una volta percepita la vita unica che ha dentro, non possiamo rimanere in-differenti (chi appunto non coglie le differenze). Prendere posizione è l’inizio dell’amore per l’altro, ci sentiamo «toccati» dal suo valore e il nostro cuore «si apre». Questo non è garantito con ciò che è dietro uno schermo: non è incontro, ma una preparazione («virtuale» non vuol dire falso o irreale, ma potenziale), che può portare a un incontro vero e proprio. L’incontro avviene solo nello spazio-tempo del rispetto: siamo, qui e ora, un tu e un io e io non mi aspetto nulla da quella cosa o persona, ma ne amo la semplice presenza. In rete non cerchiamo l’altro da noi, ma l’altro per noi, per divertirci e rilassarci; l’incontro invece è cogliere l’unicità corposa della presenza, proprio perché non ci aspettiamo nulla, come accade ai poeti: si allontanano da sé per ritrovarsi nello stupore per l’altro. Non impongono se stessi ma servono la vita che tutti diamo per scontata, la guardano da amanti ed essa corrisponde: dalle creature del Cantico di Francesco alla Ginestra di Leopardi. Dimenticano se stessi e si ritrovano accresciuti dalla vita a cui si sono aperti. Il rispetto è sguardo poetico, non possiede ma riceve, fa un passo indietro per avere più orizzonte: Cézanne si faceva bastare una mela per svelare il mondo intero. Vivere è l’arte di riceversi da quel che incontriamo, mettendo in gioco la nostra vita, il contrario del giocare con la vita altrui, cercando nello «specchio-schermo» la nostra immagine proiettata su tutte le superfici che contattiamo.
I nemici dell’incontro sono quindi Abitudine, Indifferenza, Pienezza di sé, Pregiudizio, Comodità, che spengono la vista e quindi la vita. Senza cambio di centro di gravità, che è il rispetto, non incontriamo nulla. Entriamo in «connessione» con milioni di cose, ma di nessuna «sentiamo» la vita: tocchiamo (lo schermo è touch) senza essere toccati, e la nostra vita interiore, apparentemente gravida, è soltanto gonfia. Una cultura senza «rispetto» è fatta di anonimi in lotta fra loro per farsi un nome più grande. L’incontro invece ci permette di ricevere quel nome: «Quando tu mi hai scelto/- fu l’amore che scelse -/sono emerso dal grande anonimato/di tutti, del nulla», come scrive Pedro Salinas. Dare il nome è entrare in relazione con le cose e amarle: dirle bene è bene-dirle, dirle male è male-dirle, come sanno bene i poeti, e tutti coloro che non scappano dalla realtà.
Proponiamoci almeno un «esercizio di rispetto» al giorno, fissando l’attenzione su una «vita» (anche la nostra) che abbiamo sotto gli occhi per incontrarla, fino a sentire il peso luminoso della sua unicità per poi difenderla e accrescerla. Basta chiedere a chi abbiamo vicino ogni giorno quale sia la sua gioia o il suo dolore più grande; prendersi cura di una pianta; chiedere «come stai» e ascoltare la risposta senza interrompere; leggere una poesia; pregare; camminare senza cellulare e senza meta se non tutto ciò che incontriamo; toccare la corteccia di un albero; osservare un volto durante una chiacchierata, tenendo spento il telefono… Rispetto: fare un passo indietro, prestare attenzione, nel silenzio aprirsi, per ricevere la presenza corposa di cose e persone, senza scappare per paura di lasciarsi ferire. Potrebbe allora accadere un incontro. Dove sono i tuoi occhi?
Ogni giorno è unico
Alessandro D’Avenia
Nell’ultimo banco della scorsa settimana cercavo nel primo lunedì ordinario dell’anno quella Luna a cui è dedicato, addirittura un po’ di luna di miele. Oggi è un lunedì qualsiasi e quelle parole sono già lontane. Non resta allora che fare un gioco, perché giocare è la scorciatoia per rinnovare la vita, nel gioco infatti si cerca, come nel vivere, l’introvabile equilibrio tra destino (le regole) e libertà (le scelte), per questo diciamo della vita che «ce la giochiamo».
Cerco allora il 15 gennaio su Wikipedia e scopro che non è stato un giorno qualunque. Scelgo a caso. Parlando di politici, nel 69 d.C., anno in cui Roma ebbe quattro imperatori, fu ucciso Galba, acclamato pochi mesi prima per sostituire il folle Nerone. Le sue scelte furono inevitabilmente impopolari e fu ammazzato mentre chiedeva: «Ma che male ho fatto?». In questo giorno Elisabetta I fu incoronata regina di Inghilterra: regnò dal 1558 al 1603, il periodo più sorprendente della storia inglese. Nel 1970 Gheddafi fu proclamato premier della Libia e nel 1975 il Portogallo rese indipendente l’Angola. Parlando di edifici: nel 1759 fu inaugurato il British Museum e nel 1943 fu completato il Pentagono, sede del Dipartimento della difesa Usa. In ambito sportivo nel 1892 il professor James Naismith creò le regole della pallacanestro e nel 1967 fu disputato il primo Super Bowl. È solo l’inizio: che altro?
Nel 1945 fu fondata l’agenzia di stampa ANSA che in quello stesso giorno, ma nel 1968, diede la notizia del tremendo terremoto del Belice, in Sicilia. Nel 1971 fu inaugurata la Diga di Assuan sul Nilo e nel 1973 il presidente Nixon annunciò la fine delle azioni offensive in Vietnam; un anno dopo Happy Daysdebuttò in tv. Nel 1987 uno spot fu inserito in un film in videocassetta. Nel 1993 fu catturato il boss Salvatore Riina, dopo una latitanza che durava dal 1969. Nel 2001 apparve in rete proprio Wikipedia, l’enciclopedia collaborativa da cui sto traendo questi dati. Nel 2005 arrivarono sulla Terra le foto della sonda Huygens su Titano, satellite di Saturno. Nel 2008 alcuni studenti e docenti dell’università La Sapienza di Roma manifestarono contro papa Benedetto XVI che annullò la lezione che era stato invitato a tenere. Nel 2009 il volo USAirways 1549 riuscì in un ammaraggio di emergenza nel fiume Hudson, a New York, senza morti (forse ricorderete Sully, film di Clint Eastwood con protagonista Tom Hanks).
Si tratta solo di alcuni esempi tratti dalla storia ufficiale, utili a mostrare che, in qualche modo, quello che poteva sembrare un giorno qualunque ha influito o influisce ancora su di noi: chi non usa Wikipedia o, anche senza saperlo, l’Ansa? Chi non ha visto Happy Days? Chi non ha giocato a pallacanestro? Proprio la pallacanestro mi riporta all’essenza del giocare. Gli antropologi spiegano che giocare ci appassiona perché amiamo essere creativi e lottare all’interno di limiti precisi: che divertimento ci sarebbe nel calcio se tutti cominciassero a prendere la palla con le mani?
Nel gioco i limiti esaltano l’abilità. Ed è così anche nella vita. Infatti nel gioco che stiamo facendo adesso al posto del comandante Sully o di Nixon ci siamo noi come attori di questo lunedì 15 gennaio 2024, l’unico che ci sarà nella storia dell’umanità: che cosa faremo di «immortale» nei limiti di queste 24 ore? Con immortale intendo ciò che cambierà il corso della storia. Non parlo di gesta epiche ma di qualsiasi azione in cui siamo insostituibili, da una carezza che solo noi possiamo dare a una frittata che solo noi possiamo cucinare. Ogni scelta infatti dà alla storia un corso differente. Qualcuno forse ricorderà il furbo film dal titolo Lola corre(1998), un esercizio di stile che all’inizio recita così «Ogni giorno dovete prendere una decisione che può cambiare la vostra vita». Nel film una ragazza deve infatti decidere che cosa fare in una situazione tragicomica di vita o morte, e la stessa narrazione si ripete per tre volte con finali molto diversi perché ogni volta Lola, la ragazza, fa una scelta differente, una trovata che dal famoso Ricomincio da capo (1993) con Bill Murray al fantascientifico Edge of tomorrow (2014) con Tom Cruise ha nutrito molte trame.
Il momento della scelta è infatti l’appuntamento con la felicità, quando la libertà viene impegnata in modo insostituibile e irripetibile. Tutte le scelte in cui sono sostituibile non sono vere e proprie scelte: per questo spesso amiamo sparire nella massa, per starcene tranquilli, salvo poi volerne emergere a tutti i costi, per soffocamento o noia.
E allora immaginiamo che oggi sia il giorno in cui grazie a un lungo lavoro il governo potrà varare una riforma decisiva per rendere il sistema sanitario più accessibile, e il sistema scolastico meno burocratizzato, una di quelle riforme che passano alla storia con il nome del ministro che l’ha voluta. Così oggi un professore potrà dedicarsi ad aiutare uno studente in difficoltà invece di compilare un modulo che nessuno leggerà e un paziente otterrà una visita urgente per la settimana successiva.
Dei capi di Stato firmeranno un armistizio in una delle guerre in corso. Qualcuno darà dell’acqua alla pianta morente o raccoglierà la cacca che il proprio cane ha lasciato anche se nessun altro l’ha visto. C’è chi scriverà una lettera a una persona a cui vuol bene ma con cui il dialogo si è interrotto. E qualcun altro inizierà a leggere il libro che aspetta sul comodino da mesi; cucinerà una cena che nessuno si aspetta; metterà via il cellulare per il tempo di quella cena concentrandosi sul viso degli altri e sui loro racconti. C’è chi inventerà qualcosa di nuovo o parlerà un po’ con il cassiere/a, farà meglio l’amore o anche solo un sorriso.
Insomma, oggi, lunedì 15 gennaio 2024, si potrebbe vivere in modo unico, perché di fatto è l’unico lunedi 15/01/24 della storia, e quindi l’adagio «vivi come se questo giorno fosse l’ultimo» non dice altro che «questo giorno è l’ultimo perché è l’unico». Cerchiamo gioie senza fine ma siamo mortali, e così l’infinito è nella profondità con cui facciamo esperienza del finito: la quantità di senso che ha qualcosa che impegna libertà e creatività in uno spazio-tempo limitati (due ore di social o due ore con un amico?). Questo è «giocarsi» la vita. E anche se non dovessimo finire su Wikipedia, potrebbe essere un lunedì di indimenticabili gesta e memorabili gesti. Saranno tali magari non perché eclatanti o perché abbiamo vinto, ma perché l’unico insostituibile protagonista che avrebbe potuto compierli non si è tirato indietro dal gioco: tu.
“La poesia è una questione di vita o di morte”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça