“ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul corso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il mio spirito
Card Newman
( Apologia pro vita sua,cit pp381-382)
...Sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboli, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del crocifisso amore.."
( da I nomi del bello e il mistero di Dio; Bruno Forte)
Un aprirsi della porta ed entrar nella luce, vivere in un continuo miracolo del presente, Cristo è presente. Nostra gioia.
L'uomo vive Dio nel sentimento del tutto. Tu sei tutto,ma anche tu, se Dio è in te. Nulla vi è al di fuori di te, nulla tu puoi cercare, perché quello che cerchi è già un te, se Dio è in te
Una vita vissuta "per-con-in Cristo" diventa una vita in cui si riscopre la "sacralità di tutte le cose" ed in cui realmente lo Sposo viene ogni giorno, ogni istante, in ogni azione ben ordinata, in tutto e tutti, perché "se crediamo, tutto è segno di Dio".
Divo Barsotti
Il cristiano è sollecitato così come da tutta la Scrittura, a imitare Dio, il mondo e le sue realtà sono un ostacolo alla sua "divinizzazione", alla sua santità, per il cristiano che vive secondo lo Spirito Amore, il mondo e le sue realtà sono la condizione stessa per divinizzarsi, per entrare per ciò che gli compete, nel disegno e nell'economia della salvezza dell'umanità e del mondo. Così come non v'è salvezza del mondo senza l'opera dell'uomo che lo conduce a perfezione, il cristiano non si salva senza il mondo, poichè è chiamato a santificarlo finchè "Dio sia tutto in tutti", Il mondo è il luogo e il mezzo grazie al quale il cristiano " guidato dallo Spirito" raggiunge la sua santità e il suo essere e vivere nell'Amore"
Padre Lorenzo Rossi
Dio ha un solo sogno, quello di “ formare casa”. Formare casa dentro la storia. Questo sogno lo condivide con noi e noi raccogliamo questo sogno per poter imparare a fare casa dentro la nostra realtà storica. Per questo dobbiamo prepararci insieme.
Nel momento storico in cui viviamo, questo verbo “ preparare” è importantissimo, perché il tempo in cui stiamo vivendo può trasformarsi solo se lo viviamo come tempo di preparazione.
Il termine importante è la vita. Quella che vogliamo recuperare oggi, che vogliamo ritrovare nella nostra storia, è la vita. Quella che vogliamo sognare insieme è la vita, chiederci quali sono gli spazi di vita oggi, che tipo di vita vogliamo portare avanti, uomini,donne, giovani, anziani. Tutti insieme sogniamo un progetto profondo di vita. E a partire da questa profondità, riscopriamo che la vita è profondamente religiosa, è una vita profondamente abitata dal mistero.
Per tessere un’altra vita dobbiamo incominciare di nuovo a fare tradizione, imparare un’altra volta a leggere e scrivere.. trasmissione profonda degli avvenimenti presenti. Scambiarci questa narrazione, quello che io vedo, ascolto, tocco
Contemplo nel presente.
In questo momento per essere fedeli Dio bisogna essere fedeli profondamente al presente, pensarlo e ripensarlo e narrarlo e dire queste meraviglie nascoste che si fanno, che malgrado tutto continuano a esistere dentro questa storia.
In questo senso noi vogliamo incominciare di nuovo a leggere e scrivere la storia. A partire da questa ritraduzione della storia possiamo cominciare a vivere la circolarità, questa capacità di sederci e incominciare a scambiare la vita.
Noi tutti
Antonietta Potente
Noi diamo vita all’Umano solo insieme
Alessandro D’Avenia "Educazione sentimentale? Faccia a faccia."
Per vivere abbiamo bisogno del mondo: ci apriamo a ciò che è fuori di noi per necessità. Andiamo incontro a cose e persone perché ci sono utili: il nostro strato animale è fatto di bisogni. Noi umani però non ci apriamo per sola necessità: gli animali non apparecchiano la tavola, non guardano i tramonti, non scrivono lettere d’amore...
Ciò di cui l’animale ha bisogno se lo prende dal più debole, con la forza, l’uomo invece lo regola attraverso le relazioni commerciali, d’amore e di amicizia. Ma se le relazioni sono fragili prevale la legge di natura, dove domina chi è più forte, e la forza diventa violenza quando l’altro è percepito come proprietà o minaccia. Se il 25 novembre si deve ancora celebrare una giornata contro la violenza sulle donne è perché questa violenza tocca soprattutto la relazione primaria. Ma anche qui la natura dà indicazioni chiare: mentre gli animali si ri-producono (producono l’uguale, la specie), gli umani «fanno» l’amore cioè la relazione. I primi si accoppiano solo quando è necessario, i secondi quando vogliono e, a differenza degli animali, guardandosi in viso: se l’evoluzione ci ha portato a questo gioco libero e «faccia a faccia» è perché la sopravvivenza umana non riguarda la specie ma la persona: si diventa se stessi solo facendo la relazione con l’altro. E il volto è il luogo di questo gioco. Perché?
L’animale ha il muso, non il volto, non si racconta, l’uomo sì. Noi facciamo l’amore per dare nascita l’uno all’altro, e questo ci dà gioia. Ma se questo non accade l’uomo regredisce a predatore, rinuncia alla sua evoluzione e si sente vivo alla maniera del bruto (animale in latino), possedendo e sottomettendo: dice «mio», come il bambino che strappa il gioco a un altro, per dire «io».
La violenza è infatti paradossalmente proporzionale alla debolezza del sé, il bisogno non matura in relazione, resta egocentrismo infantile. Negli ambienti malavitosi, culmine di questo infantilismo del potere, si dice «meglio comandare che fottere»: i due fenomeni sono percepiti come gradazioni di potere, si esiste nella misura in cui si domina e sfrutta l’altro.
Nella prima parte della narrazione simbolica della creazione biblica, Adamo non è il maschio ma l’Umano (l’umanità intera: adam significa semplicemente fatto di adamah, la terra), e ha la sua essenza nella dimensione relazionale, infatti la donna è tratta «dal fianco» per indicare simbolicamente che è della stessa materia (corpo sociale), l’Umano è uni-duale, cioè la sua essenza è la relazione: l’altro gli è, appunto, «a fianco». L’umano non è in-dividuale (letteralmente l’in-divisibile), ma duale (il con-divisibile), e se nel racconto il principio maschile sottolinea il fare (lavorare il giardino di Eden), quello femminile l’essere (Eva significa semplicemente la Vivente), è perché le due dimensioni sono proprie, prima, dell’Umano, e poi, della dualità corporea uomo-donna: tutti siamo chiamati singolarmente e socialmente a dar vita attraverso la capacità creativa (e il primo lavoro umano è proprio la relazione, un lavoro che non si improvvisa).
L’individualismo ci fa invece credere che l’uomo è uno e deve auto-costruirsi tecnicamente, e quindi la dimensione relazionale da essenziale diventa puramente funzionale. Nel racconto quando l’umano vede per la prima volta l’altra, pieno di stupore dice: «è come me», soggetto non oggetto. Scopre di essere relazione, prima in se stesso: è capace di dialogo interiore. E poi fuori di sé: con l’altro, che è parte di lui senza essere sua proprietà. Il male comincia quando agiscono soli, individualisticamente. Se la donna non è «come me», e quindi «altro da me», ma «mia», e quindi «altro per me», smette di essere soggetto e diventa oggetto, mezzo.
Una cultura individualista non riconosce e non educa alla dualità, alla relazione come essenza dell’Umano: il mondo e gli altri sono il self-service del self-made man. L’altro in quanto «mezzo» è riserva di «pezzi» di ricambio: lo si fa a pezzi nella mente e nel cuore prima che nelle mani.
Una frase di Cristo, uomo scandaloso per come trattava le donne (persino quelle ritenute «intoccabili») va alla radice: «Fu detto: “Non commettere adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per dominarla, ha già commesso adulterio con lei nel cuore» (Mt 5). La traduzione «ha già commesso adulterio con lei» nell’originale suona «ne ha distrutto l’integrità», cioè «l’ha cor-rotta»: l’ha rotta, fatta a pezzi.
L’invocata educazione alle relazioni che vogliamo affidare alla scuola non basterà a mutare un modo di essere che si struttura nell’infanzia e nell’adolescenza sulla base dei vissuti relazionali, né sarà sufficiente qualche lezione teorica a trasformare lo sguardo individualista in relazionale. Serve un modo nuovo di vivere e intendere il rapporto con gli altri, per accedere a un’energia dell’essere differenti che ci è divenuta inaccessibile: l’individualismo combinato al consumismo è infatti la negazione delle relazioni umanizzate e la resa ai bisogni.
Una cultura che elimina il corpo con l’uso continuo degli schermi dati ai bambini, che avalla la pornografia, la pubblicità, le trasmissioni e le piattaforme social in cui la donna è ora Venere sacra (la sua presenza, divinizzata e idealizzata, serve a erotizzare oggetti o magnificare situazioni) ora Venere profana (è lei stessa l’oggetto da vendere e usare), è una cultura ipocrita perché prima allena lo sguardo che «fa a pezzi» la donna e poi si scandalizza per la mancanza di rispetto. In una cultura individualistica e consumistica l’educazione sentimentale diventa così ben presto retorica.
Solo un’educazione dello sguardo, e quindi del cuore e della mente, «all’integrità» (il contrario di dis-integrare: «fare a pezzi») dà agli umani un volto. Questo sguardo si struttura sin da piccoli interiorizzando il modo in cui, a casa, a scuola, per strada, in tv, gli adulti si rapportano prima con se stessi e poi tra loro: oggetti o soggetti? La violenza è in tutti, uomini e donne, di tutte le età e strati sociali: è nella persona. E solo un’educazione relazionale può arginarla, perché allena a sentire l’altro come me stesso: se lo ferisco ferisco me, se lo abbraccio abbraccio me. E tutto comincia dal faccia a faccia della relazione.
Provate a tenere oggi la mano sul volto di qualcuno per almeno un minuto, in silenzio. Quella stessa mano che potrebbe far violenza sentirà piano piano che il confine del corpo non è l’io ma il noi, un pronome che in una poesia Mariangela Gualtieri definisce largo quanto tutti i viventi. Noi diamo vita all’Umano solo insieme, l’eros ci spinge a unirci e accogliere il peso e il bello della differenza, in una energia e novità d’essere che brilla in quella luce duale che chiamiamo amore.
Il linguaggio degli occhi
Eugenio Borgna
Non c'è solo il linguaggio delle parole, ma c'è anche il linguaggio dei volti, e degli occhi, degli sguardi, del sorriso, e delle lacrime, che sono espressioni del corpo vivente, del corpo-soggetto, che non è il corpo-oggetto, il corpo-cosa. Si tratta di una distinzione insolita, non facile da comprendere, ma di radicale importanza, sia in psichiatria e in filosofia sia nella vita. Ne vorrei dare un esempio: la mia mano, la mano che sta scrivendo, è corpo-cosa, corpo-oggetto, quando sia considerata da un chirurgo che la operi, e contemporaneamente corpo vivente, corpo-soggetto, quando sia riguardata nella sua trascendenza, nella sua infinita sorgente di significati: la mano che saluta, e che dice gioia o angoscia, tristezza o dolore. Il dolore non ha altro modo di esprimersi che non sia quello del linguaggio del corpo vivente, dei volti e degli occhi, degli sguardi e delle lacrime, dello stupore e del sorriso.
Conoscere questo linguaggio ha una grande importanza nelle relazioni umane, e in particolare nella comprensione dell'indicibile, che le parole non sanno dire, e che attende di essere riconosciuto in una lacrima, o in un sorriso, in un sospiro, o in uno sguardo fugace. Non so quanta attenzione nel corso di una giornata siamo soliti dedicare all'ascolto di questo linguaggio, ma dovremmo sapere che (anche) questo consente di fare scelte pratiche nutrite di saggezza e di prudenza. Sì, gli sguardi, che sono la voce degli occhi, come diceva Marcel Proust, ci consentono di andare al di là dei confini del nostro Io, e ci fanno essere in lontananze altrimenti irraggiungibili, come sulle montagne che luminose sembrano entrare nella stanza in cui sto scrivendo, riverberandosi nella mia interiorità. Gli sguardi si devono accogliere, e rivolgere agli altri, con discrezione e misura, con attenzione e nel silenzio del cuore; ma ci sono sguardi che fanno del male. Lo dice Elias Canetti in un libro, Il gioco degli occhi, che aiuta a riflettere sul senso della vita:
Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. È tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c'è vittima che possa prefigurarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale [...]. La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di quest'occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve.
Sono parole sferzanti che ci dicono come ci siano occhi dall'espressione crudele e aggressiva, e allora guardare negli occhi una persona è conoscerla nella sua dimensione più profonda, ed è una sfida talora dolorosa alla quale non è possibile nondimeno rinunciare.
I volti e gli sguardi sono insomma espressione di un linguaggio che si accompagna, o si sostituisce di volta in volta, al linguaggio delle parole in un carosello senza fine che ci consente di decifrare qualcosa delle emozioni e dei pensieri, delle immaginazioni e della fantasia di una persona, in particolare di una persona che sta male. Sul linguaggio dei volti ha scritto parole bellissime Rainer Maria Rilke:
Mi accade spesso, ora, che un qualche volto mi tocchi in questo modo, la mattina per esempio, così come le mattine qui di solito cominciano, c'è già stato, prestissimo, tanto sole, un'infinità di chiaro, e quando poi, d'improvviso, nell'ombra di un vicolo, un volto ci si tende incontro, si vede allora, per opera del contra sto, un essere con tale nettezza (nettezza delle sfumature), che l'impressione momentanea s'innalza involontariamente a impressione simbolica.
Sono cose, queste, che adombrano il linguaggio velato ed evanescente, segreto e misterioso, dei volti. Non si comunica allora solo con il linguaggio delle parole ma anche con quello del corpo vivente, con le infinite risonanze emozionali e comunicazionali dei volti, che, come dice ancora Rilke, sono più numerosi degli uomini perché ciascuno di noi ha più di un volto. Si comunica con gli sguardi e con le lacrime, con un sospiro e con un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, come ha scritto Leopardi. Sono modi diversi di portare alla luce della coscienza i pensieri e le emozioni che le parole non possono, o non sanno, dire.
Non ci conosciamo nella nostra vita interiore, e non conosciamo quella degli altri, se non tenendo presente il linguaggio delle parole, e delle emozioni che in esse si riflettono, ma anche il linguaggio del silenzio, quello dei volti e degli sguardi, degli occhi e delle lacrime; e a questo riguardo vorrei citare quello che Robert Musil dice del protagonista di un suo splendido racconto:
[in lui erano] le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un'altra persona – fino ad anticiparne l'individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall'espressione dell'atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.
Sono parole di un'inquieta bellezza che ridanno un senso, dilatandole vertiginosamente, a queste mie considerazioni sul linguaggio degli occhi e degli sguardi che un modo saggio di vivere non può dimenticare e non può perdere di vista.
(Saggezza, Il Mulino 2019, pp. 56-61)
Bellezza e salvezza
Giuliano Zanchi
Se dovesse avere un qualche fondamento la convinzione che «la bellezza salverà il mondo», quantomeno nella diffusione forfettaria del suo luogo comune (l’ho visto scritto a lettere cubitali sulla vetrina di una parrucchiera), noi dovremmo sentirci nel migliore dei mondi possibili. Non esiste civiltà quanto quella eretta sui paradigmi dell’attuale occidentali’s karma che abbia tanto innalzato la «bellezza» a precetto performativo di così estesa influenza. La «salvezza» dovrebbe già avere trasfigurato questa terra così animata dai suoi pervasivi standard estetici. Naturalmente i dubbi in merito sono molti.
Oggi tutto deve essere bello, dalle unghie delle signore al manico di un cucchiaino da caffè. La cura della forma ha assunto dignità di conferimento del senso. La nostra civiltà sembra aver reso strutturale e programmatica quella specie di profezia che Nietzsche, un attimo prima di impazzire, ha depositato a futura memoria nei Frammenti postumi: «La verità è brutta: abbiamo l’arte per non perire a causa della verità» (1888, 16[40]6). Il suo significato è immediato e terribile. La condizione umana, a questo portano gli sviluppi dei suoi saperi, è totalmente priva di senso, venendo dal caso e dirigendosi verso il nulla. Possiamo solo accettare di conferirgliene uno modellandoci esteticamente. La verità è brutta, costruiamocene una bella. Sembra il grande comandamento in vigore nella città-mercato postmoderna. Il «profilo» delle nostre soggettività, proprio come accade nei social, scaturisce sempre più dalla somma dei suoi adempimenti estetici, nel look, nel food, nei cult, nei mood, e in tutte le varie forme di life styling promosse dal nostro creativo mercato del benessere.[1] Il design non è più semplicemente una qualità del prodotto industriale, quanto proprio una categoria dell’esistenza. Quella dell’«essere» sembrerebbe una forma indissociabile dalla sua intrinseca necessità di «apparire». Come Jessica Rabbit, ci disegnano così.
Il tratto tirannico di questo primato comincia a rendere palesi i suoi effetti collaterali. Il suo potere ingiuntivo, ancora più dispotico delle vecchie morali di cui ci siamo liberati, anima le molte euforie pubbliche dell’homo cosmeticus ma alimenta anche la frustrazione endemica indotta dagli standard di questo regno della beautitudine. Beati i belli, perché se sei brutto ti tirano le pietre, cantava Antoine nel 1967. Il sottobosco del disagio giovanile e il brusio neotribale dei social traboccano di evidenze circa la ferocia bullistica che si scatena regolarmente, e con la brutalità primaria di un villaggio arcaico, attorno agli inabili, ai mancanti, ai diversi, ai disfunzionali, ai ciccioni, alle bruttine, ai molti «brutti anatroccoli» che tirerebbero un sospiro di sollievo se fosse almeno loro concesso di vivere in solitudine in un angolo dello stagno. Al netto degli stanchi dibattiti che finiscono per far parte dello stesso spettacolo, non sembra che tutto questo abbia ha a che fare con una giustizia dell’essere fatta coincidere, in mancanza d’altro, con la perfezione della forma? Esiste una «bellezza» in nome della quale si colpevolizza senza remissione e in modo più inesorabile dei vecchi scrupoli religiosi. Nella pur asfissiante morale cattolica, se eri peccatore potevi confessarti; nel regno dell’attuale imperativo estetico [2] se sei «brutto» non c’è rimedio. Non esiste assoluzione. Nelle periferie di certe metropoli asiatiche o sudamericane questa sorta di giudizio universale anticipato sulla terra è clamorosamente visibile nella spartizione dantesca di quartieri reciprocamente alieni. Di là il glamour dei prati all’inglese e l’high-tech dell’architettura contemporanea; di qua le baracche, il fango e le fogne a cielo aperto. Una linea sottile divide, già in questo mondo, il paradiso dall’inferno. I segni della «bellezza», intesa come artificiale e ingiuntiva cura della perfezione, sono spesso indici di «sentenze definitive» proclamate nell’aldiquà. «Lasciamo le belle donne agli uomini senza immaginazione» ammoniva già quasi cento anni fa Marcel Proust.
Questa egemonia sociale di uno standard preordinato della perfezione formale, che agisce come una bolla ornamentale avvolta attorno al nulla del senso, rende oggi meno riconoscibili e meno nominabili quelle emergenze della «bellezza» che si rendono percepibili in forma di esperienza e si manifestano come qualità visibile delle forze che animano la giustizia della vita. Il teologo lo direbbe in questo modo: «La bellezza fa la sua comparsa, originariamente, in tre costellazioni di eventi: lo splendore della forza che assicura protezione senza contropartita, la tenerezza della cura che riscatta l’intimità senza assoggettamento, l’incanto della grazia di un ordine spirituale dell’essere sensibile»[3]. Metti la scena dello sconosciuto che ti soccorre in una difficoltà che per sé non lo riguarda; oppure quella di chi accudisce a oltranza i vecchi con una leggerezza che non fa pesare il dispendio della propria dedizione; ma pensa anche alla carezza data per limpida manifestazione di una affezione senza secondi fini (e per contrasto pensa a quella che al minimo sfioramento senti inequivocabilmente lasciva); metti la scena, formidabile e tremenda, della madre afgana che consegna suo figlio al soldato americano; ma anche quella, elementare e ricorrente, di chi lascia a un vecchio il suo posto a sedere; pensa al corpo che la donna accetta di consegnare alle sue mutazioni per dare vita a un figlio; focalizza la scena di un tramonto che, per quanto edotti dei processi naturali che lo generano, non smette di afferrare i nostri sguardi e attrarre nella sua misteriosa fascinazione; metti l’attimo in cui lei e lui, essere un attimo prima confuso nell’uniforme molteplicità dell’umanità comune, improvvisamente ti appare sotto l’illuminazione di quell’alone di unicità che tocca perdutamente il tuo desiderio. Metti queste e altre scene di cui traboccano le nostre esperienze effettive. In esse si dà qualcosa che non appare né dovuto né prescritto, quindi sorprende e meraviglia, ma quando si realizza ha la forma del dover essere proprio così, e per questo sembra la cosa più naturale del mondo. In ognuna di quelle situazioni, la prima cosa che viene da dire è che «dovrebbe essere sempre così». Sembra straordinario, ma fa apparire quello immediatamente sembra giusto, dovuto, normale. Il giovane straniero che si butta in acqua per salvare un bambino, intervistato alla televisione come un eroe dichiara timidamente di aver fatto solo quello che in quel momento sembrava normale compiere e che tutti avrebbero fatto al suo posto. Il fascino emanato dal riconoscimento di questo dover essere si chiama «bellezza» e il suo contenuto è principalmente di natura etica. Non è un rivestimento, è una qualità intrinseca alla realtà.
Questa differenza è tenacemente difesa dalla spontaneità del nostro linguaggio. Quando si desidera manifestare esplicitamente a qualcuno il proprio assentimento per un gesto o un’azione ritenuta effettivamente degna e adeguata, normalmente non si dice «bravo, hai fatto una buona cosa», ma si dice immancabilmente «bravo, hai fatto una bella cosa». Noi nominiamo nei termini dell’estetica quello che inequivocabilmente ha densità nel regime dell’etica. La sostanza etica di questo genere di bellezza normalmente viene esaltata e indicata dalle opere dell’arte che rendono tangibile questa connessione. Dipingendo due scarponi sformati Vincent Van Gogh fa toccare con mano e offre al colpo d’occhio la densità spirituale che si può concentrare nei momenti sensibili della vita ben oltre la contingente imperfezione del loro darsi. Tu cerchi l’anima chissà dove e poi la riconosci negli scarponi che hanno preso la forma dei tuoi sforzi. Ma questa intensità etica può essere mille volte contraddetta da quella cura programmata della forma che agisce proprio con lo scopo di rimuoverne la densità. Una «bellezza» che non ha prezzo, in entrambi i sensi dell’espressione: da un lato perché, come accade oggi, anima il mercato e muove l’economia in una crescente circolazione di denaro; dall’altro perché non costa niente sotto il profilo di una qualità del senso e di una giustizia dell’essere. È solo un travestimento. Senza questa densità etica, l’estetica si riduce a cosmetica. Non deve sorprendere se l’arte contemporanea tende spesso a disertare i registri della forma piacevole e conciliante, per dedicarsi alla testimonianza di un «senso» che per essere credibile deve apparire spoglio e provocante; se ha smesso di occuparsi di paesaggi, ritratti e convenzionali scene religiose per dedicarsi ai lati oscuri della vita, alla disarticolazione di linguaggi uniformanti e all’enigma umano che nel corpo sembra avere la sua trincea di combattimento.
Se in questo le arti del nostro tempo sono sembrate fin troppo insistenti, fino a spingersi verso un quasi-culto della degradazione (molti segnali però mostrano una crescente affezione per una nuova congiunzione coi segni della bellezza), il loro ‘sacrificio antiestetico’ ha in fondo fatto socialmente sopravvivere quella idea biblica e cristiana della bellezza che nel suo massimo splendore appare nella forma compromessa del Servo sofferente e del Cristo crocifisso, emblema di quella dedizione che corrisponde alla giustizia delle cose e che, quando pienamente realizzata, non può mostrarsi che rompendo la perfezione della forma. «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» scrive Isaia (53, 2) tracciando il ritratto del servo del Signore nel quarto dei canti dedicati a una figura di lucente eminenza. È la ragione per la quale il vangelo di Giovanni chiama «gloria» non la resurrezione ma la morte di Gesù, apice della sua dedizione e culmine della sua grandezza, talmente vistosa e limpida da avere il potere di «attirare tutti» a sé (Gv 12, 32). Un tale vertice di fascino fa da matrice a mille evidenze che possono costellare i momenti della nostra esperienza minuta. Tutti sanno che anche una ferita può essere «bella», anche una ruga, un difetto, un’imperfezione, una cicatrice, perché tutti possono vedere le qualità incondizionate di cui sono un evidente sigillo.
Peraltro, questa è una bellezza che «si vede», non si lascia assimilare ai miti retorici della «bellezza interiore», e oltretutto «si distingue», non si lascia confondere con quella ‘confezione del positivo’ di cui sono divenute maestre le strategie dell’attuale predicazione pubblicitaria. La vera bellezza è come la sapienza di cui parla il vecchio testamento, la vedi per le strade e se vuoi la riconosci subito, come ti accorgi immediatamente della volgarità delle sue contraffazioni. Certo, devi farti l’occhio. Ma anche qualche buon pensiero. In mancanza di queste dotazioni può succedere, come mi sembra accada in questo momento negli ambienti di chiesa, che ci si affidi con ingenua esaltazione a quella elevazione sociale della cultura artistica che oggi funziona da sostitutivo dello spirituale, sia pure tra i più nobili, in epoca di incredulità programmata. La corsa ai prodigi comunicativi dell’«Arte sacra», specie se quella ammantata dalla mitizzazione del suo passato, può certamente avvantaggiarsi di qualche momento di eccitazione favorevole, ma ha già fatto le sue concessioni a una idea della «bellezza» confinata nello stereotipo dell’Arte e una concezione dei suoi frutti spirituali identificati con la didattica del catechismo. Finendo per scomodare Dostoevskij, equivocandone profondamente le intenzioni, anche per benedire il più clamoroso cattivo gusto. Le questioni sono molto più serie. La posta in gioco molto più alta. Quello che ci salva è il bene, non altro. La «bellezza» è il riflesso di quando la sua giustizia, in un modo o nell’altro, riesce a toccare questa terra.
La parola e l’ascolto
di Enzo Bianchi
Forse mai come in questi tempi si parla e si presta tanta attenzione all’ascolto perché siamo ammorbati da troppe parole, messaggi e rumori che ci impediscono una comunicazione autentica. Ciò che viene richiesto in ogni situazione e in modo ossessivo è l’ascolto, lo spazio da apprestare per rendere feconda la parola. L’ascolto, che non è semplicemente “sentire”, è un atto intenzionale che nasce dalla volontà ed è frutto di una decisione che comporta il chiamare a raccolta le forze per essere in grado di accogliere e recepire una parola.
Ma va assolutamente detto che la parola che precede l’ascolto deve avere un suo statuto, una sua grammatica proprio per essere parola, evento creato solo dall’uomo. Oggi, in una stagione culturale contrassegnata da diverse “crisi”, abbiamo bisogno di interrogarci nuovamente su cosa è l’uomo, cosa è l’umano. Com’è possibile ascoltare ed essere frequentemente testimoni di “parole doppie”, menzogne proclamate da chi pensa in modo diverso da come parla, senza sentire l’esigenza di una grammatica della parola che le restituisca veridicità e autorevolezza, così da poter essere concretamente strumento di comunicazione e dialogo tra di noi?
Secondo la tradizione ebraico-cristiana il peggiore sintomo di malessere sociale è la corruzione della parola, quando “non c’è più un uomo sincero, è scomparsa la trasparenza fra gli umani, si dicono menzogne l’un l’altro e le loro false labbra parlano mosse da un cuore doppio” (Salmo 12).
Chi di noi non sottoscriverebbe queste parole del salmista sulla società del suo tempo? Sì, noi oggi siamo consapevoli che la comunicazione è particolarmente malata, che il chiacchiericcio si è fatto invadente, che la manipolazione attraverso la parola è frequente e praticata nel quotidiano anche da persone semplici, ma soprattutto che si ha paura della parresìa, virtù che pure dovremmo aver ereditato da Socrate come arte di dire sempre la verità, anche a caro prezzo e senza timore. Il parlare come atto di comunicazione e di testimonianza è molto faticoso e richiede la disponibilità a trovarsi in contrasto con la posizione della maggioranza. E invece nella società e nella chiesa si favorisce più che mai l’ipocrisia, l’apparire non come si è ma in modo tale da ottenere successo e potere. È significativo che nel Vangelo Gesù abbia perdonato tutti i peccati, anche i più gravi secondo la legge, ma non abbia mai avuto una parola di comprensione e di misericordia verso gli ipocriti, i religiosi che sono doppi per vocazione demoniaca, ignavi e timorosi nei confronti del potere, aguzzini nei confronti degli ultimi.
Ma oggi “la gente” ha capito, anche se non ancora fino al punto da indignarsi, che soprattutto quelli che sono al potere e sono “doppi”, non dicono quello che pensano ma solo ciò che li aiuta a perseguire il loro interesse: per questo non sono credibili, non hanno autorevolezza. Certo, dovremmo tutti crescere nella consapevolezza che la parola, che contraddistingue l’uomo da tutti i viventi, precede ogni comunicazione e quindi ogni ascolto! “In principio era la Parola!”.
La parola che noi diciamo non è più nostra, ma è consegnata a chi ascolta e non può essere richiamata indietro perché appartiene a chi l’ascolta. Come dicono i contadini del Monferrato: “Ricordati, le parole sono come pietre!”. Non c’è vero ascolto senza etica della parola!
Resi pieni
Alessandro D’Avenia
«Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non ha il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui attirare l’attenzione di un dio.
Di una cosa sono convinto: il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto». Così scriveva l’autore svedese Stig Dagerman in un breve monologo del 1952, in righe laceranti sul paradosso della condizione umana, stretta tra desiderio infinito di felicità e impossibilità di soddisfarlo. Aveva intitolato il testo Il nostro bisogno di consolazione ed è quest’ultima parola che vorrei oggi esplorare, per scoprire se contiene la preda in cui sperava Dagerman: «Sono a caccia di consolazione come un cacciatore. Là dove la vedo apparire, sparo». Possiamo veramente essere consolati? Consolazione, dal latino, è una parola composta da con e solus (solo), da cui vengono termini distanti come solitudine e sollazzo. Come mai? Perché sembra che solus nasconda la radice (ol-) che indicava pienezza, integrità, totalità, rimasta per esempio in ad-olescente (teso alla pienezza), olistico (che abbraccia tutto). «Solo» è quindi «uno» perché integro e saldo, e non perché «isolato», che viene invece da isola. Può stare «solo» chi è «pieno», ma questa totalità, per esseri finiti come siamo, non è alla nostra portata e, quindi, è necessario essere con-solati: resi pieni.
Il con-, prefisso della relazione (coniuge, compagno, complice...), conferma infatti che la pienezza di qualcosa si raggiunge «insieme», come si dice anche per la forza, che richiede con-forto, o per il cuore che richiede con-cordia. Per questo ci consola ciò che ci restituisce interezza (si pensi al cerchio dell’abbraccio), ed è invece de-solante ciò che ce la toglie (il de- indica privazione): per Leopardi infatti la ginestra «consola» il deserto che è una terra desolata. La consolazione provoca sollazzo (gioia), perché è come una festa tra amici. Cristo, riferendosi alla sua futura morte per amore degli uomini, dice infatti: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro Consolatore», indicando lo Spirito Santo, di cui ricorreva ieri la festa (Pentecoste: 50 giorni dopo la Pasqua). La traduzione italiana evoca un verbo ebraico che significa «far respirare»: il Consolatore è chi ci fa respirare sempre. Cristo definisce quindi se stesso il primo Consolatore e lo Spirito il secondo e più necessario, perché rende vivi gli uomini di tutti i luoghi e tempi, e non solo i contemporanei di Gesù. Lo Spirito è Consolatore perché dà la vita infinita che desideriamo, gratuitamente, a noi, cacciatori sfiniti nel bosco fitto dell’esistenza.
Ma lo Spirito dov’è? Al modo della luce è visibile nei suoi effetti. Se infatti vi chiedessi di dimostrarmi quanto amate, ci riuscireste solo portandomi la persona amata, che mi racconterebbe una serie di eventi e parole del vostro amore: una lettera, un gesto, un regalo, un piatto, una canzone... cose molto semplici che però, colpite dal cono di luce della gratuità e unicità del dono, diventano e mostrano l’amore stesso. Allo stesso modo, per chi lo frequenta, lo Spirito trasforma in Amore ogni cosa, anche la più materiale o oscura (come lo scultore rende «viva» la pietra con il suo spirito). Di una persona piena di vita diciamo infatti che è ispirata o di ispirazione (parole derivate da spirito) perché, anche in situazioni difficili, conserva la luce e la leggerezza dell’innamorato. Lo Spirito permette di amare se stessi (non ci si sente mai brutti o abbandonati), il mondo (tutto diventa casa) e gli altri (anche quelli più difficili e lontani da noi). Chi è «con-solato», sentendosi sempre amato, non ha paura di amare: infatti libera attorno a sé energie creative, genera legami e molti sospetti (dov’è la fregatura?), come accadeva a Cristo. Spirituale non è, come purtroppo si intende oggi, chi è lontano dalle cose terrene, ma chi «respira pienamente» in mezzo a quelle cose senza soffocare, perché trova la vita che hanno dentro. Far la lavatrice o la spesa può essere più spirituale di leggere e pregare: non è l’azione in sé, ma quanto amore ci metto (come e per chi lo faccio?).
Due anni dopo quel monologo, purtroppo Dagerman si tolse la vita, benché avesse intuito la via da percorrere: «Tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso - l’incontro con una persona amata, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino - si svolge al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è indifferente». La bellezza, per quanto a frammenti, ci mostra l’origine della luce di cui andiamo a caccia, ma la luce non si può catturare, solo ricevere. Il Consolatore non è la preda che sfugge ai nostri proiettili, ma l’Amante che, per darci il dono della vita, aspetta solo che lo chiamiamo per nome: Amore.
Se conosci te stesso,
trovi l'altro
Enzo Bianchi
La vita interiore è quell'esperienza essenziale per umanizzarsi e per realizzare la propria verità profonda. È quella vita che inizia con il movimento di presa di distanza da sé e sfocia nella domanda decisiva: «Chi sono?». Scrive Platone: «Il più grande bene per l'uomo è interrogarsi su sé stesso, e indegna di essere vissuta è una vita senza tale attività». La riflessione su questo tema, cara alle culture di ogni tempo e latitudine, in Occidente ha trovato la sua formulazione più pregnante nel famoso adagio «Conosci te stesso» (gnôthi sautón), scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi e richiesto da Socrate ai suoi discepoli.
La conoscenza di sé, ossia la consapevolezza, è come il respiro della propria persona e della propria vita, il cuore del proprio cuore. In questo vero e proprio lavoro a giornata non è sempre facile né possibile distinguere tra lo spirituale e lo psicologico. Alcuni hanno la tendenza a confondere queste due dimensioni, riducendo l'una all'altra; ma va ammesso che, in verità, vita spirituale e vita psicologica si intersecano a tal punto che nelle manifestazioni esterne della prima resta impossibile operare una distinzione.
L'osservazione attenta del reale ci testimonia inoltre che errori di spiritualità possono diventare patologie psichiche (qualche volta anche con esiti somatici) e che, viceversa, patologie psichiche possono influenzare la spiritualità. L'essere umano è più unito di quanto crediamo: corpo, psiche e spirito hanno una profonda relazione reciproca, e i confini tra loro sono molto fluidi. Oggi abbiamo la grazia delle scienze umane, che forniscono all'esperienza spirituale un grande aiuto: possono infatti guidare la persona a una giusta conoscenza di sé e possono essere veicoli di sapienza e strumenti di liberazione. E tuttavia non va dimenticato che la psicologia lavora nel registro dell'analisi e dell'interpretazione dei fenomeni psicologici, collocati nello spazio delle scienze umane, mentre la spiritualità vive di un altro livello di senso: l'orientamento ultimo della vita umana e il suo significato.
In tale cammino infinito è fondamentale aderire alla realtà, alla terra (humus), conoscere cioè con realismo il proprio rapporto con la storia, gli altri, il mondo, perché è così che ciascuno di noi esiste ed è in relazione: questa è la vera umiltà (humilitas)! Molti cammini spirituali appaiono sterili, quando non negativi e disumanizzanti, perché mancano proprio di tale adesione alla realtà. Nella mia anzianità lo comprendo sempre di più e sempre meglio: è estremamente pericoloso iniziare il cammino interiore o spirituale senza sentirsi come gli altri, in mezzo agli altri, bisognosi degli altri e mai senza gli altri! Gli altri, infatti, non sono l'inferno, come affermava Sartre: sono la nostra beatitudine possibile su questa Terra.
Conoscere sé stessi è davvero un compito, una fatica, un esercizio quotidiano e richiede di guardare, scrutare, esaminare il proprio sentire, parlare e agire, tenendo conto del proprio respiro e di quello di chi mi è accanto, o meglio, al quale io mi faccio prossimo. Senza una certa conoscenza di sé è quasi impossibile lo sviluppo della vita interiore, ma lo stesso vale anche quando manca il dialogo fecondo con l'alterità, l'arte dello scambio fraterno: io sono ciò che sono, ovvero anche tutto ciò che ha contribuito alla formazione della mia persona, che gli altri hanno fatto di me.
È così che il mio respiro si intreccia con quello dell'altro, nella nostra comune ricerca di senso. Solo chi cerca la comunione con gli altri, chi non si vergogna di chiamare tutti fratelli e sorelle, pur nella fatica del duro mestiere di vivere, è capace di percorrere con fecondità il cammino della vita interiore e spirituale, che è sempre un cammino umano: nel comune respiro, via verso la gioia condivisa.
Le luci del mistero
Dietrich Bonhoeffer
Non ci sono esperienze mistiche se non all'ombra del mistero; e parole risplendenti di fede e di speranza sono quelle scritte da Dietrich Bonhoeffer. Sono parole di straordinaria chiarezza che ci portano al cuore di quello che si può dire del mistero come dimensione essenziale della vita. Sono parole che mi sembrano avvicinarsi, o almeno non essere lontane, a quelle di Simone Weil nelle sue pagine, le ultime della sua vita, e allora, in questo mio seguire associazioni tematiche che mi portano alle sorgenti di altre esperienze di vita e di morte non estranee a quelle di Simone Weil, vorrei richiamarmi alle parole del grande teologo tedesco.
"Vivere senza mistero significa non sapere nulla del mistero presente nella nostra vita, del mistero dell'altro, del mistero del mondo; significa passare sopra ai lati reconditi di noi stessi, dell'altro e del mondo; significa rimanere alla superficie, significa prendere il mondo sul serio soltanto nella misura in cui esso può essere calcolato e sfruttato, non recedere al di là del mondo del calcolo e dell'utilità. Vivere senza mistero significa non vedere o addirittura negare i processi decisivi della vita."
Ma ancora: "Non vogliamo sentirci dire che il mistero è la radice di tutto quanto è comprensibile, chiaro e manifesto. E quando ce lo sentiamo dire, vogliamo aggredire tale mistero, calcolarlo e spiegarlo, vogliamo sezionarlo, e il risultato è che, così facendo, uccidiamo la vita e non scopriamo il mistero. Il mistero rimane mistero. Si sottrae alla nostra presa. Mistero non significa però semplicemente non sapere qualcosa. Non la stella più lontana è il mistero più grande, bensì, al contrario, quanto più una cosa ci viene vicino, quanto meglio la conosciamo, tanto più misteriosa essa diventa per noi. Non l'essere umano più lontano è per noi il mistero più grande, bensì proprio il più vicino. E il suo mistero non diventa per noi più piccolo per il fatto che lo conosciamo sempre di più, bensì con la sua vicinanza egli diventa per noi sempre più misterioso. L'ultima profondità del mistero l'abbiamo lì dove due persone diventano così vicine l'una all'altra da amarsi reciprocamente. Da nessun'altra parte al mondo l'essere umano percepisce la potenza del mistero e la sua magnificenza tanto fortemente come qui".
Il mistero circonda la nostra vita, e non ha senso contestare la realtà umana delle esperienze mistiche in base a considerazioni razionali che non possono non essere radicalmente estranee all'essenza del mistero. Sì, le esperienze mistiche sono immerse nel mistero ma il mistero si accompagna in ogni momento alla nostra vita. Nel mistero si snodano le patti oscure dell'anima di san Giovanni della Croce ch6harmo lambito, e talora sommerso, anche le esperienze umane e religiose di Dietrich Bonhoeffer, di questo straordinario teologo protestante, che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita nel carcere berlinese di Tegel, dal quale è stato poi trasferita, negli ultimi giorni di quello che è stato l'orrore nazionalsocialista tedesco, nel campo di concentramento di Flossenbürg dove a trentanove anni è stato ucciso.
(in Eugenio Borgna, L'indicibile tenerezza, Feltrinelli 2016, pp. 191-3)
Vito Mancuso “Lavorate sempre al vostro tempio interiore, lì c’è la grande bellezza”
Un viaggio dentro se stessi. Dall’origine della vita sino alle più intime convinzioni passando per quei parallelismi che uniscono le religioni e le spiritualità. Questa mattina Vito Mancuso ha preso per mano un pubblico folto all’Eurac per portarlo a guardarsi dentro. All’edificazione del proprio tempio interiore. Un evento organizzato dal Grande Oriente d’Italia.
Quando si lavora al tempio interiore?
“Qui e ora. Adesso. Ogni momento è quello possibile per la costruzione di un tempio interiore. Per elevarsi. Uno dei grandi pericoli da cui dobbiamo proteggersi è l’appiattimento della nostra multidimensionalità”
Lavorare alla costruzione interna è l’antidoto?
“Sì, fare questo significa custodire la nostra natura che è elevata. A più dimensioni. Questo progresso, però, è qui e ora. Si costruisce nel momento”
Bisogna essere capaci di parlare con l’interiorità.
“La prima riflessione da fare è come ciascuno chiami la sua inferiorità. Non per sfociare nel nominalismo ma per rispettare le fondamenta della conoscenza di qualsiasi cosa che è fatta di res e di nomen. Della cosa e del nome. Il secondo è al servizio della prima. Come la chiamate?”
Anima?
“Sì quello è il termine che la tradizione ci consegna. È un concetto che mi è caro ma so anche che qualcuno alza le sopracciglia e lo avverte come un concetto di altri tempi. Persone che sentono come il termine anima non vada più bene per quella interiorità. Qualcuno potrebbe parlare di mente, un altro ancora di spirito, coscienza, cuore, ragione, profondo sè…”
Avranno degli elementi in comune tutti questi termini?
“Sì ma l’importante è sapere di rivolgersi a questa dimensione. Qualsiasi forma di vita capta informazioni dall’ambiente e le elabora per soddisfare prima di tutto i bisogni primari come l’alimentazione e la riproduzione. Poi si può approfondire nel rapporto con tutti gli altri entrando nell’ambito, per esempio, della coscienza morale”
Torniamo al concetto di costruzione.
“La radice etimologica porta proprio al processo che edifica. Ecco, noi dobbiamo sentirci dentro ad un grande processo costruttivo che nell’interiorità può continuare sempre verso l’alto rispetto alla costruzione fisica. La mente può essere sempre più pulita, cristallina e trasparente”
Un’igiene spirituale?
“Sì, un lasciare filtrare la luce dentro di noi. La luce del bene, della bellezza. La passività dell’ascolto e dell’accoglienza è più importante, alla lunga, dell’attività. È una capacità che non verrà mai meno fino alla fine dei nostri giorni. Dovremmo rinnovare, inoltre, la meraviglia verso la vita quotidianamente. È un miracolo che dimentichiamo. La nascita della vita è un qualcosa di incredibile. Se fosse nata dal caso è come pensare che una tromba d’aria passando su un magazzino di materiali produca un Boeing 747 perfettamente funzionante. Eppure è una possibilità valida. Ciascuno sceglie la teoria che lo fa vivere meglio: il caso? Dio? A metà tra caso e Dio? Va tutto bene. I dogmi sono al servizio del vivere bene”
Poi c’è il concetto di tempio.
“Nasce proprio dallo stupore degli esseri umani. Un qualcosa che rimaneva insoddisfatto rispetto agli edifici già esistenti come la casa o il negozio. Se ci pensiamo a cosa serve biologicamente un tempio? Eppure è comparso subito. Plutarco diceva che una città senza santuari non esisterà mai. Naturalmente ci sono varie tipologie di templi o chiese. Elencandone sono arrivato a undici: non è solo un concetto cristiano, ovviamente. Quel che conta è che gli esseri umani hanno subito avuto bisogno di edifici per custodire un’altra dimensione. Quella interiore. Attenzione, però, che il tempio esteriore può anche essere una delusione. C’è gente, per esempio, che rimane deluso dal Santo Sepolcro a Gerusalemme. Spesso può essere qualcosa di molto politico o di molto mondano. Qualcosa di collegato al potere. Talvolta un bellissimo palcoscenico. Spesso si avverte che l’esteriorità o i riti, anche più sacri, non appagano”
È qui che entra in gioco la propria mente come altare che appaghi?
“Sì. I pensieri al posto di pane e vino. D’altronde l’Illuminismo stesso ci dice che il divino o ha a che fare con il bene o la giustizia oppure non esiste. Per me è fonte di grande meraviglia, però, pensare che tutte le culture mondiali hanno colto il tema dell’interiorità rispondendo a questa necessità. Sapete cosa dice il buddismo?”
Prego…
“Siate un’isola per voi stessi. Che il vostro rifugio sia l’ordine cosmico. Non si sta contraddicendo ma sta dicendo che tra la nostra interiorità più profonda e il tutto c’è attiguità. Quando costruiamo la nostra interiorità stiamo entrando a contatto con l’universalità. Se vogliamo con Dio”
Quando lei dice interiorità, però, a cosa si riferisce?
“A una dimensione che contiamo che è anche eterna. Al di là della materialità e dell’immaterialità. Spesso parliamo di una luce al di là del tempo e dello spazio quindi al di là dell’esperienza spazio temporale. Non sono un esperto di meccanica quantistica ma ci rivela lei stessa l’esistenza di qualcosa che eccede le leggi spaziotemporali. È la stessa scienza a cogliere un’altra dimensione dell’essere che sembra essere diversa eppure costitutiva. Non a caso la tecnologia che si rifà alla meccanica quantistica funziona. Pensiamo alla capacità di due particelle di influenzarsi a distanza senza che ancora siamo riusciti a capire in che modo. Parliamo di fisica e sono gli stessi fisici a dire che la meccanica quantistica ha a che fare con l’anima. Ne parla anche Hannah Arendt”
Come?
“In un piccolo libretto su Socrate scrive che chi ha fatto esperienza dei totalitarismi sa che il loro primo interesse era di eliminare qualsiasi possibilità di solitudine. Vede, le forme secolari di coscienza e di interiorità vengono eliminate quando non è più garantita la facoltà di stare da soli con se stessi. Se manca il dialogo con se stesso l’uomo è annientato. Eccolo qui il tempio interiore in atto. La solitudine non come isolamento ma come raccoglimento e inizi a porti delle domande. Vere e profonde. Mi sono chiesto, per esempio, a chi avrei scritto l’ultima lettera se io fossi condannato alla fucilazione. E cosa avrei scritto. È un bell’esercizio per conoscere se stessi. Chiudo, però, con il filosofo neoplatonico Plotino”
Dove ci porta?
“Dice di tornare in se stessi e guardare. Se non ci si vede interiormente belli bisogna fare come lo scultore di una statua. Lavorare levando il superfluo, raddrizzando e pulendo in continuazione. Sino ad essere splendore di una luce pura. Questo è l’occhio che vede la grande bellezza”.
L'incanto
della porta aperta
Angelo Casati
Mi sto caricando di anni, ma non finisco di incantarmi davanti ai "percorsi del cuore". Davanti ai "percorsi del cuore" mi sento ancora come un bambino. E continuo, impenitente, a sognare una comunità che si incanti davanti ai "percorsi del cuore".
Anche la fede, quella vera, il tesoro che ci è più caro, appartiene a questi percorsi segreti. Se non entra in questi spazi del cuore è, per lo più, frastuono e blabla religioso: costretti a urlare la fede, quasi per autoconvincersi di credere. I "percorsi del cuore" sfuggono alle statistiche; rifuggono dalla nostra pretesa di racchiudere in numeri e diagrammi anche il mistero.
Più che nella moltitudine delle parole li sorprendi in un brivido degli occhi, nella tenerezza di una stretta di mano. Chiamo "percorsi del cuore" le emozioni , le intuizioni, le riflessioni, gli smarrimenti e le aperture, i sussulti e le decisioni: fanno la storia delle nostre giornate e diventano cammino interiore, il nostro mondo segreto.
C'è una condizione che ti introduce ai "percorsi del cuore" e ti dà l'emozione di scoprirne o solo forse intuirne le tracce. La vorrei descrivere con alcune parole, purtroppo imprecise. Condizione è "guardare l'altro immaginando l'inimmaginabile". Oltre la superficialità, oltre i luoghi comuni, oltre l'apparenza, immaginando dell'altro il cuore, la terra segreta.
A chi oggi parla di "percorsi del cuore" può succedere - non è un mistero - di essere guardato con sufficienza, quasi fosse uno "fuori", fuori della realtà, impenitente sognatore. Non devono aver guardato con occhi molto diversi, penso, il Signore Gesù, quel mezzogiorno di grazia, al pozzo di Sicar. Anche lui incantato davanti ai "percorsi del cuore" di una donna samaritana. A tal punto preso, che più non sentiva fame.
Parlava di campi biondeggianti e ancora mancavano quattro mesi al tempo della mietitura: "Levate i vostri occhi " - diceva - "guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura " (Giov. 4,35).
Ad aprirti il cuore è infatti lo sguardo di chi immagina l'inimmaginabile che è in te, lo sguardo di chi ti accarezza "dentro", come ti accarezza Dio con la sua luce e il suo calore. "Non basta" - diceva Danilo qualche sera fa in una riunione - "non basta aprire le finestre, accorre aprire la porta". La finestra aperta ti consente sì di osservare. Ma dall'alto. E dall'alto giudicare.
Aprire la porta significa invece coinvolgersi. Anzi rimanere porta aperta: la gente entra e esce, nel respiro della libertà. Che cosa privilegiamo nella vita la finestra o la porta? Come partecipiamo a un'Assemblea? Con quale spirito viviamo un incontro? Osservando e giudicando , cioè stando alla finestra, o immaginando che cosa vive dietro quel volto, cioè aprendo la porta?
Le osservazioni di chi sta alla finestra per lo più portano poco lontano, spesso sono di una monotonia e di una ovvietà insopportabili: quanti inviti, quante risposte; quanti credenti, quanti non credenti; che cosa abbiamo detto, che cosa non abbiamo detto; quale l'organizzazione, quali i risultati. I risultati - quelli palpabili, quantificabili - sono l'ossessione, la fissazione di coloro che stanno alla finestra.
Gli uomini e le donne della finestra passano al setaccio minuziosamente ogni parola - per loro manca sempre qualcosa all'ortodossia - ma sono sempre in ritardo all'appuntamento con il cuore. Raramente nei loro occhi cogli stupore: hanno immancabilmente l'aria di chi ti dice: "Tutto qui?".
Gli uomini e le donne della porta si perdono dietro i percorsi del cuore, si incantano per i minuscoli, impercettibili, germogli. Si incantano dietro l'emozione di una voce. Basta a incantarli - tanto sono sensibili - la nudità di una presenza: che qualcuno abbia varcato una soglia, per loro sa già di miracolo. Gli uomini e le donne della porta vivono sì un'inquietudine: li fa inquieti lo zelo - spesso in buona fede ma poco illuminato - di chi si illude di aprire germogli rovesciando sui fiori tinozze d'acqua.
Hanno da Dio un dono: quello di immaginare - tanta è la familiarità - la misura d'acqua che aprirà, senza soffocarli, i teneri germogli. Glielo va suggerendo lo spirito, la fonte segreta del loro immaginare l'inimmaginabile. Quanti i percorsi che potrei ricordare: ne accenno solo alcuni, cosciente purtroppo che già il parlare ne impoverisce l'emozione.
Ricorderò innanzitutto alcune voci dell'ultima nostra assemblea, voci per timbro diverso, ma accomunate dall'unico desiderio di schiudere una porta. Tenera e intensa quella femminile, più concreta, quasi pragmatica quella maschile. Ricorderò poi alcuni percorsi del cuore, nati dalla lettera che ci aveva invitati all'assemblea: "tracce di una comunità desiderata".
Impariamo il silenzio
Enzo Bianchi
Che cos’è il silenzio? La prima difficoltà consiste proprio nel parlarne, poiché il silenzio lo si comprende veramente solo quando se ne fa esperienza nella solitudine; inoltre, è elementare ma essenziale ricordare che il silenzio non è una realtà uguale per tutti, e per la stessa persona può cambiare con le diverse età della vita.
Quando si cerca di scandagliare le profondità del silenzio, occorre precisare che il silenzio non è in primo luogo un’esperienza spirituale, ma un’esperienza umana e ogni persona conosce nel corso della vita diversi silenzi, alcuni positivi e necessari, altri negativi e mortiferi. Il silenzio non è un bene assoluto, ma può trovare senso solo a certe condizioni, quando è vissuto con consapevolezza e orientato a uno scopo. Le valenze positive del silenzio possono essere comprese solo se si ha il coraggio di guardare in faccia anche il suo lato negativo.
Realtà ambigua, il silenzio può essere senza vita e assumere la forma di un mutismo. Il rigetto della comunicazione umilia la parola e il silenzio, finendo per rinchiudere l’uomo in una sorta di prigione. Questa patologia si manifesta quando l’equilibrio psichico è ferito; chi ha incontrato l’abisso del mutismo in persone colpite dalla follia, sa cosa significa: è un rifiuto della vita.
Ma c’è anche un silenzio cattivo, che si nutre di odio. Elias Canetti ha scritto: “Alcuni raggiungono la più grande malvagità nel silenzio”.
Giudizio negativo sull’altro, disprezzo, volontà di non avere accanto un altro poiché la diversità ci infastidisce, ce lo rende nemico: non lo si saluta, lo si tratta come fosse già morto. Non serve giungere all’ostilità manifesta, è più perversa questa ostilità sorda e muta. Non è forse questa realtà che abita le nostre famiglie e le comunità?
Un’altra forma di silenzio negativo è l’autoillusione: un silenzio custodito per preservare l’immagine che si ha di sé dal confronto con la realtà e gli altri.
Ciò si traduce poi in forme di vita “autistiche”, la cui raffigurazione più efficace è quella di un deserto popolato da fantasmi che finiscono per dominare il malcapitato. Il silenzio può diventare un luogo di disperazione: silenzio imposto dall’aguzzino alla vittima, o scelto liberamente da chi si incammina su vie mortifere. In entrambi i casi vale ciò che scriveva Elie Wiesel nel suoTestamento di un poeta ebreo assassinato: “Nessun maestro mi aveva detto che il silenzio poteva diventare una prigione. Non sapevo che si potesse morire di silenzio come si muore di dolore, di fatica, di fame”.
Con realismo occorre ammettere che questo silenzio non ci è estraneo: l’importante è esserne consapevoli e trasformarlo in quel silenzio vitale da cui sgorgano una vita e una parola colma di senso.
In quest’ora tragica per l’umanità “in cui nel mondo una guerra è signore della terra”, grida, urla salgono dalle vittime verso il cielo vuoto per molti; ma occorrerebbe che noi sapessimo ascoltare anche il “silenzio muto”, generato dall’esaurimento del respiro. Ad alcuni sembra che anche Dio conosca questo silenzio.
Bene
Chandra Candiani
Cosa intendo, mi chiedo, con la parola «bene» quando lo invio a me stessa o agli altri? Certamente, lo stare bene nella propria pelle, nel corpo e nella mente. Trovare un proprio punto d'appoggio nel mondo, come fanno gli uccelli con i rami e lí trovarsi a proprio agio, intonati al luogo e al momento, e fare un dono agli altri. Avere la forza della consapevolezza: non solo ricevere le sue visite, ma saperne reggere la sfida, la sua forza rivoluzionaria, il suo sguardo sovversivo su se stessi e sul mondo. Seguire le invisibili linee. Vedere con limpidezza e profondità dentro di sé e dentro gli eventi e i fenomeni che incontriamo. Avere la risolutezza di tenere fede alle visioni profonde che sorgono e tradurle in azioni. Saldarsi alle parole, non lasciarle uscire da sole, non lasciarle orfane nel mondo, ma legarle al respiro, al cuore pensante, alla riflessione. Essere gentili senza scadere nella compiacenza, senza venir meno al proprio profondo sentire, ma condividerlo senza imposizioni, con parità e senza alcun intento di colonizzazione. Sapersi proteggere. Aver cura di sé, e quindi degli altri. Vedere il mistero che ci circonda ovunque. Sapersi inchinare e chiedere rifugio. Potersi abbandonare al sonno, perché ci si sente in un luogo abbastanza protetto. Potersi sfamare e dissetare. Poter reggere l'insoddisfazione e interrogarla e vederla trasformarsi in spazio aperto. Studiare il proprio carattere e poterne ridere quando va allo scontro con il carattere dell'altro, poterlo lasciar cadere come un costume di scena. Amare e lasciarsi amare. Vivere, respirare, meditare per addestrarsi a essere nulla.
Ho bisogno di svegliarmi, di essere presente a me stessa e alle realtà che mi circondano, risvegliare il pensiero, il sentire, il corpo. Non automatizzarmi, non vivere come una sonnambula, separata da me stessa e dal resto del mondo, anche se fa male, anche se è scomodo. Esercito il risveglio con una pratica istantanea che mi dà anche gioia ed esuberanza: nei momenti neutri, andare da una stanza a un'altra, lavarmi, lavare i piatti, vestirmi; o in quelli difficili, portare qualcosa di pesante, ammalarsi, non dormire; o in quelli belli, leggeri, mi dico: «Questo è il momento!» Mi lavo i denti un po' annoiata, come se solo dopo potessi iniziare a vivere: «Questo è il momento! », e arriva subito il soffio di gioia dello scoprirsi vivi, presenti. Ogni attimo è una soglia, ogni azione è un rito, tutto pulsa di vita, tutto è sacro. «Questo è il momento!» Proprio ora, assapora.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2021, pp. 131-2)
Compassione
Chandra Candiani
La pratica della compassione inizia portando al cuore, evocando, un essere (non necessariamente un essere umano) che sappiamo che sta soffrendo. Richiamiamo la sua immagine, non lo pensiamo, lo chiamiamo e lo vediamo, lo sentiamo vicino. Quando c'è, quando è vicino, iniziamo a sentire la bellezza del legame, del filo invisibile, anche quando fa male. E da quel mal di cuore partiamo per inviargli frasi di auguri: «Che tu sia libero dalla sofferenza, che tu possa aver cura di te, che tu possa trovare le giuste cure». Sentire il legame non significa precipitare nell'altro e restarne sommersi, non sarebbe piú un legame, ma un'identificazione, una fusione che non fa bene a nessuno dei due. Sentiamo il leggero filo forte che ci lega, lo onoriamo e poi mandiamo le ampie frasi di auguri che non significano che pretendiamo di salvare, di fare magie, ma solo che trasaliamo e vibriamo per la sofferenza dell'altro. Il Buddha non era un salvatore, ma un uomo che al suo Risveglio si è trasformato in una strada e l'ha lasciata aperta a tutti, ha insegnato a percorrerla. Era una Via antica, piú antica di lui, che conduce fuori dalla sofferenza. La sofferenza di soffrire, di ignorare il dolore e le sue cause, la sofferenza di non smettere di aggrapparci e di respingere quel che ci capita. Uscire dalla sofferenza significa riscrivere la relazione con la gioia e con il dolore, con noi stessi e con gli altri, attraversare, traghettare. Significa piena accoglienza di qualsiasi cosa ci capiti. Questa accoglienza prepara all'azione, è non agire in attesa dell'azione intonata.
...
Proseguendo nella pratica della compassione, passiamo quindi a sentire la nostra sofferenza e ad augurarci di esserne liberi. Sentire la propria sofferenza significa non essere piú identificati, sentirla come un tuono, come un gelo, come un fuoco. Dove? In quali punti del corpo? Senza narrazione, ci inoltriamo sulle sue tracce, nelle sue zone e ascoltiamo, assaporiamo, raccogliamo. Geografi della sofferenza, impariamo l'arte della conoscenza, la sua gioia. Non è piú cosí importante quale sia l'oggetto del conoscere, piacevole, indifferente o spiacevole: conta di piú il movimento della conoscenza del flusso di sapori, fino a quello della vastità in cui tutto si svolge, il cuore smisurato della compassione.
Ovviamente per arrivare a sentire la sofferenza come un oggetto di conoscenza ci vogliono tempo e addestramento, può emergere rabbia, desiderio di vendetta, senso di colpa, disperazione. Vanno sentiti uno a uno, nel loro tessuto, consistenza, tono, non credendo a quello che dicono ma anche non giudicandoli come malvagi e respingendoli negli angoli bui. E c'è il contenitore, c'è lo spazio in cui tutto questo affiora e si muove e prima o poi si dissolve. Lo spazio resta, e assaporare lo spazio sgombro del cuore fa respirare l'illimitato, apre a un'assenza di categorie che è vitalità del silenzio.
Inviare a se stessi le frasi di augurio, «che io possa essere libero dalla sofferenza, che io possa averne cura», e soffermarsi a riceverle, ci porta in dono quello che abbiamo sempre cercato altrove.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 50-53)
Lasciarsi interpellare
dal volto dell'Altro
Un invito di Lévinas per questi tempi difficili
Enrica Sala
Le mascherine, le distanze sociali e gli incontri vissuti per mesi dietro a uno schermo sembrano aver segnato profondamente – per sempre? – il nostro modo di relazionarci, entrare in contatto e riconoscerci tra noi. L'invito paradossale e forse impraticabile di Emmanuel Lévinas a uscire dal nostro "mondo" e a lasciarci interpellare dal volto dell'Altro è ancora più urgente, necessario e costruttivo.
Un'infanzia troppo breve e la nascita di una vocazione
Ricordo due pomeriggi, durante il corso di filosofia teoretica, nel corso dei quali l'assistente, a cui era stato affidato l'arduo compito di presentarci Totalità e Infinito in poche ore, ci faceva saltare con una velocità impressionante da un paragrafo all'altro. Impegnata a non perdermi in quella folle corsa e a cercare di prendere qualche appunto in vista dell'esame, non avevo certo gustato la ricchezza e l'umanità dí questo autore. Ricchezza che ho scoperto piuttosto recentemente a Poitiers, città dove attualmente vivo e dove Lévinas ha insegnato dal 1964 al 1967. È stato l'ascolto di alcune conferenze on-line di Silvano Petrosino, uno dei suoi massimi commentatori (Il desiderio in Lévinas e Totalità e Infinito di Lévinas, quest'ultima tenuta al Festival di Filosofia 2019),a far nascer in me il desiderio di cominciare a conoscere la sua vita, attraverso la ricchissima biografia di Marie-Anne Lescourret (Emmanuel Lévinas, Flammarion, Paris 1994), alla quale mi riferirò più volte, e al video di un'intervista che il filosofo rilasciò nel 1990 a Bernard Henri-Lévy (poi pubblicata col titolo Extraits inédits in Isy Morgensztern, Lévinas, Editions Montparnasse, Paris 2013). Senza nessuna pretesa di esaustività riguardo il contenuto della sua opera e del suo pensiero, mi propongo semplicemente, a partire da alcuni passaggi di Totalità e Infinito (Emmanuel
Lévinas, Totalité et Infini – essai sur l'exteriorité, Le Livre de Poche, Paris 1990, da ora indicato con TI) e de Il tempo e l'altro (Emmanuel Lévinas, Le temps et l'autre, Quadriage, Paris 1979, da ora indicato con TA), di trasmettere alcune delle "luci" che questo filosofo mi sta donando, e spero possa donarci.
Se, in generale, è importante conoscere la biografia dí un autore e il contesto storico e culturale in cui ha vissuto per poterne capire il pensiero, questo mi sembra ancor più vero per Emmanuel Lévinas, la cui vita, personalità e filosofia sembrano formare un tutt'uno e dipendere strettamente l'una dall'altra. Nell'intervista sopracitata egli stesso racconta, con la voce sottile di un uomo già anziano e con il riserbo che fa parte del suo temperamento, le sue origini, all'inizio del secolo scorso (1905), nella lontana Lituania, allora provincia baltica sotto la dominazione russa, nella comunità ebraica della città di Kovno. Poco distante, la città di Vilna era stata soprannominata da Napoleone "la Gerusalemme del Nord", capitale dove veniva praticato "il culto dello studio" e dove convivevano diverse correnti dell'ebraismo, dalle più mistiche alle più intellettuali.
Il mestiere del padre, proprietario di una libreria, ha permesso al piccolo Emmanuel, nonostante la discriminazione sociale di cui soffriva la comunità ebraica, una certa agiatezza economica e un'infanzia all'insegna dello studio. Oltre all'insegnamento ricevuto nella scuola della sua comunità, a partire dai sei anni riceve delle lezioni private, due volte la settimana, da un maestro di ebraico. Questa immersione precoce nel mondo della Bibbia sarà un elemento costitutivo e imprescindibile, non solo del suo percorso religioso, ma della sua stessa filosofia.
Quella di Lévinas è un'infanzia che egli stesso definisce «troppo breve», interrotta bruscamente dalla prima guerra mondiale. Per motivi di sicurezza, la famiglia è costretta a emigrare in Ucraina. Comincia da qui quell'incontro e incrocio di culture (russa, ebrea, tedesca e francese) che costituirà un'altra delle caratteristiche originali del suo pensiero e che non mi sembra esagerato definire una sorta di profezia o anticipazione dell'interculturalità che oggi cí troviamo a vivere. Senza dubbio si può dire che già nei primi anni dí vita Lévinas ha incontrato quel volto dell'Altro che costituisce il filo rosso del suo pensiero.
Oltre allo studio precoce dell'ebraico e della Bibbia, l'altra esperienza che egli stesso definisce «prefilosofica» è l'incontro con la letteratura russa, attraverso i romanzi di grandi scrittori quali, ad esempio, Tolstoj, Dostoevskij e Pugkin. Non essendoci lezioni dedicate a questa materia nel liceo da lui frequentato, è attraverso la lettura personale degli autori che egli trova quell'«abbondanza di inquietudine metafisica» e quelle domande sul senso della vita che faranno nascere in lui la vocazione filosofica. Sarà proprio la sua passione per lo studio, fortemente incoraggiata in famiglia, soprattutto dalla madre, a spingerlo ancor più lontano, questa volta a Strasburgo, dove si iscrive alla facoltà di filosofia e dove, grazie alla capacità di apprendere velocemente le lingue straniere, può dar libero sfogo alla sua insaziabile curiosità intellettuale.
L'incontro sconvolgente con la fenomenologia
Questo desiderio di andare sempre verso un «altrove» nella ricerca di senso, lo porta, dopo aver sentito parlare a Strasburgo della fenomenologia, nuova corrente di pensiero che stava nascendo in Germania, ad andare a scoprirla direttamente a Friburgo, seguendo le lezioni del suo fondatore, Edmund Husserl. Da lui ospitato, Lévinas gli sarà per sempre riconoscente di avergli aperto non solo la casa, ma anche – e soprattutto –«nuovi orizzonti filosofici», un «respiro», un nuovo modo di pensare che procede a partire dall'esperienza concreta dell'uomo. Di questo maestro egli tradurrà le Meditazioni metafisiche e a lui consacrerà la sua tesi, intitolata La teoria dell'intuizione nella fenomenologia di Husserl. Per questo Lévinas è considerato ancor oggi uno dei primi introduttori della fenomenologia in Francia.
Ma l'incontro «sconvolgente» è quello col successore di Husserl alla cattedra di Fríburgo, Martin Heidegger: nelle pagine di Essere e Tempo, Lévinas scorge ben presto una vera svolta nella storia della filosofia, un «nuovo inizio». Ciò che più lo affascina nel suo pensiero è la messa in questione dei fondamenti della metafisica occidentale, la ricerca radicale del senso dell'esistenza e la centralità del soggetto. A partire da questo nuovo modo di filosofare, ma prendendone via via le distanze, egli costruirà, negli anni successivi, il suo pensiero originale.
Ritornato a Strasburgo, e ottenuto il titolo di dottore in lettere, contrariamente a quanto ci si possa attendere, non è in un'aula universitaria, inseguendo una carriera che sembrava spalancarglisi innanzi, che Lévinas trasmette il frutto dei suoi studi e la sua incessante passione per la ricerca. Lo fa invece nell'istituto parigino dell'Enio (Ecole Normale Israélite Orientale), di cui, dopo qualche anno, diventa il direttore. Questa scuola prepara i futuri professori delle scuole dell'Alleanza Israelita Universale che ha come fine l'emancipazione degli ebrei dell'Africa del nord e del bacino mediterraneo, fornendo loro un'istruzione scolastica e una formazione spirituale, concepite entrambe come un dialogo tra la loro cultura d'origine e quella del mondo occidentale. Abita nello stesso edificio dove insegna, condivide spesso i pranzi con i suoi allievi e impartisce loro regolarmente, ogni sabato mattina, la sua lezione di Talmud.
Tutto questo senza tuttavia rinunciare a coltivare la sua passione per la filosofia, ad esempio frequentando alcuni corsi alla Sorbona, le celebri serate del venerdì nel salotto di Gabriel Marcel o la Società francese di filosofia, dove conosce Jean Wahl, che più tardi lo spingerà a pubblicare la sua opera più importante, Totalità e Infinito. Lévinas, per il suo carattere piuttosto riservato non è certo un «uomo dí società», che ama mettersi in mostra. Malgrado tale discrezione, tutta la sua filosofia, dall'inizio alla fine, può essere compresa come il frutto di un dialogo aperto con altri pensatori. A partire da Maurice Blanchot, suo amico e interlocutore intellettuale dai tempi di Strasburgo, fino ad arrivare, negli anni del successo, a Martin Buber, Paul Ricoeur e papa Wojtyla, che più volte lo invita ai colloqui organizzati dall'Istituto di Scienze umane di Vienna a Castel Gandolfo.
Una ferita per sempre
Ritornando ai primi anni parigini all'Enio, presto la rapida ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale vengono a sconvolgerne il clima di relativa tranquillità. È soprattutto l'evento tragico della Shoah quello che segnerà per sempre la sua vita e la sua filosofia. Lui stesso viene fatto prigioniero per quattro anni a Rennes e poi in Germania, con condizioni di trattamento meno pesanti, vista la sua appartenenza ai prigionieri dell'esercito occidentale. La moglie e la figlia trovano riparo presso le suore di San Vincenzo e di certo questo favorirà la riconoscenza e gratitudine di Lévinas verso il mondo cattolico. Il grande dolore, una ferita che porterà per tutta la vita, è piuttosto quello di sapere che la sua famiglia d'origine viene completamente sterminata.
Da questo momento, la sua vita e la sua opera sembrano il tentativo di dare una risposta alla domanda su come poter continuare, su come ricominciare dopo l'olocausto. Per lui, al termine della guerra, la fedeltà verso il suo popolo e verso la sua fede non si traduce nell'Aliyah (immigrazione sionista) verso Israele, come nel caso di altri intellettuali, ma piuttosto nel contribuire alla rinascita dell'ebraismo in Europa, attraverso un «giudaismo illuminato». Sicuramente una delle chiavi di lettura del suo pensiero – e anche la caratteristica che ne costituisce l'originalità – è la compresenza e il reciproco arricchimento tra cultura ebraica e filosofia occidentale, in particolare con la nascente fenomenologia tedesca. Lévinas stesso, facendo riferimento a Filone d'Alessandria e a Maimonide, illustra come l'ebraismo non abbia nulla da temere dai progressi del sapere umano, scientifico e filosofico, a condizione che abbia coscienza dei loro limiti. Entrambi – filosofia e rivelazione – si completano vicendevolmente e conducono verso l'unico Dio.
Dopo la guerra, avviene per Lévinas un vero «ritorno al giudaismo», soprattutto grazie a un incontro determinante, nel 1947, con Chouchani: un ebreo itinerante senza fissa dimora, trascurato nel vestire, che si sposta da un posto all'altro del mondo senza denaro, chiedendo di volta in volta ospitalità a coloro ai quali impartisce le sue lezioni di Talmud. Di certo una persona misteriosa, con un'intelligenza e un'erudizione elevatissime in diversi campi del sapere, conoscitore di una trentina di lingue. Il filosofo lo prende per tre anni come maestro e, nel corso di lunghe ore di lezione, apprende quel metodo ermeneutico, quell'analisi sempre più raffinata e approfondita del testo biblico che per sempre applicherà alla sua stessa filosofia. Una filosofia nata certo in anni di nascondimento, ma che finalmente nel 1961 viene alla luce, grazie alla pubblicazione della sua Tesi di Stato, sotto il titolo di Totalità e Infinito. Sarà questa l'opera che gli aprirà, negli anni successivi, le porte dell'insegnamento universitario Nanterre, a Poitiers e, per finire, alla Sorbona«. E che lo renderà presto celebre in tutto il mondo, attribuendogli molti riconoscimenti, come ad esempio il dottorato honoris causa all'università Loyola di Chicago, in Olanda e poi a Friburgo. Tutto questo senza mai fargli perdere il suo temperamento riservato e la sua discrezione, che lo porta a comparire in convegni e anche alla radio o davanti ai riflettori per servire e trasmettere il pensiero e non certo, contrariamente ad altri filosofi di ieri e di oggi, per mostrarsi in pubblico e cercare la propria gloria.
Un cerchio nero su uno sfondo luminoso
A volte ci sono immagini che rendono "in un colpo d'occhio", intuitivamente più che analiticamente, la ricchezza di alcuni concetti. È quello che mi è capitato, forse senza neppure cercarlo, lasciandomi attirare dall'immagine di copertina di Totalità e Infinito. Totalità, come quel cerchio nero dai confini precisi e sicuri. Un cerchio che ben descrive la pretesa della filosofia occidentale, in particolare dell'ontologia, di inglobare e abbracciare la conoscenza della realtà entro la razionalità del pensiero, in un sistema chiuso. È evidente qui la critica, sulle orme di Rosenzweig, a Hegel,
ma anche la sua progressiva presa di distanza dall'ontologia di Heidegger. Rifacendosi a Eraclito, Lévinas afferma che «l'essere si rivela come guerra» e che «la guerra si produce come esperienza pura dell'essere puro» perché «non manifesta l'esteriorità e l'altro come altro», percependolo piuttosto come un pericolo o come un nemico da eliminare (TI, pp. 4-5). Il sottotitolo dell'opera Saggio sull'esteriorità è un invito a non rinchiudersi (sia a livello di pensiero filosofico sia a livello personale) negli stretti confini della propria identità, nell'illusione di dare – a partire da sé stessi e dal proprio mondo – un senso alla realtà e alla propria vita. Il movimento di uscita verso l'esteriorità è la trascendenza che permette di aprirsi verso l'Infinito, lasciando da parte la pretesa di avere un controllo totale e un dominio sul mondo, sulla conoscenza e sugli altri. Solo grazie a tale attitudine, anche dopo l'orrore della Shoah, sarà possibile ristabilire quella pace che è molto di più della fine della guerra, con la sconfitta degli uni e la vittoria degli altri.
In pagine di una ricca fenomenologia, in cui l'esperienza umana è rappresentata in ciò che c'è di più concreto e quotidiano, Lévinas descrive il movimento dell'uomo che, accorgendosi di non poter soddisfare da solo ai propri bisogni, esce da sé stesso, verso il mondo. Costruendo una propria dimora, egli vi trova il proprio posto, abitandolo. Grazie al suo lavoro e a strumenti di vario genere, egli cerca di trasformare tale mondo in «nutrimento», rovesciando la relazione di dipendenza da esso in un rapporto di dominio. Secondo la spiritualità ebraica, il filosofo lituano ha una visione positiva della vita ici-bas e delle realtà terrestri, fonte di «godimento» e di realizzazione personale. Non si tratta dunque di negarle o di fuggirle, ma piuttosto di non arrestarsi a questo stadio, in cui l'uomo è definito come «il Medesimo» (le Méme): un individuo che, preso a ridurre il mondo e gli altri a servizio della propria felicità e della propria autonomia, si trova ben presto prigioniero infelice di sé stesso, chiuso nel cerchio della propria solitudine, sotto il peso di quella che il filosofo chiama «materialità».
Che cosa può permettere al «Medesimo» – e a noi stessi, spesso rinchiusi in questa prigione – di spezzare i confini del proprio egocentrismo? Che cosa può aprirci «estaticamente» all'Infinito, rappresentato nella copertina del libro dallo sfondo luminoso, al di là del cerchio nero? È ciò che Lévinas chiama il desiderio metafisico: «L'Altro metafisicamente desiderato non è "altro" come il pane che mangio, come il paese che abito, come il paesaggio che contemplo. Di queste realtà io posso nutrirmi e, in larga misura, soddisfarmi, come se esse mi fossero semplicemente mancate» (TI, p. 21). Mentre nel bisogno il soggetto è interamente assorbito dall'oggetto che assorbe, il desiderio non si identifica mai esclusivamente come mancanza (cfr. TA, p. 53; TI, p. 302): il Desiderato infatti non soddisfa e non colma il desiderio, ma lo scava. Il desiderio è sempre desiderio dell'assolutamente Altro (cfr. TI, p. 23).
L'epifania del volto
Per Lévinas, l'apertura all'infinito e la relazione all'alterità possono avvenire solamente nel tempo e in un tempo che è proiettato in avanti, al futuro, visto come qualcosa dí inafferrabile, di assolutamente nuovo, una sorta di costante rinascita. Come non pensare, leggendo queste pagine, alla pandemia inaspettata che ci siamo trovati ad affrontare, le cui conseguenze non avremmo mai neppure lontanamente immaginato? Quale disorientamento ha provocato in noi, quale perdita di controllo sugli avvenimenti, su noi stessi e sulla durata delle nostre vite. E, al tempo stesso, quale scossone, quale richiamo a non voler ricondurre il mondo e gli altri alla soddisfazione dei nostri bisogni, alla realizzazione dei nostri scopi personali! Il futuro, la morte, sono davvero quell'«alterità» che, oggi più che mai, non possiamo più scansare. Questo futuro inafferrabile è rappresentato sicuramente nella sua forma più radicale dalla morte. Ma c'è un evento, si chiede Lévinas, che ci permette di aprirci all'Infinito, vivendo questa dimensione di futuro già nel corso della nostra vita, dando senso alla morte stessa? Tale possibilità ci è data nell'epifania dell'Altro che si manifesta attraverso il volto (cfr. TI, p. 284).
È infatti solo nell'irrompere del volto dell'Altro che possiamo uscire dalla prigione del nostro egocentrismo e aprirci all'esteriorità e alla trascendenza. Per non cadere subito in un grande fraintendimento, seguendo l'invito di Emmanuel Falque (cfr. Id., Le Combat amoreux, Hermann, Paris 2014, pp. 124-126, da ora indicato con CA) è bene soffermarci sul fatto che, ben al di là di quella che in francese è la figure, cioè l'aspetto esteriore sensibile del volto, il visage è per Lèvinas ciò che, superando (in francese percer, «perforando») la forma che lo delimita, mi parla e mi invita a una relazione. Esso è espressione, linguaggio. In questi tempi in cui spesso ci lamentiamo per la difficoltà di entrare in relazione a causa dei nostri volti coperti a metà da una mascherina, questa distinzione (che in italiano non si trova) tra figure e visage può stimolarci a vedere un po' al di là di quanto si presenta sensibilmente ai nostri occhi. La relazione a cui l'Altro mi interpella non è reciproca, come per esempio il rapporto Io-Tu descritto da Martin Buber. È piuttosto una relazione con un Mistero; «l'Altro non è un alter-ego, è quello che io non sono» (TA, p. 63.75).
A partire dalla sua analisi fenomenologica dell'eros, Lévinas sembra metterci in guardia contro quelle che sono le «ambiguità dell'amore»: se è vero che il desiderio dell'amore si dirige verso l'Altro, è al tempo stesso vero che esso a volte rischia di perdere la sua dimensione di trascendenza. Questo avviene quando si cerca nell'altro un essere a noi connaturale, un'anima gemella. Allora il rapporto d'amore tra uomo e donna rischia spesso di rimanere «una solitudine, un egoismo a due, una società intima e chiusa». L'amore può spesso essere vissuto come fusione, nel desiderio di diventare un tutt'uno con la persona amata. Ma il filosofo ci ricorda che il «il patetico dell'amore consiste in una dualità insormontabile di esseri» (TA, p. 78), perché la relazione non può mai neutralizzare l'alterità, ma la conserva. Il rapporto con l'Altro non annulla la separazione: c'è sempre una distanza, un'assenza, nel senso di qualcosa dell'Altro che non giungiamo mai a conoscere o a possedere completamente, un'inafferrabilità che è apertura al futuro, all'imprevedibile (cfr. TA, p. 83; TI, p. 281). Tale trascendenza, apertura al futuro e all'infinito, si realizza al massimo grado nella fecondità: Lévinas descrive la paternità come quella relazione in cui al tempo stesso ci si identifica e ci si disidentifica col figlio stesso: «egli è me, ma l'io è nel figlio, un altro. Nel figlio il padre ritrova sé stesso, ma al tempo stesso un estraneo, un Altro» (TI, p. 299).
Il volto che mi interpella
La fecondità e la relazione con Autrui sono molto più vaste della generazione in senso biologico: spesso, con chiari rimandi all'Antico Testamento, Lévinas parla dell'Altro attraverso le figure dello straniero, della vedova o dell'orfano
che mi interpellano, che «invocano» (TI, p. 74). Come Falque ci fa notare, dobbiamo fare molta attenzione a certe interpretazioni troppo "ottimiste" che, non considerando la tragicità e la drammaticità dell'epifania del volto (ricordiamo che la sua filosofia nasce all'ombra della Shoah), ne sottolineano soltanto l'aspetto di accoglienza e generosità (cfr. CA, pp. 115-116). Dobbiamo pure diffidare di certe interpretazioni in ambito cristiano che hanno quasi fatto coincidere il rapporto con l'Altro in Totalità e Infinito con l'insegnamento evangelico. Se si possono certo trovare dei punti in comune, non dobbiamo mai dimenticare che l'Incarnazione – e dunque una certa visione dell'uomo – è uno spartiacque.
Non sono io, in uno slancio di altruismo, ad andare incontro all'Altro, ma è il suo volto che mi si presenta innanzi imponendosi, possiamo pur dire disturbandomi e cercando di spezzare, senza che io lo abbia voluto o deciso, i confini egocentrici del mio mondo chiuso. Il volto è ciò che, nella sua nudità, cioè nel suo esporsi di fronte a me nella sua vulnerabilità, senza difese, mi toglie a sua volta ogni forma di potere su di lui, opponendomi quella che Lévinas chiama «resistenza etica»: esso sfugge alla mia presa, al mio possesso e si rifiuta di essere da me considerato come oggetto di conoscenza e contenuto in qualsiasi forma di «Totalità» (TI, p. 82; 215). Di fronte alla mia impossibilità di dominarlo, l'unico modo di negarlo sarebbe quello di annientarlo: «L'Altro è il solo essere che posso voler uccidere» (TI, p. 216). Il volto che mi parla si pone innanzi a me con la sua invocazione "non uccidere" che interpella, mettendola tragicamente in questione, la mia libertà. «L'accoglienza dell'Altro è l'inizio della coscienza morale» (TI, p. 82), ciò che investe la mia responsabilità, in un atto etico, in una relazione di giustizia. Mi apro a una santità, a un amore che va al di là di ogni forma di concupiscenza, a quella bontà che «consiste a porsi nell'essere in modo tale che l'Altro vi conti più di me stesso» (TI, p. 277). Quello che Lévinas descrive è un continuo esodo, un progressivo cammino di liberazione in cui posso riconoscere l'Altro solo riconoscendone la fame e donando.
A noi che spesso doniamo agli altri con un atteggiamento di autosufficienza e superiorità, Lévinas ricorda che quella con l'Altro è sempre una relazione asimmetrica, in cui egli ci si presenta innanzi nella sua trascendenza, nella sua eminenza e signoria. È tale "altezza" che mi apre a sua volta alla relazione con Dio, attraverso la responsabilità e il dono al povero, allo straniero, alla vedova. Per il filosofo ebreo, Dio non si è fatto carne, ma «la dimensione del divino si apre a partire dal volto umano» (TI, p. 76). A differenza di quanto hanno tentato di fare molte filosofie, per Lévinas è del tutto impossibile conoscere e definire Dío attraverso le categorie della nostra conoscenza, non solo perché la nostra intelligenza è limitata, ma soprattutto perché il Dio invisibile si rende accessibile attraverso la giustizia (cfr. TI, p. 77).
Non si tratta più di aspirare a una conoscenza universale attraverso la sola razionalità e le tradizionali categorie della metafisica. Nella filosofia dell'alterità che Lévinas ci propone, «l'infinito deborda il pensiero che lo pensa» (TI, p. 11) e il sapere non si può ridurre a una conoscenza oggettiva. Esso conduce verso l'Altro (cfr. TI, p. 84). In questo senso, la tradizionale opposizione tra teoria e pratica, in cui la prima ha da sempre dominato sulla seconda, non ha più ragione d'esistere. E proprio per il fatto che l'esercizio della mia responsabilità verso l'Altro mi apre alla trascendenza e dunque alla metafisica, l'etica è da lui considerata come la "via regale" verso la verità. È l'etica stessa, e non più l'ontologia, a divenire "filosofia prima". Nella prefazione dell'edizione tedesca del 1987 di Totalità e Infinito, Lévinas rovescia l'etimologia del termine filosofia: non più, sul modello greco, amore della sapienza, ma sagesse de l'amour. Una filosofia che insegna il volto dell'Altro e dalla quale, alla luce della recente pandemia, abbiamo molto da imparare.
(FONTE: Feeria, 59 2021/1, pp. 14-20)
Piccola fenomenologia della carezza
(a mio padre)
Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.
Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.
La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.
La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.
Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.
La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.
Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.
Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.
La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.
Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.
È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.
La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.
E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.
(FONTE: La Botte di Diogene – blog filosofico
A cura di Mario Domina)
CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA
Emmanuel Lévinas
Una dimensione dell’assenza: la carezza
“La carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire mai abbastanza avvenire nel sollecitare ciò che si sottrae come se ‹non fosse ancora›. Essa ‹cerca›, fruga. Non è un’intenzionalità di svelamento, ma di ricerca: cammino nell’invisibile. In un certo senso ‹esprime› l’amore ma soffre per un’incapacità di dirlo. Ha fame di questa espressione stessa, in un continuo incremento di fame. Va dunque al di là del suo termine, è tesa al di là di un ente, anche futuro, che, appunto in quanto ‹ente›, bussa già alla porta dell’essere. Nella sua soddisfazione, il desiderio che l’anima rinasce, alimentato in qualche modo da ciò che ‹non è ancora›, e ci riporta alla verginità, eternamente inviolata, del femminile. Questo non significa che la carezza cerchi di dominare una libertà ostile, di farne il suo oggetto o di strapparle un consenso. La carezza cerca al di là del consenso o della resistenza di una libertà ‹ciò che non è ancora›, qualcosa che è «men che nulla» che sta come rinchiuso e sopito al di là dell’‹avvenire› e, quindi, sopito in modo completamente diverso dal ‹possibile› che si offrirebbe all’anticipazione. La profanazione che si insinua nella carezza risponde in modo adeguato all’originalità di questa dimensione dell’assenza. Assenza diversa dal vuoto di un niente astratto: assenza che si riferisce all’essere, ma vi si riferisce a modo suo, come se le «assenze» dell’avvenire non fossero avvenire, tutte allo stesso livello e uniformemente.”
EMMANUEL LÉVINAS (1906 – 1995), “Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità” (1961), introduzione di Silvano Petrosino, trad. di Adriano Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2006 (sesta ristampa della II ed. 1990, I ed. 1980), Sezione quarta ‘Al di là del volto’, B. ‘Fenomenologia dell’eros’, p. 265.
“La caresse consiste à ne se saisir de rien, à solliciter ce qui s’échappe sans cesse de sa forme vers un avenir jamais assez avenir à solliciter ce qui se dérobe comme s’il ‹n’était pas encore›. Elle ‹cherche›, elle fouille. Ce n’est pas une intentionnalité de dévoilement, mais de recherche: marche à l’invisible. Dans un certain sens elle ‹exprime› l’amour, mais souffre d’une incapacité de le dire. Elle a faim de cette expression même, dans un incessant accroissement de faim. Elle va donc plus loin qu’à son terme, elle vise au-delà d’un étant, même futur qui, comme étant précisément, frappe déjà à la porte de l’être. Dans sa satisfaction, le désir qui l’anime renaît, alimenté en quelque façon par ce qui ‹n’est pas encore›, nous ramenant à la virginité, à jamais inviolée, du féminin. Non pas que la caresse chercherait à dominer une liberté hostile, à en faire son objet ou à lui arracher un consentement. La caresse cherche par-delà le consentement ou la résistance d’une liberté ‹ce qui n’est pas encore›, un «moins que rien», enfermé et sommeillant au-delà de l’‹avenir› et, par conséquent, sommeillant tout autrement que le ‹possible›, lequel s’offrirait à l’anticipation. La profanation qui s’insinue dans la caresse répond adéquatement à l’originalité de cette dimension de l’absence. Absence autre que le vide d’un néant abstrait: absence se référant à l’être, mais s’y référant à sa manière, comme si les «absences» de l’avenir n’étaient pas avenir, toutes au même niveau et uniformément.”
EMMANUEL LÉVINAS, “Totalité et infini. Essaix sur l’extériorité”, Kluver Academic, Paris 1990 (I éd. Nijhoff, Amsterdam 1961), ‘Au-delà du visage’, B. ‘Phénoménologie de l’éros’, p. 288.
Filosofia della carezza – Come amare nel rispetto della libertà dell’altro
Valerio Stagno
2 Febbraio, 2020
Molte volte facciamo coincidere con l’Amore un sentimento di proprietà e di appartenenza, saltando il livello della libertà che rappresenta il luogo stesso dove l’Amore vive e ha bisogno di vivere. L’eros vive al suo interno una condizione di continua ambiguità equivocando, all’interno della relazione etica come metafisica, tra l’immanenza e la trascendenza, passando dall’altruismo all’egoismo e rischiando continuamente di trasformare il desiderio metafisico, dell’invisibile, mistero in cui si racchiude l’enigma della femminilità, in bisogno fisico del visibile che si esprime nella voluttà e nel godimento. La partita dell’eros come relazione che mantiene la metafisicità, rischiando continuamente di perderla, viene giocata tutta nel desiderio dell’intimità erotica attraverso la ricerca della nudità senza profanazione.
Come scrive Sergio Labate, ricercatore in filosofia teoretica all’Università di Macerata: “andando incontro all’amata, l’amato desidera di approfondire il mistero, di instaurare una relazione al di là del volto; percepisce che questo desiderio si può esaudire come profanazione […], ma se questa relazione è oltre l’egoismo, nella sfera della gratuità, desidera ancora più fortemente che la relazione con l’infinito mistero celato nella nudità dell’amata avvenga senza profanazione, o come profanazione che pure lascia lo spazio perché ciò che è profanato sia mantenuto nella sua essenza di intoccabilità, di improfanabile”[1].Questa tensione desiderante che muove l’attenzione del desiderio su se stesso “per non decadere in semplice bisogno”[2], si traduce nella concretezza nell’evento della “carezza”. Questa indica a pieno titolo “il movimento dell’amante di fronte alla debolezza della femminilità, che non è, né pura compassione, né impassibilità, ma si compiace di questa compassione”[3], ponendosi come esperienza profonda della relazione erotica, in quanto relazione con la trascendenza, la quale allo stesso tempo cerca continuamente il contatto con l’intimità della nudità.
La carezza come momento della concretezza dell’eros, e come contatto con l‘altro, “è sensibilità”[4] , ma non di una sensibilità qualsiasi tale da restare imprigionata nella forma tutta immanente di un estetismo senza evoluzioni, ma di una sensibilità che attraverso la carezza, “trascende il sensibile”[5], non in un modo tale “che essa senta al di là del sentito, più profondamente dei sensi, né significa che essa si impadronisca di un cibo sublime, […], un’intenzione di fame che si dirige sul cibo che si promette e si dà a questa fame, la scava, come se la carezza si nutrisse della propria fame, al contrario, la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire-mai abbastanza avvenire-nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora”[6]. Amando l’amata, la carezza “ama il trascendente celato nel non-ancora-essere dell’amata”[7] permettendo così all’amato di donarsi all’amata in un “desiderio senza voluttà”[8] proponendosi come un atto profanatore di ciò che non può essere profanato, perché per natura improfanabile. Nonostante questo, la carezza è il segno tangibile della non “rinuncia alla comunicazione segnica corporea, non spirituale”[9] che traccia i confini di “un incontro integrale e paradossale, corpo e trascendenza uniti l’uno come desiderio che desidera la trascendenza, l’altra come trascendenza che si dona al desiderio come nudità o intimità”[10]. Quindi l’eros seppur interpretato in chiave prettamente metafisica, non rifiuta l’esperienza della corporeità che con la carezza viene descritta come “l’azione di una mano diretta dal desiderio verso l’intimità dell’amata, in un contatto del tutto sensibile con la pelle nuda, profanazione dell’intimità di Altri”[11]. Tuttavia se fosse solo questo, la carezza perderebbe di eticità e quindi di metafisicità, avvicinandosi invece sempre più ad una relazione di tipo ontologico, tale che il contatto tra io e Altri perderebbe la nozione di separazione da cui è caratterizzata la prossimità. Senza dubbio ciò che nella carezza è interpretato come voluttà, e cioè l’appetito della soddisfazione sensuale, “non viene soddisfatto nella pienezza di un compimento”[12], in quanto, in questo tipo di relazione che si viene a creare, con la carezza erotica, io non possiederò mai ciò di cui sento il bisogno[13] perché “l’appetito sensuale o il bisogno si soddisfano della nudità dell’amata, ma non si saziano di essa – soddisfazione che non coincide mai con il nutrimento”[14] o meglio coincide con un nutrimento del tutto particolare[15], che resta allo stadio dell’appetito, “che si sazia della sua fame”[16], “di una fame che rinasce all’infinito”[17] in quanto rivolto più che al cibo alla sua assenza, nella quale la carezza come non-ancora-essere trova la sua intenzionalità. Cosi la relazione etica in eros, non solo è salvata, non potendo essere assolutamente compresa, ma l’alterità “resta intatta nella sua nudità”[18], nella misura in cui l’Amata “si mantiene nella sua verginità”[19], nella notte dell’erotico, nella quale nello stesso istante in cui scoperto Eros, Eros sfugge “per esprimere in modo diverso la “profanazione”.
[1] S. LABATE, La sapienza dell’amore, Cittadella Editore 2007 cit., p. 150.
[2] Ibidem.
[3] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book – Milano, 1971, p.264.
[4] Ivi, p. 265.
[5] Ivi, p. 265.
[6] Ibidem.
[7] S. LABATE, La sapienza dell’amore, cit., p. 151.
[8] Ibidem.
[9] Op. cit., p. 151.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 152.
[12] Ibidem.
[13] “La carezza erotica non cerca una comprensione concettuale dell’altro; sull’orlo della profanazione dal di dietro del pudore, appare l’Altro non come oggetto del bisogno, ma come oggetto di un bisogno particolare tracciato dal desiderio dell’Altro, il bisogno voluttuoso.” A. JARNUSZKIEWICZ, Separazione e prossimità, cit., p.116.
[14] S. LABATE, op. cit., p.152.
[15] “L’amore è caratterizzato da una fame fondamentale e inestinguibile”, E. LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 37.
[16] Ibidem.
[17] Il tempo e l’altro, op. cit., p. 58.
[18] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.
[19] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.
Dimore divine
Chandra Candiani
Mai come in tempi di emergenza e di distanza forzata si sente l'essenzialità dell'insegnamento delle dimore divine. Poter inviare il bene da lontano, e inviarlo con precisione, fa di noi dei disciplinati postini che consegnano a domicilio anche nelle ore notturne auguri di bene, vicinanze trasparenti, strette delicatissime, carezze. E molti mantelli custodi.
Bisogna preparare il cuore, dargli il tempo di sentire, senza preferenze e opinioni, lasciare che il cuore scelga e si permetta di percepire. La tristezza quieta e vibrante che tira i fili e ci richiama a ospitare il male senza paura di contagi e danni irreversibili si chiama compassione.
Allora ci sediamo e chiunque arrivi alla nostra mente lo inviamo gentilmente al cuore, gli facciamo una cuccia. E non facciamo niente, solo ospitiamo, accarezziamo con il respiro, inspiriamo ed espiriamo insieme. Tutto il corpo, tutto il pensiero è un augurio di bene, senza decidere quale sia il bene giusto.
Portare al cospetto del cuore anche chi o che cosa ci crea turbamento e dolore, chi ci ha fatto torto, la relazione finita o rotta, e non fare niente: limitarsi ad assistere alla cura del cuore, alla trasparenza della nuda ospitalità. Forse niente si aggiusterà, certe volte c'è una risonanza nella realtà contingente e l'altro risponde, ma spesso quel che è rotto resta rotto; solo, i pezzi non sono piú acuminati, non feriscono piú: stanno. E noi contempliamo senza alcun parere né posizione. La cura del cuore è l'affidamento alla legge dell'impermanenza e della causa-effetto, ovverossia del karma. Affidandoci si calma la smania della riparazione e della rottura definitiva, affidandoci non sappiamo e aspettiamo. Quieti.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 71-72)
Che cos'è la spiritualità
Nel linguaggio della teologia contemporanea con il termine «spiritualità» si intende uno stile di vita, originato e derivato dall’esperienza religiosa personale, vissuto nel concreto della propria esistenza, in una prospettiva soprannaturale a lungo termine.
I contenuti oggettivi della spiritualità sono quelli della rivelazione cristiana, dei dogmi, della liturgia e dei documenti del magistero della Chiesa Cattolica; mentre le modalità soggettive con cui quei contenuti sono vissuti nel concreto dell’esistenza provengono dalla vita interiore del credente, di colui che prega e cerca continuamente la volontà di Dio su di lui.
La spiritualità intesa come stile di vita diventa progressivamente una cultura, in altre parole una interpretazione globale del proprio mondo. Infatti, l’esperienza dello Spirito Santo è sempre accompagnata da una qualche riflessione, più o meno attrezzata e sistematica. L’esperienza dello Spirito plasma così non solo il comportamento individuale e comunitario ma anche tutte le espressioni del credente, come l’arte, la politica, l’ambiente, l’impegno sociale, ecc. Ogni opera umana manifesta infatti la spiritualità, il pensiero e le intenzioni di chi l’ha realizzata.
Alcune parole di Stefano De Fiores e di Karl Rahner ci aiutano a comprendere meglio cosa sia la spiritualità:
“Per il credente è un imperativo rendere conto della sua esperienza religiosa, intesa come presenza vissuta e incontro di comunione con Dio; [il credente] deve cioè dimostrare che la sua fede non è un’arida astrazione, ma costituisce un tessuto connettivo di vita; deve in qualche modo ripetere con A. Frossard: “Dio esiste io l’ho incontrato”, pena la privazione di ogni forza convincente nella sua testimonianza.
[Inoltre] Più sentito attualmente è l’itinerario che muove dall’uomo, dal suo vissuto e dalle sue esperienze, per giungere a Dio. Si è convinti che Dio si può sperimentare sempre e in qualsiasi situazione, ogni volta che scendiamo nelle profondità della vita, là dove essa rivela la sua spaccatura, orientata ad accogliere il trascendente.
Ma se si può arrivare a Dio da qualsiasi strada, esistono esperienze privilegiate in cui l’uomo coglie la sua apertura a una dimensione superiore, a una realtà che dà consistenza a tali dati esperienziali e ne orienta il dinamismo.
Quantunque gli autori non coincidano nell’individuare queste esperienze privilegiate, ci sembrano significative quelle indicate da K. Rahner: «In una forma non ancora tematica l’uomo fa esperienza di Dio e accetta Dio come condizione di possibilità di alcuni atteggiamenti umani fondamentali, ad esempio là dove l’uomo spera incondizionatamente nonostante il fatto che dal punto di vista empirico la situazione sia disperata; là dove una singola esperienza di gioia è vissuta come promessa di una gioia illimitata; là dove l’uomo ama con una fedeltà e un abbandono incondizionati, nonostante il fatto che la fragilità dei partners non garantisce in alcun modo un amore radicalmente incondizionato; là dove l’obbligo etico è vissuto come radicale responsabilità, nonostante il fatto che apparentemente porta alla rovina; là dove l’uomo sperimenta e coglie incondizionatamente il carattere inesorabile della verità; là dove l’uomo nella pluralità dei destini umani riesce a sopportare l’invincibile discrepanza tra individualità e socialità, sperando fermamente - anche se tale speranza è apparentemente priva di fondamento e non si lascia oggettivare - in un senso finale o in una beatitudine che riconcilierà tutto. Tale esperienza di Dio è anche presente là dove l’uomo non ha nemmeno sentito la parola ‘dio’ e non l’ha visto usare come etichetta per indicare la realtà verso la quale la trascendentalità è orientata» (K. Rahner, “Kirchlische und außerkirchliche Religiositatät, in Stimmen der Zeit, 98 (1973), p. 9).
In genere si sperimenta Dio partendo sia dalla pienezza dei valori, sia dal vuoto e dai limiti della vita: l’uno e l’altro aspetto spesso si includono mutualmente”.
(da STEFANO DE FIORES, “Spiritualità contemporanea”, Nuovo dizionario di spiritualità, a cura di Stefano De Fiores e Tullio Goffi, Edizioni Paoline, Roma 1979, pp. 1516-1543. La citazione riportata è alle pp. 1528-1530).
Sulla mistica
Antonietta Potente è religiosa domenicana, teologa, docente e scrittrice. L’abbiamo recentemente incontrata nel Giardino delle Beghine di Mantova, ove ha presentato il volume di Wanda Tommasi Vivere Dio qui e ora. La sapienza mistica di autrici del nostro tempo (Paoline, 2023), di cui ha curato la prefazione.
Antonietta, cosa si intende per mistica?
Si può intendere la mistica come un oggetto di studio. Per molti è così. Mentre io penso che la mistica non possa essere affatto ridotta ad un oggetto di studio, perché mistica è quella esperienza profonda della vita che è percepibile da parte di tutte le donne e di tutti gli uomini, sia pure in maniere diversificate in relazione ai contesti di vita.
Cercando parole per dirla – io ci sto provando, col mio lavoro, da molti anni – la mistica è riconoscere che la vita ha una sua propria profondità, sentire che nulla è banale, vuoto o “morto” nella vita: nel creato come nella storia.
Parlo di qualcosa che, di per sé, è inesprimibile o ineffabile. L’etimologia aiuta: la radice greca rimanda, infatti, ad una “bocca chiusa”, al silenzio più che a chiare parole dettate dalla pura e dura razionalità.
Perciò la mistica è vissuta più che detta. Tante donne e tanti uomini l’hanno vissuta e la vivono ogni giorno.
Io uso l’immagine dell’albero di cui vediamo il fusto, i rami, le fronde, non le radici che affondano nelle profondità: eppure, il “verde” che noi vediamo dipende da quelle.
La mistica, così intesa, ha dignità tra le discipline di insegnamento e di studio?
Al proposito, posso dire che nell’ambiente accademico ho sentito talvolta apostrofarmi: «scrivine, sei molto mistica!». Beh, questa battuta non esprime una seria considerazione della mistica nelle scienze: piuttosto denota come la mistica venga presa ancora oggi come una cosa “a parte”, una sorta di abbellimento, non indispensabile.
Mentre la mistica – nella maniera in cui la intendo – sta dentro tutte le scienze, non solo nelle discipline teologiche, bensì persino nella fisica o nella chimica del mondo.
Un narrazione di donne
La mistica è più femminile che maschile?
Proprio perché la mistica non può essere semplicemente detta, definita, se non raccontando la vita – la propria vita nel profondo – penso che tale narrazione riesca meglio alle donne piuttosto agli uomini. Noi donne siamo più portate a raccontarci, raccontando la nostra vita interiore.
Dico poi che la mistica è come il “luogo” ove si nasce e quindi si continua a rinascere: ciò ha molto a che fare con l’utero materno, con la madre, con uno specifico femminile.
Non voglio dire che non esista la mistica maschile. La stessa sensibilità sussiste nell’uomo. Penso, anzi, che gli uomini oggi possano e debbano rendersi conto della preziosità dei loro sensi – sia di piacere che di dolore -, saperli dire senza mascherare o nascondere, come meglio sanno fare le donne, soprattutto senza razionalizzare quelle sensibilità maschili che sono ritenute “troppo femminili”.
Questo nostro tempo è difficile per la mistica?
Non so se questo tempo sia più difficile di altri. La mistica sta nelle profondità della vita, ed è, perciò, normalmente, coperta da tanto altro, sempre.
Certamente, tuttavia, la caratteristica che ha preso il sopravvento nel nostro tempo è l’esteriorità, termine che ha un significato opposto a quello della profondità o a quello dell’interiorità, che meglio stanno con la mistica.
Per altri versi, oggi, si parla sin troppo di mistica. Ho letto, ad esempio, che si parla di una “mistica dell’impresa”: ben venga! Ma mi sembra altro: una moda esibita con un linguaggio che poco o nulla ha a che fare con la sobrietà propria della mistica, delle mistiche e dei mistici: persone che sanno spogliarsi delle mode e delle tante cose superflue che ci ricoprono.
Ciò risulta particolarmente evidente in alcune figure della storia della Chiesa e non solo.
La Chiesa – o la storia umana in genere – come ha trattato le mistiche e i mistici?
Anche la Chiesa ha teso a separare la mistica o la spiritualità dalla fisica, incorrendo in quel dualismo che il cristianesimo nega. Non c’è niente di separato, come sappiamo: lo spirito è uno, questo nostro sentire è uno; la storia è una. Nei miei libri descrivo l’umano quale animacorporea, parola scritta proprio così, attaccata: invito tutti a fare altrettanto.
Il criterio col quale guardare all’autenticità della vita mistica è quindi la trasformazione. La mistica trasforma la vita. Trasforma la storia. Una mistica che non trasforma non è mistica.
Chi sono, allora, le mistiche e i mistici della Chiesa?
Maestre e maestri di mistica sono, per noi, ora, donne e uomini vissuti secoli fa: in realtà, la caratteristica di queste figure è di essere passate senza ritenersi maestre o maestri di alcuna e di alcuno. Tra le caratteristiche importanti delle figure mistiche è infatti proprio la differenza da ogni forma di affermazione di sé e di arroganza.
Pure un certo senso di insicurezza – o di dubbio – è proprio delle mistiche. Basta leggere il bel libro di Wanda Tommasi. Le certezze assolute sono troppo spesso coniugate con l’arroganza.
Mistica e religione
Una vita così misticamente vissuta può prescindere dalle appartenenze religiose?
L’animacorporea non è evidentemente proprietà delle Chiese e delle religioni. Perciò l’esperienza mistica – che è appunto di tutti gli esseri umani – non è proprietà di alcuna Chiesa o religione.
Peraltro, l’islam conosce esperienze mistiche bellissime, così come le religioni orientali; del cristianesimo, naturalmente, sappiamo.
Ciò che qualifica la mistica vissuta non è tanto, dunque, l’appartenenza religiosa, quanto quel “sentire” che salva anche nella notte buia del dolore e della morte: quel sentire che, in fondo, è il regalo più bello e più prezioso della vita.
Le religioni – avendo riconosciuto il “tesoro” – indebitamente, se ne sono appropriate, per vari motivi, del resto facilmente comprensibili: per distinguersi da chi nega l’esistenza del dono, per raffinare il proprio pensiero, per offrire sicurezza. Ma non è semplicemente possibile – e sbagliato – appropriarsi di ciò che è divino: la profondità della vita è il dono divino più grande, che è in tutto ed è in tutti.
La mistica viene da un “principio”, e questo principio, variamente inteso, è divino, non umano.
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La mistica può essere dunque il terreno di incontro di tutte le Chiese, di tutte religioni e, persino, di tutti gli umani?
La via dell’incontro nel cosiddetto “dialogo interreligioso” è piuttosto il silenzio interreligioso o semplicemente il silenzio umano di fronte al mistero della profondità della vita.
Penso che sia fondamentale oggi – più che parlare – ascoltare il mistero della vita, negli altri, nelle altre persone e culture: certo, questo significa anche parlare, ma senza pretese, senza avanzare un credo religioso.
È questo il tempo opportuno per una mistica sovra-religiosa?
Potrebbe esserlo, ma col criterio che ho detto, che è quello trasformativo. I mistici desiderano ardentemente la trasformazione di sé e del mondo.
Il mio timore – in questo tempo mercantilista al massimo grado – è che, ancora una volta, avvenga la separazione tra la sfera dello spirito (mistica) e la fisica o la storia.
Si, è senz’altro il momento opportuno: ciò non vuol dire affatto che sia un tempo facile. Anzi. Io parlo spesso di parto trasformativo. Nel parto c’è il dolore, c’è la nascita, c’è la gioia. Nella madre, in realtà, avviene una trasformazione radicale, consapevole, accettata “costi quel che costi”.
La mistica e il mondo
Nella mistica non c’è, piuttosto, il rischio del ripiegamento su di sé e dell’allontanamento dal mondo?
Senz’altro, come ho detto, se la mistica diviene una disciplina di studio o un’esperienza di vita religiosa “a parte”. Ma non è questo.
Quando abbiamo una ferita, la sensibilità della nostra pelle aumenta: avvertiamo maggiormente il bruciore e il dolore, eppure è proprio quella sensibilità aumentata a guarirci, a “salvarci”. Similmente, la mistica realmente vissuta ci rende maggiormente sensibili a tutto e a tutti, insieme a noi stessi. Ed è ciò che ci salva.
Penso di aver scoperto l’importanza della mistica in America Latina, in un contesto tremendamente, socialmente, forte. Allora ho scritto di mistica e di politica, di mistica politica: due parole apparentemente molto lontane tra loro. Ora preferisco un approccio mistico-sapienziale: una sola parola che riguarda la vita tutta intera, le relazioni, le comunità umane.
Ecco, una volta che questa sensibilità mistica è acquisita – come fa la pelle – allora resta e la si porta ovunque. La mistica è in grado di produrre trasformazione sociopolitica.
Nella tua concezione la preghiera cos’è? Può essere un momento “a parte”?
La mia concezione della preghiera è molto vicina agli esicasti: la preghiera è incessante. Penso che la preghiera sia il modo di relazione con le profondità della vita o il modo di stare misticamente nella vita. Ma proprio perché questa vita va sentita, ascoltata, guardata, in silenzio, innanzi tutto, non penso si possa rinunciare ad un tempo nel quale stare semplicemente “seduti”, “senza fare nulla”.
In questo senso, non escludo una sorta di successione temporale: “prima” ci mettiamo “seduti” ad “ascoltare” senza fretta – perché troppi errori abbiamo fatto già e facciamo con la fretta -, “poi” ci mettiamo a fare, “dotati” dell’ascolto.
L’ascolto nella preghiera non è tuttavia qualcosa di astorico: l’ascolto sta anche nell’avvertire il grido dei popoli afflitti dal male nel mondo, popoli vessati da ogni sorta di violenza e di forze di potere.
Sono necessarie formule per pregare secondo la tua visione?
Ogni tradizione ha la sua mistagogia, la sua azione – secondo il significato stesso della parola – che verso il mistero della vita. Riti e liturgie tracciano, ma sono l’azione.
Il danno avviene quando tutto ciò diventa una formula che non aiuta più a sentire alcunché: allora si spegne l’afflato dell’animacorporea e per l’animacorporea, a vantaggio del controllo delle “sole” anime, spezzando così gli esseri umani: una parte va alle Chiese e alle religioni e l’altra parte va allo stato. Ma lo stato non è altro che l’unico, nostro, stare nel mondo da umani.
Ci sono fatti, eventi, esperienze della vita che più facilmente determinano l’atteggiamento mistico?
Penso a Margherita Porete o a Giovanni della Croce: hanno attraversato l’esperienza che definisco della Assenza-Presenza, l’esperienza della notte oscura del male radicale, senza tuttavia soccombere allo stesso. Il male sta nella percezione della lontananza, dell’Assenza. La Presenza sta nella percezione della vicinanza, dell’Amore. Ai giovani insegno che l’Assenza non è il contrario della Presenza, bensì che l’Assenza sta dentro la Presenza. Penso che in ciò stia l’esperienza mistica più forte.
Il nome e la titubanza
Nella mistica “classica”, specie femminile, molto spazio hanno le immagini dell’innamoramento e dell’amore sponsale…
Mi è sempre parso riduttivo e fuorviante – molto maschile – aver voluto rinchiudere la mistica delle donne nell’immagine dell’amore sponsale, anche se – certo – allo sposo si è dato il nome di Gesù. Margherita Porete ha usato altre espressioni: quella, ad esempio, della Dama Amore.
Il grande problema umano – nelle vicende della vita come della storia – è il vuoto di amore. Il male è il vuoto d’amore, l’Assenza. Mentre la divina Presenza è Amore.
Si può dire che Dio è Madre anziché Padre?
Provo qualche titubanza a dire semplicemente “Dio”: l’origine della parola – dal sanscrito – porterebbe più propriamente a pronunciare Luce.
Ma la divina Presenza è Amore, come ho detto: allora posso più facilmente dire “Madre” rispetto a “Padre”, perché la mia prima esperienza dell’amore è materna
Luigi Maria Epicoco “Dio non è un antidolorifico”
Don Luigi Maria Epicoco, classe 1980, teologo e scrittore-
Di origini pugliesi, ma adottato da L’Aquila, don Epicoco è stato ordinato prete nel 2005 nel capoluogo abruzzese dove ha vissuto anche la tragedia del terremoto del 2009, quando nella sua veste di cappellano degli universitari fu colpito in particolare dal dramma degli otto giovani della Casa dello Studente rimasti sotto le macerie.
Don Luigi è molto conosciuto grazie ai tanti libri pubblicati e alle catechesi tenute online. Fra le sue più recenti pubblicazioni ricordiamo: La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente, Rizzoli, 2022; Le affidabili. Storie di donne nella Bibbia, Tau, 2023; Solo i malati guariscono. L’umano del (non) credente, San Paolo Edizioni, 2016; “Prega, mangia, ama”. Esercizi spirituali sul Vangelo di Luca, San Paolo Edizioni, 2022; Telemaco non si sbagliava. O del perché la giovinezza non è una malattia, San Paolo Edizioni, 2018; La luce in fondo. Attraverso i passaggi difficili della vita, Rizzoli, 2021.
Don Luigi come desidera presentarsi?
Io sono un prete che tenta di fare il prete in tutti i modi che il Signore gli mette a disposizione. Tra questi anche la scrittura, la formazione e l’insegnamento. Fondamentalmente mi sento un prete che cerca di vivere il sacerdozio anche fuori dalle cosiddette “circostanze ordinarie”. Sono stato per tanti anni parroco ma ora esercito il ministero in altre modalità.
Don Luigi spesso, nella Chiesa, i giovani sono visti come “un problema”: …questi giovani che non vanno più in Chiesa, che non rispettano le regole e così via… Ma nelle sue parole ritrovo invece uno sguardo diverso su di loro, è così?
Assolutamente sì! Noi, Chiesa, dobbiamo eliminare il pregiudizio che vede i giovani come “un problema da risolvere”. Se qualcuno ha un problema questi sono gli adulti, siamo noi adulti, non i giovani. È vero che la giovinezza è sempre un’età di crisi, un’età problematica ma è la problematicità della vita che sta sbocciando! Non è la problematicità di una vita che va a sbattere. Se va a sbattere è perché a volte mancano dei punti di riferimento, di orientamento. Manca un senso grande della vita. Il Vangelo è sempre lo stesso. Ieri, oggi e sempre, ma, non so se oggi noi lo stiamo traducendo in modo da renderlo comprensibile alle nuove generazioni. Quindi la vera domanda è come noi stiamo annunciando il Vangelo. Spesso ci chiediamo se i giovani sono o meno interessati al Vangelo ma questa è una domanda falsa, che non ha senso. È sicuro che i giovani hanno sete di Dio. San Giovanni Paolo II, durante la GMG di Tor Vergata, nel 2000, fece un discorso memorabile ai giovani dicendo loro: “È Gesù che cercate quando cercate la felicità”. Ed è cosi: i giovani non lo sanno, loro cercano di essere felici e noi adulti dovremo solo aiutarli a dare un nome a questa felicità.
A volte ci troviamo davanti ad una Chiesa che non riesce a reggere, a stare davanti al conflitto. Una Chiesa, inoltre, nella quale il Papa stesso continua a denunciare la presenza di “clericalismo”, ovvero di un potere che non sa e non vuole farsi servizio. Che cosa pensa Lei in proposito?
Quando noi ci troviamo davanti ad un “corpo vivo” ci sentiamo spiazzati perché non abbiamo il controllo totale sulle cose. La conflittualità ha due aspetti: uno positivo ed uno negativo. Quando è positiva, la conflittualità racconta che esiste la convivenza di cose, idee, letture della realtà diverse e questo può essere solo un arricchimento. Poi esiste la conflittualità che nasce dal fatto che noi vogliamo uniformare, vogliamo, cioè, risolvere i conflitti eliminando ciò che diverge dalle nostre idee. Nella Chiesa, ad esempio, viviamo la conflittualità nel suo aspetto negativo quando non accettiamo le diverse prospettive, i diversi modi di essere Chiesa. Questo tipo di uniformità ammazza lo Spirito, ammazza la profezia. La bellezza della Pentecoste è che ognuno si ritrova a parlare una lingua diversa ma comprensibile all’altro. Se a Babele ci troviamo di fronte ad una diversità che è incomunicabilità, nella Pentecoste, invece, la diversità nasce dalla comunione e quindi è comunicabilità. Vi è una grande differenza tra comunione ed uniformità, tra essere uniformi ed essere in comunione.
Toccando il tema della catechesi che lei ha tenuto a Colonia, don Luigi, parliamo della distinzione tra fede, devozionismo e superstizione…
Noi a volte facciamo molta confusione tra religione e fede. La religione, per sua natura, rassicura. Molto spesso è un insieme di cose umane, molto umane, nate da un bisogno psicologico di rassicurazione. Quindi tutte le nostre superstizioni sono semplicemente il paganesimo che riportiamo in vita nel nostro modo di credere. Abbiamo un grande bisogno di sentirci rassicurati e la fede non possiamo utilizzarla per questo. La fede non rassicura, la fede incoraggia, ci spinge al largo. Non è una tana sicura, la fede ci spinge fuori dalle nostre sicurezze, ci invita ad osare… Dio non è un antidolorifico. Dio non è qualcosa che noi utilizziamo per non avvertire la vita ma è la forza che ci viene data per affrontare la vita stessa. Quando noi riduciamo Dio al feticismo dei nostri oggetti, al feticismo dei nostri devozionismi, lì non troviamo più Dio ma solo le nostre paure travestite da Dio. E le nostre paure, travestite da Dio, non salvano e non reggono il confronto con la realtà quando questa si fa difficile. La fede invece sì. La fede ci è d’aiuto quando tutto sembra perduto, quando tutto va in mille pezzi. Proprio in quel momento Dio esercita il suo essere Dio.
Come crescere allora nella fede, per essere adulti nella fede?
Dobbiamo stare attenti a non fare confusione tra cultura religiosa e fede. Noi siamo nati in una cultura religiosa e in essa abbiamo ricevuto anche dei sacramenti ma la fede inizia quando c’è un incontro. E questo incontro con il Signore non avviene con un’apparizione, con evento eccezionale ma spesso, avviene, nei momenti della vita molto drammatici o molto gioiosi come la perdita di una persona cara o l’attesa di un figlio. In quei momenti ci si accorge che c’è qualcosa di più di ciò che si vede e che Dio si nasconde esattamente lì. Da quel momento, da quell’incontro in poi nasce un percorso, un cammino. Questo cammino però non ci rende da piccoli a grandi anzi esattamente il contrario. Dobbiamo tornare all’infanzia spirituale. Si diventa adulti nella fede quando si torna ad essere bambini. Ma attenzione: non infantili ma bambini, bambini capaci di affidarsi.
Siamo nel Sinodo universale, si sente parlare di sinodalità, ma forse ne sappiamo ancora poco. Che cos’è, don Luigi, una Chiesa sinodale?
Inizierei col dire che la sinodalità non è una scoperta dell’ultima ora o un’intuizione dell’ultimo momento, essa è costitutiva del nostro essere Chiesa. Il grande fraintendimento è confondere la sinodalità con il coltivare una forma democratica di ecclesialità dove le maggioranze e le minoranze decidono la vita della Chiesa. La sinodalità non è assolutamente questo ma è credere che si può essere Chiesa senza mai tagliare l’altro. Sono le relazioni il luogo in cui Dio parla non i simboli. Dio non parla al Papa ma al Papa in comunione con la Chiesa. Dio parla a noi in comunione tra di noi e nelle nostre relazioni Dio diventa comprensibile. Mi piace, in questo tempo in cui il tema della sinodalità nella Chiesa è molto presente, raccontare le vicende narrate nella Bibbia come storie sinodali. Ad esempio se pensiamo a Mosè noi lo vediamo come un eroe, egli è colui che ha liberato Israele… in realtà Mosè è un uomo problematico, È un omicida, non si assume le proprie responsabilità… è un uomo pieno di difetti. Mosè ha potuto compiere il suo destino solo perché ha avuto accanto delle relazioni che l’hanno aiutato come quelle con Aronne e Maria. Pensiamo ad esempio al momento in cui Mosè deve parlare al faraone e Aronne lo fa per lui perché lui è balbuziente. Per compiere il suo ministero, Mosè ha bisogno degli altri. Nella Chiesa, nel momento in cui escludiamo qualcuno ci autoescludiamo dalla possibilità di poter realizzare la nostra vocazione. La sinodalità è la scoperta dell’essenzialità dell’altro.
Lei ha scritto molti libri, qual è il libro che più ama e qual è stato il più difficile da scrivere?
Chiaramente ogni libro ha la sua storia e non posso dire di amarne più uno degli altri ma mi viene in mente uno dei miei primi testi, un piccolo testo scritto qualche anno fa. Si intitola Solo i malati guariscono e scriverlo è stato per me l’ elaborazione del terremoto che ho vissuto all’Aquila nel 2009. È stato un libro che ho scritto piangendo. E poi Telemaco non si sbagliava che ho scritto interamente in Terra Santa e per questo è un libro che amo molto. Ognuna di quelle pagine è legata ad un pezzo di quella terra. L’ultimo capitolo “la nostalgia del Padre”, che riflette sul rapporto di Gesù con suo Padre, l’ho scritto interamente seduto sul Calvario.
Alessandro D’Avenia "La notte, il sonno e l'insonnia."
Salvo.
Mi sono improvvisamente svegliato dal sonno che è l'allenamento all'eternità e alla fratellanza. Infatti tutti insieme, nell'emisfero in ombra, sprofondiamo nel silenzio orizzontale, e la coscienza, finalmente sottratta ai travagli diurni, riposa in pace, non per morire, ma per avere più vita.
Da questo silenzio che rende tutti semplici mi ha svegliato l'ansia dell'indomani che voleva impormi in anticipo le sue parole, obblighi e maschere. Tutto era immobile, e potevo sentire un solo rumore: quello del cuore della notte (del giorno infatti non diciamo che abbia un cuore). Persino la città lo ascolta, spegnendo rumori di corpi e macchine, di desideri e necessità. Nelle case accadevano poche cose essenziali: amori, solitudini e incontinenze, ma non riuscivo a distinguere le gioie dei primi, le richieste d'aiuto delle seconde, gli sciacquoni delle terze. Stavo a occhi aperti nel buio screziato dai fanali che filtravano dalle persiane, come le paure e i pensieri nella mente, e supplicavo che il sonno tornasse. Il problema di un'insonnia è la disfatta del giorno dopo: la stanchezza duplicata con cui dovremo affrontare proprio ciò che ci sta imponendo l'allerta e per cui dovremmo invece prepararci con un sonno ristoratore. Eravamo allora in tre: la notte, l'ansia e io. Chi avrebbe avuto la meglio?
C'è stato un tempo in cui, bambino, ero all'altezza del sonno: senza incombenza altra che assecondare i ritmi del corpo, naturali come il giorno e la notte. Non c'erano schermi retroilluminati, lavoro diverso dal vivere, carriere da costruire, maschere da mostrare, burocrazie da sconfiggere, ma solo la pace dell'essere chi si è nel grande gioco del mondo, con l'unico desiderio di partecipare e trovare gioia nelle cose. Rimpiango quel sonno tutte le volte che vedo un neonato precipitare in pochi istanti in un sonno inscalfibile.
Nella vita poi arrivò la necessità di illuminare la notte per interrogazioni e prove per le quali non mi sentivo mai abbastanza pronto. Fu allora che capii che diventare adulti è solo cominciare a perdere il sonno. E poiché il sonno perso è perso per sempre (forse la morte sopravviene per il troppo sonno perduto), ne deve valer la pena. Infatti persi il sonno per il dolore di chi mi era vicino, un dolore che mi costringeva a rimanere sul chi vive.
Poi non ho dormito quando mi sono innamorato, dicevo il nome di lei come una litania, quasi che la ripetizione potesse accorciare la distanza o l'attesa. Non c'erano ancora i cellulari ma solo i citofoni, e così il desiderio e l'azione erano ben allenati dall'assenza, mentre i messaggi li riempiono di pigrizia, ambiguità e malintesi. Non ho dormito anche perché ho letto (ho sempre pensato alla camera da letto come la stanza in cui si è molto a letto, ma anche in cui si è letto molto). Non ci sono libri più belli di quelli che strappano il sonno, e credo che dovremmo provare a ricordare quali ci sono riusciti, perché quando le parole sono più forti dell'istinto di sopravvivenza che ci chiede riposo, allora quelle parole rispondono a un istinto più radicale di quello di non volere morire, che è quello di voler nascere. Quando ero ragazzino fino a tarda notte leggevo i fumetti: storie di paperi in cerca di avventure, di Galli che difendevano il villaggio dall'invasore, di supereroi che salvavano qualcuno dal male, perché in fondo nel cuore di un uomo questi sono tre i verbi dell'essere vivi: avventurarsi, lottare, salvare. Crescendo sono diventati altri i libri notturni, di età in età, ma coniugavano sempre quei tre verbi strappa-sonno.
Mi sono rammaricato quando le immagini del cellulare hanno cominciato a contendersi le pagine, ad accendere la notte con uno schermo retroilluminato, che ci eccita, al contrario della luce riflessa sulla pagina che prima o poi ci consegna alla pace. E poi non ho dormito per conoscere le lacrime, le carezze, le paure, gli abbracci, gli abbandoni e i ritrovamenti di corpo e spirito, mie e altrui. Ma l'insonnia di quella notte era solo l'ansia del futuro che si mostra nel frustrante rigirarsi al ritmo dell'inquietudine.
E allora ho cercato di accogliere il presente: se il cuore della notte era lì, allora c'era qualcosa da ricevere. La notte più lunga della letteratura è quella che Ulisse e Penelope passano insieme dopo essersi ritrovati, hanno così tante cose da dirsi e darsi che la dea Atena interviene per allungare il corso delle tenebre. Questo è il cuore della notte: un momento di verità. E la verità è che di giorno respiriamo male e la vita che viviamo ci sta stretta. Nel cuore della notte non si può fare o dimostrare nulla, si è chi si è e si è costretti al faccia a faccia, non si può fuggire, a meno di accendere il cellulare (che ucciderà quel cuore). È il momento di riconoscere ciò che ci soffoca nella vita diurna, per accoglierlo o lasciarlo andare.
La prima cosa che Ulisse confida a sua moglie in quella notte è ciò che gli pesa di più: sa come morirà. Deve dirlo a qualcuno, altrimenti come potrà dormire? E così le racconta tutta l'Odissea e dopo si concedono l'amore che li fa scivolare poi nel sonno. Per questo è fatto il cuore della notte, per trovare il proprio cuore e quello di chi ci ama, a cui confidare che cosa ci fa morire, l'odissea che stiamo attraversando, per poter ricevere e dare l'amore che vince la morte. E allora quelle ore di veglia non sono state sottratte al sonno, ma guadagnate alla semplicità della vita.
Così ho scoperto il cuore della notte e non una notte senza cuore. Ero stanco, ma ero salvo.
Resisti cuore
Alessandro D’Avenia "Nell'Odissea vive la preghiera di chi mendica amore"
Il poema omerico racconta il percorso di ogni uomo alla ricerca della propria verità. Un estratto dall'ultimo libro dello scrittore in cui si rilegge la vicenda di Ulisse come vera scuola di vita.
Nel proemio dell’Odissea il poeta chiede alla Musa di cantare le vicende di Ulisse iniziando “da qualche punto”, che è come dire: «Narraci una tra le tante vicende di Ulisse». Se mi chiedessero di raccontare la mia vita da un punto a mia scelta, da quale partirei? Credo che sceglierei il momento in cui ho visto Itaca nel mio cuore, percependola all’inizio solo come nostalgia di futuro, il nome che io do al desiderio. Itaca per me aveva il volto di un uomo sofferente sotto una croce, in una piccola chiesa sul mare che si ostinava a entrare dalle finestre in forma di luce screziata gialla e azzurra, diffondendo il suo profumo e illuminando chiassose maioliche siciliane. Un uomo aiutava un altro uomo a portare la croce, ed era finito a farlo per caso. È passato alla storia con il nome di Cireneo, perché era originario della città greca di Cirene, nella costa nordorientale della Libia, e quando incontrò Gesù stava tornando da una giornata di lavoro nei campi. Quando ho visto quel volto dipinto ho capito che Itaca per me era la storia di qualcuno che, mentre fa il suo mestiere, aiuta un altro, ferito, affaticato, perso, confuso, a percorrere un pezzo di strada. In quel momento, mi è testimone il mare, ho detto sì a questo desiderio di Dio per me. Da quel punto io comincerei perché da lì tutto è partito e lì “tutto torna”, come siamo soliti dire quando qualcosa si chiarisce o si risolve. Su quel destino si fermerà l’ultima luce dei miei occhi pronti a chiudersi per sempre, e alla luce di quel punto potrò dire, spero, che nulla è andato sprecato, tutto è nato.
L’uomo che porta la croce è ogni povero cristo (solo di lui usiamo il nome proprio per indicare qualsiasi uomo, così come facciamo con l’Odissea per la vita) che ho incontrato nel mio viaggio di ritorno. Anzi, proprio quegli incontri sono stati le tappe del mio viaggio di ritorno. La Musa, figlia di Zeus e di Memoria (Mnemosyne), divinità dal nome parlante, è per i greci la dea dell’ispirazione. Attinge da una tradizione e rinnova, con la bellezza, la presenza della verità, le cose come Zeus le ha stabilite. Da Musa viene la parola “musica”, quell’insieme misterioso di creazioni umane che, non dettate dall’utile, riempiono il mondo di senso. La bellezza non ha senso, ma dà senso. E così il cantore in genere recitava un episodio della grande enciclopedia epica dopo il banchetto o in occasioni di festa, come fosse la puntata di una serie televisiva, nella sala centrale del palazzo reale, dove i commensali erano disposti in cerchio attorno al focolare, come noi oggi davanti a uno schermo luminoso, se non fosse che noi spesso siamo soli di fronte a quello schermo.
Ma prima di iniziare il racconto vero e proprio l’aedo chiedeva l’aiuto degli dei: «L’uomo narrami, Musa». Queste parole del primo dei circa dodicimila versi costituiscono una preghiera che il poeta rivolge alla dea che lo ispira. La Musa è donna in tantissime culture lontane nello spazio e nel tempo, a sottolineare che il dare la vita, il portare nell’essere, è qualcosa che l’uomo può fare solo accogliendo una parte femminile di sé e in sé. Così dovrebbe cominciare ogni opera umana seria, che sia generazione: con la richiesta di saper accogliere la realtà, di saper ricevere l’essere perché possa manifestarsi di nuovo in e attraverso di noi. E quindi la prima cosa da fare perché questa odissea cominci è ricevere, cioè chiedere, e la preghiera è la forma più radicale del domandare. Ho imparato a pregare da bambino, la preghiera che mi ha fatto crescere di più è la seconda parte dell’Ave Maria, dove si supplica la Madonna di pregare per noi: «Adesso e nell’ora della nostra morte».
Sin da subito ho imparato che gli unici due momenti reali sono il presente e il momento della morte, il qui e ora e l’ora del nostro compimento. Quella frase è un manuale condensato dell’arte di essere mortali: essere svegli ora e allora, cioè sempre. Questo mi ha salvato quando sono naufragato. Avevo perso ogni gioia e temevo che la notte oscura della mente e del cuore mi avvolgesse nelle spire della depressione, che purtroppo serpeggiano tra i rami del mio albero genealogico. Non trovavo più vita dentro e fuori di me, così ho pregato come chi non ha e non può niente, come uno appena venuto alla luce e che può solo ricevere, come uno in cui l’ora presente e l’ora della morte coincidono; e ho scoperto che quell’unica ora era l’ora di nascere. E come una risposta, mi è venuta incontro l’Odissea: per capire chi ero quando non ero più chi credevo di essere dovevo ricevermi da qualcun altro che mi conosceva e amava più di quanto io mi conoscessi e amassi. L’Amore era la fonte dell’essere che mi mancava. L’ho invocato davvero, per la prima volta. L’uomo donami, Amore. Fammi nascere di nuovo. Fammi chi sono. Fammi tornare alla luce. Ulisse tornò re solo dopo esser stato un naufrago e un mendicante che chiede un tozzo di pane. Ulisse divenne naufrago e mendicante anche di se stesso. L’Odissea è la risposta a una preghiera, a una richiesta d’amore. Ogni odissea lo è. Ora e nell’ora della nostra nascita. (Resisti cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali Mondadori, pagine 436, euro 20)
Il futuro è dietro di noi
Alessandro D'Avenia
Qualche giorno fa ho incontrato le terze medie della mia scuola, prima delle «Lezioni di futuro», incontri durante i quali gli ospiti raccontano il loro percorso esistenziale e professionale per dare agli studenti qualche spunto su come affacciarsi al periodo della vita in cui si inizia a scegliere non per procura, per sentito dire, per soddisfare aspettative altrui. Ho detto subito che il futuro non esiste, ma esiste solo un presente più o meno «gravido», «in stato interessante»: avere futuro dipende dalla vita che in te vuole e può venire alla luce oggi, qualsiasi età tu abbia.
Del futuro abbiamo fatto un idolo, adoriamo ciò che deve venire, l’ultima versione di tutto, come se nuovo fosse ciò che è recente e non ciò che è inesauribile, che dà qualcosa a ogni incontro (Beethoven è più nuovo dell’ultima hit), e ci illudiamo che, ottenuto qualcosa, avremo pace, ma sappiamo bene che il desiderio è infinito, vuole sempre dell’altro. E poiché dai desideri dipende il destino, la materializzazione del futuro ci porta a costruire «carriere» anziché «cammini», «accelerazioni» più che «destinazioni», la velocità è preferita alla verità. Quale verità? «Che cosa avete fatto o farete oggi che rimarrà per sempre?», ho chiesto.
Le risposte, dettate da una ancora quasi intatta purezza, mostravano che il futuro è destino fatto tempo, e quindi carne, oggi. Che cosa hanno risposto?
«Comincio a scrivere un libro di mitologia giapponese», «Leggo di dinosauri e mi piace cercare cose perdute, voglio fare il paleontologo», «Il mio allenamento di ginnastica ritmica», «Per me il per sempre è sciare: mi sento al mio posto, non vedo l’ora di riprendere», «Voglio diventare ferroviere come mio nonno che mi ha fatto scoprire la bellezza dei treni. Il momento più bello è stato un Milano-Roma con lui, in cabina», «Cantare, tutte le volte che posso canto e soprattutto quando non so gestire le mie emozioni, cantare mi salva», «La lezione di latino di oggi: mi affascina che quelle parole siano state dette così tanto tempo fa e siano finite in tante lingue»... A ciascuno di loro ho allora chiesto: «Quando te ne sei accorto, quando è cominciato questo presente carico di futuro?». Hanno risposto: «da sempre», «sin da piccolo», «non ricordo, me lo sono ritrovato».
Il futuro è già dentro di noi, non è fuori, non è dopo, ma è già. Avete mai pensato al paradosso linguistico per cui i posteri sono quelli “post”, dal latino “dopo” e “dietro”, mentre gli antenati sono quelli “ante”, dal latino “prima” e “davanti”? Il futuro è dopo perché è dietro, ancora invisibile (per vederlo devi voltarti), mentre il passato è prima perché è davanti, davanti ai nostri occhi, purché siano ben aperti. Siamo originali quindi nella misura in cui siamo originari, ci colleghiamo e facciamo fiorire ciò che DNA ed educazione hanno seminato in noi. L’interazione tra genetica ed epigenetica (l’ambiente in cui cresciamo) ci mostra sempre più quanto conta per la nostra destinazione ciò di cui veniamo dotati nei primi 1000 giorni della nostra esistenza, e soprattutto nei 280 nel grembo materno.
L’universo ha cominciato a espandersi 14 miliardi di anni fa, e non si è mai data né mai più si darà, una configurazione di atomi come ciascuno di quei ragazzi. Il futuro svanisce quando si perde questa origine-originalità. E che cosa la minaccia? Tutto ciò che punta a “intruppare” e “uniformare”, quello che fa ogni “regime”, e purtroppo anche la scuola, come è fatta oggi, tende a ignorare l’unicità di cui è ciascuno è portatore, non rispondendo quindi alla propria vocazione: aiutare ciascuno a cercare nel mondo, sempre più autonomamente, ciò che gli serve per fiorire. Da insegnante mi chiedo: che cosa non si è mai visto nella storia umana che solo questo ragazzo può essere e fare? Questo lo aiuterà ad “andar bene”: cioè a camminare in direzione di se stesso e del mondo. Quando Dante incontra il suo maestro nell’aldilà, Brunetto Latini gli dice che se non fosse morto avrebbe speso le sue energie per dare “conforto” ai doni evidenti nel giovane Alighieri. L’educazione è questo: con-forto, cioè “dare forza” a ciò che è embrionale, potenziale ma potente, sia scoprendolo insieme sia esercitandolo, come un allenatore che mette il giocatore al posto giusto.
Oggi invece prevale il modello della libertà assoluta: decidere chi sei e che cosa vuoi senza rispetto di quei «sin da piccolo», «da sempre», «me lo sono ritrovato». Ma per avere una destinazione non basta deciderla: è compimento di un destino che abbiamo già dentro di noi e che va scoperto poco a poco. Quando Ulisse compare sulla scena del suo poema è in lacrime su una spiaggia. Si trova da sette anni sull’isola di Calipso e vuole tornare a casa. Quell’isola è un paradiso, Calipso è una dea innamorata di lui e stare con lei lo rende immortale. Eppure Ulisse piange: si sente separato dalla sua destinazione (Itaca) perché è separato dal suo destino (ciò per cui “da sempre” è fatto). Presso Calipso, che significa “colei che nasconde, che copre”, Ulisse non può “venire alla luce”, “scoprirsi” e “scoprire”. Deve prendere la via del mare anche se questo comporterà dolore. Non è l’eroe della curiosità, ma del nascere attraverso l’esperienza del limite.
Itaca non è fuori di lui, ma dentro di lui, già fatta ma tutta da fare. Ho cercato di raccontarlo in «Resisti, cuore - L’Odissea e l’arte di essere mortali», che ho scritto perché da anni conosco le lacrime di chi ha un’Itaca nel cuore da cui è separato, o perché non è stato aiutato a scoprirla o perché non è stato “confortato” nell’intraprenderne la ricerca. Itaca vuol venire alla luce, c’è da sempre, come mi ha ricordato la risposta che l’amato cantautore Angelo Branduardi ha dato in una recente intervista su questo giornale, alla domanda sul suo talento con il violino: «Sono dotato di un talento fisico che non capisco, perché io inciampo, non so cambiare una lampadina, non so fare nulla: è strano che abbia questa coordinazione su uno strumento così complesso». È strano? No, è originale: un destino, e quindi una destinazione, un presente (sinonimo anche di “dono”) e quindi, se scoperto, ricevuto e allenato, un futuro.
Diventare vivi
"Istruzioni per arrivare vivi alla morte"
Vito Mancuso
Alla morte tutti arrivano di sicuro, ma vi si può arrivare vivi oppure già morti. Alcuni infatti vivono, ma in realtà sono già morti. Vivono, ma non pienamente, vivono a metà, a volte anche meno di metà rispetto alle loro potenzialità vitali, e quindi per buona parte sono già morti.
È ciò che insegna la storia di apertura del bestseller “Messaggio per un’aquila che si crede un pollo” del gesuita e psicoterapeuta indiano Anthony De Mello, pubblicato in America nel 1990 con il titolo “Awereness” e nel 1995 in Italia. Il grande successo del libro inquietò il Vaticano, che il 24 giugno 1998, con una nota della Congregazione per la Dottrina della fede firmata da Joseph Ratzinger, dichiarò le idee di de Mello “incompatibili con la fede cattolica” e tali da “causare gravi danni”. A mio avviso si tratta di un giudizio fondato nel primo caso, ma falso nel secondo, perché il libro non causa danni ma al contrario risana ferite; e lo può fare, io penso, proprio perché è incompatibile con alcune affermazioni (errate) della dogmatica cattolica. La storia racconta di un uomo che trovò un uovo d'aquila e lo mise nel nido di una chioccia. L'uovo si schiuse insieme agli altri e l'aquilotto crebbe con i pulcini trascorrendo tutta la vita come un pollo pensando di essere tale. Un giorno la vecchia aquila vide nel cielo uno splendido uccello che planava maestoso e chiese stupita: “Chi è quello?”. “È l'aquila, il re degli uccelli”, rispose il vicino. “Appartiene al cielo, noi invece apparteniamo alla terra perché siamo polli”. E così l'aquila visse e morì come un pollo, perché pensava di essere tale.
La storia insegna che si può arrivare morti alla morte. E che questo avviene perché si vive in modo difforme rispetto alla propria natura. Specularmente insegna che vi si arriva vivi se si vive in modo conforme alla propria natura. Qual è la natura specifica degli esseri umani? È quella di non avere una natura specifica. Si può quindi concludere che la specificità, seguendo la quale viviamo in modo conforme alla nostra natura e arriviamo vivi alla morte, è la libertà. La libertà si compone di tre qualità: consapevolezza, creatività, responsabilità. Ora, visto il tema che stiamo trattando, mi soffermo in particolare sulla consapevolezza in quanto chiave indispensabile per arrivare vivi alla morte. Praticare la consapevolezza significa lavorare sulla propria interiorità operando coltivazione di sé, concentrazione, attenzione, vigilanza, raccoglimento, silenzio, riflessione, meditazione: un insieme di pratiche che può essere detto “esercizi spirituali” o anche “pratica di consapevolezza”.
Il lavoro finalizzato alla consapevolezza costituisce la vera cultura e il vero culto. La radice delle parole cultura e culto è la medesima, è il verbo latino colo, colere, “coltivare, aver cura”: sia nel senso di un lavoro esteriore espresso dal sostantivo “agricoltura”, sia nel senso di un lavoro interiore espresso dal sostantivo “culto”. Gramsci aveva della cultura un’idea analoga: “La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore”. L’espressione “disciplina del proprio io interiore” fa comprendere che esiste una duplice dimensione dell’io: esteriore e interiore. Si arrivi vivi alla morte se si coltivano entrambe le dimensioni della nostra personalità. Le quali però hanno una grande differenza tra loro: l’io esteriore infatti via via deperisce, mentre l’io interiore può fiorire fino all’ultimo giorno. È quanto Gramsci denominava “coscienza superiore”.
Si potrebbe obiettare che con la consapevolezza si comprende che ogni istante è un passo verso la fine e che quindi sarebbe meglio non esercitarla. È quanto fanno i più, preferendo non pensare e anestetizzare la mente. Ha scritto Montaigne: “Il rimedio del volgo è di non pensarci”. Accantonano l’angoscia e vivono; magari come un pollo, ma vivono. È possibile invece essere consapevoli della fine e insieme vivere in modo lieto e persino nobile come un’aquila?
Rispondo convinto di sì, avendo osservato che proprio chi coltiva la consapevolezza tramite il lavoro spirituale abbandona ogni paura della morte e vive con serenità. Comprende la vera natura della vita e vive con più autenticità ogni minuto, consapevole della preziosità del tempo che non tornerà più e dedicandosi ad attività che danno la vera gioia profonda, e non l’effimera felicità del momento. Coltiva la consapevolezza della morte non come paura o addirittura odio della vita, ma come amore veritiero della vita (non del proprio ego, ma della vita).
Nel passato incombeva un pensiero ossessionante della morte usato per generare paura di Dio e dei castighi dell’inferno e così controllare le coscienze. Si ripeteva: “Ricordati che devi morire” come una funebre terrorizzante litania. I segni del lutto, poi, erano ovunque ad ammonimento continuo. Oggi siamo in presenza dell’eccesso opposto: la vita trascorre all’insegna del divertimento, la morte la si vede solo nei film e si cammina nelle nostre città senza scorgere nessun segno di lutto. La gente però muore lo stesso, e l’angoscia, ben lungi dall’essere scomparsa, forse è persino superiore rispetto al passato quando poteva manifestarsi pubblicamente. Che fare? L’unica via per arrivare vivi alla morte è, come ho detto, la pratica della consapevolezza, il lavoro interiore in quanto cultura e in quanto culto. Potrei citare insegnamenti di grandi pensatori e maestri spirituali, ma ho iniziato con de Mello e concludo con questa suo consiglio: “Il modo per vivere realmente è morire. Il passaporto per la vita è immaginarsi nella tomba. Immaginatevi di giacere nella bara. Ora, osservate i vostri problemi da quel punto di vista. Cambia tutto, non è vero? Che bella meditazione. Fatela ogni giorno, diventerete più vivi”.
Graziato
di Alessandro D’Avenia
La misura della felicità è la gratitudine. Alla fine di ogni giorno, anche il più difficile, cerco di scegliere qualcosa per cui ringraziare e alla fine di ogni settimana scrivo su un foglio quale è stato il dono più bello, così da avere alla fine dell’anno un «salvadonaio» di una cinquantina di «presenti» che hanno reso unico l’anno «passato». Volevo partire da qui per «riprendere» la rubrica dopo la pausa estiva. La «ripresa» è ben diversa dalla «ripetizione»: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport... vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. Diverso è «riprendere»: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima... Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti «ripetente» è sinonimo di bocciato e «mi sono ripreso» di salute: facciamo una «ripresa» quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia «ripetuto» ma «ripreso»?
Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. Atena interviene sovente per versare su Ulisse la charis, grazia, che lo rende bello e luminoso come un dio (ne rimane traccia nel nostro «carisma»). La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive. Ricordo le parole di una cugina pochi mesi prima di morire, non la vedevo da tempo e, dopo averle raccontato del periodo difficile che attraversavo, lei, con gli occhi di chi vede oltre le apparenze, mi ha detto: «Sei ammaccato, è vero, ma sei molto più bello». Avevo grazia. La grazia quindi non riguarda solo ciò che è piacevole, il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. Per me è stata una grazia scoprire la mia chiamata a insegnare da giovanissimo ma lo è stata anche grazie all’insufficienza nella mia prima interrogazione in greco, che è così diventato la mia passione. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. Nel racconto evangelico, quando Maria riceve l’annuncio, il messaggero divino la chiama «piena di grazia», ma trattandosi di un verbo si potrebbe tradurlo anche «fatta di grazia, riempita di dono». La radice è sempre quella dell’omerico charis. Ne rimane traccia nel nostro «graziato» per chi scampa la morte o in «grazioso», versione per lo più meridionale forse più sopportabile di «carino». In italiano restano poche tracce della potenza salvifica e quotidiana di questo termine, e i «colpi di grazia» non danno la vita ma la morte. La grazia è invece la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. A Maria veniva annunciata la possibilità di rimanere incinta in modo misterioso e quindi di essere considerata da tutti un’adultera. Sembra paradossale ma quella grazia, essere la madre di Dio, avrebbe comportato un’onta allora meritevole di lapidazione. Per questo non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire. Nel recente film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella. L’aragosta quando deve crescere si nasconde, si spoglia della scorza rigida, rimane in carne viva fino a che non si forma una nuova corazza. È un momento di paura, nudità, dolore, ma necessario alla sua vitalità. Il giorno del mio matrimonio un’amica mi ha chiesto di riassumere in una sola parola il mio stato: «Graziato». Stavo ricevendo un dono inatteso, il dono dell’amore che mi ha raggiunto proprio quando mi sentivo a pezzi. Vorrei allora che questo primo ultimo banco dell’anno, sia una vera ripresa e vi invogliasse a fermare, magari su carta, la grazia che riceverete oggi, domani, dopodomani... fosse anche ruvida o piccolissima, perché in ogni grazia si nasconde una via di salvezza, di compimento, di gioia. Per riconoscere una grazia bisogna chiedersi se ci porta a diventare più veri, belli e compiuti. E magari queste righe, per chi è arrivato fin qui, saranno per due o tre la piccola grazia odierna. Io vorrei imparare a tenere gli occhi sempre ben aperti per saper ricevere le mie grazie quotidiane, come afferma senza mezzi termini Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo, Il passeggero: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta».
Accarezzare la fragilità dell'altro
Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.
Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.
La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.
La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.
Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.
La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.
Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.
Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.
La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.
Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.
È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.
La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.
E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.
Per una spiritualità del quotidiano
Luciano Manicardi
1. Il quotidiano: perché?
Perché riflettere sul quotidiano? Perché nulla esiste fuori di esso: tutto avviene nel quotidiano, anche lo straordinario, che ci viene rivelato dall'ordinario e non esisterebbe senza di esso. E poi perché ciò che è familiare non per questo è conosciuto. Il quotidiano ci avvolge e, poiché vi siamo immersi, siamo portati a non prestarci attenzione. «Vivendo non ci vediamo vivere» scrive Ernst Bloch. [1] «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. Non ce ne accorgiamo, perché li abbiamo sempre davanti agli occhi». [2] E così rischiamo di fallire il quotidiano, di mancarlo, e di non imparare da esso. Il rischio è di darlo per scontato. E allora solo le crisi, irrompendo nella vita, hanno il potere di destarci dal sonno in cui eravamo immersi e rivelarci la preziosità del quotidiano. La crisi del Coronavirus ci ha mostrato il carattere non scontato delle nostre azioni quotidiane più elementari: camminare, lavorare, incontrarsi, abbracciare, darsi la mano, perfino respirare. Perché dunque riflettere sul quotidiano? Per uscire dall'abitudine che ci porta a ignorare l'abituale; per riscoprire la preziosità di ciò che non ci stupisce più. Il quotidiano noi «non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte, come se non trasportasse nessuna informazione. Non è neanche più un condizionamento, è l'anestesia. Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov'è la nostra vita? Dov'è il nostro corpo? Dov'è il nostro spazio?». [3] «Tutto qui?», ci porta a dire il quotidiano. Eppure, «anche in un cucchiaino da caffè si rispecchia il sole», [4] tanto che dobbiamo chiederci: esistono cose «banali»? O la banalità non risiede piuttosto in chi nutre tali giudizi? Scrive magistralmente Rilke nelle sue Lettere a un giovane poeta: «Se la sua vita quotidiana le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da chiamarne per nome gli aspetti preziosi; per colui che crea, infatti, non c'è povertà, e nessun luogo è povero o insignificante». [5] La quotidianità rischia di restare sconosciuta o conosciuta male, svalutata rispetto alle cose ritenute grandi e importanti. Eppure, è nel quotidiano che noi realizziamo la nostra umanità, ci costruiamo come persone, edifichiamo le relazioni che danno senso, sapore e fondamento al nostro vivere: amicizie, amori, una famiglia. Ovvero, le piccole cose del quotidiano non sono poi così piccole. Perché dunque riflettere sul quotidiano? Perché, scrive Maurice Blanchot, è «la cosa più difficile da scoprire». [6] Perché il quotidiano «sfugge» – ripete ancora Blanchot –, si sottrae alla nostra coscienza a motivo della noia, della ripetitività, della consuetudine, perché ci riduce alla condizione di uomo qualunque, che fa ciò che fanno tanti altri; il quotidiano sfugge alla grande storia e potrebbe apparire come la stagnazione che impedisce di librarsi, il freno che blocca la corsa, l'anonimato che spegne l'originalità. [7] Perché allora, e infine, riflettere sul quotidiano? Per porci finalmente una domanda, anzi, le tante domande che normalmente evitiamo. Abbiamo coscienza del quotidiano? Lo vediamo? Sappiamo dirlo e descriverlo? Come si riflette in noi l'abituale? I muri in mezzo a cui viviamo, i negozi che frequentiamo, le vie che percorriamo, gli oggetti che usiamo: possibile che ciò con cui più abbiamo a che fare ogni giorno non eserciti su di noi un'influenza? Possibile che lo possiamo tralasciare senza preoccuparcene? In verità, le «cose» di ogni giorno parlano di noi, di quel che siamo. Dove le «cose» non sono semplicemente gli oggetti, ma coprono l'ambito del materiale e dell'immateriale, del visibile e dell'invisibile, sono l'esterno che influenza l'interno e l'interno che si riflette sull'esterno, sono il dialogo ininterrotto che i sensi stabiliscono con il mondo e con cui il mondo tocca la nostra anima attraverso i sensi. Il quotidiano ha dunque una valenza antropologica, ma anche spirituale. E deve interpellare anche il cristiano. Non possiamo forse intendere riferito al quotidiano, alla piccolezza dell'ordinario, l'espressione evangelica che parla di chi è «fedele nel poco» (Mt 25,21.23) e riceverà autorità su molto?
2. Il quotidiano, il vangelo, Gesù
Per il cristiano il quotidiano è il luogo del culto esistenziale. Karl Rahner afferma che il quotidiano è «lo spazio della fede, la scuola della sobrietà, l'esercizio della pazienza, il salutare smascheramento delle parole pesanti e degli ideali fittizi, l'occasione silenziosa per amare ed essere fedeli in modo autentico, la prova dell'obiettività, che è il seme della sapienza più alta». [8] Dunque, il quotidiano, interpellando la nostra umanità, interpella anche la nostra fede.
Il rapporto quotidianità-vangelo ci suggerisce di assumere un punto di vista altro sul vangelo stesso. Una spiritualità del quotidiano non può che nutrirsi di un approccio al vangelo che interroghi la prassi di umanità di Gesù, che lo consideri nel rapporto con le cose e le attività di ogni giorno, con le realtà elementari del vivere, realtà da cui Gesù non era esentato ma in cui noi normalmente non lo pensiamo. Anche Gesù ha vissuto nel e del quotidiano. E in questo quotidiano ha nutrito la sua fede, ha pregato e riconosciuto la presenza di Dio. E ha illuminato il presente guardandolo con l'occhio del domani, ovvero, del regno di Dio: si pensi alle beatitudini (Mt 5,1-12). Gesù ha camminato, ha mangiato e bevuto, ha partecipato a banchetti nuziali, ha dormito, ha incontrato la realtà del lavoro e dei rapporti famigliari e sociali, ha intrattenuto conversazioni e relazioni, ha parlato e fatto silenzio. Gesù ha osservato il granello di senapa e la massaia che fa la pasta, il seminatore e il mietitore, il pescatore che getta le reti in mare e che lava le reti dopo la pesca, ha soggiornato in una casa, ha avuto degli amici, ha osservato corvi e volpi, passeri e cani, gigli e anemoni dei campi e, come appare dalle parabole, ha fatto della sua osservazione del quotidiano la base del suo insegnamento. Ha annunciato il regno di Dio non con discorsi astrattamente teologici, ma parlando di una chioccia che raduna i pulcini sotto le ali e di un uomo che ammannisce un banchetto per le nozze del figlio, ha osservato i movimenti e i colori delle nuvole in cielo per dedurne i cambiamenti del tempo, ha tastato i rami del fico, e, sentendone la tenerezza, ne ha dedotto la vicinanza dell'estate.
Se il quotidiano parla di Dio, Gesù ha detto Dio parlando del quotidiano.
Se ha detto «amate i vostri nemici», «fate questo in memoria di me», «pregate per non entrare in tentazione», ha anche detto «guardate gli uccelli del cielo», «dalla pianta di fico imparate la parabola». Il suo linguaggio era narrativo e sapienziale, popolare, intriso di aforismi e proverbi e sgorgato dall'esperienza quotidiana: «se il sale perde il sapore con che cosa lo si renderà salato?» (Mt 5,13); «non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio» (Mt 5,14); «dov'è il tuo tesoro lì è anche il tuo cuore» (Mt 6,21); «chi chiede riceve, chi cerca trova, a chi bussa verrà aperto» (Mt 7,8); «si raccolgono forse uve dalle spine o fichi dai cardi?» (Mt 7,16). Si potrebbe continuare a lungo, ma l'insegnamento è chiaro: l'umanità di Gesù è stata plasmata dal confronto con il quotidiano, un quotidiano colto sempre come riflesso e annuncio del regno. Oggi un approccio spirituale cristiano al quotidiano può essere nutrito dall'assiduità (quotidiana) con il vangelo guidata dalla domanda: come vive Gesù? Come parla? Come incontra le persone? Come le cura? Come ama? Come declina la sua umanità?
Tuttavia, se Gesù ha valorizzato la realtà quotidiana come luogo teologico, egli ha anche messo in guardia dall'assolutizzazione di essa e delle realtà penultime. Gesù ha indicato il rischio di fare delle occupazioni quotidiane l'orizzonte saturante dell'esistenza. Il quotidiano può infatti diventare la preparazione della catastrofe esistenziale. Così Gesù si esprime in un discorso escatologico: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo» (Mt 24,37-39). Prima di annegare nel diluvio, la generazione di Noè è annegata nella propria incoscienza, nell'inconsapevolezza di ciò che si stava preparando. La versione lucana dell'episodio aggiunge la dimensione del lavoro al quadro del quotidiano della generazione di Noè: «mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano» (Lc 17,28). Ovviamente, mangiare e bere, sposarsi e fare figli, commerciare e lavorare la terra, così come tutto ciò che costituisce l'ossatura della vita quotidiana, non è per nulla riprovevole. Tuttavia, il testo interpella sulla possibilità di vivere senza sapere perché, di vivere annegando nella quotidianità. Infatti, non è nella profondità che si annega, ma nella superficialità. [9] Un approccio spirituale cristiano al quotidiano non può che essere escatologico: la prospettiva del regno che viene illumina l'oggi valorizzandolo nella sua preziosità infinita e relativizzandolo per impedire le derive idolatriche.
Certo, nei vangeli noi non abbiamo la descrizione in presa diretta del quotidiano di Gesù. Quello è inattingibile. I vangeli presentano dei racconti, non dei fatti, ma dai racconti possiamo risalire alle modalità con cui Gesù vive il quotidiano facendone il luogo in cui Dio stesso è presente e gli parla. Se il quotidiano parla di Dio, Dio parla nel quotidiano. In questo atteggiamento di Gesù noi troviamo il fondamento per un approccio spirituale cristiano al quotidiano.
3. Di cosa è fatto il quotidiano?
Per parlare del quotidiano occorre vederlo e nominarlo, e noi abbiamo già notato come esso sfugga, sia poco visibile e riconoscibile. Il quotidiano è la vita come normalmente non la vediamo. Ciò che lo rivela, infatti, è anche ciò che lo nasconde. Per esempio, la ripetitività. Tutto ciò che è vitale dev'essere ripetuto quotidianamente, ma ciò che è ripetuto viene anche eseguito meccanicamente, senza pensarci. Il quotidiano è intessuto di una quantità di gesti memorizzati e quasi automatici che sono sopportabili proprio per non dover essere pensati e decisi: il rito mattutino della colazione, il percorso del pendolare per andare e tornare dal lavoro, i gesti sempre identici della commessa nel supermercato, ecc. Molti sono i nemici del quotidiano, o almeno le difficoltà che esso presenta a tanti contemporanei: l'abitudinarietà, la routine, la noia che ingenerano la tentazione della fuga.
Il quotidiano poi, costituito da una serie di atti «umani» elementari come mangiare, dormire, lavorare, riposare, parlare, ecc., comprende anche gesti come prepararsi un caffè, fare una passeggiata, contemplare le stelle, fare cucina, uscire sul balcone, leggere un giornale o un libro, salutare chi si incontra, conversare con un conoscente, giocare con il proprio cane, ridere o piangere, scherzare, arrabbiarsi, comprare un vestito, andare in un negozio... E dovremmo aggiungere il quotidiano contemporaneo, ovvero gli elementi che rendono il nostro quotidiano differente dal quotidiano di chi visse anni o decenni fa: guardare la televisione, prendere un aereo, navigare in internet, telefonare con un cellulare, usare uno smartphone, un iPad, interagire con Alexa Voice Service, ecc. Siamo di fronte alla tecnologizzazione del quotidiano, al quotidiano alla prova del web e dell'algoritmo. Potremmo dire con una boutade: non c'è più il quotidiano di una volta!
Un approccio spirituale al quotidiano implica che ci poniamo qualche domanda: che cosa facciamo del quotidiano? O meglio, che cosa facciamo di noi attraverso il quotidiano? Ma più spesso dobbiamo porci la domanda, sempre tardiva: che cosa ha fatto di noi il quotidiano? Che cosa ci ha resi? E nella non-vigilanza, nell'accumulare ore di vita incoscienti di sé che si nasconde la banalità del male e si costruisce la rovina di un'esistenza personale.
4. Il rapporto con il tempo
La quotidianità ha a che fare anzitutto con il tempo, con il suo scorrere giorno dopo giorno. Ha a che fare con la durata, con la difficile impresa di non lasciarsi andare nel giorno dopo giorno. La quotidianità ci interpella sul modo in cui viviamo il tempo. Ci chiede se e come sappiamo vivere i tempi dell'attesa, o se per noi questi sono sempre e solo «tempi morti», sottratti a una vita che sarebbe caratterizzata essenzialmente dal fare. Ci interpella sulla perseveranza, sulla fedeltà, sull'equilibrio che riusciamo (o no) a stabilire fra memoria e proiezione al futuro. A volte le nostre vite inaridiscono nella paralisi rimanendo ostaggio del passato, oppure si consumano in fughe in avanti e nelle illusioni che le accompagnano. La sottolineatura evangelica dell'oggi, categoria cronologica che si carica di valenze cristologiche e teologiche, conduce, sul piano spirituale, a un apprezzamento del momento presente e all'adesione alla realtà. Di fronte all'angoscia di un passato che non passa e a un futuro che impaurisce, la sapienza biblica suggerisce di cogliere il momento presente come frammento in cui possiamo vivere il tutto che dà senso all'intera nostra vita. È vano affannarsi per il domani, infatti «a ciascun giorno basta il suo affanno» (Mt 6,34): occorre piuttosto accogliere realisticamente ogni giorno con il suo portato di peso e di grazia e, come scrive Bonhoeffer, viverlo «come se fosse l'ultimo e vivere però nella fede e nella responsabilità come se ci fosse ancora molto futuro davanti a noi». [10]
In particolare, accogliere l'inizio di ogni giorno e le realtà quotidiane con il rendimento di grazie (1Tm 4,4: metà eucharistías) è operazione spirituale semplice ma efficace per accogliere come un dono e per 'vivere evangelicamente ogni giornata. E il vangelo (si veda la parabola di Mc 4,26-29 che tratta dell'efficacia del non agire) suggerisce la valorizzazione dell'antica virtù dell'otium. L'otium non è pigrizia, ma lavoro interiore, costruzione del saldo fondamento su cui si può reggere una vita. Otium significa ritrovare il tempo, abitare finalmente il tempo, lasciare che il tempo sia. Che sia: assolutamente, incontaminato, non determinato, non funzionale. «È tempo che sia tempo», è la folgorante illuminazione di Paul Celan. [11] E nell'arte di vivere interiormente il tempo risiede il segreto per vivere spiritualmente il quotidiano, arrivando a conoscere «la bellezza di tutte le ore del giorno, come se ognuna fosse già una piccola eternità». [12] Il tempo apparirà allora il vero tempio, il luogo dove è possibile fare dell'esistere una celebrazione del quotidiano. Siamo invitati all'arte di soffermarci sulle cose, di contemplare. Ma alla base di un rapporto spirituale sano con il quotidiano, il vangelo pone l'esigenza della vigilanza.
5. La vigilanza
La vigilanza, dimensione spirituale centrale nel NT (Mc 13,37; Mt 24,42-44.45-50; 25,1-13; Lc 21,34-36; 1Cor 16,13; Col 4,2; lTs 5,6; 1Pt 5,8; ecc.), è l'atteggiamento di tensione interiore per discernere la presenza del Signore nell'opacità del reale. Nel suo essere tesa al Signore, essa diviene attenzione al tempo e alla storia, al corpo e alla parola, a sé e agli altri, in una parola, a tutto, e plasma una persona che aderisce alla realtà, che non dà nulla per scontato, che fugge la superficialità e da tutto si lascia interpellare e stupire. La persona vigilante è lucida, critica, temperante, presente a se stessa e agli altri, a tutto ciò che vive. Non stupisce che un padre del deserto, abba Pomen, abbia potuto affermare che «non abbiamo bisogno di null'altro che di uno spirito vigilante». [13]
5.1. Alcuni passi evangelici illuminano aspetti diversi della vigilanza
- «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo che è partito, dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate, dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!» (Mc 13,33-37). Non abbiamo potere sul tempo, non conosciamo il giorno della venuta del Signore e nemmeno quando la nostra vita finirà: «Chi può aggiungere un'ora sola alla sua vita?» (Lc 12,25). Come il Signore verrà come un ladro, così la morte giunge improvvisa: «Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Lc 12,20). Della vigilanza fa parte la consapevolezza di dover morire. Il quotidiano ci insegna la lezione dei limiti e del limite per eccellenza che è la morte. La Regola di Benedetto chiede al monaco di «avere ogni giorno presente davanti agli occhi l'imminenza della propria morte» (RB IV,47). L'arte di integrare la prospettiva della propria morte nella vita non è esercizio macabro, ma sapiente ascesi in vista di vivere meglio. È la vigilanza che crea la qualità cristiana della persona nel momento stesso in cui ne plasma la profondità e lucidità umane.
- «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso» (Lc 21,34). Vigilanza è anche sobrietà, moderazione, misura. Il quotidiano ci minaccia con il rischio dell'appesantimento del cuore, del suo indurimento, del suo divenire cinico, insensibile, calloso. Vigilanza è allora attiva lotta contro gli eccessi del cibo e del bere che appesantiscono non solo il corpo, ma anche l'animo, contro la sonnolenza e l'ubriachezza, contro il sonno come fuga dalla vita e contro l'ubriachezza come evasione dalla lucidità, stordimento. Una tentazione contemporanea è la fuga da sé, connessa alla crescente fatica di reggere il peso di un quotidiano sentito come sempre più complesso. [14] La vigilanza chiede temperanza: i tre termini usati in Lc 21,34 evocano gli ambiti della sessualità, che può essere luogo di uso e di abuso invece che di tenerezza e verità dell'incontro; del mangiare e del bere, che possono divenire non occasione di convivialità e di gioia condivisa, ma di abbrutimento e di volgarità.
- Infine, la vigilanza si deve esercitare nei confronti degli affanni della vita. Potremmo tradurre con «angosce esistenziali». La preoccupazione smodata per il proprio io, per la propria salute, per il proprio corpo, per la propria riuscita: ci si lascia prendere dalla preoccupazione per sé e non si vede più la realtà, ma solo sé stessi. Oppure, sono le troppe e soverchianti sofferenze che ci gettano nella confusione, ci fanno entrare in uno stato di annebbiamento mentale in cui non siamo più padroni della nostra vita. E allora si rende drammaticamente vero nella nostra esistenza il verso del poeta Thomas Stearns Eliot che dice: «Dov'è la Vita che abbiamo perduto vivendo?». [15] La non-vigilanza ci porta a esistere senza vivere, a perdere la vita vivendo.
Insomma, vigilanza è atteggiamento che comporta un lavoro, uno sforzo, una lotta. È lotta contro la vertigine, contro l'ebbrezza della fuoriuscita da sé nella via dell'eccesso; è sforzo di non essere dissipati, è adesione alla realtà che insegna l'umiltà, è fatica di stare svegli, di avere gli occhi ben aperti. Essere pronti è un contrassegno della persona vigilante: sono pronte le vergini che hanno con sé le lampade con l'olio e possono accogliere lo sposo (Mt 25,10). Vigilanza è dunque anche prudenza, senso del limite, accortezza. Di certo, una spiritualità del quotidiano esige sia la valorizzazione dei sensi che il loro affinamento e la loro purificazione.
6. Un tramonto: maestro di vita
Vivere spiritualmente il quotidiano significa coglierlo come invito a entrare nella propria interiorità e inventare pratiche illuminate dal senso e abitate dalla gratuità. Così può essere unificata la molteplicità stessa del quotidiano: il quotidiano del lavoro, della vita in famiglia, dei rapporti sociali, del rapporto con la natura... L'incipit di un libro di Emanuele Trevi esprime con nitore un approccio «spirituale» a un fenomeno naturale quotidiano: il tramonto.
«Si può recensire un tramonto? Questa sera di dicembre, affilata dalla tramontana, ha appena finito di eseguire una sua geniale serie di variazioni sui temi del rosso-porpora e del lilla. Apparentemente, nessuno qui intorno sembrerebbe essersi meritato un tale principesco dispendio di bellezza. Perlomeno, di fronte a questi virtuosismi dell'apparenza, io mi sento un poco abusivo». [16]
Capacità di vedere e di stupirsi di ciò che si vede, senso di gratuità, riflesso interiore del paesaggio esteriore, dialogo con il mondo esterno, risposta a ciò che si è visto, coinvolgimento personale: tutti elementi che entrano nella configurazione di una postura spirituale nei confronti di un dato di quotidianità. E che ci rinviano alla creatività.
7. La creatività
La creatività è una modalità di rapportarsi al mondo possibile a ogni uomo [17] e che consiste nella capacità di vedere, ascoltare e rispondere. Dove capacità di vedere e ascoltare significa adesione alla realtà e consapevolezza. Il rapporto con il quotidiano ci pone la domanda se siamo davvero capaci di vedere e di ascoltare (Gesù rimprovera i discepoli che guardano e non vedono, hanno orecchie e non ascoltano: Mc 8,18), se siamo capaci di rispondere a ciò che ci circonda e ci parla. Il creativo si muove nel mondo come ci si addentra in un dialogo incessante con tutto e con tutti. Nella creatività tutto parla e niente è scontato. Di essa fanno parte la capacità di stupore e di concentrazione, il rispetto della propria originalità e l'accettazione dei conflitti. In sintesi, la creatività è disposizione della persona a nascere a se stessa ogni giorno. Ha scritto Eric Fromm: «Essere creativi significa considerare tutto il processo vitale come un processo della nascita e non interpretare ogni fase della vita come una fase finale. Molti muoiono senza essere nati completamente. Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire». [18] Il quotidiano è il luogo di questa nostra nascita.
NOTE
1 E. BLOCH, Spirito dell'utopia, La Nuova Italia, Firenze 21993, p. 13.
2 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, p. 70.
3 G. PEREC, L'infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino1994, p. 12.
4 S. GIEDION, L'era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967, p. 12.
5 Cito dalla traduzione presente in R.M. RILKE, Lettere a un giovane, Qiqajon, Bose 2015, p. 30.
6 M. BLANCHOT, L'infinito intrattenimento. Scritti sull'«insensato gioco di scrivere», Einaudi, Torino 21977, p. 321.
7 BLANCHOT, L'infinito intrattenimento, pp. 321-331.
8 K. RAHNER, Cose d'ogni giorno, Queriniana, Brescia 42016, pp. 6-7.
9 Più estesamente su questo aspetto: L. MANICARDI, Abitare: sé stessi e con gli altri, Qiqajon, Bose 2019, pp. 19-23.
10 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1988, p. 72.
11 P. CELAN, Poesie, Arnoldo Mondadori, Milano 1998, p. 59 (è la poesia Corona).
12 JEAN GUITTON, Prefazione a J. H. NEWMAN, Les Bénedictins, Paris 1980, citato in C. NYS-MAZURE, Celebrazione del quotidiano, Servitium, Sotto il Monte 2006, p. 11.
13 Poemen 135, in Vita e detti dei padri del deserto, vol. 2, Città Nuova, Roma 1975, pp. 116-117.
14 D. LE BRETON, Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, Raffaello Cortina, Milano 2016.
15 T.S. ELIOT, La Roccia. Un libro di parole, Edizioni Biblioteca di via Senato, Milano 2004, p. 27.
16 E. TREVI, Istruzioni per l'uso del lupo. Lettera sulla critica, Elliot, Roma 2012, p. 17.
17 Cf. E. FROMM, «L'atteggiamento creativo», in H.H. ANDERSON (a cura di), La creatività e le sue prospettive, La Scuola, Brescia 1972, pp. 67-78.
18 FROMM, L'atteggiamento creativo, in op. cit., p. 77.
(FONTE: Orientamenti Pastorali 5/2023, Dossier "La spiritualità del quotidiano", pp. 27-36)
Vivo!
Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi restano mesi da vivere.»
- Michela Murgia, il suo nuovo, splendido libro, “Tre ciotole”, si apre con la diagnosi di un male incurabile. C’è qualcosa di autobiografico?
«È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».
- Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?
«Dal quarto stadio non si torna indietro».
- Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?
«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».
- Cosa intende per registro bellico?
«Parole come lotta, guerra, trincea... Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».
- Non può operarsi?
«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».
- Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.
«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».
- L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.
«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi».
- La morte non le pare un’ingiustizia?
«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».
- Una delle sue altre vite la conosciamo: operatrice in un call center. Ne ha tratto un libro, “Il mondo deve sapere”, che ha ispirato il film di Virzì con Sabrina Ferilli “Tutta la vita davanti”. Le altre vite quali sono?
«Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà. Ho fatto la portiera notturna in un hotel...».
- In Sardegna?
«Nel posto più lontano e diverso dal mio paese, Cabras, che potessi trovare: l’hotel Perego al passo dello Stelvio, sull’unico ghiacciaio dove si scia pure d’estate. Ero la sola italiana, con Aisha, marocchina, Mohamed, berbero, Cheik, dell’Africa nera, e Mikhail, serbo. A tavola recitavamo la preghiera cattolica, quella musulmana e quella ortodossa. Il piatto più richiesto dai clienti era lo stinco di maiale e ogni volta era una scommessa: in cucina c’erano Mohamed e Cheik, che non ne hanno mai assaggiato uno...».
- Ora sta studiando il coreano? Come mai?
«Da due anni. Volevo anche andare in Corea, ma le mie condizioni per ora non lo consentono. Tutto nasce da una passione per il k-pop e per i Bts, una musica e un gruppo che mi danno grandissima gioia. Ho iniziato a studiare il coreano per capire i testi. Poi mi sono resa conto che la vera ragione era un’altra».
- Quale?
«Me l’ha spiegata Jhumpa Lahiri. Gli scrittori postcoloniali, che hanno avuto successo non nella loro lingua originaria ma in quella dominante del colonizzatore, tendono a cercare un terzo spazio, una terza patria. Per Jhumpa, che ha origini indiane e scrive in inglese, è l’Italia. Per me, che sono sarda e scrivo in italiano, è la Corea. Forse ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell’oceano, a Busan. Nel coreano cerco parole che nessuno ha mai usato contro di me, e che io non ho mai usato contro nessuno».
- Lei pensa e sogna in sardo?
«Certo. Non soltanto: penso in sardo e traduco in italiano; sono due Michele diverse, una sarda e una italiana. Alla stessa domanda se penso in italiano do una risposta, se penso in sardo un’altra. L’Italia e la Sardegna sono due cose diverse. Per voi la Sardegna è l’isola delle vacanze. Non vi rendete conto che c’è una base militare ogni 150 chilometri, perché d’estate interrompono i tiri per non disturbare i turisti. L’altro giorno ero all’orto botanico, qui a Trastevere. La persona che era con me è trasalita per il botto del cannone del Gianicolo. Io no. Noi sardi siamo abituati ai rumori di guerra».
- Però la Sardegna non è una colonia. È Italia. Uno dei personaggi del suo libro è la donna di servizio di un colonnello, che ha lavorato in un poligono in Sardegna, e dice che non è vero che le morti per tumore in quella zona siano legate alle armi...
«Mi riferisco al poligono di Perdasdefogu, che viene affittato alle potenze alleate: arrivano, pagano, sperimentano armi e tecnologie, se ne vanno, e lasciano la loro scia di morte. Un magistrato coraggioso, il procuratore Fiordalisi, ha fatto riesumare le salme del cimitero e ha portato la Difesa e i vertici militari alla sbarra a rispondere di salute pubblica. Ma la comunità vive di cose non dette. La base dà da mangiare a tutti, ma non consente a nessuno di mangiare in modo diverso».
- Eppure lei affida al suo personaggio, la donna di servizio, il ragionamento contrario. Anche a proposito della sua critica al generale Figliuolo: «Una tipa in televisione ha detto che la divisa del Generale le faceva paura. Centinaia di morti per il virus e questa pazza...».
«La letteratura serve a ribaltare lo sguardo e in quel racconto la pazza sono io. Lo rivendico. Il codice militare applicato a un’emergenza civile è un rischio potente per una democrazia. Nel momento più drammatico abbiamo affidato il governo a Draghi, un tecnico, e la vaccinazione a Figliuolo, un militare. La politica in quel momento si è arresa e ha ceduto il suo ruolo. La facilità con cui abbiamo sospeso le libertà dovrebbe atterrirci».
- Nel suo libro lei cita per nome un solo personaggio, oltre al cantante coreano Jimin: l’ex presidente Cossiga.
«Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli, che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo incalzò. E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei amici... Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”. È un po’ come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha diciassette...” (Michela Murgia sorride)».
- Lei non scriveva un romanzo da otto anni.
«E anche questo libro sarebbe dovuto essere un pamphlet. Invano Marcello Fois mi ripeteva che la letteratura cambia la vita più dei saggi, che Proust ha cambiato il mondo più di Baumann. A me sembrava che un saggio mi consentisse di scrivere più cose autentiche. Poi mi sono resa conto che la letteratura mi permette di dire cose meno assertive; anche cose contrarie a quelle che penso. La donna di servizio giustifica la decisione del Colonnello di sottoporre il figlio malato di cancro a un intervento chirurgico non necessario. Il bisturi come soluzione militare. Radicale. E sbagliata».
- Lei aveva già avuto il cancro.
«A un polmone. Tossivo. Feci un controllo. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale».
- Si era candidata alla presidenza della Sardegna contro tutti i partiti, prese il 10 per cento.
«Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove».
- Questa volta come se n’è accorta?
«Non respiravo più. Mi hanno tolto cinque litri d’acqua dal polmone. Stavolta il cancro era partito dal rene. Ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli».
- Le tre ciotole che danno il titolo al libro sono quelle in cui lei mangia, rigorosamente da sola, un pugno di riso, qualche pezzetto di pesce o di pollo e qualche verdura. Soltanto così ha smesso di vomitare. Un vomito che lei non collega alla malattia, bensì a un abbandono. A una sofferenza d’amore. Anche questa è autobiografia?
«La donna di quel racconto è poco autobiografica. Non sono mai stata lasciata. Sono stata fortunata: ho sempre avuto amori felici, e persone che si sono rivelate in gamba anche quando le ho lasciate. Il vomito l’ho vissuto, ma legato alla mia ostensione pubblica, all’essere diventata un bersaglio. Era la reazione per l’odio che ho avvertito nei miei confronti. È cominciato quando ho visto per la prima volta il mio nome sui muri, quando mi hanno insultata in coda al supermercato. È finito quando ho capito che non dovevo lasciar entrare quell’odio dentro di me».
- Come lo spiega, quell’odio?
«Prima dell’arrivo di Elly Schlein mi sono trovata, con pochi altri scrittori come Roberto Saviano, a supplire all’assenza della sinistra, a difendere i diritti e le libertà nel dibattito pubblico».
- Anche gli esponenti della destra sono odiati.
«Sì. Ma fa parte del mestiere di un leader politico. Salvini e Meloni hanno dietro di sé un sistema di potere. Una macchina. Organi di stampa. Persone che lavorano per loro. Muovono denaro, fanno nomine, decidono carriere. Io nella discussione dovrei essere criticamente terza; invece sono diventata controparte. Ed ero sola, con la forza della mia voce. Mi dicevano: voi... Ma voi chi? “Voi del Pd”. Ma io non ho mai votato Pd in vita mia».
- In un altro capitolo lei racconta di tre ragazzi che uccidono un topo.
«Tre ragazzi che non erano mai stati picchiati dal padre; eppure sanno benissimo come si fa. Io ho avuto un padre violento, come si fa del male lo impari anche quando lo fanno a te».
- Nel libro, il personaggio femminile seppellisce il topo, ma il suo corpo spunta ancora fuori, e lei deve saltarci sopra per pareggiare il terreno.
«Certe cose riaffiorano. Puoi occultarle, superarle, ma mai del tutto».
- Nel capitolo finale la protagonista è già morta, e la sorella appende alle querce da sughero i suoi vestiti, affinché ogni persona cara possa portarne via uno...
«Quella scena c’è stata: nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni e ho appeso alle querce cinquanta vestiti. In questo tempo ho avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un percorso collettivo. Tanti dicono di voler morire all’improvviso, nel sonno, senza accorgersene. Ora ho capito perché mia nonna da piccola mi faceva recitare una preghiera contro la morte improvvisa».
- Perché?
«Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family».
- Come tradurrebbe queer family?
«Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».
- Milioni di persone hanno creduto nella coppia, ci credono, ci crederanno.
«Ma finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna».
- Diceva che ha predisposto tutto.
«Ho comprato casa, con dieci posti letto, dove stare tutti insieme; mi è spiaciuto solo che mi abbiano negato il mutuo in quanto malata. Ho fatto tutto quello che volevo. E ora mi sposo».
- Si sposa?
«Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono».
- Sposa un uomo o una donna?
«Un uomo, ma poteva essere una donna. Nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere».
- Il suo capolavoro, “Accabadora”, è una storia di eutanasia. Però il più grande medico del Novecento, Umberto Veronesi, mi ha detto: «Ho assistito migliaia di malati terminali, e nessuno mi ha chiesto di morire. Tutti mi chiedevano di guarire».
«Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina ai radicali, a Marco Cappato».
- Non le manca un figlio?
«Ma io ho quattro figli!».
- Nel libro scrive che odia i bambini.
«È vero. I bambini rompono i coglioni. Tutti i bambini. Non è vero quel che dicono, che i figli sono maleducati per colpa dei genitori; prima o poi un bambino anche educatissimo piangerà, si lamenterà, disturberà, sconvolgerà il vagone del treno su cui viaggio, prenderà a calci il sedile su cui sono seduta in aereo... Non amo i bambini, ma sono predisposta ad accompagnare gli adolescenti».
- E ha quattro figli.
«Sono figli d’anima. Il più grande ha 35 anni, il più piccolo 20. Tutti maschi, ma è un caso. Uno fa il cantante lirico, uno studia economia anche se speravamo facesse lettere, uno insegna a Yale, l’altro lavora in un grande gruppo della moda».
- Cosa vuol dire madre d’anima?
«La filiazione d’anima in Sardegna esiste da sempre, anch’io ho avuto due madri e due padri di fatto. È insensato dire che di madre ce n’è una sola, una condanna per la donna e anche per chi le è figlio. La maternità ha tante forme».
- Un altro capitolo del libro si intitola “Utero in affido”.
«È la storia di una donna che mette al mondo un bambino e lo affida a una coppia che lo desiderava. Odio sentir parlare di “utero in affitto”, di “maternità surrogata”. Odio la retorica della maternità biologica; meno figli si fanno, più si misticizza la maternità. Forse un giorno nasceremo tutti da un utero artificiale. Quelli che parlano di maternità rubata sono gli stessi che hanno in casa badanti che hanno lasciato i loro figli in Paesi lontani per occuparsi dei nostri bambini e vecchi».
- C’è anche una scena di sesso, molto ben scritta.
«L’ho fatta leggere a Missiroli, Desiati, Saviano. Abbiamo sorriso, l’hanno trovata molto eccitante; ma nessuno si è accorto che lei non viene. Gliel’ho detto: neanche per iscritto vi accorgete che una finge... Vuol dire che funziona».
- Lei ha avuto una formazione cattolica. Crede ancora in Dio?
«Certo».
- L’ha pregato in questi mesi?
«L’ho pregato e lo prego di far accettare alle persone che mi amano quello che accadrà».
- Come immagina l’Aldilà?
«Non un luogo, ma uno stato sentimentale. Dio è una relazione. Non penso che la vita dopo la morte sia tanto diversa. Vivrò relazioni non molto differenti da quelle che vivo qui, dove la comunione è fortissima. Nell’Aldilà sarà una comunione continua, senza intervalli».
- Con gli altri o con Dio?
«È uguale. Sarà il passaggio dal “non ancora” al “già”».
- Quindi non ha paura della morte?
«No. Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio».
- Perché?
«Perché il suo è un governo fascista».
- Il mio giudizio sul fascismo è severo quanto il suo. Proprio per questo non sono d’accordo: il governo Meloni non è fascista.
«Qual è il confine del fascismo? La violenza? La bastonata? Imporre con una circolare che il figlio di due madri sia di una madre sola non è forse violenza? Crede che a una famiglia faccia meno male di una bastonata?».
- Come vorrebbe essere ricordata?
«Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista».
Abitare la vita
Emanuele Borsotti
Abitare è una parola che deriva dal verbo habére che in latino vuol dire: trattenere, occuparsi, possedere e, come forma intensiva frequentativa, continuare ad avere e quindi anche abitare in un luogo, cioè avere una abitudine con quello spazio, farsene quasi un abito, qualcosa che indossiamo e che aderisce radicalmente alla nostra persona. L’uomo è un abitatore di luoghi, di tempi, di storie, di memorie e fa di tutto questo universo il suo habitat, il suo abitare.
Il modo con cui noi uomini stiamo sulla terra è l’abitare (Heidegger).
Bisogna però chiarire come abitiamo o come dovremmo abitare. C’è un abitare improprio che è uno sfiorare il paesaggio, leggere i luoghi come un fondale della nostra vita, come un ambiente palcoscenico che ci resta estraneo, al quale noi non aderiamo intimamente. Ѐ come se il paesaggio fosse un oggetto e noi un soggetto ma senza una profonda relazione fra questi due elementi. L’unico legame fra i due sarebbe una visione superficiale, un aspetto puramente visivo. Pensiamo alla nostra società del selfie: oggi molte volte l’uomo contemporaneo non vede neanche più ciò che sta attraversando, ma frappone fra il luogo e se stesso uno smarphone, un apparecchio fotografico e se va bene rivedrà poi quel luogo nello scatto fatto. Quando però noi scegliamo di fare un passo più in profondità e non ci limitiamo allo sfiorare turistico ecco che viviamo un’esperienza di ancoraggio, cioè abbandoniamo l’esteriorità dello spettatore per entrare in un dialogo. Non si tratta, come diceva Barthes, di limitarci a fotografare il mondo, ma si tratta di rimanere, di percorrere tutta la marezzatura dei luoghi, delle luci, dei momenti.
Questo ancorarsi al luogo è l’esperienza che Cristo fa tante volte. In Marco 10,23 viene usata l’espressione: circumspicere per indicare che Gesù guarda intorno, che ha uno sguardo a 360 gradi ed è questo sguardo che permette a Gesù di amare. Guardarsi intorno è guardare anche dentro l’altro e fare il passo di uno sguardo che ama. Ecco allora l’invito a non fermarsi a posare uno sguardo superficiale sui luoghi, ma ad entrare in una relazione, ad essere implicato dentro l’esperienza di quel luogo.
Ѐ l’esperienza pasquale di Cristo là dove, in Giovanni, si dice che entra nel cenacolo, e “stette in mezzo”, in mezzo non solo dell’ambiente, ma anche del ‘con’ e del ‘fra’ le persone. Ecco allora che nel lasciarsi assorbire da un ambiente e assorbire l’ambiente che ci ospita sta la differenza tra la provvisorietà del turista in transito e l’abitatore del luogo.
Se dunque non sfioriamo i luoghi, ma li abitiamo veramente, dobbiamo confrontarci con l’esperienza di essere costruttori e ricostruttori. L’uomo abita costruendo, costruisce per abitare, ma è proprio perché l’uomo è un abitatore che è in grado di costruire. Vivere è dunque anche questo: costruire e ricostruire luoghi e, attraverso la metafora del luogo, costruire e ricostruire l’esistenza di noi che lo abitiamo. Partiamo da una suggestione che ci viene dalla vecchia sapienza dell’imperatore Adriano - come immaginato dalla Yourcenar, nelle memorie di un grande condottiero - che alla fine della vita fa un bilancio e conclude dicendo: “Io ho costruito e ricostruito”. Costruire come sinonimo di collaborare con la terra, di “lavorare con” e “faticare con” perché labor in latino vuol dire innanzitutto fatica, quindi lavoro. Collaborare con la terra è imprimere il segno dell’uomo in un paesaggio che quindi ne resterà modificato per sempre. E in questo modo contribuiamo a una lenta trasformazione che è la vita delle città, degli edifici, dei nostri spazi vitali. E poi costruire è anche opera di ricostruzione perché bisogna fare i conti con la labilità delle cose e con il tempo, grande scultore, ma anche grande distruttore. Quindi ricostruire è collaborare con il tempo, con il passato, se ne coglie lo spirito, lo si modifica, lo si conserva e gli si imprime un movimento propulsivo cercando di farlo arrivare verso l’avvenire. Ricostruire significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti, l’esperienza sorgiva della vita. Quindi costruire è principalmente un atto di speranza: è dare forma al presente, plasmare la materia, dare una direzione alla vita e sporgerla verso l’avvenire, verso il durevole, verso quello che è il lascito ereditario. Sempre dalla Yourcenar, Adriano dice: “Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno”. Le cose sono sempre costruende, sempre da costruire, sempre da riedificare. Allo stesso modo la nostra umanità, la nostra vita interiore, le nostre profondità spirituali come i nostri legami affettivi sono sempre incompiuti e quindi in costruzione continua. Costruire come speranza e ricostruire come forma architettonica della consolazione è questa l’idea che ci viene dalla Scrittura, dall’AT e dagli scritti profetici.
Sono testi nei quali il verbo ricostruire e il verbo consolare vengono coniugati in parallelo e i paralleli sinonimici dell’ebraico ci dicono appunto che c’è una profonda osmosi fra le due cose.
Ricostruire un edificio, ricostruirsi una vita dopo una frattura significa fare un’opera di architettura della consolazione. Ѐ l’esperienza di Israele dopo l’esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme quando il Signore consola ricostruendola dalle sue rovine, riaprendo un giardino là dove c’era solo un deserto. Questo induce in un canto di gioia. E ancora possiamo dire che la costruzione è un’opera di incontro. Costruire significa incontrare. Quando l’uomo costruisce lo fa a partire da un numero di elementi architettonici basilari limitati.
La novità sta nel numero infinito di combinazioni di questi elementi di base e questo crea l’unicità. Unicità dell’incontro tra l’uomo e un luogo e unicità dell’incontro fra gli uomini all’interno di questo luogo.
E anche nell’incontro tra la mia vita e gli incidenti dell’esistenza perché la vita è anche costruire nonostante gli incidenti, accettando anche un cambio di angolatura che ci porta ad aprire vie nuove.
Le mie città nascono da incontri, dagli incontri dell’uomo con un angolo della terra - imperatore Adriano.
Quando io mi rapporto con uno spazio mi sto sostanzialmente rapportando con del non-umano e paradossalmente il non umano del luogo (vegetale, minerale) riesce a far vibrare le corde dell’umano e tocca il mio intimo. Ѐ il paradosso di un uomo che si umanizza anche in virtù di quel non umano. Sempre che si accetti di compiere l’esercizio dell’attenzione. “L’attenzione è l’apertura dell’essere umano a ciò che lo circonda, un’attenzione non solo ad extra, ma anche ad intra rivolta verso ciò che è in noi” (Zambrano). Attenzione deriva dal verbo tendere quindi significa slanciarsi verso, avere una direzione, voler procedere verso. Ma questa esperienza dell’abitare luoghi concreti, fisici, palpabili diventa sempre porta verso qualcosa che supera la fisicità del luogo. Quando Giovanni dice: “Il vento soffia dove vuole, ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va” ci fa anche capire che, per esempio attraverso lo stormire delle fronde, quel luogo vegetale diventa il luogo di un’esperienza fisica dell’impalpabile. L’esperienza dell’intangibile del vento mi si dà grazie al luogo vegetale che si muove in virtù di quel passaggio. L’impalpabile diventa presenza. (lo stesso si potrebbe dire di un altro impalpabile: la luce). L’esperienza della vita spirituale, ma anche gli affetti, gli amori, i dolori…funzionano come il vento, come la luce. L’uomo fa l’esperienza che qualcosa dell’ordine dello spirituale si sprigiona a partire da ciò che è fisico. Allora la frattura fra il fisico e lo spirituale in certi momenti viene meno e i luoghi diventano dei legami.
In Giovanni 1,14 si legge: “Il mistero di Dio in Cristo è mistero di un Dio, di una Parola che viene ad abitare in mezzo a noi”. “Maestro dove abiti”? e Gesù: “Venite e vedete” e i discepoli fanno un’esperienza. Questa esperienza principale che l’uomo fa dell’abitare si radica in una prima abitazione, che è l’abitazione nel corpo. Il corpo nostra prima abitazione. L’uomo è un corpo abitante e abitato. Il nostro corpo abita innanzitutto nel corpo di una donna, noi veniamo al mondo come abitanti e usciti da quella prima casa incominciamo ad abitare nel mondo esterno, a coabitare con gli altri. E poi l’uomo abita il corpo dell’altro; l’esperienza dell’amore fisico della coppia è l’esperienza dell’abitare realmente le profondità del corpo dell’altro. Questo avviene anche nell’esperienza della fede quando nella comunione il mio corpo diventa l’abitazione del corpo di Dio, e il corpo di Dio che abita nel corpo dell’uomo crea il corpo della chiesa. Noi mangiamo ciò che siamo, noi mangiamo quel corpo che stiamo diventando. Se questo è vero allora l’uomo è il primo luogo per l’altro uomo. Prima di trovare luoghi fisici che lo ospitano, il cucciolo dell’uomo che viene al mondo trova il suo primo luogo in un altro. Per il bambino la figura genitoriale rappresenta il luogo primario, il suo primo orizzonte è lo sguardo della madre che si china sulla culla. Quando poi diventa grande, si stacca dal luogo- corpo- materno e incomincia ad abitare i luoghi fisici dello spazio. E allora ci affidiamo alla sintesi fulminea di S. Agostino: “Amando, noi abitiamo con il cuore” cioè noi abitiamo con il cuore là dove si trovano i nostri affetti e tradotto in un altro modo: dove è il nostro amore, il nostro cuore, là noi abitiamo. Abitare un luogo implica sempre delle scelte e chiede anche di lasciarsi istruire dall’alterità del luogo, lasciarsi educare dagli spazi in cui si abita.
L’uomo come può abitare i luoghi? L’uomo abita la terra con merito perché fa tante cose, ma bisogna aggiungere al merito delle cose che si fanno quella postura poetica dell’abitare che Holderlin e altre personalità del mondo della cultura hanno così sintetizzato: “abitare poeticamente”.
Poeticamente ci rimanda al verbo poiein che significa fare, abitare facendo e facendoci. Poetare significa aiutare noi stessi e gli altri ad abitare la vita. Questa azione dell’abitare poeticamente è per Holderlin l’azione del misurare la distanza tra cielo e terra. Noi abitiamo quando siamo capaci di custodire questa nostra duplice appartenenza alla terra sulla quale appoggiamo i piedi e al cielo verso il quale protendiamo il capo. La grande sfida è vivere in una duplice dimensione: chi impara ad avere una consuetudine buona, armonica con i luoghi fisici può ritrovarsi alla scuola preziosa dove imparare ad abitare amorevolmente, poeticamente se stesso; chi sa abitare se stesso, i suoi spazi interiori è capace di abitare amorevolmente, poeticamente i luoghi esterni. Ma questa è un’arte che si apprende nel tempo, con fatica e con pazienza. Con il coraggio di osare l’originalità di ciascuno.
Mauro Giuseppe Lepori:
Fede è lasciare che Dio si prenda cura di noi
C’è che adesso sarebbe bello immaginare il deserto. Che è un luogo – ovvero una distesa di sabbia, senza gente e senza acqua – ma anche una metafora luminosa.
Sarebbe bello ricordarsi che qui, nel deserto, padre Mauro Giuseppe Lepori ha piantato le sue radici personali ma anche quelle che hanno dato il titolo a un bellissimo dialogo con la giornalista Monica Mondo (Tea edizioni) su fede, Chiesa e monachesimo.
Radici nel deserto è solo l’ultimo libro di Lepori, che nasce a Lugano nel 1959 e studia all’università di Friburgo e che, prima di diventare (tredici anni orsono) l’abate generale dei Cistercensi, è stato un giovane animato da uno «struggente desiderio di pienezza» che trovava pace camminando e meditando tra boschi e campagne.
Sentirsi chiamati
«La mia vocazione risale a due incontri», racconta. «Ho percepito che questa pienezza di vita era nella Chiesa ed era Cristo. A diciassette anni ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione in una famiglia di operai friulani residenti nel mio paese in Svizzera. Quanto a Cristo, mi si è rivelato come un lampo di luce e di gioia ad Assisi, alla Porziuncola, nel giorno della festa del Perdono del 1977. Tutta la mia vita la vedo sgorgare da queste due sorgenti che in realtà sono una sola: Gesù presente e vivo nel suo corpo ecclesiale», aggiunge Lepori che nel 1989 ha emesso i voti solenni presso l’abbazia cistercense di Hauterive, poco lontano da Friburgo.
La sorgente torna spesso nelle sue parole ed è quella che «al di là di tutte le apparenze può dissetare l’umanità e i nostri cuori: è Gesù che, incontrando la Samaritana, questa donna così rappresentativa dell’umanità confusa e incapace di vivere l’amore per cui è creato il cuore, la porta a desiderare l’acqua viva che Lui le offre, il dono dello Spirito.
Quella donna ha scoperto che nel deserto della sua umanità umiliata e disprezzata c’erano radici ancora capaci di desiderare e assorbire l’acqua viva dell’amore di Cristo», precisa l’abate.
Missione itinerante
Da più di dodici anni, padre Lepori sembra più un missionario che un monaco. È sempre in viaggio per visitare le comunità dei Cistercensi sparse nel mondo.
«È Gesù che mi chiama a questa vita e per questo non mi ha mai privato della sua amicizia. Forse ora sono più cosciente di ciò che il monastero ha forgiato in me: quel dimorare in Cristo che accoglie la vita, le circostanze, gli incontri, le fatiche nel rapporto costante con Lui. Continuo a pregare l’Ufficio monastico, a praticare la meditazione della Parola e la preghiera del cuore che ho imparato vivendo in monastero, ma forse oggi con un sentimento più acuto», aggiunge lui, che non ha scelto i Cistercensi in modo “ragionato”.
«Quando ho incontrato quella realtà ho percepito con chiarezza che era lì che il Signore mi chiamava a stare unito a Lui. Ho capito, meditando il capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni, che questo è l’unico segreto della fecondità della vita: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto”».
Essere monaci oggi
Ascoltando le sue parole, e cercando le radici in questo spazio che è il deserto, viene da chiedersi cosa significhi essere monaci oggi, al di là della paura che ogni scelta comporta. «La paura in me ha spesso il volto dell’ansia, della preoccupazione di non corrispondere alle attese. Così guardo Gesù negli occhi e Lui ogni volta mi dice: “Uomo di poca fede, perché hai ancora dubitato? Perché non ti sei fidato fin dall’inizio? Perché non hai iniziato mendicando il mio aiuto?”. Ecco, essere monaci oggi vuol dire vivere unificati dal rapporto con il Signore. Anche nei monaci c’è tanto “mondo” da recuperare alla verità originale. Per questo in monastero è cresciuta in me una profonda compassione per il mondo – perché siamo tutti peccatori – ma anche la coscienza del fatto che Cristo ci chiama a sé per consolarci e far nuove tutte le cose. La vita monastica scava in noi un ardente desiderio di comunicare Gesù al mondo, che poi è lo stesso del cuore di Cristo».
Un tempo di fragilità
L’abate è consapevole del fatto che oggi, almeno in Occidente, predominano comunità monastiche fragili, di numero e di forze, che sembrano sempre in lotta per sopravvivere. «Il monachesimo in fondo è sempre stato il segno di un’umanità che trae tutta la sua forza dalla salvezza pasquale di Cristo.
Per questo, il diventare fragili, piccoli, e magari il morire, non è di per sé un venir meno del senso del monachesimo: ne accentua la verità e l’invisibile fecondità. Se il monachesimo oggi aiutasse il popolo di Dio a credere alla parabola del chicco di grano che morendo dà molto frutto, raggiungerebbe la pienezza del suo significato», confessa Lepori, che tra le sue preghiere elenca i Salmi, le letture bibliche e patristiche.
«Da quando ero novizio, un monaco mi ha insegnato a pregare col cuore l’invocazione del nome di Gesù, di Maria, domandando lo Spirito Santo e misericordia per me e il mondo intero. Questa preghiera – che potremmo definire giaculatoria, come la preghiera di Gesù della tradizione orientale, quella del pellegrino russo – mi ha sempre aiutato a pregare ovunque, anche ora che sono sempre in viaggio, e mi piace abbinarla coi misteri del Rosario».
Ai giovani, padre Lepori consiglia «di ispirarsi a Gesù stesso, visto che è così accessibile e così affascinante. Consiglierei di conoscerlo nel libro del Vangelo, ma anche nel Vangelo vivo che sono i santi, tutti, e tra loro includo i testimoni viventi che la Chiesa sempre manda, magari fra i propri compagni di studio, di lavoro, di sport, come lo fu il beato Carlo Acutis. Gli suggerirei infine di coltivare un aspetto della vita monastica, ovvero quello di fermarsi, ognuno come può e meglio sente, ad ascoltare in silenzio la presenza e la parola di Dio».
Non vivere distrattamente
«Sa cosa?», mi dice alla fine Lepori.
«La fede perde di consistenza quando pensiamo di poter vivere senza. Ovvero quando viviamo distratti, non tanto da Dio, ma da noi stessi, dal vero dramma della vita, dalle profonde esigenze del nostro cuore. Quando siamo superficiali con i rapporti, gli affetti, il lavoro, la festa, il corpo, la malattia, la morte. Chi è serio con la vita diventa sensibile alla fede, che altro non è che essere presi dall’amore di Cristo per la nostra umanità. La fede è permettere al Risorto di prendersi cura di noi come il samaritano dell’uomo ferito dai briganti. Per questo, per coltivarla direi che bisognerebbe cominciare a voler bene alla propria umanità, a guardarla con tenerezza, stupore, in noi e negli altri. Allora, appena ci sorprende lo sguardo del Signore, non possiamo non essere conquistati dall’offerta di vivere con Lui un’amicizia senza fine».
Di Rossana Campisi
Fonte: Famiglia Cristiana
I FIGLI DI SAN BERNARDO
I Cistercensi sono uno dei numerosi ordini monastici che si rifanno alla regola di san Benedetto da Norcia. Prendono il nome dall’abbazia di Cîteaux, nella regione francese della Borgogna, dove l’ordine fu fondato da san Roberto di Molesme nel 1098. La diffusione dei Cistercensi in tutta l’Europa medievale è merito, in particolare, di san Bernardo, fondatore dell’abbazia di Clairvaux, fine teologo (è stato proclamato Dottore della Chiesa), predicatore della seconda Crociata e citato anche nella Divina Commedia dove fa da guida a Dante negli ultimi canti del Paradiso e dove intona la celebre preghiera alla Madonna:
«Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio…».
Tra le abbazie cistercensi più famose in Italia, ricordiamo Chiaravalle milanese, Piona sul lago di Como, Pra ‘d Mill nel Cuneese, Casamari nel Frosinate, Chiaravalle della Colomba nel Piacentino, San Bernardo alle Terme a Roma. La casa generalizia, dove risiede padre Lepori, che da abate generale governa l’intera congregazione, si trova sul Colle Aventino a Roma. Esiste anche un ramo femminile dell’ordine.
Che speranza diamo agli uomini d’oggi?
Enzo Bianchi
I cristiani sono chiamati a dare una forma pratica, concreta alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. La carità cristiana esige sempre un’opzione per l’umanizzazione in assoluta gratuità, senza ansie di evangelizzazione o di autoconservazione della chiesa. La concezione cristiana della carità è eversiva e può essere “anormale” (parole di Paul Valadier, gesuita ex direttore della rivista Études), nelsenso che resta sorda alle voci mondane, al miraggio dell’audience, e si distacca da ciò che nella storia è vincente e più facilmente attestato. Non dunque dei cristiani fuori del mondo, ma nel mondo altrimenti, nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17,11-16); senza paure e senza esigere di essere vincitori. La Buona notizia che i cristiani sono chiamati a dare all’umanità è solo quella dell’amore offerto in modo incondizionato, un amore che non va mai meritato. In estrema sintesi, è questo annuncio, fatto con autorevolezza: “Hai visto un uomo, hai visto un fratello? Hai visto Dio” (parole di Gesù tramandate da Clemente Alessandrino).
Ma nella missione, quale speranza? Forse questa è la cosa più difficile oggi per il cristianesimo e per la missione. Tutta la storia della chiesa, infatti, è segnata dalla testimonianza della carità, in particolare verso i poveri e i malati. Mai nessuno ha dubitato di questa capacità della carità, anche oggi e anche nelle nostre chiese. Ma quale speranza diamo agli uomini e alle donne di oggi? Viviamo in un tempo segnato da molte paure, un tempo in cui si sono spente e anestetizzate le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate. Il nostro tempo è spesso posto sotto il segno della crisi, o addirittura della fine. La precarietà del presente e l’incertezza del futuro alimentano paure che abitano la nostra convivenza – “nuove paure”, come ha scritto sociologo Marc Augé – indeboliscono la fiducia, paralizzano l’insurrezione delle coscienze. Papa Francesco chiede con insistenza di combattere e di vincere le paure come decisivo antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, asfittico, ripiegato su di sé, e quindi assorbito in un vortice di egoismo.
Immerso in questa situazione, il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi innanzitutto in una spiritualità seducente, accattivante ed efficace, una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come benessere individuale. Siamo di fronte a un teismo etico, terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e aspira al conforto interiore. Il primato viene accordato a un Dio “Energia”, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace e calma interiore. Ed è così che la speranza, proprio perché è rinchiusa in dimensioni individuali, non è più speranza, tanto meno quella cristiana: o si spera per tutti, o non si spera! Ma allora quale speranza annunciare nella missione cristiana?
Sono sempre più convinto che dobbiamo partire dalla narrazione cristiana per eccellenza: l’amore vince la morte. Nelle diverse culture umane si è sempre giunti a pensare, in varie forme, a un duello tra amore e morte, eros e thanatos, i due nemici per eccellenza. Non è un caso che l’Antico Testamento nel Cantico dei cantici arrivi ad affermare che l’amore può combattere la morte, anche se non si spinge fino a dire che ne è vincitore. Si ferma all’espressione: “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). Ma l’annuncio cristiano testimonia esattamente a questo proposito l’inaudita novità di Gesù Cristo: avendo amato fino all’estremo, fino alla fine (cf. Gv 13,1), essendo vissuto operando il bene e spendendo la vita per i poveri, i sofferenti, gli oppressi, gli esclusi, gli scarti della società e i peccatori, non è restato preda della morte. Dio lo ha resuscitato perché non era possibile che quell’amore vissuto andasse perduto. Così possiamo intendere le parole dette da Pietro a Gerusalemme, nel primo discorso dopo Pentecoste: “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere” (At 2,24).
Forte come la morte è l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù. Questo è l’annuncio cristiano, che possiamo rivolgere anche ai non cristiani, ai non credenti, facendo loro capire che la resurrezione è davvero il nucleo incandescente di tutta la nostra fede in Gesù Cristo. La morte non è l’ultima parola, è questo che noi dobbiamo saper comunicare all’interno del nostro annuncio evangelizzatore. Solo così rendiamo ancora Cristo non un maestro di umanità o di spiritualità, ma colui che è capace di salvare realmente le nostre vite.
Ecco alcuni tratti radicali di cosa dovrebbero essere la nostra fede, la nostra carità e la nostra speranza, affinché possa germinare lo slancio missionario. Sono convinto che, soltanto andando alla radice e vedendo bene ciò che manca oggi alla chiesa, potremo uscire da questa situazione di sterilità e di crisi di fede. E se la fede è debole, lo è anche la missione. Ammettiamolo, i problemi sono molti: la città è sempre più post-cristiana, noi siamo una minoranza nella società, avvolti dal regno dell’indifferenza nei confronti di Dio e della chiesa, ma non per questo viene meno la speranza, la quale potrà far germinare in futuro dei segni che possano davvero essere all’insegna della fede, della speranza e della carità.
Noi abitiamo “la Galilea delle genti” (Mt 4,15), quelle genti che ormai sono qui tra di noi. Il mondo è cambiato. E la mia speranza è che il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia dello scorso ottobre, unitamente a quello che si sta celebrando in Germania, possa fornire delle tracce per tutte le chiese. Il problema, infatti, non riguarda solo quelle chiese, peraltro così diverse, ma riguarda noi: come inculturare la fede in questo mondo globalizzato e post-cristiano? Rispondere a questa domanda richiede di compiere passi nuovi, richiede nuovi modi di far vivere la liturgia, richiede un altro linguaggio, richiede di mettere a fuoco gli elementi essenziali del cristianesimo, senza timori né paure. Ci è chiesta una grande conversione, forse simile a quella che il cristianesimo del primo secolo dovette compiere per aprirsi dal giudaismo a tutte le genti della terra.
Un cambio radicale del vivere la chiesa
Negli ultimi tempi c’è una domanda che molti mi rivolgono e che io stesso mi pongo con frequenza: la chiesa è ancora capace di essere missionaria, di rendere eloquente la fede che professa? I mezzi della missione mutano sempre più rapidamente, ma la missione sarà sempre ineludibile perché fa parte dell’essere cristiani: non si è alla sequela del Signore senza essere da lui inviati. Siamo di fronte a un mutamento radicale, che riguarda tutta la vita cristiana, la vita della chiesa, ma in particolare ciò riguarda proprio la missione ad gentes. Abbiamo lasciato la sponda e navighiamo verso un’altra terra che ancora non conosciamo. Le sfide si presentano con una novità inedita e dunque alla chiesa tutta è richiesta un’operazione di discernimento, per attuare il mandato di Gesù risorto, sempre attuale: “Andate, evangelizzate in tutto il mondo, portate la Buona notizia a ogni creatura” (cf. Mc 16,15).
Dobbiamo confessare oggi un’astenia delle chiese locali, soprattutto nell’emisfero settentrionale del mondo: un’astenia nei confronti della missione, una mancanza di coraggio nel lasciare la propria terra segnata dal benessere per terre che sono ancora toccate dalla fame, dalla miseria e spesso anche dalla violenza e dalla guerra. È sufficiente constatare la mancanza delle vocazioni alla missione ad gentes; è sufficiente vedere come gli istituti missionari, che hanno dato una testimonianza eroica di evangelizzazione, conoscono, almeno nelle nostre terre di antica cristianità, sterilità e invecchiamento, che rende alcuni di essi addirittura precari. Da quando ha assunto il ministero di Pietro, papa Francesco chiede con frequenza alle chiese di porsi “in uscita”, di volgersi alla missione in condizioni dinamiche, aperte, libere, per poter portare la Buona Notizia del Vangelo. Ma dietro a queste espressioni, che rischiano di essere ripetute semplicemente come slogan, c’è in realtà la richiesta di un cambiamento radicale del vivere la chiesa, ben prima del vivere la missione che le è inerente.
Non spetta a me fare un’analisi di queste urgenze, ma occorre almeno mettere in evidenza che si richiede in primo luogo che ogni battezzato e ogni comunità cristiana si sentano responsabili dell’evangelizzazione, cioè del portare ovunque la Buona Notizia del Regno. Le espressioni che si usano per parlarne sono meno importanti, ma a mio avviso occorre una vera e propria conversione della vita cristiana. Bisogna che la vita cristiana ecclesiale sia impegnata in un esercizio, in un’attenzione reale alla sinodalità, affinché popolo di Dio e pastori camminino insieme. Tutti i cristiani sono chiamati ad assumere la responsabilità di essere inviati a uomini e donne che non conoscono Gesù Cristo; devono dunque essere innanzitutto soggetti capaci di esprimere la fede cristiana e, di conseguenza, di edificare la chiesa con il loro specifico contributo culturale, religioso e umano. È la dinamica alla quale il papa ritorna sovente nei suoi discorsi missionari, ricordando parole come ascolto, incontro, dialogo, testimonianza, annuncio.
Credo inoltre che sia importante ricordare che oggi la missione non è rivolta solo alle genti ma riguarda le nostre chiese. Se alla fine della seconda guerra mondiale il cardinale di Parigi parlava della Francia come di una terra di missione, oggi siamo tutti convinti che l’Europa è terra di missione, come scrive il teologo Christoph Theobald. Viviamo in un’epoca che non è soltanto secolarizzata: siamo in un’epoca post-cristiana, e nelle nostre terre di antica cristianità ci sono delle situazioni che fanno sì che la missione sia quanto mai urgente. Soprattutto le nuove generazioni, quelle dei millennials, sono segnate da una profonda indifferenza verso la religione, verso la ricerca di Dio, verso l’appartenenza alla chiesa. Sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia profondamente il volto delle nostre comunità, nelle quali le nuove generazioni e le donne sono la chiesa che manca, secondo l’efficace espressione di don Armando Matteo. Sì, sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia e cambierà profondamente il volto delle nostre comunità.
Abbiamo sognato una chiesa evangelizzante e invece ci troviamo di fronte a una chiesa in realtà non evangelizzata e con generazioni senza più alcun contatto con la fede cristiana. In questa situazione inedita occorrerebbe da parte nostra una capacità di lettura, un esercizio di discernimento per assumere la responsabilità della mancata trasmissione della fede alle nuove generazioni. Non basta parlare dei millennials, bisogna riferirsi ai loro padri e alle loro madri, cioè la prima generazione che ha veramente tradito la trasmissione della fede, a partire dalla famiglia e dai vari contesti educativi. Risulta evidente che in una chiesa così debole va riconosciuta ormai una crisi di fede: dobbiamo avere il coraggio di dirlo, il problema è la debolezza della fede!
Ma allora quale missione e quale evangelizzazione, non nei mezzi, ma alla radice? Occorre innanzitutto prendere coscienza dell’indifferenza regnante nei confronti di Dio e della ricerca di lui. Da anni ormai ripeto che la chiesa deve prendere atto di tale indifferenza, ma sembra che in realtà nessuno ci voglia credere, e così si continuano a studiare le strategie per l’annuncio, nella stessa maniera di prima. Per le nuove generazioni – ma anche per alcuni delle generazioni post ’68 – Dio non è più interessante, non è più necessario per vivere bene, nella felicità. Si continuano a ripetere alcuni slogan ma, se si ascoltano veramente i giovani, si comprende che stanno bene senza ricerca di Dio. Il problema è eventualmente quello della “gratuità” di Dio, il che ci richiede nuovi atteggiamenti per annunciarlo: Dio non sta più nello spazio della necessità! Dio è addirittura una parola ambigua, respinta dalle nuove generazioni, perché spesso è legata al fanatismo religioso, all’intolleranza, alla violenza.
Per molti aspetti, fatte le dovute differenze, siamo in una stagione analoga a quella dei primi secoli della chiesa, quando i cristiani per difendere la loro singolarità avevano il coraggio di dire: “La parola ‘Dio’ non è un nome per noi cristiani, è un’approssimazione naturale dell’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile” (Giustino). Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca di senso fatta dall’uomo. Ciò che invece è decisivo nella fede cristiana è la meta di un percorso compiuto alla sequela di Gesù Cristo, “l’iniziatore della nostra fede” (Eb 12,2). Questo richiede che, nella nostra missione ed evangelizzazione, sia davvero Gesù Cristo l’annuncio, l’uomo Gesù Cristo vissuto nella carne: l’uomo come noi, totalmente uomo in una vita mortale, nella storia, dalla nascita alla morte, con tutti i nostri limiti umani, eccetto il peccato, perché è con la vita umana che egli ci ha rivelato Dio e ci porta alla comunione con lui. E Cristo non solo ci rivela Dio: egli infatti si fa conoscere come Dio, Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo.
Qui sta lo specifico del cristianesimo, anche in un tempo di confronto con gli altri monoteismi e con altre vie religiose. Io amo parlare della “differenza cristiana”, che è una differenza non contro o senza gli altri, ma una differenza che nasce dalla convinzione che Gesù Cristo è davvero colui che ha unito umanità e Dio. Dopo di lui, non si può dire l’umanità senza dire Dio e non si può dire Dio senza dire l’umanità. Questa è la nostra fede: confessiamo che Gesù Cristo è uomo e Dio, Dio fatto carne, Dio sempre vivente nei secoli dei secoli. Benedetto XVI, in apertura dell’enciclica Deus caritas est (2005), aveva il coraggio di scrivere: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con una persona”, Gesù Cristo. Questo secondo me è il punto centrale, a partire dal quale può veramente mutare la situazione astenica della fede e, di conseguenza, quella dello slancio missionario. Il problema della crisi della missione ad gentes in realtà è un problema della missione anche qui nelle nostre terre di antica cristianità, non c’è molta differenza. Le nostre comunità cristiane si sono assestate, spesso per loro sono più decisivi i valori o le prassi etiche che non la passione bruciante e la fede in Gesù Cristo. Al contrario, nell’evangelizzazione siamo chiamati a mettere al centro Gesù Cristo e la sua umanità, rivelazione del Dio vivente, non lo si ripeterà mai abbastanza. E si faccia attenzione: nessuna negazione della divinità di Gesù, ma neppure nessun debito della fede cristiana al teismo, perché è Cristo che ci conduce a Dio, non un qualsiasi dio che ci conduce a Cristo.
Il coraggio della Speranza
Eugenio Borgna
La speranza fa parte della vita, è una esperienza umana che ha molteplici espressioni tematiche e che ha una sua radicale significazione non solo in filosofia e in teologia, ma anche in psichiatria e, cosa ancora più importante, nella vita di ogni giorno; e di speranza vorrei parlare in queste pagine, intessute delle mie esperienze di vita.
La speranza non è l’attesa
L’attesa e la speranza sono esperienze di vita contrassegnate da concordanze tematiche ma che non si confondono l’una nell’altra.
Ci sono attese che non finiscono mai e attese che nascono e muoiono rapidamente; ci sono attese che si rievocano con ansia e inquietudine e attese che si rivivono invece con serenità; ci sono attese incentrate su eventi felici e altre su eventi ricolmi di angoscia e di dolore; ci sono attese che sconfinano nella speranza e attese che nulla hanno a che fare con la speranza; ci sono attese che riguardano il nostro destino e attese che riguardano il destino di altre persone; ci sono attese che invece cambiano di giorno in giorno e attese che non si concludono mai.
Ma ci sono altre attese: attese terrene e attese metafisiche, attese di qualcosa che ci consente di continuare a vivere, di ritrovare un senso alla vita, e attese disperate che non si realizzano mai.
Non saprei come meglio avviarmi alle riflessioni conclusive sull’attesa, e sulla sua ragione d’essere tematica, se non richiamandomi alle cose scritte da Eugène Minkowski, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, in testi di straordinaria importanza, non solo fenomenologica, ma anche psicopatologica. Anche nelle sue più alte e complesse considerazioni, alle quali non sono mai estranee implicazioni filosofiche bergsoniane e husserliane, egli non si allontana mai dalla sua esperienza clinica. Così definisce l’attesa: «Essa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro.
Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo». A queste considerazioni Minkowski ne aggiunge altre: «L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà.
L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa».
L’attesa non si identifica così con la speranza; benché l’una e l’altra siano tematizzate dal loro distendersi nel futuro: nell’orizzonte delle cose che ancora non sono state, e che nondimeno saranno, o potranno essere; ma cosa si può dire della speranza, come definirla nelle sue fondazioni esistenziali?
La speranza nelle sue fondazioni esistenziali
La speranza come categoria esistenziale non può essere intesa nella sua emblematica radicalità se non nel contesto di riflessioni non solo psicopatologiche, ma anche filosofiche, che ci consentano di avvicinarci al nucleo eidetico della speranza: ai suoi infiniti orizzonti di senso. Come è possibile non citare, nel contesto di questo discorso, le parole vertiginose di Blaise Pascal sul tempo e sulla speranza? «Noi non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce con cui predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine.
Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai».
La dialettica e il mistero della speranza, gli abissi di significato che sono in essa, riemergono da queste parole che sfidano il tempo; e a noi, a chiunque di noi intenda fare una psichiatria fenomenologica e antropologica, non rimane se non di riversare nel solco delle esperienze cliniche il senso di quello che le riflessioni pascaliane racchiudono in sé. Noi non viviamo mai ma speriamo di vivere; e allora, quando la speranza viene meno in noi, quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando cioè la depressione, la malattia che recide drasticamente la speranza, nasce in noi, come è possibile vivere e continuare a vivere?
La speranza nelle sue radici fenomenologiche
Nel suo splendido libro, dedicato al tempo vissuto, Eugène Minkowski ha scritto pagine bellissime sulle radici fenomenologiche della speranza. «La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa.
Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me». E ancora: «Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire- ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».
Conoscere gli andamenti della speranza nelle aree delle esperienze psicopatologiche è senz’altro utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assenza, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: nelle sue crisi e nei suoi naufragi. La speranza, nella sua trascendenza, ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose, mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell’anima con le loro angosce e le loro lacerazioni.
Ridestare la speranza
Dalle parole di chi sta male, di chi sia immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso, di un qualche senso, nella vita, riemergono l’importanza e i significati della speranza, e dei suoi naufragi.
Questi si riflettono nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiarsi e nello svuotarsi degli orizzonti di vita, nel dilatarsi del presente e del passato, nell’inaridirsi dell’avvenire del quale non sopravvivono se non alcuni frammenti che non danno sollievo, e che non creano comunicazione e comunione con il mondo delle persone e delle cose. Dalla evanescenza della speranza discendono poi solitudine e isolamento che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri.
Quando questo avviene, quando la disperazione depressiva, psicotica o esistenziale, svuota di senso la vita, e la morte volontaria ne è una delle conseguenze possibili, la cosa essenziale è quella di ascoltare e di valutare se la condizione psicotica, depressiva o esistenziale mantenga aperti gli spazi a una qualche attesa, a una qualche speranza, che possano essere ridestate nel contesto del progetto terapeutico.
Confrontandoci, noi che viviamo nella speranza e nelle speranze, con chi non abbia più speranze nel cuore (bruciate dall’angoscia e dalla disperazione), non dovremmo mai dimenticare la debolezza e le ambivalenze delle nostre parole e dei nostri gesti che non sempre sono dotati di una radicale testimonianza terapeutica. Le parole leggere, o le parole pesanti come piombo: quali parole abbiamo nel cuore quando ci avviciniamo al destino, al volto e agli sguardi, ai silenzi e agli scoramenti, alla tristezza e all’angoscia, alla timidezza e alle insicurezze, alle speranze recise di chiunque fra noi sia colpito dalla malattia mortale e dalla disfatta della speranza?
La speranza nella cura
Non solo negli incontri che la vita ci propone ogni giorno, ma anche, e soprattutto, negli incontri che si hanno con pazienti divorati dall’angoscia e dalla disperazione, è davvero necessario intendere il senso misterioso di un dialogare nel silenzio; e questo al fine di intuire cosa questi pazienti sentano, e cosa provino, quali attese e quali speranze inquiete essi abbiano, e quali ombre scendano sugli orizzonti della loro vita.
Grande importanza, in ordine alle risultanze terapeutiche, ha la presenza in chi cura della speranza, della capacità e della possibilità di mantenere viva la fiaccola, o almeno la scintilla, di una speranza come atteggiamento interiore; e questo, in particolare, quando ci confrontiamo con le esperienze psicotiche che si esprimano nell’autre monde della follia. La speranza è come l’anima di una psicoterapia che tenda a fare riemergere le risorse nascoste e galleggianti nella vita interiore dei pazienti.
La nostalgia della morte volontaria
La speranza, senza confondersi mai con l’ottimismo, ci conduce a rivivere la sofferenza degli altri da noi come la nostra possibile sofferenza e a partecipare alla loro angoscia e al richiamo in loro della morte volontaria. Non è possibile, in ogni caso, confrontarsi con esperienze oscure e ambiva- lenti, come sono quelle che si correlano in particolare con la nostalgia della morte volontaria, se non si riconoscono le emozioni che sono in noi: la qualità delle nostre relazioni controtransferali che, se sono impregnate di inquietudine e di paura, non ci consentono di svolgere un utile lavoro psicoterapeutico.
Se non accettiamo interiormente l’esperienza del suicidio come possibilità radicata nella condizione umana e se la riviviamo come destituita di ogni possibile orizzonte di senso, allora non nascerà mai in noi una speranza capace di trainare una psicoterapia adeguata alla comprensione di quello che avviene nella vita emozionale, e nella storia della vita, di chi sia affascinato dal desiderio del suicidio, dall’anelito a rifuggire da una vita rivissuta come insopportabile e insostenibile. Se la speranza è in noi, se comprendiamo il senso dello scacco esistenziale che c’è nel suicidio, allora ci sarà possibile parlare sinceramente con i pazienti della cosa evitando inutili e vaghe allusioni.
Senza dimenticare mai che, quando il suicidio fallisce, essi si vergognano del gesto compiuto e tendono a banalizzarlo e a tacerlo, a rimuoverlo.
Il parlarne, in ogni caso, esige una grande delicatezza e una grande discrezione, e anche una grande attenzione alle motivazioni che vengono espresse, e a quelle, magari molto più importanti, che vengono taciute. Le parole con le quali si conclude lo splendido saggio di Walter Benjamin sulle goethiane Affinità elettive dovrebbero essere incise nel cuore di ciascuno di noi quando la vita si fa difficile e non è lontana da noi la disperazione.
Le parole sono queste: «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».
La speranza che rinasce
Come si vive la speranza quando la tristezza, la malinconia, il male di vivere, la depressione, che ne è la definizione clinica, scendono nella nostra vita, velandola e immergendola nella notte oscura dell’anima? Non conosco testimonianza più umana e struggente di quella che mi è stata data da una mia giovane paziente, curata in anni lontani e mai dimenticata, che ho chiamata Maria Teresa, nella quale l’eclissi della speranza e la sua rinascita sono state la conseguenza di una condizione depressiva di vita.
Ne vorrei ricordare alcune sue parole, che sono state di disperazione prima e di rinascita della speranza poi. «Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa tremenda sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non più alcuna speranza». A queste parole si univa una angoscia lacerante e una stremata tristezza dell’anima, che sembravano non finire mai; e invece dopo alcune settimane di cura un cambiamento radicale: la speranza perduta, a mano a mano si rigenera, e queste sue parole lo dimostrano.
«Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo nel miglioramento di mia figlia.
Avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ma ieri è nata improvvisamente in me una diversa speranza. Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Una speranza che contiene il futuro ma un futuro che è vita. La presenza di un avvenire. Il futuro mi spaventava, prima, perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente.
Ieri, non avvertivo più questo senso negativo. La speranza che si apriva, ed era come una nuova vita ». Sono parole emblematiche della significazione umana della speranza, del suo rinascere dal cuore, come fonte di conoscenza, del suo scomporsi in speranza e in speranze, una differenza di radicale importanza, del suo essere la splendida descrizione di una speranza che si forma muovendo dalla interiorità.
Sono parole che sanno dare di questo passaggio dalla disperazione alla speranza una straordinaria evidenza, che si è accompagnata ai cambiamenti delle espressioni del volto, da dolorose e straziate a luminose e ridenti. Sono esperienze che danno un senso alla psichiatria, come scienza umana, che aiuta, direi, ad avvicinarsi al cuore della speranza.
Le ultime cose
La vita dell’uomo è la speranza, e alla speranza vorrei invitare i miei occhi e gli occhi delle lettrici e dei lettori di questa meravigliosa rivista a guardare come alla coda di una cometa che non possa né oscurarsi né spegnersi.
Ma non mi è ora possibile dimenticare quello che della speranza dice Giacomo Leopardi in celebri pensieri dello Zibaldone; e in particolare in questi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza»; e ancora: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amore di se stesso.
Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita».
Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce; e la speranza, come diceva sant’Agostino, è misteriosamente intrecciata alla memoria. Questo ci dice che passato, presente e futuro scorrono senza fine l’uno nell’altro; e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel suo cuore la speranza che è fragile come cristallo e dura come diamante. Sapere testimoniare la speranza, che vive in noi, a quanti l’hanno perduta è una esperienza che ne allarga i confini; e nella speranza si riesce a donare un senso all’infinito del dolore. Ma non potrei concludere queste mie riflessioni se non dicendo che la speranza ha bisogno di coraggio: quello di non lasciarsi affascinare da quello che avviene nel momento in cui viviamo, quello di ricercare senza fine il possibile che si nasconde nell’impossibile, quello di non identificare la speranza con l’ottimismo, che non ha nulla a che fare con lei, quello di non dimenticarsi mai che la speranza è apertura al mistero e che ci saranno sempre più cose in cielo e in terra di quelle che non conoscano le nostre filosofie, e le nostre psichiatrie: le celebri parole, aggiornate, dell’Amleto.
Una bellissima poesia di Emily Dickinson sigilla questo mio discorso sulla speranza.
È la “speranza” una creatura alata / che si annida nell’anima – / e canta melodie senza parole– / senza smettere mai – E la senti dolcissima nel vento – / e ben aspra dev’essere la tempesta che valga a spaventare / il tenue uccello che tanti riscaldò – Nella landa più gelida l’ho udita – / sui più remoti mari – / ma nemmeno all’estremo del bisogno / ha voluto una briciola – da me.
Speranza, la trama profonda
della resilienza
Rosella De Leonibus
«Non sapendo quando l'alba arriverà, tengo aperta ogni porta.» (Emily Dickinson)
Anna ha alle spalle una storia familiare con un padre alcolista e una madre schiacciata dalla depressione. Si è tirata fuori faticosamente da queste sabbie mobili impegnandosi nello studio, davvero “matto e disperatissimo” come diceva Leopardi, perché l’unico luogo in casa dove poteva stare tranquilla era il sottotetto, tre metri quadri dove poter stare solo seduta a terra sotto al lucernaio, a cui si accedeva con una scala a pioli e una botola. Si portava la lampada di sicurezza per leggere, d’inverno quando fa buio presto, quella che si accende quando la corrente elettrica si interrompe, la luce durava giusto il paio d’ore in cui riusciva a stare sola senza doversi occupare di mamma e papà.
È stata una sua insegnante di educazione motoria a guidarla fino al diploma, a sostenerla mentre attraversava questi inferni familiari. Invano erano stati allertati più volte i servizi sociali, la madre e il padre erano sempre riusciti in un modo o nell’altro a sottrarsi ai provvedimenti che sarebbero stati necessari per tutelare Anna. È stato lo sport a farle le spalle larghe che le sono servite per uscire di casa e guadagnarsi da vivere come istruttrice per bambini, il titolare della palestra che ha creduto in lei, il servizio psicologico pubblico per i giovani che quando studiava la ha sostenuta gratuitamente. Il suo progetto di vita comprende oggi la possibilità di riprendere gli studi con la formazione universitaria.
Anche ora ha un supporto psicologico, che la aiuta a stare alla larga dai sensi di colpa e dalle profezie negative sul futuro che l’eredità familiare le ha implicitamente consegnato.
Luljeta è appena uscita da una casa di accoglienza per donne vittime di violenza. Porta dentro di sé le ferite profonde che la sua psiche, non solo la sua pelle, ha dovuto subire, e sta cercando un nuovo lavoro in una città diversa dalla sua. Il suo percorso è stato lungo, ha impiegato anni a riconoscere le violenze a cui il partner la sottoponeva, ha raccontato, ha pianto e qualcuno ha asciugato le sue lacrime. Il giorno del processo aveva le gambe che tremavano, voleva solo scappare via, voleva nascondersi e non esistere più per nessuno.
La sentenza di primo grado ha riconosciuto la violenza, poi è stato presentato il ricorso, e lei ha deciso di cambiare città. Sta seguendo ancora on line il suo percorso psicologico, e le operatrici del centro antiviolenza della nuova città la stanno aiutando a radicarsi nella sua nuova vita.
Si è iscritta a un corso di formazione professionale per pasticcera, la sua passione da sempre, e riesce a seguirlo mentre lavora.
Ha solo 25 anni, e già conosce troppe cose dell’amaro della vita, tuttavia è stata aiutata a guardare oltre il suo presente e a sperare, passo passo, dando fiducia a se stessa.
Giorgio ha 38 anni, ha appena ricevuto una diagnosi di sclerosi multipla.
Non sa fino a quando sarà in grado di svolgere il suo lavoro di educatore professionale, lui si occupa di persone con problemi psichici, e sa bene quanto sarà importante poter rispondere adeguatamente alle domande che gli ospiti della struttura per cui lavora gli porranno, quando lo vedranno assentarsi, o avere problemi di equilibrio.
È single, Giorgio, e se fino ad ora ha un po’ giocato con le relazioni affettive, si chiede se nel suo futuro di persona con una disabilità importante ci sarà ancora la possibilità di essere amato e di amare. Dopo una fase fisiologica di disperazione profonda, Giorgio ha dolorosamente accettato il fatto che dovrà lavorare per trasformare la sua vita, per includervi l’incertezza e la fragilità che la malattia gli regala, e adesso vuole guardare avanti, vuole impegnarsi con le persone giovani come lui malate di sclerosi multipla per creare presidi e sostegni per tutti.
NON È ATTESA, PROIEZIONE, UTOPIA
Cosa hanno in comune Anna, Luljeta e Giorgio, oltre l’evidenza di un processo di resilienza?
Da cosa è stata sostenuta la loro spinta a rinascere?
Se c’è un elemento che non è mancato in nessuna di queste storie è la possibilità di guardare oltre il presente e sperare.
Ma di quale speranza parliamo?
Non certo di una esortazione, né di una promessa di trascendenza.
Parliamo di una trama sottile di pensieri, parole, azioni, presenze esterne che hanno sostenuto in loro lucida consapevolezza e impegno.
La speranza che ha supportato queste persone non è quella ingenua, pura, impassibile e serena, quella delle scritte e degli arcobaleni dove “andrà tutto bene”.
La loro capacità di sperare ha attraversato la paura, il conflitto, il senso dell’abbandono, la confusione, i dubbi e le crisi, la precarietà, la sofferenza, la profonda incertezza del futuro, la stanchezza.
Non è stata schiacciata dalla pietra tombale del realismo, non si è abbigliata con uno stupido ottimismo evasivo e minimizzante.
Non ha inquinato la lucidità delle scelte con una utopia esasperata, suscettibile di delusioni altrettanto totali.
Sperare è stato il motore della loro resilienza, un motore tenuto acceso da loro stessi, insieme a figure e contesti esterni.
Per loro, sperare è stato il contrario della passività, il contrario della rassegnazione.
È stata la passione del possibile e l’apertura al divenire.
È diventata progetto, la loro speranza, aperta a ciò che accade sullo sfondo, provvisoria, disomogenea, un tendere verso, anche nelle piccole speranze, anche punteggiate dalla delusione.
La vita può rinascere fino a che c’è un ancora, un divenire, una possibilità di apertura al mondo, una messa in gioco con il grande mondo là fuori, che spesso viola le regole, le riscrive in corso d’opera, e ci espone a naufragi, ad allontanamenti rispetto alle nostre mete, a veder dissiparsi e svanire ciò che ci sosteneva.
La speranza è diversa dall’attesa, come sottolinea Eugenio Borgna citando E. Minkowski: “…la speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa. Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dentro”, e ancora: “…la speranza sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me”.
Non può limitarsi ad essere una proiezione dei nostri desideri sul modo esterno, il mondo esterno non è Babbo Natale, a cui mandiamo una letterina, resterebbe sospesa nel vuoto e senza fondamento, senza azioni possibili, perché ogni proiezione ci depotenzia e ci sottrae la consapevolezza di noi stessi e del mondo e ci sottrae l’energia per agire.
Speranza allora, non come impaziente anticipazione dell’avvenire, come anticipazione mentale di singoli eventi che appartengo al mondo e alla illusione che i desideri possano realizzarsi, ma come apertura verso il tempo, tempo aperto che vive del futuro, dell’avvenire, e non si arena nelle immagini statiche e nell’inerzia del passato, come una opzione attiva sul divenire e l’avvenire, come manifestazione concreta del principio di autoregolazione organismica e della tendenza attualizzante. Scriveva Kurt Goldstein, ripreso da Fritz Perls: "L'organismo sano raccoglie tutte le proprie potenzialità per la gratificazione dei bisogni in primo piano. Immediatamente, appena un compito è terminato, recede sullo sfondo e permette a quello che nel frattempo è diventato il più importante di venire in primo piano. Questo è il principio dell'autoregolazione organismica"; e ancora: “ogni individuo, ogni pianta, ogni animale, ha solo una meta implicita, un ruolo obiettivo innato: attualizzarsi per quello che è!”
È UN RISULTATO RELAZIONALE
“Ogni organismo è animato da una tendenza intrinseca a sviluppare tutte le sue potenzialità e a svilupparle in modo da favorire la sua conservazione e il suo arricchimento", scrivevano Carl Rogers e Marian Kinget.
La speranza allora non è che il risultato relazionale della fiducia nella tendenza attualizzante, come la definisce la psicoterapia umanistica, la forza motivazionale intrinseca che opera in modo costruttivo per conto delle singole persone quando incontrano ambienti e relazioni facilitanti.
Nelle attuali condizioni di vita, sempre più faticosamente manteniamo una apparente normalità, e invece siamo sempre più distanti dall’Altro, sempre più chiusi nelle bolle delle relazioni prossimali, nella sospensione di quasi tutte quelle relazioni che trasformano, che possono spaventare, ma aprono esperienze, allargano i confini dell’io, aprono orizzonti di senso e progettualità inimmaginabili.
Reimmettere speranza come nostalgia di un futuro, ecco il nostro nuovo compito come persone e professionisti che si occupano di sostenere gli altri. Contagiare speranza in chi è immerso nell’angoscia, riaprire i sentieri del possibile, alzare il piano dello sguardo su un avvenire, togliere lo sbarramento verso il futuro. Restituire una immagine della sofferenza come qualcosa di dinamico, una lotta per ritrovare il fluire della vita e liberarsi dagli ostacoli che lo impediscono.
Avere una idea di futuro è fondamentale per sostenere lo sforzo e l'impegno, per agganciare la motivazione, per attraversare l'attesa e la lenta costruzione di un percorso. Se il futuro scompare dagli orizzonti psicologici delle persone e delle collettività, allora è facile smarrirsi, è facile disperdersi e mollare.
Ma se il futuro sembra svanito, se ha perduto i paradigmi già noti su cui poteva essere immaginato, allora bisogna fare lo sforzo di reinventarlo. Allora bisogna crearlo, evocarlo, coltivarlo anche a partire da piccolissimi semi. Anche se la costruzione di un'idea di futuro che possiamo realizzare è precaria, incerta, ne abbiamo comunque bisogno, come un ponte tibetano per attraversare il vuoto.
Perché camminare con una mappa provvisoria e imprecisa è meglio che vagare a caso.
Perché abbiamo bisogno di una ipotesi, di una speranza, per poter rialzare lo sguardo e guardare di nuovo oltre l'orizzonte.
Nel pensare e scrivere questo articolo ho attinto a:
- Borgna E., L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano, 2005
- Perls F., L’approccio della Gestalt. Testimone oculare della terapia, Astrolabio, Roma, 1977
- Perls F., Hefferline R., Goodman P., Gestalt Therapy, La terapia della Gestalt: eccitamento e accrescimento nella personalità umana, Astrolabio, Roma, 1971
- Rogers C., Kinget M., Psicoterapia e relazioni umane, Bollati Boringhieri, Torino, 1977
- Sebastiani L., Speranza sovversiva, “Rocca”, 15 luglio 2006, pagg. 48-50
Noi e gli altri
Enzo Bianchi
Nella sapienza contadina tradizionale non c'erano solo i dieci comandamenti imparati a memoria fin da bambini, ma c'erano imperativi che indicavano più atteggiamenti, stili, che non azioni o divieti. Erano ricorrenti nei discorsi che "i grandi" facevano ai più giovani, senza attribuire loro particolare autorevolezza: erano consigli, giusto da meditare, niente più, e da ricordare nella vita.
Norberto Bobbio nel De senectute ne ricorda alcuni (abbiamo in comune la terra, il Monferrato!), ma io ne ricordo anche altri, soprattutto ora che sono vecchio e mi ritrovo a ripeterli a qualcuno più giovane che conversa con me interrogandomi sul come vivere questa vita che resta sempre un duro mestiere da imparare.
Soprattutto gli imperativi legati a tre parole venivano ripetuti con convinzione ed erano ascoltati, rimuginati. Si trattava di consigli da vivere nel rapporto con gli altri, nell'intento di tessere relazioni umane significative, capaci di dare gusto e senso alla vita.
La prima parola era "come": sentirsi come gli altri, vivere come gli altri, stare come gli altri. In questo come non c'era di sicuro un invito alla omologazione, ma al contrario l'affermazione della fraternità e della sororità, o meglio dell'umanità che ci accomuna tutti, c'era quel sentimento di uguaglianza che mi impedisce di prevaricare sugli altri o di sentirmi migliore di loro.
Di fatto era un richiamo all'umiltà: non al di sopra degli altri, ma con la stessa dignità, gli stessi diritti, la stessa vocazione alla vita e alla felicità. Come gli altri: sembra una banalità, ma è una cosa seria. Chi non conosce e non sa affermare il suo essere "come gli altri" è indotto alla prepotenza nei rapporti, a vantare privilegi, e in definitiva alla violenza.
Solo quando si è solidificata questa uguaglianza del "come gli altri" si può anche stare con gli altri. Preposizione, questa, straordinaria, che ci consente di avere una visione comunitaria, di affermare la comunione di due che dicono "noi" e non più soltanto "io". Io vivo con gli altri, abito con gli altri, lavoro con gli altri, gioisco con gli altri, soffro con gli altri. Solamente non posso decidere di morire con gli altri perché si muore da soli, ma tutto il resto può essere vissuto, fatto, sperato con gli altri.
Con dà l'orizzonte comunitario all'umanità, è l'affermazione che si vive e si opera insieme, mai senza l'altro. L'uguaglianza apre alla vera comunione di esseri umani diversi e differenti, dove il debito e la responsabilità verso l'altro sono vissuti insieme.
E da questa comunione profonda faccio scaturire il terzo imperativo a partire dalla preposizione per. Tutto ciò che si vive lo si vive non per se stessi ma per gli altri. Nasce qui dalla responsabilità verso gli altri la cura degli altri, il servizio degli altri. Gli altri cessano di essere l'inferno (Sartre), e diventano l'occasione di dare un senso alla vita.
Perchè aiutare gli altri?
Piero Stefani
Non è scontato dare risposta a questa che sino a qualche tempo fa sarebbe parsa una domanda puramente retorica. Oggi, in particolare, è la spinta migratoria che costituisce il contesto «nuovo» in cui interrogativi scontati si ripropongono in termini drammatici, laddove il «come» arriva a mettere in crisi il «perché». Il peso del «come» è grande. Per essere in grado di aiutare gli altri - afferma Piero Stefani - occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche. In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Dobbiamo quindi rinunciare?
No, occorre innanzitutto non lasciare che l'accidia personale e collettiva così come il sentimento della paura o dell'incertezza del futuro abbiano il sopravvento. E, soprattutto, occorre porre come primo imperativo, antidoto d'ogni atteggiamento rinunciatario, quello di cercare di capire.
Per chi avverte nel proprio animo la spinta ad aiutare altre persone, un problema urgente, e spesso delicato e impegnativo, concerne il come farlo.
Quando, nella concretezza delle proprie esistenze, si tocca questo tasto, si comprende senza difficoltà che le buoni intenzioni tante volte non bastano. Ciò vale sia per la dimensione individuale sia per quella collettiva. Di frequente si è costretti a registrare impreviste ricadute negative delle azioni intraprese. Più volte, per scongiurare siffatti esiti, si ricorre a esperti del «come». In questi ambiti acquistano sempre più spazio le competenze tecnico-professionali.
A essere chiamata in causa è praticamente tutta la sfera delle scienze umane colte nel loro versante pratico. Economisti, sociologi, psicoanalisti, psicologi, pedagogisti, consulenti familiari sono le prime, ma non le sole, esemplificazioni che balzano alla mente. Anche sul versante spirituale, per affrontare simili snodi, ci si rivolge a determinate competenze, dalle più tradizionali, come il prete o il confessore, a quelle ispirate ad altre tradizioni religiose, parareligiose o sapienziali. In questi casi il bisogno di aiutare gli altri si intreccia, non raramente, con il sostegno che si cerca per se stessi.
Gli esiti non sono assicurati, a volte si fanno progressi, altre volte si patiscono invece delusioni tanto cocenti da far sì che il fallimento del «come» conduca fino a mettere in discussione il «perché» occorra impegnarsi. La frase colloquiale che suggella questo esito è: «Non c'è più nulla da fare».
L'esperienza attuale ci dice che la serietà della questione del «come» non deve far trascurare il problema del «perché». Non va infatti dato per scontato che prestare aiuto sia una caratteristica tipica della condizione umana. Essa non è presente in ogni circostanza nell'animo di tutti. Risulta quindi urgente trovare risposte alla radicale domanda: «Perché mai dobbiamo aiutare gli altri?».
In realtà, andare alla ricerca di solidi fondamenti per risolvere la questione significherebbe affrontare l'intera sfera della ricerca etica, un compito che va ben al di là della serie di riflessioni qui proposte. Senza alcuna pretesa di conseguire la completezza, ci si limiterà perciò ad avanzare alcune delle molte motivazioni che spingono ad aiutare gli altri.
Secondo una prima approssimazione è dato individuare cinque motivazioni di fondo che inducono a prestare aiuto agli altri. Le elenchiamo senza introdurre alcun ordine gerarchico. Va comunque precisato che esse, pur non escludendo l'aspetto collettivo, tengono soprattutto conto della componente individuale: occorre aiutare gli altri perché conviene; per un moto di compassione o solidarietà presente nell'animo umano; perché è comandato; per la radicale e comune non-autosufficienza della condizione umana; per non espandere il male presente nel mondo.
Al pari di ogni altra schematizzazione, anche quella qui proposta è in parte fallace; essa tende infatti a introdurre confini netti là dove, non di rado, ci sono incroci e sovrapposizioni.
II «proprio interesse»
Vi è un primo modo di declinare il problema che potremmo definire, in senso lato, economico e un secondo classificabile come relazionale (e in questo senso prossimo all'etimo della parola: «con-venire»).
Nell'ambito economico non è dato, per definizione, di prescindere dall'utile. La via da perseguire è mostrare concretamente che il conseguimento del proprio vantaggio implica l'incremento anche di quello altrui. Le formulazioni più tipiche di questo principio si ritrovano nell'ambito dell'economia politica classica. Scrive Antonio Genovesi: «Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti che per la sua felicità, sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l'altrui miseria e, se potete e quando potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse tanto più, purché non si sia pazzi, si debb'esser virtuosi. È legge dell'universo che non si può far la nostra felicità senza fare quella altrui».[1]
Nell'ambito dell'economia il primo fattore che muove a operare è la «propria felicità», il «proprio interesse», il «proprio profitto», il «proprio guadagno». Non può essere che così. La questione è far sì che il proprio tornaconto sia nelle condizioni di procurare vantaggi anche agli altri. L'economia liberale classica era fiduciosa che, per logica interna, nella sfera della produzione e dello scambio non vigesse la regola dell'homo homini lupus.
Secondo un celebre detto di Adam Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che essi hanno per il loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità»;[2] ma facendo i loro interessi i fornitori fanno anche quelli degli acquirenti e viceversa.
Nei due secoli successivi l'ottimistica fiducia tipica della visione economica liberale è largamente saltata; tuttavia resta fermo il fatto che l'ambito economico non è retto dal puro altruismo. Ovviamente è ben possibile, anzi doveroso, porre in discussione la logica liberale pura. È dato impegnarsi per un'«economia civile» e ancor più radicalmente per un'«economia di comunione» [3] ma, «per la contraddizion che nol consente», non è lecito, in campo economico, parlare in termini di pura gratuità e generosità e di assenza di ogni utile, e ciò proprio a motivo del conseguimento di un comune vantaggio.
Tenendo conto di quanto si è appena detto, nasce l'interrogativo del perché spesso non ci si conformi alla legge universale in base alla quale non è dato raggiungere la propria felicità senza fare anche quella altrui. In simili circostanze, argomentare a favore del vantaggio reciproco risulta l'operazione più efficace.
Scrisse David Hume: «Il tuo grano è maturo oggi il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se io oggi lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo alcun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che tu domani mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma sopravviene il maltempo e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di garanzie».[4]
Anche in questo caso l'aiuto dovrebbe avvenire non a motivo di una reciproca benevolenza ma a causa di una palese convenienza. In definitiva, pure se il vicino mi è antipatico traggo vantaggio dall'aiutarlo.
Sono felice se tu sei felice
Intensificando la dimensione dell'utile si può giungere alla posizione espressa nel detto corrente (ma forse oggi un po' meno frequente di ieri): «Fare del bene ti fa bene». Visione attualmente proposta in forma molto schietta da studiosi come la statunitense Barbara Lee Fredrickson (esponente di punta della «psicologia positiva»), secondo la quale essere altruisti rafforza i legami sociali e costruisce la capacità di esprimere amore e sollecitudine, in tal modo la reciproca influenza tra benessere individuale e collettivo consente di raggiungere la felicità e una soddisfazione autentica. Quando aiutiamo gli altri si è felici perché si sperimentano di continuo buone sensazioni fisiche e spirituali.[5]
Con maggiore spessore culturale, un orientamento simile era già stato proposto nel XIX secolo da John Stuart Mill: «Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell'umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa trovano la felicità lungo la strada».[6]
Qui il discorso si raffina, si presuppone infatti che la rinuncia cosciente al conseguimento diretto della propria felicità sia la via migliore per raggiungerla. L'orizzonte rimane comunque quello espresso dalla «regola aurea» dell'utilitarismo stando alla quale il bene coincide con la massima felicità del maggior numero di persone possibili.
Il punto debole della prospettiva sta nel fatto che l'istanza, per realizzarsi appieno, implicherebbe la presenza di una sostanziale parità tra le componenti di una società contraddistinta nella realtà da forti disuguaglianze.
Per conseguire un'utilità comune occorre articolare in modo positivo i rapporti tra uguaglianza e diversità. Tuttavia, se l'utile diviene egemonico, risulta quasi inevitabile che il trattamento riservato alle componenti più deboli della società perda,di consistenza.
La prospettiva emergeva con chiarezza già nei «sacri principi» dell'89. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino recita: «Gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune». Da questa frase è obbligo concludere che l'utile sociale è legato a filo doppio alla disuguaglianza.
Nonostante la loro ispirazione liberale, alle spalle della sfera dei diritti elaborata nel corso della Rivoluzione francese continuava a stagliarsi l'ombra lunga dell'apologo organicistico attribuito a Menenio Agrippa: la società è come un corpo, ogni membro ha una funzione differente da quella degli altri; alcuni sono però indispensabili, altri non strettamente necessari: si può vivere senza una mano, ma non senza cuore o polmoni.
Rispetto al corpo l'unico ambito in cui è dato parlare a pieno titolo di uguaglianza è il fatto che tutte le membra fanno parte di esso. In senso stretto non esisterebbero perciò diritti individuali: è il corpo nel suo insieme che fa sì che tu sia o piede o mano o testa. Per questa ragione il modello antico non è riproponibile alla lettera, esso infatti, nella moderna visione liberale, viene sottoposto a profonda revisione riconducibile a questi termini: ognuno è titolare di diritti e le diversità si giustificano solo in base all'utilità comune. Quest'ultima però rischia di diventare semplicemente l'espressione delle componenti più forti della società che tendono a prendersi cura degli altri soltanto nella misura in cui questa prassi collima con lo sviluppo dei propri interessi.
Tutti nella stessa barca: ovvero le relazioni
L'espressione colloquiale per indicare questa posizione sta nell'affermare: «Siamo tutti nella stessa barca». Nella sua forma più alta il senso della relazione si esprime nel detto secondo cui aiutando gli altri aiuti te stesso e viceversa. In termini complessivi l'elaborazione di questo principio evidenzia che relazione e alterità sono tra loro inversamente proporzionali.
L'«altro» non è una persona che si presenta all'inizio come separata per essere ricondotta progressivamente alla sfera della relazione: fin da principio nessuno è semplicemente un estraneo. Il culmine di questa visione è raggiunto nelle culture che presentano la relazione come il tessuto costitutivo della realtà. Tra esse, per quanto riguarda il risvolto etico, le elaborazioni più pregnanti si trovano nel buddhismo.
A partire da una concezione della realtà relazionale un antico detto sostiene che: «badando a se stessi si bada agli altri; badando agli altri si bada a se stessi (...) E come badando agli altri si bada a se stessi? Con la tolleranza, la non-violenza, l'amicizia, l'indulgenza» (Samyuttanikaya).[7]
Qui il modo di dire «ti fa bene fare del bene» acquista una tale profondità da essere sradicato dal terreno dell'utile per venir direttamente ripiantato in quello ontologico-relazionale (dato e non concesso che il termine «ontologia» sia applicabile al buddhismo). Nella Samyuttanikaya la coincidenza tra il prendersi cura degli altri e di se stessi è esemplificata attraverso l'immagine suggestiva degli acrobati che, allorché formano una piramide umana, si trovano oggettivamente nelle condizioni di far coincidere la propria tutela con quella degli altri e viceversa.
Il detto proverbiale che allude alla barca ha sullo sfondo l'idea, più o meno accentuata, del pericolo: ad accomunarci è la presenza di una minaccia collettiva. Nell'immagine della piramide umana l'idea di un possibile crollo non è evidentemente assente, tuttavia essa non è neppure costitutiva. In questo caso il ruolo decisivo spetta alla relazione. Per costituire un'unica struttura tutti gli acrobati, fin dal principio, si trovano in un rapporto reciproco. Nell'immagine corrente, la barca è un contenitore (fuor di metafora, una situazione accomunante), nel caso della piramide umana invece sono le relazioni stesse a costituire l'insieme. Gli acrobati, quindi, simboleggiano la condizione umana in quanto tale e non già una particolare situazione in cui ci si viene a trovare.
«Rispetto per la vita»
Nella civiltà occidentale sono stati elaborati vari modi per affrontare il tema delle relazioni. Da esse, di solito, non derivano però in modo diretto comportamenti etici rivolti a prestare un aiuto sia agli altri sia a se stessi. Un'esemplificazione particolarmente significativa di questa prospettiva avviene se si guarda all'approccio evolutivo assunto in senso biologico.
Anche prescindendo dal riferirsi a questa o a quest'altra teoria, è dato concludere che tutte le visioni evolutive individuano un legame molto stretto tra i viventi, cosicché di fronte a ciascuno di loro è obbligo concludere che se non ci fosse lui non ci saremmo neppure noi.
Tuttavia questa constatazione descrittiva di per sé non consente di trarre conclusioni etiche univoche: tra XIX e XX secolo si affacciarono sulla scena sia il darwinismo sociale che trasferiva nelle società umane il criterio della struggle for the life, sia visioni che coniugavano in senso positivo e comprensivo l'etica della vita. Tra esse la più celebre è probabilmente quella intuita da Albert Schweitzer nel corso di uno dei suoi soggiorni africani.
«Risalivamo lentamente il fiume (...) cercando con fatica – era la stagione secca – i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Immerso in profonda meditazione sedevo sul ponte della barca, sforzandomi di arrivare al concetto elementare e universale di etica, che non ero riuscito a trovare in nessuna filosofia. (...) Poi il terzo giorno, al tramonto, proprio nel momento in cui ci stavamo facendo strada tra una mandria di ippopotami, balenò nella mia mente, quando meno me lo aspettavo, la frase: "Rispetto per la vita". Il cancello di ferro aveva ceduto; si poteva vedere il sentiero del bosco. Ecco che avevo trovato il modo per arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l'affermazione del mondo e della vita e l'etica. Ora sapevo che l'affermazione etica del mondo e della vita, come pure gli ideali di civiltà, sono fondati nel pensiero».[8]
Il discorso di Schweitzer non è rivolto in modo diretto all'aiuto da offrire agli altri; tuttavia è evidente che il fatto stesso che questi pensieri siano stati per così dire innescati dalla vista di una mandria di ippopotami attesta che il legame tra tutti i viventi è qui assunto come un vero e proprio fondamento; dal canto suo il rispetto della vita, lungi dall'essere inteso come un passivo non intervento, obbliga a fornire un aiuto attivo tutte le volte che ce n'è bisogno.
Compassione e saggezza
«Umana cosa è l'aver compassione agli afflitti» si legge nella prima riga del Decameron. Nell'animo umano compare a volte un forte senso di compassione o di human sympathy nei confronti degli altri. Per quanto in italiano i due termini di «compassione» e «simpatia» abbiano assunto significati fortemente diversi, il loro etimo è, rispettivamente in base al latino e al greco, lo stesso. Esso indica un far proprio il patire e il sentire (nel senso di pathos) altrui.
L'espressione inglese human sympathy si conforma appunto a questo atteggiamento di com-passione attiva. Un problema a questo riguardo è se si tratti di un moto che balena all'improvviso dentro di noi o se, al contrario, sia una presenza costante.
Il buddhismo e il ruolo in esso affidato alla karuna ci prospettano una visione complessiva in cui misericordia, compassione, pietà ed empatia (per cercare una serie di termini che tendono a esprimere i sensi contenuti nel termine karuna) vanno congiunte in modo integrale con la prajna («saggezza»). Non si dà saggezza senza compassione e viceversa.
Ciò fa sì che karuna abbia un carattere universale che trova una qualche corrispondenza in noi tutte le volte in cui proviamo una grande, profonda compassione per la condizione umana in quanto tale (e quindi anche per noi stessi). Ciò non comporta affatto astenersi dall'azione; tuttavia essa è una dimensione profondamente diversa rispetto al moto improvviso che a volte ci spinge a soccorrere gli altri.
Nella maggior parte dei casi questo stato d'animo non dipende da una visione complessiva della realtà, esso scaturisce da sé di fronte a situazioni specifiche. Anche nella Bibbia non mancano episodi che si rifanno a questa dinamica. Per esemplificarla ci limitiamo a solo quattro esempi nei quali il senso di compassione, innescato da un precedente atto di vedere, conduce all'azione.
Iniziamo da un episodio antico, quello in cui la figlia del faraone salva il piccolo Mosè chiuso in un cestino che galleggia tra i canneti del Nilo.[9] Il libro dell'Esodo in questa scena riserva un ruolo decisivo al sentimento umano. La figlia del faraone vede il cestello fra i giunchi e manda la sua schiava a prenderlo. Vi è un primo atto legato al vedere, probabilmente dovuto solo a un moto di curiosità.
Subito dopo si muta però registro: «L'aprì e vide il bambino: eccolo, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: "È un bambino degli ebrei"» (Es 2,6; trad CEI 2008). In effetti il verbo ebraico impiegato in questa occasione (chamal) andrebbe reso meglio con «si commosse». Il pianto della piccola creatura induce alla commozione l'animo adulto. Non si trattò di un puro sentimento passeggero, quel sentimento condusse infatti a prendersi cura di un bambino appartenente a un gruppo perseguitato. Il pianto infantile suscita una risposta attiva.
La successione tra vedere e aver compassione (verbo splagchnizomai, che allude alla componente «viscerale» presente nel linguaggio biblico) compare anche in tre brani presenti solo nel Vangelo di Luca. Il primo è legato a un miracolo. Gesù sta per entrare a Nain. Presso la porta della città scorge un corteo funebre che accompagnava al sepolcro il figlio unico di una madre vedova: «Vedendola il Signore fu preso da grande compassione (esplagchisthe) per lei e le disse: "Non piangere"» (Lc 7,13).
Compassione e commozione muovono Gesù all'azione e lo inducono a richiamare in vita il fanciullo. In questa circostanza il Signore agisce in virtù di un moto interno; nessuno gli rivolse una richiesta, né la vedova compì alcun atto di fede in Gesù. L'azione misericordiosa è unilaterale, essa manifesta una profonda asimmetria tra chi è nelle condizioni di aiutare e chi può essere solo aiutato e qui non si tratta del defunto che, evidentemente, si trovava già in un «mondo altro», quanto di sua madre; è di lei che il Signore ebbe compassione.
Un discorso per più versi analogo è applicabile anche alla parabola del padre misericordioso. Il figlio minore dopo aver dissipato l'eredità torna verso casa. In tutto il tempo del suo smarrimento il padre non l'aveva fatto cercare. Sulla via del ritorno, «quando era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione (esplagchisthe), gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
In alcuni commenti si immagina il padre collocato sulla terrazza nell'atto di scrutare senza posa l'orizzonte lontano. Non è necessario ipotizzarlo. Il vedere può essere stato anche improvviso. Il gesto misericordioso di correre incontro al figlio perduto al fine di ritrovarlo nell'abbraccio e nel bacio non era programmato, scaturisce repentino dalla visione.
La prossimità: frutto di una relazione
L'ultimo esempio è forse il più significativo nel caso in cui si confronti il punto d'arrivo con quello di partenza. Si tratta della parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-36). Di essa conviene sottolineare un aspetto particolare. Il discorso prende avvio da una discussione sui due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Dt 6,4-5; Lv 19,18); rispetto a quest'ultimo comandamento, la parabola estende l'orizzonte mettendo al centro la figura di un uomo (anthropos) che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
Egli non è qualificato in nessun altro modo che in virtù del proprio bisogno. Le componenti identitarie sono presenti dalla parte di coloro che sono chiamati a prestar aiuto (sacerdote, levita, samaritano), non da quella di chi giace mezzo morto ai bordi della strada: egli è semplicemente un uomo.
Il sacerdote, il levita e il samaritano sono nelle condizioni di decidere se diventare prossimo allo sventurato; di contro, al ferito non è dato di scegliere nulla. Per lui chi lo soccorre diviene il suo prossimo, mentre gli altri restano degli estranei. Alla fine della parabola Gesù domanda: «"Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Colui che gli ha fatto misericordia (eleos)"» (Luca 10,36-37).
In questo caso, perciò, occorre affermare non tanto che ogni persona umana è mio prossimo quanto che ognuno può diventarlo se agisco nei suoi confronti all'insegna di una fattiva misericordia. La prossimità è il frutto di una relazione che trasforma l'estraneo in vicino.
Vi è però un aspetto legato all'universalità della motivazione che spinge ad agire. La discussione parte dal precetto e ne esemplifica la portata chiamando in causa un modo di prestare aiuto che non si misura affatto con il comandamento. Data l'ambientazione, bisogna presupporre la conoscenza del precetto del Levitico anche da parte del samaritano (il Pentateuco faceva parte pure della sua tradizione religiosa); tuttavia, egli agisce a motivo dell'estroversione delle proprie viscere e non già per mettere in pratica il comandamento.
Il suo aiuto è mosso da questa motivazione: «Passandogli accanto vide e ne ebbe misericordia (esplagchisthe)» (Lc 10,33). All'universalità del soggetto a cui ci si rivolge («un uomo») corrisponde quella del motivo che induce a operare. Si parte discutendo di un precetto biblico, ma si agisce sospinti da un moto di compassione commossa potenzialmente presente nell'animo di tutti, ma fu solo il samaritano a darvi ascolto.[10]
Rispetto all'uomo privo di identità che giace lungo la strada quanto è richiesto è di passare da un'iniziale estraneità alla costruzione di una prossimità frutto dell'ascolto di viscere estroflesse. Ogni essere umano da estraneo può diventare mio prossimo se segue la voce del frammento di misericordia presente in lui; quanto è decisivo è darvi ascolto e non «passar oltre» come il sacerdote e il levita.[11] Qualcosa di simile successe, per esempio, anche a Henri Dunant quando, nel 1859, arrivò sul campo di battaglia di Solferino.
Di fronte allo spettacolo orrendo – visto non solo da lui ma anche da molti altri – dei feriti abbandonati agonizzanti sul campo, gli sorse l'idea di creare la Croce rossa.[12] Cosa lo spinse a fondare un'organizzazione destinata a occuparsi di tutti i feriti sui campi di battaglia e altrove? Se volessimo impiegare l'immagine evangelica, la risposta sarebbe: egli, a differenza di altri, diede ascolto alla voce delle proprie viscere. Ciò gli consentì di emergere dalla comune indifferenza che attanaglia i più.
«Io sono il Signore Dio tuo»
Nelle considerazioni ora proposte dedicate alla parabola del samaritano, si è evidenziato il passaggio da una discussione legata a un comandamento a un'azione innescata da una compassione commossa. Ora è opportuno compiere il cammino inverso e considerare l'esistenza di un comportamento comandato. Quando si prende in considerazione quest'ambito sorge subito il problema dell'autorità legittimata a comandare.
Per ricorrere a categorie consuete, essa può essere religiosa o civile. Tutti e due gli ambiti sono ricchi di varianti. Nelle nostre considerazioni esemplificative ci concentreremo da un lato su alcuni precetti biblici (senza prendere in considerazione i loro sviluppi presenti nella tradizione ecclesiale) e dall'altro sui contenuti di alcuni articoli costituzionali o legati ai diritti umani (senza occuparsi di leggi positive).
Scegliamo il punto di partenza per molti versi più ovvio; scavando in esso troveremo però aspetti meno scontati, fermo restando che, sul piano della prassi, anche il brano biblico di partenza è già in se stesso assai impegnativo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18); «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19,33-34). In entrambi i casi, la frase è conclusa con un riferimento al Signore posto a fondamento del precetto: non ci sono dubbi sull'autorità a cui spetta di comandare.
«Lo amerai come te stesso (`ahavta lo kamokha)» qui (come in Lv 19,18 in relazione al prossimo) il verbo `ahav, «amare», regge il dativo e non già, come di consueto, l'accusativo. Una traduzione che volesse mantenere la costruzione ebraica potrebbe optare per un «porta amore a...».
Questa resa chiarirebbe che si tratta di una dimensione operativa – la si può comandare appunto per questo motivo – e non già di un appello ai sentimenti. Il suo senso è dunque il seguente: agisci in modo amorevole nei confronti dello straniero.[13] Il comandamento ti ordina di fare a prescindere dal tuo stato d'animo nei confronti della persona che sei chiamato ad amare e aiutare.
Qui non entra in gioco alcuna compassione commossa, si è semplicemente tenuti ad agire in quel modo in ragione dell'imperatività del precetto rivelato dal Signore. Così nella forma presente nel testo biblico. In ogni caso l'appello a un principio fondativo trascendente smorza il ruolo affidato alla soggettività.
La dinamica risulta con particolare evidenza nel caso del comandamento rivolto a favore del nemico. All'inizio del percorso non c'è alcuna istanza riconciliativa, non si ordina di trasformare il sentimento d'avversione in amicizia, semplicemente si comanda un'azione benefica nei riguardi di chi ci è avverso: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico e il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso; mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5; trad. CEI 2008).
La seconda parte della traduzione non appare corretta allorché introduce un «non» (assente in ebraico) che regge un comando («non abbandonarlo a se stesso»). Si tratta peraltro di una resa frequente di un passo oggettivamente difficile da tradurre. E importante precisare sia che «nemico» andrebbe reso, alla lettera, con «colui che ti odia» sia individuare la presenza del comando solo nella parte conclusiva della frase (alla lettera «sciogli, sciogli con lui»); la proposizione precedente esprime invece la scelta iniziale, opposta al soccorso, compiuta da colui che vede la bestia a terra.
La frase andrebbe resa su per giù così: «Quando vedi l'asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico e desisti dal scioglierlo [asino]» proprio allora «sciogli, sciogli con lui [colui che ti odia]».[14]
In conclusione, ci sono due stati d'animo soggettivi di partenza: da una parte l'odio nei tuoi confronti e dall'altro la tendenza a non prestare aiuto; il comando s'innesta in questo plesso di stati d'animo e ordina un'azione positiva a favore di chi prova avversione nei tuoi confronti.
«In spirito di fraternità»
L'oggettività del comando che scavalca gli stati d'animo è ardua da mettere in pratica. Ciò è confermato indirettamente anche dalla Bibbia che in un passo parallelo (Dt 22,1-4) applica al fratello quanto il libro dell'Esodo riferiva al nemico. Nel Vangelo si torna a parlare di nemici. Molti fattori inducono a ritenere che l'amore evocato nei loro confronti debba collocarsi ancora sul piano operativo; bisogna cioè compiere azioni positive nei loro riguardi al fine di non essere presi nella spirale dell'avversione e del rancore.
Il modello citato, quello del Padre celeste, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti, è anch'esso operativo (Mt 5,43-48). Il Padre agisce a favore di tutti, senza che ciò annulli le qualifiche antietiche riservate agli esseri umani. In termini più orientati verso una futura discriminazione, il pensiero torna anche nella Lettera ai romani: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina (...) Al contrario "se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo" (Pr 25,21-22). Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,19-21).
Quando il comando è basato su un'autorità la sua efficacia dipende in larga misura da quanto essa sia riconosciuta. Se la fede in Dio illanguidisce, l'appello all'autorità divina perde efficacia. Lo stesso vale a maggior ragione se non si accredita più al potere divino la capacità di punire. Peraltro la presenza o l'assenza di una componente coercitiva ha una funzione rilevante anche in campo civile.
Per illustrare quest'ambito sono sufficienti pochi riferimenti. Dato l'attuale contesto politico e sociale del nostro paese, il primo esempio da proporre è quasi obbligatoriamente il principio di solidarietà presente nella Costituzione: «La Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
Il principio costituzionale è, per definizione, generale e la sua realizzazione è affidata a leggi positive garantite anche dalla presenza di una componente sanzionatoria. Lo scenario diviene perciò più decisamente connotato o dal rispetto o dalla violazione. Rimane il fatto che anche in sede puramente costituzionale ci si muove nell'orizzonte di un'imperatività basata sull'autorità.
Considerazioni in gran parte simili alle precedenti valgano per la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a Parigi il 10 dicembre 1948. Il suo primo articolo recita: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». A distanza di oltre un secolo e mezzo, e avendo alle spalle due guerre mondiali, le parole ora citate rievocano i diritti cardine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità.
Li dispongono però in una successione diversa: due sono collocati sulla tavola dei diritti, uno su quella dei doveri. È una differenza significativa. La fraternità non è un dato di partenza indiscutibile. Non ogni essere umano è mio fratello, ma ogni persona può diventare fratello o sorella se ci si relaziona reciprocamente «in spirito di fraternità». È una dinamica che richiama quanto avviene nel caso dell'amicizia: l'essere amici è una conquista comune.
La più condivisa formulazione dei diritti umani si apre prospettando l'esistenza di un'obbligazione. Libertà e uguaglianza sono situate sì nella sfera dei diritti, ma sono anche collegate a un termine, «dignità», reso necessario dall'avere assistito, nel corso della prima metà del Novecento, a forme senza precedenti di degradazione attuate dall'uomo nei confronti dei propri simili.
L'obbligazione si fonda sulla coscienza, parola innovativa rispetto alle precedenti dichiarazioni dei diritti. Come indicano i dibattiti svoltisi in sede ONU in vista della stesura del documento, qui per coscienza non s'intende la voce interiore che rende manifesta l'esistenza di una legge divina; il termine attesta piuttosto la presenza nelle persone di un «sentimento che altri uomini esistono».[15]
Il dare ascolto all'apertura antropologica verso l'altro dovrebbe portare ad agire in spirito di fratellanza. Accanto alla ragione è quindi chiamato in causa il sentimento, il quale, però, lungi dall'indossare i panni molli della spontaneità, è rivestito da quelli più degni e impegnativi dell'obbligazione. Il principio perciò è enunciato perché la sua stessa formulazione spinga ad agire in un determinato modo. Anche qui dunque si apre l'alternativa legata al rispetto o alla violazione.
La radicale-comune povertà
Ogni essere vivente che viene alla luce non ha scelto di nascere. L'affermazione non patisce smentita. Essa resta salda tanto nel caso di un concepimento naturale quanto di uno conseguito attraverso metodi più o meno accentuatamente artificiali. La nascita precede ogni volizione del soggetto. Questa radicale dipendenza ontologica si prolunga nel fatto che al momento della sua uscita dall'utero materno (per limitarci alla sfera dei mammiferi) ogni essere vivente è radicalmente non autosufficiente.
Il venir abbandonato a se stesso comporterebbe una sicura morte. L'aiutare gli altri è dunque componente costitutiva dell'esistenza di ciascuno. Ognuno, guardando a se stesso, è obbligato a concludere che se è tuttora in vita lo deve al fatto di essere stato aiutato. Soccorrere gli altri è quindi definibile come una specie di «regola d'oro» affermativa («Tutto quello che gli uomini volete facciano a voi, anche voi fatelo a loro» Mt 7,12) radicata nell'esistenza stessa. Dato e non concesso che si possa trascrivere liberamente in questi termini, il detto evangelico che ammonisce di ritornare come bambini (Mt 18,1-4) comporta la riconquista della struttura base dell'esistenza che pone al centro la relazione di aiuto.
La radicale comune povertà della condizione umana è la fonte primaria della solidarietà tra le creature. Papa Francesco, nella prefazione al libro del card. G.L. Mulller Povera per i poveri, scrive: «Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all'economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo "dai nostri beni" (cf. Lc 12,15).
Originariamente l'uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente del bisogno e dell'aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell'impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere "creature": non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere».[16]
Sostenere che gli esseri umani nascono liberi e uguali è una visione astratta o, se si vuole, un'affermazione di principio. Quando si viene alla luce non si è infatti né liberi, né uguali. Nella concretezza dell'esistenza è invece affermabile quanto le dichiarazioni dei diritti e dei doveri di solito non esplicitano: tutti gli esseri umani nascono bisognosi di essere aiutati, perciò l'obbligo di prestarsi reciprocamente aiuto è legge primaria della convivenza umana.
Non dare al male l'ultima parola
Guardando alle esistenze individuali, a quella collettiva, o, ancora più ampiamente, alla storia umana nel suo insieme, non sono pochi coloro che concludono che il tasso di male presente nel mondo è tale e tanto da non poter essere in alcun modo sanato. Si tratta della categoria di persone colloquialmente etichettate come pessimiste. Se portata all'eccesso, la loro posizione si riveste dei panni di una sfiducia radicale negli esseri umani che porta all'inazione propria di chi dichiara che ormai non c'è più nulla da fare.
In realtà, la conclusione, apparentemente coerente e lineare, è ingannevole e contraddittoria. Lo è nella misura in cui toglie al male le stimmate dell'inaccettabilità. Se il negativo entra nell'ambito delle cose che ineluttabilmente capitano, esso diviene, di fatto, normalizzato. In tal caso perde mordente la più concreta definizione di male che lo qualifica come una realtà che è ma che non dovrebbe essere.
«Una realtà che è» è una constatazione, il «non dovrebbe essere» è un giudizio di valore che spinge a prestare aiuto all'altro anche se si è consapevoli tanto della parzialità delle proprie azioni quanto della vastità umanamente irrimediabile del male presente nel mondo. Se collocata nell'ambito che le compete, è proprio l'inaccettabilità del male a ingenerare un senso di solidarietà con chi dal male è colpito.
Per ricorrere a un'espressione alquanto semplificata, si potrebbe sostenere che l'autentico pessimista è una persona attiva ma non soddisfatta. Egli non fa il bene perché gli fa bene, vale a dire non lo compie per sentirsi meglio; al contrario lo attua nella consapevolezza dell'insufficienza del proprio intervento. Se è persona di fede coniugherà questo suo agire con la fiducia (invero spesso messa alla prova) che la salvezza è da Dio e non dagli uomini.
Nei confronti di quell'«altro» costituito dalla terra, questa posizione è stata ben espressa in una dichiarazione di intenti di uno dei padri della coltivazione biologica in Italia, l'uomo di fede Gino Girolomoni: «Io non penso che l'agricoltura biologica salverà il mondo, ma la pratico per non stare dalla parte di chi il mondo lo distrugge».[17]
La scelta di fondo è esattamente quella di non stare dalla parte di chi compie il male; ciò comporta che nel frammento che ci compete ci si senta chiamati a curare le ferite di chi è colpito dal negativo, un atteggiamento che riguarda le persone, gli animali, la terra e le cose, e i prodotti artistici. Nel caso dei manufatti quest'atto rientra sotto la categoria del restauro, mentre quando si tratta di persone il conseguimento più alto è espresso dal termine «consolazione», un atto che non annulla quanto è stato, ma che si impegna a far sì che al negativo non spetti l'ultima parola.
Perché aiutare è difficile
Riprendiamo in conclusione l'argomento da cui siamo partiti. Il peso del «come» è grande. Per essere in grado d'aiutare gli altri occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche.
In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Basti pensare al ruolo riservato alla conoscenza delle leggi e delle procedure burocratiche spesso ignote ai più deboli, oppure alla profonda situazione di disagio che colpisce persone sprovviste di determinate abilità (il ruolo un tempo svolto dal non saper leggere e scrivere trova oggi un parallelo nell'essere privi di abilità informatiche ormai necessarie per lo svolgimento di moltissime pratiche amministrative e finanziarie).
Assunta nel suo complesso la sfera del «come» mina sempre più l'immediatezza dell'aiuto diretto a favore degli altri. Per sapere non basta volere. Non stupisce perciò che in più casi si asserisca che l'aiuto maggiore che si può dare è quello di fare un passo indietro e di lasciar fare a chi ha le competenze adeguate.
È solo apparentemente banale dichiarare che oggi la prima azione che il samaritano avrebbe compiuto lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico sarebbe stata quella di chiamare il 118! Si tratta di atto tanto efficace quanto dotato di scarso coinvolgimento personale che probabilmente anche il sacerdote e il levita avrebbero compiuto. Va da sé che non è proponibile prescindere dalla sfera delle competenze, ma è altrettanto certo che esse tendono, più o meno sottilmente, a far impallidire l'ambito che spetta al coinvolgimento etico personale e a rendere sempre più raro l'incontro profondo tra le persone basato sulla componente spirituale.[18]
Su tutte le motivazioni da noi prese in considerazione pesano delle controindicazioni. La dimensione economica legata all'utile e al vantaggioso è esposta all'incertezza della previsione. Ogni investimento, anche nel senso lato del termine, si proietta nel futuro e quindi ha a che fare con un ambito per definizione incerto.
Anche quando ci si muove sul piano dell'aiuto bisogna tener conto che alcune azioni sono soggette a mutamenti di segno in ragione di avvenimenti imprevisti. In questo campo l'eterogenesi dei fini è più che mai all'ordine del giorno. Ogni progetto è esposto a un rischio non preso in considerazione. Rispetto alla compassione grava tanto il suo essere di frequente legata all'oscillazione degli stati d'animo in cui ci si trova quanto la difficoltà d'affrontare il peso della reiterazione: se il samaritano avesse percorso quotidianamente quella strada e tutte le volte avesse incontrato un uomo ferito non si sarebbe comportato nella maniera descritta dalla parabola.
L'esistenza di un comando va incontro a tutti i disagi legati a un'imperatività eteronoma che si presenta poco coinvolgente, se non è fatta interiormente propria, e fredda e distaccata se eseguita solo per il timore delle conseguenze derivate dalla trasgressione.
Il senso di povertà proprio della non autosufficienza umana è turbato dai momenti in cui gli individui, le società e le nazioni si sentono forti e destinati a dominare; ne consegue che per essi lo sfruttamento risulta una realtà ben più attestata dell'aiuto.
Cercare di capire
L'inaccettabilità del male è esposta al rischio di scivolare, a poco a poco, nella rassegnazione o ancor più precisamente nell'accidia, parola di uso ormai raro, ma imparentata con il termine frequentissimo d'indifferenza. Quanto la distingue da quest'ultima è soprattutto il fatto che l'indifferenza riguarda in genere gli altri, mentre l'accidia coinvolge anche se stessi.
Che nell'etimo di «accidia» l'«a» iniziale sia un alfa privativo appare scontato. L'attenzione va quindi riservata all'altra parte del sostantivo: alle sue spalle c'è kedos «cura», «sollecitudine», «pensiero» ma anche «affanno». L'accidia è l' alter ego cupo e spento della spensieratezza. C'è chi non si cura di sé e degli altri perché vive con leggerezza senza lasciarsi turbare né dal proprio domani, né dal doloroso oggi altrui.
Di contro, c'è chi vive alla giornata con spossata stanchezza perché la sua triste condizione gli appare un muro invalicabile privo di futuro; la sua indifferenza alla vita è un fuoco spento che nessun aiuto altrui può ormai riaccendere.
Più del malinconico, l'accidioso ha perduto il gusto della vita; per l'uno e per l'altro ciò è avvenuto senza un motivo preciso. Chi è preda dell'accidia è avvolto da una cupezza rancorosa contro tutto e tutti, a iniziare da se stesso. L'accidia è la declinazione in chiave morale di una depressione valutata all'insegna del vizio e non già della malattia. In ciò sta forse la ragione per la quale oggi la depressione riempie la scena, mentre l'accidia è rintanata dietro le quinte.
Un fattore che si presenta come un ostacolo, oggi forse il più rilevante, rispetto all'aiuto da prestare agli altri è costituito dalla paura. Stato d'animo complesso ma, nella sostanza, in larga misura riconducibile all'attesa, conscia o inconscia, di un danno che altri ci possono arrecare. In effetti ciò riguarda a volte anche noi stessi.
Abbiamo paura dei nostri sentimenti e dei nostri desideri, di quello che potremmo compiere, sperimentiamo la sensazione di non avere risorse sufficienti per affrontare l'ostacolo con cui ci si deve confrontare (banalmente: «Ho paura di non farcela») e così via. In relazione agli altri si paventa un danno che un'entità, di frequente non ben conosciuta, potrebbe arrecare a noi stessi, ai nostri cari, alle nostre risorse, ai nostri beni, al nostro stile di vita, alle nostre fonti di reddito, alla nostra tranquillità e via dicendo.
Anche questa volta l'area di riferimento può essere individuale, relativa a un gruppo ristretto o ampia fino a comprendere intere nazioni. Una delle condizioni indispensabili per aiutare gli altri perciò è di vincere la paura, operazione non semplice in quanto coinvolge nel profondo individui e collettività. Essa poi diviene ancora più ardua in un tempo come il nostro dominato dall'incertezza nei confronti del futuro.
In ogni caso una delle risorse più efficaci per contrastare la paura è vivere sulla scorta di quello che Hannah Arendt considerava il massimo imperativo etico: cercare di capire. Non basta, ma è comunque un passo in avanti di notevole spessore.
* L'articolo riprende e sviluppa i temi presentati in una conferenza tenuta presso la parrocchia San Camillo De Lellis di Chieti il 20.11.2018.
NOTE
1 A. GENOVESI, Autobiografia, lettere e altri scritti: Opere scelte, a cura di G. SAVARESE, Feltrinelli, Milano 1963, 449.
2 Cf. A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, A. Millar, in the Strand, and A. Kincaid and J. Bell, in Edinburgh, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995).'
3 Cf. L. BRUNI, S. ZAMAGNI, L'economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.
4 D. HUME, A Treatise of human nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning finto moral subjects, 3: Of morals, Thomas Longman, at the Ship, London 1740 (trad. it. Trattato sulla natura umana, introduzione, traduzione e note di P. GUGLIELMONI, Bompiani, Milano 2001).
Cf. B.L. FREDRICKSON, Positivity. Groundbreaking research reveals how to embrace the hidden strength of positive emotions, overcome negativity, and thrive, Crown, New York 2009.
6 J.S. Utilitarianism, Longman, Green, Longman, Roberts, and Green, Londra 1864 (trad. it L'utilitarismo, Sugarco, Milano 1992, qui 33).
7 Cf. P. STEFANI, «Religioni-società: lo spirito dei diritti», in Regno-att. 22,2005,735; V. TALAMO (a cura di), Samyuttanikaya. Discorsi a gruppi, Ubaldini, Roma 1998.
8 A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Edizioni di Comunità, Milano 21965, 325.
9 P. STEFANI, «Il pianto di Mosè. È per rinascere che siamo nati», in Regno-att. 22,2018,693.
10 Forse può avere qualche significato constatare che il dottore della Legge, nella sua risposta conclusiva, usa eleos senza richiamarsi a splagchnizomai.
11 Cf. T. RADCLIFF'E, «Non passare oltre» in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, EDB, Bologna 2003, 137.
12 Cf. F. GIAMPICCOLI, Henri Dunant. Il fondatore della Croce Rossa, Claudiana, Torino 2009.
13 Cf. P. STEFANI, «Ama l'immigrato. È come te stesso», in Regno-att. 10,2015,705.
14 Sia pure in un italiano involuto, il punto è stato colto dalla seicentesca traduzione italiana del Diodati: «Se tu vedi l'asino di colui che ti odia giacer sotto il suo carico, mentre tu ti rimani di aiutarlo a farglielo andare oltre, del tutto fa' con lui sì che possa andare oltre». Su questa linea si attesta anche la King James: «If thou see the ass of him that hateth thee lying under his burden, and wouldest forbear to help him, thou shalt surely help with hinv›.
15 Cf. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995, 90.93-97.
16 FRANCESCO, «Prefazione» a G. MULLER, Povera per i poveri. La missione della Chiesa, a cura di P. Azzaro, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, 8s.
17 M. ORLANDI, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, EMI, Bologna 2014, 123: cf. Regno-att. 20,2014,725.
18 Il tema della deresponsabilizzazione personale a fronte delle crescenti competenze sociali è stato affrontato più volte, da par suo, da Ivan Illich: cf. per esempio I. Tuffai, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2008; cf. Regno-att., 20,2008,683.
(FONTE: Il Regno 2/2019, pp. 51-60)
Il duale
Alessandro D’Avenia
Al liceo, imparando la declinazione dei nomi e la coniugazione dei verbi greci, rimasi colpito da una forma grammaticale che a noi manca: il duale. Oltre al singolare (l'occhio vede) e il plurale (gli occhi vedono), i Greci avevano un modo specifico per indicare un elemento che ne implica un altro, non in quanto somma, ma come realtà nuova data proprio dalla relazione dei due.
Per tradurre dovevamo aggiungere un «due», ma la perifrasi di cui l'italiano necessita (i due occhi vedono) non dà sufficiente conto dell'azione congiunta, mentre loro avevano una forma specifica, quasi intraducibile (gli occhi vedono insieme), perché più che il numero segnala l'effetto della relazione.
Il duale non è quindi né un singolare né un plurale: la vista tridimensionale non è la somma di due occhi ma un «occhio a due».
Rari sono i casi in cui negli anni di scuola mi sono imbattuto nel duale, senza per altro capirne del tutto la precisione o necessità. L'ho intuita qualche giorno fa quando, con la mia futura sposa, siamo andati in una bottega di oreficeria e, guidati da una brava maestra (Anna), abbiamo forgiato in nove ore le nostre fedi: dalla fusione dell'oro grezzo fino all'anello, promessa d'amore in molte culture anche tra loro distanti. Due anelli, uno con il nome dell'altro, sono un duale aureo, e di un'educazione «duale» oggi abbiamo grande bisogno, come mostra anche la cruenta cronaca recente. La costruzione degli anelli me lo ha reso ancora più evidente. Come?
Lei ed io non siamo un semplice «noi», ma un «noidue» un «uno in due», una nuova entità, che supera la somma di 1+1, come «due occhi», «due orecchie», «due narici» non sono organi sommati, ma «la vista», «l'udito», «l'olfatto»: «la coppia» non è una somma di single che tentano di stare insieme fino a prova contraria, ma un'azione duale che genera l'inedito.
L'anello di un materiale raro e duraturo forgiato in forma circolare, simbolo di novità nella continuità, è il segno di questa azione duale. Viene posto sull’anulare (che significa appunto «il dito dell'anello») della mano sinistra perché nell'antichità si credeva che fosse collegato al cuore da una vena detta «dell’amore», per cui infilarvi l’anello è abbracciare il cuore dell'altro, l'altro così com'è.
Forgiare gli anelli è stato un impegno fisico di una giornata, come amarsi è un'officina aperta h24 (forgiare viene proprio dal latino fabrica, la bottega del fabbro). Tutto comincia unendo l'argento e il rame all'oro, altrimenti poco malleabile: chiamiamo comunemente questa lega (75% del nobile metallo e 25% per gli altri due) «a 18 carati». I metalli meno nobili sono necessari, come in una relazione gli aspetti meno «brillanti» lo sono perché ci si possa «lavorare»: finalmente c'è qualcuno che ama tutto ciò che siamo, anche il nostro 25% meno nobile, ma proprio questo, nel tempo, ci fa superare noi stessi e fa brillare tutto.
Il piccolo lingotto informe viene poi passato e ripassato in tre differenti presse che, con un certo impegno muscolare, lo trasformano in un filo della larghezza e sezione desiderata. Così fa il tempo: modella la relazione verso il suo compimento, è un nascere sempre di più, non un mero resistere. Il tempo dà la forma giusta alla relazione, spogliandola da idealizzazioni, manipolazioni, giochi di potere: non è infatti mai il tempo a spegnere l'amore, ma il disamore, cioè tutte quelle forme di potere/sottomissione che ho cercato di narrare in «Ogni storia è una storia d'amore», rendendo giustizia a donne dimenticate dalla storia ufficiale.
Ogni volta che il metallo viene «provato» dalle presse, bisogna poi rimetterlo «a fuoco», fino al rosso vivo, cioè in stato di quasi fusione, così le molecole indebolite da colpi e trazioni si riuniscono e rinnovano. È quello che serve nei momenti di crisi o di logorio: riportare la relazione «a fuoco», trasformando proprio ciò che l'ha messa alla prova in occasione per rigenerarla.
Le molecole della relazione di coppia hanno la stessa capacità dell'oro di rinnovarsi, ma solo se le si riporta ogni volta al duale, all'unione senza fusione, all'unità nella differenza, che fa superare le ragioni dell'io contro il tu grazie al «noidue» ritrovato nel fuoco che sin dall'origine aveva creato il legame.
Una fase molto affascinante della forgiatura è poi la chiusura dei due margini ancora separati. Una volta accostati perfettamente a forza di mani (un'azione vi assicuro più che mai faticosamente duale) e pinze, bisogna poggiare sulla linea di sutura un minuscolo frammento d'oro, detto «paglione», una lega aurea che fonde prima dell'altra, altrimenti tutto l'anello sarebbe liquefatto. Il paglione va a riempire perfettamente la fessura tra i margini, diventando poi tutt'uno senza lasciare il segno di unione non appena si porta di nuovo tutto l'anello al rosso vivo. Il paglione sarà la parola o il gesto che, se non vi rinunciamo, riuscirà a vincere e colmare la distanza.
A questo punto, l'anello, ancora irregolare, va martellato su un cono di ferro sino a diventare perfettamente circolare, per poi essere lucidato con lime, carte e setole, di diversa grammatura, fino a far sparire ogni imperfezione e rendere il metallo brillante. Durante la lavorazione non sembrava potessimo ottenere quel risultato, come capita nella relazione, ma alla fine gli anelli erano perfetti, forgiati ad arte dalle nostre mani, sapientemente guidate: la relazione è il (capo)lavoro di una vita. Non erano solo due anelli, ma un duale, un «noidue» aureo: l'unione nella differenza, quell'azione comune che permette a ognuno di essere chi è ma anche chi ancora non è e diventarlo sempre più, grazie all’altro, senza dominio, sottomissione, manipolazione.
Il duale non è quindi a metà strada tra singolare (individuo) e plurale (società), ma è l'origine di entrambi: la «coppia» fa i due, si fa nella differenza senza che diventi opposizione e nell'unità senza che diventi fusione, solo così è un rapporto tra soggetto e soggetto (generativo) e non tra soggetto e oggetto (degenerativo): al massimo di appartenenza corrisponderà il massimo di libertà, al massimo di unione il massimo di individuazione. Come la coppia di occhi, orecchie, narici fanno il vedere, l'udire, il respirare, così il «noidue» fa l'amare, l'uno in due, la forma duale di esistere: co-esistere. Un duale che stiamo scoprendo, imparando, facendo con gioia inattesa, come quelle fedi.
Sperare
di Giovanni De Mauro
“La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio.
Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita.
Significa riconoscere l’incertezza del futuro e impegnarsi a cercare di partecipare alla sua creazione.
Significa affrontare le difficoltà e accettare l’incertezza. Sperare significa riconoscere che si può proteggere qualcosa di ciò che si ama anche se si soffre per ciò che non si può proteggere – e sapere che dobbiamo agire senza conoscere l’esito di queste azioni.
Più e più volte il mondo è stato cambiato da persone che, all’inizio, sembravano troppo deboli per sfidare le istituzioni più potenti del loro tempo. Sperare significa accettare la disperazione come emozione ma non come analisi. Riconoscere che ciò che è improbabile è possibile, così come ciò che è probabile non è inevitabile. Capire che difficile non equivale a impossibile. Pianificare e accettare il fatto che l’imprevisto spesso sconvolge i piani, sia in meglio sia in peggio.
Sapere che i potenti hanno le loro debolezze e che noi, che in teoria siamo deboli, abbiamo un grande potere insieme, il potere di cambiare il mondo, lo abbiamo fatto in passato e lo faremo ancora. Sapere che il futuro sarà come lo costruiamo nel presente. Sapere che la gioia può apparire nel bel mezzo di una crisi e che una crisi è un bivio.
Forse la speranza è il coraggio di perseverare quando vincere sembra difficile; forse non è la speranza ma la fede che sostiene le persone quando il successo sembra inconcepibile.
È in questo senso che ne parla il drammaturgo Václav Havel, che è stato un catalizzatore della rivoluzione e del cambio di regime in Cecoslovacchia negli anni settanta e ottanta: ‘La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che vale la pena fare qualcosa a prescindere da come andrà a finire’”
Trascendenza
Paolo Zini
Nel pensiero occidentale il termine trascendenza gode di un autentico rilievo sintomatico, per la plurivocità di semantizzazioni che ha saputo condensare, quasi ricapitolandovi i tornanti fondamentali di un’articolata storia della teoresi e del costume.
I referenti privilegiati del termine hanno visto succedersi l’oltremondanità noetico-metafisica nella filosofia classica, il principio soteriologico e il destino escatologico della storia nella filosofia medioevale, i canoni regolativi dell’impresa civile e politica nell’umanesimo, l’inviolabilità della dignità soggettiva nella modernità illuministica e l’ideale della realizzazione del sé nella postmodernità.
A dispetto dell’eccesso di schematizzazione che pare implicato in tale sequenza, le figure di trascendenza che vi si profilano tracciano una parabola che, per il suo valore euristico, potrebbe essere di qualche utilità considerare.
L’abrasività degli aforismi nietzschiani - che restituiscono lo sviluppo del pensiero occidentale attraverso i canoni investigativi di una rigorosa eziopatogenesi - non esita a identificare nel platonismo un’ossessione per la trascendenza, origine ultima di quel vilipendio etico-religioso della vita che avrebbe trovato in secoli di filosofia la propria legittimazione teorica.
Il carattere discutibile dell’ermeneutica nietzschiana non può impedire di riconoscervi un’intuizione pertinente, circa la solidità del vincolo che annoda, nella filosofia occidentale, i destini dell’umano alle forme di identificazione e di ossequio alla trascendenza.
Con Platone – di nuovo il convincimento di Nietzsche qui è irrefutabile - l’istanza metafisica non diviene semplicemente prescrittiva relativamente ad una particolare deontologia della conoscenza, ma giunge ad ispirare una vera e propria assiologia epistemologica, che sancisce per quindici secoli la primazialità cognitiva del sapere circa la trascendenza delle cause ultime.
Il convenire dell’apertura dell’intelligenza umana e dell’intelligibilità ultima del reale definisce un segmento di consostanzialità ontologica e gnoseologica che decide la singolarità personale e discrimina la dignità della sua vocazione storica; sono istruttive al riguardo le parole solenni di Socrate nel Fedone: “Qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano, né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme. Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri, ebbene, vuoi che ti esponga, o Cebete, la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?” (Platone, 2001, 99d).
Con l’avvento del cristianesimo l’identificazione greca della trascendenza ed i suoi riflessi sull’autoidentificazione dell’umano conoscono una trascrizione soteriologica di impatto culturale e civile decisivo. Principio gnoseologico risolutivo per la competenza dell’umano circa la contraddizione storica dell’esistere è la Rivelazione, alla cui luce l’uomo conosce la misura della propria precarietà cognitiva ma pure le ragioni del proprio riscatto e della propria speranza. Alla bios theoretikos della tradizione greca, quale forma dell’esistere dell’umano riuscito, subentra la fede, quale abito intellettuale e volitivo acceso dall’obbedienza all’anticipazione pasquale del destino escatologico della storia. Corrispondentemente, alla trascendenza greca del logos, che eroga consistenza ontologica al cosmo e supera il carattere aporetico della contingenza storica dell’ente, subentra la trascendenza del Verbo, che vince le tenebre dell’ignoranza e della morte e inaugura l’attesa del giudizio escatologico che compirà la trasfigurazione trinitaria della storia. L’identificazione cristiana della trascendenza diventa principio di rideterminazione teologale dell’esistenza all’intersezione di un dono e di un compito che rivelano alla libertà la sua provenienza ed il suo destino.
Ben documentano la potenza della riqualificazione soteriologica della storia da parte dell’evento cristiano le parole di un’opera di Anselmo d’Aosta che così illustra la verità dell’esistere alla luce della fede: “Quale condotta più misericordiosa si può infatti riconoscere di quella del Padre, il quale, al peccatore condannato ai tormenti eterni e privo di quanto potrebbe salvarlo, dice: «Prendi il mio Unigenito e offrilo per te», e il Figlio da parte sua: «Prendi me e redimi te»? Questo dicono in qualche modo, quando ci chiamano e ci attirano alla fede cristiana” (Anselmo d’Aosta, 2007, II.20).
La Stimmung rinascimentale, accreditata da una singolare incisività culturale, revoca alcune fondamentali premesse cristiane della civiltà medioevale; l’osservatorio che consente di registrare la radicalità del cambiamento è quello della disciplina della convivenza civile in ordine alla quale il machiavellismo politico può essere icasticamente riconosciuto come laboratorio di una risemantizzazione della nozione di trascendenza. Il realismo del Principe descritto da Machiavelli, obliterando le giustificazioni metafisiche ed oltremondane del patto civile e della sua tutela istituzionale, svela - attraverso l’autoreferenzialità della ragione politica e il culto antiprovvidenzialistico dell’occasione che tesaurizza l’eccentricità della fortuna - l’assolutizzazione dell’orizzonte mondano quale pertinenza antropologica. In tale orizzonte rigorosamente storico ha un ruolo fondamentale l’eminenza antropologica, che si legittima per riferimento alla trascendenza non più della ragione metafisica dei fini, ma dell’astuzia opportunistica dei mezzi.
La soggettività nata dall’Umanesimo non considera dimidiato il proprio pregio per l’estraneità alle coordinate protologiche ed escatologiche che nella rivelazione cristiana la vedevano eletta a senso del cosmo meritevole il Sacrificio di Dio e la definitività di un destino eterno, piuttosto avverte l’ebbrezza della propria vocazione al dominio storico entro il quale celebra la sua assolutezza. La misura angusta ed immanente di una mondanità che trae da sé le forme della propria disciplina emerge con chiarezza inequivoca dalla deontologia politica del Principe di Machiavelli: “Resta ora a vedere quali devono essere i modi e governi d’un Principe con li sudditi e con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito scrivendone ancor io, non essere tenuto presuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma, essendo l'intento mio scriver cosa utile a chi l’intende, m’è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa: e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverria fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua” (Niccolò Machiavelli, 1858, XV).
Con la modernità illuminista il senso della trascendenza soggettiva, che l’Umanesimo insieme assegna ed affranca dal corso naturale degli eventi per inaugurare nella storia il protagonismo civile, si palesa come coscienza dell’autonomia della ragione e del potere di autodeterminazione della libertà. Il progetto kantiano è, da questo punto di vista, emblematico: la dignità dell’uomo non risiede nella capacità della sua intelligenza di riconoscere ultimativamente il principio trascendente del logos intrinseco alla realtà quale fonte di disciplina morale; piuttosto, il rigoroso ed esclusivo convenire di ragione e libertà nell’autonomia soggettiva subordina, al progetto della solitaria edificazione di sé, senso e valore dell’impresa civile e della sua eventuale referenza religiosa. È la trascendenza della differenza razionale dell’umano, identificata con il suo importo critico, rispetto ad ogni indigenza materiale, ad ogni prescrizione civile e ad ogni sentimento religioso, il fondamento di ogni prescrizione e legittimazione di senso. Le parole di Kant relative allo spirito illuministico sono molto precise: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo. Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. […] Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro. […] A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi” (Kant, 1783).
Con la temperie postilluminista, nella quale viviamo, l’estenuazione del rilievo socioculturale della trascendenza oltremondana conosce, forse a dispetto di numerose apparenze contrarie, la sua radicalizzazione. Non devono infatti ingannare il cosiddetto sacro di ritorno o la sovradeterminazione rituale e pseudoreligiosa dell’esistere cui si dirigono nostalgie individuali e collettive della società dei consumi. Oggetto di sacralizzazione pare infatti essere un ideale del sé caratterizzato da un’omeostasi assoluta, raggiunta attraverso la soddisfazione consumistica dei bisogni e l’esorcizzazione tecnica, mediatica e medica della sofferenza.
La fortunata espressione di Charles Taylor, che caratterizza il nostro tempo come età secolare, rimarca la filigrana immanentistica della figura di trascendenza cui l’uomo postilluminista riserva il proprio culto, annodandovi le costellazioni di significati deputate ad orientare l’esistere.
A caratterizzare, di riflesso, il tipo umano rappresentativo delle convivenze occidentali della contemporaneità, secondo Taylor, sarebbe l’identità schermata, esito di un processo di natura antropocentrica e solipsistica innescato dal senso di superiorità del soggetto sul mondo, dall’intensità di un nuovo rapporto della soggettività con se stessa e da una radicale reversibilità imposta dalla sua libertà ad ogni forma di vincolo con altri: “Quali erano (e sono) i vantaggi di questa identità schermata, antropocentrica? Le sue attrattive sono piuttosto ovvie, almeno per noi. Un senso di potere, di idoneità, derivante dalla capacità di dare ordine al proprio mondo e a se stessi. E, nella misura in cui tale potere era legato alla ragione e alla scienza, anche il senso di aver fatto grandi progressi in termini di conoscenza e comprensione. Oltre al potere e alla ragione, questo antropocentrismo presentava però anche un altro vantaggio notevole: un senso d’invulnerabilità. Vivendo in un mondo disincantato, il sé schermato non è più aperto, esposto a un mondo di spiriti e forze che attraversano il confine della mente e negano, perciò l’idea stessa dell’esistenza di un confine certo. Le paure, le ansie, persino i terrori che caratterizzano il sé poroso sono ormai alle spalle. Questo senso di padronanza di sé, di uno spazio mentale interiore sicuro, risulta ancora più forte, se oltre al disincanto del mondo abbiamo anche intrapreso la svolta antropocentrica e non facciamo più affidamento sul potere di Dio” (Taylor, 2009, p. 383).
Il prezzo però dell’identità schermata, retaggio di una trascrizione immanentistica di ogni trascendenza e di ogni differenza, pare sortire effetti autistici, che l’indagine di Taylor rimarca in modo tagliente: “L’identità schermata è profondamente ancorata nel nostro ordine sociale, nel nostro radicamento nel tempo secolare, nelle discipline distaccate di cui ci siamo fatti carico. Questo ancoraggio garantisce la nostra invulnerabilità, ma può essere vissuto anche come un limite, persino come una prigione, che ci rende ciechi o insensibili a tutto ciò che si trova al di là di tale mondo umano ben ordinato e ai suoi progetti razionali in senso strumentale. Può così facilmente diffondersi l’idea che ci manchi qualcosa, che le nostre vite siano tagliate fuori da qualcosa, come se vivessimo dietro uno specchio” (Taylor, 2009, p. 384).
Se la parabola tracciata nomina le figure di trascendenza divenute ispiratrici dei processi di costituzione e giustificazione degli assetti epistemologici, politici e civili del costume oggi dominanti, va nondimeno riconosciuto che numerose voci continuano a richiamare l’importanza di una diversa elaborazione del vincolo della coscienza all’ulteriorità oltremondana come condizione impreteribile di esercizio nobile della libertà.
Nel panorama culturale contemporaneo non mancano poi diagnosi che attribuiscono il disorientamento postmoderno e il tratto depressivo del suo approccio all’esistere proprio all’immanentizzazione soggettivistica di ogni trascendenza: “La nostra civiltà è la prima che si crede immortale, mentre forse è semplicemente la prima alla quale manchi un consapevole sentimento di limitazione. […] Eppure, fagocitando ogni rispetto del limite assieme a quello per dio e per la morte, la nostra civiltà sembra quasi aver seguito un cammino opposto e regressivo. […] La sua laicizzazione non è stata solo adeguamento a nuove regole esterne, ma metamorfosi interiore e trasmutazione dell’anima in luogo così complesso da farsi sempre più difficilmente esprimibile. Se dio è stato rimosso dai cieli e incorporato sotto forma di aspirazioni come lui infinite, anche la morte, allontanata dagli occhi, si riaffaccia all’interno dei soggetti travestita da depressione non razionalmente motivabile. Il nucleo di tale ripiegamento dello slancio vitale è una colpa assoluta, priva di motivi visibili, cui corrisponde un vissuto di insufficiente giustificazione dell’esistere” (Zoja, 2004, pp. 209-210).
I riflessi preoccupanti della seduzione immanentistica tipicamente occidentale suggeriscono forse di prestare attenzione a quegli autori impegnati a stigmatizzare la ridefinizione antropocentrica della trascendenza che la libertà finita vorrebbe ridurre a riflesso del proprio narcisismo.
Tra questi autori si segnala Levinas, la cui proposta speculativa è una rigorosa declinazione dell’assunto circa il carattere antropologicamente genetico della Trascendenza come Alterità e dell’Alterità come Trascendenza.
“Al di là della fame che si può saziare, della sete che si può calmare e dei sensi che si possono appagare, esiste l’Altro, assolutamente altro, che si desidera oltre queste soddisfazioni, senza che il corpo conosca alcun gesto per appagare il Desiderio, senza che sia possibile inventare una nuova carezza. Desiderio insaziabile, non perché corrisponda a una fame infinita, ma perché non reclama alcun nutrimento. Desiderio senza soddisfazione, che, proprio per questo, prende atto dell’alterità dell’Altro (Altrui) e la colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell’essere” (Levinas, 1989, p. 42).
Levinas ritiene sia compito urgente della filosofia ripensare il realismo della libertà riconoscendovi tanto un’insuperabile serietà storica quanto un’indigenza radicale che interdice all’umano ogni illusione autarchica e prometeica. Forse la provocazione di Levinas potrebbe sostenere una riformulazione dell’interrogativo circa l’origine trascendente del senso che nutre la libertà autorizzandone l’esercizio ed animando la reciprocità della dedizione interumana. Tale interrogativo potrebbe essere posto in ossequio ai guadagni dell’umanesimo e della modernità circa il valore dell’emancipazione civile, dell’autonomia della ragione, della fecondità culturale della libertà; non da tale ossequio viene infatti la necessità di una liquidazione della trascendenza che invece esibisce la persuasività della propria assolutezza mentre assicura tutela all’umano divenuto consapevole del prezzo e del pregio del cimento della propria libertà.
Nessuna coscienza soggettiva potrebbe essere definitivamente all’altezza delle severe esigenze del proprio compito quando patisse senza possibilità d’appello il giudizio della disperante potenza erosiva del tempo; sono sempre gli indizi e i simboli storici della trascendenza del senso e del senso della trascendenza ad erogare alla libertà insieme alle ragioni della propria speranza la coscienza della propria serietà e dignità.
Bibliografia
Anselmo d’Aosta (A. Orazzo ed.), Perché un Dio Uomo? Lettera sull’incarnazione del Verbo, Città Nuova, Roma 2007.
I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo, 1783, reperibile on-line al sito <http://bfp.sp.unipi.it/classici/illu.html> (visitato il 29.12.2011).
E. Levinas, La filosofia e l’idea dell’infinito, in E. Levinas - A. Peperzak (F. Ciaramelli ed.), Etica come filosofia prima, Guerini e Associati, Milano 1989, 31-46.
N. Machiavelli, Il Principe, in Id., Opere complete, II voll., Libreria di Francesco San Vito, Milano 1858.
Platone (G. Reale ed.), Fedone (Il pensiero filosofico), La Scuola, Brescia 200119.
Ch. Taylor (P. Costa ed.), L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009
L. Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Bergamo 20042.
Alessandro D’Avenia "La fine del mondo"
La prima: sappiamo che quando un certo tipo di stelle invecchia si espande ma, per la prima volta, abbiamo acquisito immagini di un pianeta che, a 13mila anni luce da noi, precipita dentro una di queste stelle con uno sbuffo di polvere.
La seconda: la probabile origine dei quasar (QUAsi stellAR: sorgente di luce quasi stellare). Scoperti sessant'anni fa, sono i più potenti oggetti celesti noti: brillano come un miliardo di miliardi di stelle ma in uno spazio ristretto come potrebbe essere il nostro sistema solare. Lo studio di 48 galassie in cui sono presenti hanno svelato che i quasar sono l'effetto dello scontro tra due galassie. Gli astrofisici ci raccontano il passato, scoprendo le costanti che regolano l'universo allo stesso modo in cui alcuni uccelli migrano e i mandorli fioriscono: la scoperta della nostra origine è ipotesi sul nostro futuro. Infatti queste due ricerche, anche se del tutto indipendentemente, ci annunciano, proprio per la regolarità del cosmo, che il mondo finirà per uno di questi due motivi: o il Sole, che è una di quelle stelle che invecchiando si espande, ci inghiottirà o la nostra galassia si scontrerà con quella di Andromeda.
Quando? In entrambi i casi i due eventi sono ipotizzati tra 5 miliardi di anni: la fine è sicura ed ha una scadenza indicativa, come i cibi.
Chi se ne importa, direte voi, l'universo di anni ne ha 14 miliardi e noi solo 2 milioni: c'è ancora «tutto il tempo» prima della «fine del mondo»! Siamo sicuri?
La tanto abusata frase di Saint-Exupéry sul fatto che si vede bene solo con il cuore, coglie un punto tutt'altro che sentimentale, confermato dalla fisica quantistica: noi vediamo ciò che siamo. Scopriamo fuori di noi ciò che ci portiamo dentro: in negativo quando non lo vogliamo affrontare, come quando vediamo negli altri i nostri difetti (quanti tirchi, permalosi, invidiosi... lo sono perché lo siamo prima di tutto noi); in positivo quando riconosciamo fuori qualcosa che abbiamo prima accolto dentro di noi (chi è innamorato scopre il cielo, chi è malinconico la Luna). E così quando scopriamo certi fenomeni naturali vediamo noi stessi: la nostra origine è il nostro futuro.
Nei 5 miliardi di anni che restano c'è quindi non solo una scadenza ma un promemoria del desiderio. Lo aveva già intuito Giuseppe Ungaretti, quando, in trincea, durante la prima guerra mondiale, in una notte estiva, scrisse su un pezzetto di carta:
«Chiuso tra cose mortali (anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio?» (Dannazione - 29 giugno 1916).
Sentiva nella carne la «mortalità» di tutto, persino del cielo stellato con la sua illusione d'infinito già segnalata sulle carte dell'anima da Leopardi. Ma l'ultimo verso testimonia, di fronte al “finire” di tutte le cose, che qualcosa in noi si ostina invece a «in-finire»: la parola Dio viene infatti da un'antica radice per «Luce», da cui termini apparentemente lontani come Zeus in greco, dies (giorno) in latino, divino in italiano.
Di fronte al buio che avvolge la nostra origine e la nostra fine, il cuore brama luce.
Ma che cosa dovrei farci di 5 miliardi di anni se a me ne restano poche decine? Farli entrare in quelle decine, rendendole «la fine del mondo». Come? Lo dice bene un racconto dello scrittore russo, naturalizzato francese, Andreï Makine, che ruota attorno a un ricordo d'infanzia nell'asfissiante Russia sovietica. Giocando a nascondino tra le tribune deserte che ospitavano fino a poche ore prima i rappresentanti del partito osannati dalla massa, un bambino trova una donna, sola, che legge la lettera del suo amato, tra le lacrime: «Non era la prima donna ad abbagliarmi con la sua bellezza. Era la prima, però, a rivelarmi che una donna che ama non appartiene al nostro mondo ma ne crea un altro e lì resta, sovrana, inaccessibile alla febbrile rapacità dei giorni che passano... La bellezza umile del volto femminile dalle palpebre abbassate rendeva ridicole le tribune e chi le occupava, e la pretesa degli uomini di ergersi a profeti della Storia. La verità era espressa dal silenzio di quella donna, dalla sua solitudine, dal suo amore così grande che perfino il bambino sconosciuto che scendeva i gradini ne era rimasto abbagliato per sempre».
Quel volto fa capire al bambino che l'eden che il comunismo gli prometteva e inculcava a scuola era una frottola, perché mancava l'essenziale: «Era prevista ogni cosa nella società ideale: il lavoro entusiasta delle masse, i progressi favolosi della scienza e della tecnica, la conquista dello spazio che avrebbe portato l'uomo verso galassie sconosciute, l'abbondanza materiale e i consumi ragionevoli legati al cambiamento radicale della mentalità. Tutto, proprio tutto! Eccetto... Non pensai “l'amore”, semplicemente rividi la giovane donna in mezzo alla grande calma soleggiata delle nevi. Una donna con gli occhi chiusi e il cui volto si protendeva verso colui che amava» (Il libro dei brevi amori eterni).
Quel volto di donna che piangeva l'amato, morto nella guerra voluta da chi occupava poco prima quegli stessi spalti, smascherava il potere con cui l'uomo e gli Stati si illudono di esistere, di essere padroni del tempo, opponendogli l'unico metodo di riuscirci davvero: amare. Infatti chi ama ha «tutto il tempo»: lo riceve (da una carezza, da una cosa bella, da un amico...) e lo dà (in una carezza, facendo una cosa bella, a un amico...). Invece per chi cerca di accaparrarsi il tempo, usando ed esaurendo le cose e gli altri (e fa quindi in vario modo la guerra), il mondo finisce continuamente.
L'amore, come la luce, piega tempo e spazio in una sorta di legge della «relatività esistenziale», che poi è la legge della «relazione universale». Diciamo infatti di una cosa che è la «fine del mondo» sia perché è talmente bella (la bellezza è amore in atto) da crearne uno nuovo, come fa l'amore della donna sulle tribune, sia perché qualcuno lo distrugge, come coloro che, osannati, occupavano quelle stesse tribune.
Amore o disamore: sta a noi scegliere quale «fine del mondo» fare, senza aspettare che il Sole ci inghiotta o che ci investa Andromeda.
Enzo Bianchi "La forza della debolezza"
In Occidente siamo convinti che la dimensione in cui ci troviamo a vivere oggi sia la precarietà: soffriamo di questa condizione più che in altre stagioni. La vita è da sempre qualcosa di precario – nasce, cresce, decade – ma oggi ne abbiamo maggiore consapevolezza. E se il termine “precarietà” rimanda a ciò che è ottenuto con la preghiera (prex), esso indica anche ciò che è provvisorio, non garantito per sempre.
La condizione umana stessa è precaria, mutevole, instabile, fragile: ogni essere umano è sempre destinato a nascere, crescere e poi decadere fino a morire. Ciò che deve sempre suscitare meraviglia, però, è che Dio non solo abbia creato realtà precarie, ma dopo averle create le abbia riconosciute come “buone e belle” (cf.Gen 1). Poche cose sono precarie come un fiore, ma chi, contemplandolo, non sa vederne la bellezza?
I cattolici hanno rimosso la precarietà, soprattutto quando pensano alla Chiesa e alle realizzazioni spirituali da loro intraprese. Si sentono garantiti dalla parola di Gesù: Non praevalebunt (Mt 16,18), interpretandola in modo illegittimo come assicurazione, garanzia. Gesù però non esenta dalla precarietà la comunità cristiana, le assicura solo che su di essa, come sul mondo, il male non avrà l’ultima parola.
Sappiamo dalla Storia che le comunità cristiane a un certo punto si sono mostrate talmente precarie da essere cancellate dalla geografia della terra. Sì, per molti secoli, almeno qui in Europa, le chiese sono apparse potenti, in condizioni di sicurezza, ma oggi i cristiani sono ridotti a minoranza in un contesto in cui domina l’indifferenza. Ma in verità questa sarebbe la condizione normale dei cristiani nel mondo. Anomala era la cristianità da Costantino fino ai tempi moderni. Gesù aveva parlato solo di sale, di luce, di una città posta sopra un monte (cf. Mt 5,13-16), aveva anche descritto la dinamica del Regno evocando quella del lievito nella pasta (cf. Mt 13,33). Essere minoranza addirittura nascosta non significa essere insignificanti, deboli, fragili, non significa essere spiritualmente decadenti. Oggi noi vediamo molte comunità “precarie”, poco efficienti e poco visibili, incapaci di eloquenza e di essere una presenza in grado di farsi ascoltare.
Ma in realtà ciò che conta è che queste realtà vivano secondo il Vangelo, siano segni di narrazione di Gesù Cristo. Povere e deboli, oppure numerose e forti, in realtà ciò che conta è che testimonino soprattutto il comandamento nuovo, cioè definitivo, lasciato loro da Gesù: quello dell’amore reciproco.
“Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10),confessava l’apostolo Paolo, e questo può essere vissuto anche nelle situazioni di precarietà comunitaria. Ha scritto Armand Veilleux: “Anche con la nostra debolezza, o addirittura proprio a causa della nostra debolezza, noi abbiamo una missione da svolgere in un mondo sofferente” e San Bernardo, in una situazione di crisi e di insuccessi nella sua vita, vagava per i boschi ripetendo: “O beata debolezza!”, perché confessava di imparare più dalla sua fragilità che dalla sua forza.
Vivere di fede nella vita quotidiana
Fede è possedere
ragioni per vivere
Riccardo Tonelli
La stragrande maggioranza degli uomini vive di fede: affidano infatti a cose, persone, sogni e progetti un pezzo della loro esistenza. Chi crede in Gesù Cristo, condivide questo atteggiamento comune, lo orienta verso orizzonti nuovi, lo fonda su una radice che afferma insperabilmente sicura. Come fanno tutti, consegna la sua vita e la sua speranza a qualcosa che, in qualche modo, lo supera.
La diversità tra la fede cristiana e la fede con cui ci diamo ragioni per vivere, provocati dai problemi che la vita di tutti i giorni ci lancia, è tanto importante e qualificante che i cristiani pretendono, proprio sulla forza della loro fede, di essere gente che vive in questo mondo come se fosse di un altro mondo.
I punti di contatto sono però tanti che solo chi condivide il significato del sostantivo «fede», può dire in termini seri la novità che proviene dall'aggettivo «cristiana».
Per questa ragione propongo di incominciare la nostra ricerca sulla fede cristiana mettendoci sinceramente alla scuola degli uomini che sanno vivere di fede in modo maturo. La mia fede in Gesù Cristo, a cui non posso rinunciare per una falsa pretesa di neutralità, ispira la riflessione e la orienta verso direzioni che altrimenti potrebbero sfuggirmi.
L'espressione «vivere di fede» viene utilizzata in differenti contesti. Si parla di fede politica, di fede in una persona o in una istituzione; qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una squadra di calcio.
In questi modelli esiste un denominatore comune: fede è un complesso di ideali, capaci di guidare gli orientamenti di una persona, fino a sollecitare un impegno coerente di vita.
Nella declinazione religiosa la fede riferisce a Dio il fondamento di questi ideali e l'orizzonte ultimo della vita.
La fede cristiana assume e condivide questo atteggiamento. Lo radica sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia. E si esprime come risposta personale alla Parola ascoltata. Si differenzia dalle altre fedi religiose perché riconosce in Gesù di Nazaret il testimone definitivo del Padre.
Un complesso di ideali assunti per «identificazione»
Il complesso di ideali, in cui una persona si riconosce e a cui ispira la sua esistenza (da quelli politici a quelli sportivi, fino a quelli che investono le dimensioni più radicali della vita e chiamano direttamente in causa Gesù Cristo), sono assunti attraverso un processo di identificazione.
L'identificazione è un processo formativo molto originale, diverso da quello di cui abitualmente ci serviamo per apprendere nuove informazioni o per acquisire nuove competenze.
Nell'insegnamento, chi sa comunica la sua scienza agli altri. Essi ascoltano, valutano e assimilano le proposte. Per abilitarci a competenze che non avevamo (la guida di un automobile, l'uso del computer, una disciplina sportiva...), la via normale è quella della ripetizione dei gesti adeguati: provando e riprovando, diventiamo competenti.
In tutti i casi, al centro c'è uno specialista che fa la sua proposta e ne giustifica la correttezza sul filo della logica.
Nei processi di identificazione le cose procedono in modo assai diverso. Riconosciamo qualcuno significativo e importante per noi per quello che è. All'esperto viene sostituito il testimone; alla logica subentra l'esperienza. Decidiamo così di aprire a lui il santuario intimissimo della nostra vita, per affidargli la gestione delle ragioni decisive dell'esistenza.
Qualche volta si tratta di ragioni oggettivamente piccole e povere. La persona che le condivide le valuta però così importanti da fondare in esse un pezzo della sua passione e del suo entusiasmo.
Altre volte si tratta di ragioni grandi e impegnative, per cui vale davvero la spesa giocare tutta la vita.
L'identificazione scatta nei confronti di una persona, singola e concreta, nei confronti di un gruppo sociale di appartenenza, e, qualche volta, anche nei confronti di una istituzione.
L'operazione è delicata e un po' pericolosa, soprattutto quando non ci sono di mezzo solo aspetti parziali dell'esistenza, ma tutta la vita ne viene afferrata. Non esistono però alternative. Gli «ideali», quelli che danno ragioni per vivere, sporgono sempre verso l'ignoto e il non posseduto. Non diventano significativi perché sono pienamente verificati; lo diventano solo perché sono resi significativi dalla testimonianza di alcune persone. Siamo disposti ad accettare il rischio di giocare la nostra esistenza su un fondamento che non riusciamo a possedere in modo pieno e verificabile, perché stimiamo «degni di fiducia» questi nostri interlocutori.
Dare vita e dare ragioni per vivere
Questo fatto merita un'attenzione speciale: ci introduce nel mistero della generazione della vita.
Esiste una persona, una comunità, un gruppo di credenti, che è portatore di un insieme di ragioni per credere alla vita e sperare in essa dentro la morte. Questo soggetto consegna ad altri l'ideale in cui si riconosce.
Lo fa come gesto d'amore. Non ha nessun altro scopo recondito. Non vuole diffondere nuovi modelli culturali; non ha prodotti raffinati da immettere sul mercato. Non cerca proseliti per la sua causa. Non gli interessa produrre strumenti di pressione, magari a fin di bene.
Ha una sola intensa passione: la vita. E si lascia inquietare profondamente dalla diffusa domanda di vita. Ha vissuto un'esperienza che ha rassicurato la sua incertezza e ha confortato la sua paura. E vuole offrire ad altri il dono di cui è stato fatto ricco.
L'intenzione e i gesti che accompagnano e verificano la sua testimonianza sono le uniche prove che la rendono «credibile», in una compagnia che sostiene e rende forte la sua povera voce e i suoi gesti incerti.
Sulla provocazione della sua testimonianza, altri ritrovano ragioni per vivere e per sperare. Nasce la fede. Qualcuno può ora dire: «Adesso anch'io credo alla vita».
Dare la vita sul piano fisico, nella generazione della carne, è un avvenimento misteriosamente grande e impegnativo. Continua l'impresa divina della creazione. Non è però sufficiente: dà la vita veramente solo chi dà ragioni per vivere. Senza ragioni per vivere, la vita è una disperazione: molto meglio la morte.
Nella fede, che ci scambiamo da persona a persona, si realizza il livello più alto di generazione. Sostenendo la fede di una persona, noi le diamo la vita.
Vivere di fede è possedere ragioni per vivere; donare la fede, suscitando ideali per cui vivere, è dare pienamente la vita.
LA QUALITÀ DI UNA FEDE «ADULTA»
Ho già avanzato una punta di sospetto sull'identificazione, perché questo processo ha sempre il rischio di diventare manipolatorio. Ci sentiamo tanto in crisi, alla ricerca affannosa di ragioni per vivere, che diventiamo disposti a svendere la nostra libertà e ci fidiamo ciecamente di colui che ci fa proposte.
La zona di rischio è tanto più larga, quanto è intensa la ricerca di speranza o quanto le proposte sono offerte con toni solenni e seducenti.
L'ho già detto: non ci sono alternative. Gli ideali che danno fondamento alla nostra speranza si accettano per scommessa, rinunciando alle fredde procedure razionali.
Questa condizione fa problema a chi vuole giocare la sua umanità in piena responsabilità.
Di qui l'interrogativo: quando posso considerarmi adulto nel vortice del processo di identificazione?
Quali condizioni personali indicano che è diventata fede «adulta» l'atteggiamento vitale di chi affida a un fondamento le sue ragioni per vivere e per sperare?
Il bambino affida la sua speranza alla mano sicura della mamma. Lo fa senza chiedersi il perché di questo suo atteggiamento e senza pretendere motivi che lo giustifichino.
Non è certo questo lo stile di una fede «adulta». Possiamo però considerare «fede» adulta l'atteggiamento di chi vuole rendersi conto di tutto e non decide nulla della sua vita se non quando tutti i conti gli tornano con sicurezza? Certamente no. La fede ha sempre una dose alta di rischio personale. Non possiamo mai dire: «è così, e solo così», come quando ci mettiamo a dimostrare un teorema di matematica.
La fede adulta non assomiglia all'atteggiamento
critico dello scienziato, ma neppure a quello del bambino nelle braccia della madre. Quando, allora, divento adulto nella fede?
Lo stretto rapporto esistente tra fede e vita giustifica una risposta che può suonare un po' strana: la qualità della fede, come la qualità della vita, si misura dalla sfida della morte.
La fede è «adulta» quando sa possedere anche la morte. Lo esprimo mettendo in risalto due caratteristiche di questo difficile confronto.
Ricostruire l'identità dall'interiorità
Ci chiediamo spesso chi siamo, anche per riuscire a dire a noi stessi chi vogliamo essere. Ce lo chiediamo provocati nel confronto con gli altri e nel frastuono di mille seducenti proposte.
Di risposte ne abbiamo tantissime, tutte pronte all'uso. Dalla parte della morte, in quel silenzio impietoso che essa provoca, le scopriamo spesso troppo fragili per bastare a saziare un'inquietudine mai spenta.
Una cosa è certa: l'identità è l'esito di una lunga faticosa marcia di conquista. Solo a fine percorso sappiamo chi siamo veramente. Non possiamo pretendere di dircelo una volta per sempre, attingendo poi a questa definizione con la stessa presunzione con cui trattiamo il nostro conto in banca.
Il momento della morte è quello in cui in modo definitivo possiamo finalmente affermare la nostra identità. Ma, a quel punto, non ci serve più. Siamo come quegli studenti a cui balena la soluzione intelligente del problema qualche istante dopo aver concluso l'esame.
L'identità non è utile a fine percorso; serve il lento procedere della nostra giornata, tappa dopo tappa.
Possiamo sognare un tipo di identità conclusiva, nel momento solenne della morte, solo se l'abbiamo costruita così giorno dopo giorno.
Quale identità?
Non voglio dare una risposta sul piano dei contenuti. Questo è, in ultima analisi, un problema strettamente personale. Nelle pagine che seguono darò qualche suggerimento di merito. Non è la soluzione dei problemi; rappresenta solo un punto su cui confrontare la soluzione che personalmente ci diamo.
Chiedo invece di verificare subito il modo con cui decidiamo la nostra identità. Su questo modello procedurale la fede diventa «adulta».
Possiamo costruire la nostra identità solo dal silenzio della nostra interiorità. Ci diciamo «chi sia- mo» e «chi ci sogniamo» in quello spazio intimissimo e personale dove siamo sempre inesorabilmente soli e poveri. Lì ci ritroviamo senza le cose, i titoli, le sicurezze e gli idoli che ci danno conforto e sembrano tanto preziosi per dire a tutti chi siamo.
Anche se ci affannassimo ad accumulare tesori di questo tipo, la morte ce li strapperebbe tutti, inesorabile come un ladro.
La morte ci lascia senza le cose: dunque senza identità, se l'abbiamo costruita sulle cose. Un'identità dall'interiorità resiste invece al vento della morte. Nasce nel distacco quotidiano e progressivo, che anticipa quello della morte. Ci diciamo «chi siamo a», re fra- stando da soli, anche in mezzo a una compagnia fragorosa di amici e di testimoni.
Questa è la fede adulta: una fede che viene dal silenzio dell'interiorità, dove tutte le voci risuonano interessanti, ma dove nessuna può pretendere di darci quella ragione per vivere e per sperare di cui abbiamo ardente bisogno.
La fede ci costringe al coraggio solitario che assomiglia tantissimo a quello dei martiri d'un tempo passato e del nostro tempo: la fede trova forza e sostegno in se stessa e non cerca l'appoggio del consenso e dell'applauso.
Vivere di fede è quindi evento di libertà, un gesto che irrompe nel centro più intimo dell'esistenza. Spesso non siamo in grado di oggettivare in modo adeguato questa esperienza. Ma essa resta, come una decisione ultima di coscienza non più applaudita da alcuno, in una speranza illimitata che supera le delusioni della vita e l'impotenza di fronte alla morte.
Che cosa festeggiamo il giorno del compleanno?
Alessandro D’Avenia
Trimalchione, grottesco protagonista del Satyricon dello scrittore latino Petronio, durante un banchetto si vanta d’aver visto la Sibilla Cumana, la famosa profetessa di Apollo che, avendo domandato al dio il dono dell’immortalità si era però dimenticata quello dell’eterna giovinezza.
E così continuava a invecchiare, tanto da essersi ridotta a una larva decrepita, bersaglio dei ragazzi del luogo che, passandole davanti, chiedevano: «Sibilla, che cosa vuoi?», e ai quali rispondeva sconsolata: «Voglio morire». Questa storia mi è tornata in mente perché domani festeggio il compleanno, il giorno in cui ricevere i doni giusti: non tanto l’immortalità ma magari l’eterna giovinezza, che i cavalieri di Artù cercarono nel Graal, gli esploratori spagnoli in una fonte d’acqua ai Caraibi, gli alchimisti nell’elisir di lunga vita, Faust e Dorian Gray nel patto col demonio, e noi nei ritrovati tecnico-medico-estetici, come l’imprenditore americano Bryan Johnson che, a 45 anni (i miei, per l’ultimo giorno), ha deciso di investire due milioni di dollari l’anno per uno staff di 30 persone che deve riportare il suo corpo all’età di 18 anni, sottoponendosi a una routine giornaliera da «paziente». Non mi attira il modello che fa della vita riuscita solo la vita «materialmente» giovane (vivere «da malati» per «morire sani») e quindi vorrei festeggiare questo compleanno con più gioia del precedente, perché 46 anni fa è stato solo l’inizio di una cosa che siamo chiamati a fare sempre di più. Nascere. Perché?
Festeggio sì il mio aver cominciato a venire alla luce, ma ancor più il poter venire sempre più alla luce, perché vivere è impegnarsi a nascere del tutto, e non cercare di non morire, che mi sembra troppo poco, anche perché è ciò che facciamo senza proporcelo, per istinto.
Quell’istinto che consente agli animali di nascere una volta per tutte al parto, fornendoli da subito di tutto ciò che devono essere e fare: conservarsi e riprodursi. A noi questa semplicità non è concessa. Infatti, per uno scherzo dell’evoluzione, ci mettiamo un tempo infinito a nascere del tutto, come mi dimostrano i due figli nati di recente a coppie di amici. Dopo mesi ancora non sanno fare nulla da soli, ci «mettono una vita» a nascere, forse proprio perché il nostro compito è «metterci una vita»: tutta la vita. Noi umani, se la prima volta nasciamo a nostra insaputa, poi siamo chiamati a nascere, per scelta, ogni giorno fino all’ultimo, tanto che siamo gli unici capaci di smettere di nascere, togliendoci la vita in vari modi, a dimostrazione che sull’istinto di conservarsi e perpetuarsi in noi prevale altro: la libertà. Il nostro compito non è quindi preservarci dalla morte, quello è il compito che ci dà la natura in quanto specie vivente: il compito umano è invece partorirsi, individuarsi, non essere solo rappresentanti «della specie» ma «speciali». In questo senso la vita è tutta iniziazione alla vita, venire sempre di più alla luce. Ma che cosa deve venire alla luce? Che cosa vorrei quindi festeggiare domani? Non il tempo che passa (che festa sarebbe?), ma quello che non passa. E quale non passa? Noi siamo fatti di tre tempi. C’è il tempo cosmico, quello circolare della natura, delle cose che tornano sempre come le stagioni. Poi c’è il tempo storico, lineare, fatto dagli eventi che si danno una volta sola (la primavera torna ogni anno, ma questa ci sarà solo nel 2023). Alcune culture, soprattutto orientali, cercano nel primo tempo la vera vita, diventare tutt’uno con il cosmo; altre, come la nostra, la cercano nel secondo, la vera vita è nel futuro, nel domani, più vivo e meglio è. Ma questi due tempi non mi bastano perché, in entrambi i casi, io non so che fine faccio: se sarò tutt’uno con il cosmo che ne sarà di me? Se la felicità è nel futuro, chi decide quando arriva? Allora vivo anche e soprattutto un terzo tempo, che chiamo del nascere, e che, mescolato ai primi due, è fatto di eventi che mi piace definire «brevi vite eterne».
Da che cosa sono fatte? Innanzitutto dall’esperienza che in questo istante non mi sto dando la vita da solo, ma in qualche modo sono dato a me stesso, mi ricevo in dono. E poi da azioni creative (libere e originali), cioè che posso fare solo io. Questo è il tempo che non passa, Il tempo del nascere, fatto quindi di «essere da» (in questo momento la vita mi è data) e «essere per» (mi è data per crearne altra): sono nel tempo storico ma non aspetto il futuro, sono nel tempo cosmico ma sono irripetibile. Questo essere aperti «da» e «per» è «la fine del mondo» perché ne inaugura uno nuovo nell’istante presente. Come?
Ricevendo e creando amore, liberamente. Non parlo dell’amore come qualità morale, ma come capacità di essere generati e generare, ricevere e dare più vita alla vita, essere e far essere qualcosa che altrimenti non ci sarebbe. Per esempio: scrivere questa pagina con amore significa farlo ricevendola dall’ispirazione e dando poi vita alle parole e alle persone che la leggono; fare una lezione con amore significa riceverla dalla storia umana e farla dando poi vita all’argomento e alle persone che ascoltano; fare una cena con amore significa riceverla dal tempo a disposizione e farla dando poi vita agli ingredienti e alle persone a tavola... Fare con amore significa ricevere e dare vita in ciò che si fa: l’istante diventa l’incrocio dell’amore ricevuto e dato. E così, anche se spesso non riesco e mi tradisco, ciò che in me è chiamato a nascere sempre di più viene alla luce, perché l’unica maniera di essere vivi è essere pieni di vita. Questo «terzo» tempo non lo cerco in angoli nascosti, in oggetti, sorgenti, elisir, patti, ma lo ricevo e lo creo, eternità di istanti. È il tempo dell’essere amati e dell’amare, se solo restituissimo a questo verbo la sua vertiginosa energia creativa: il potere di potere tutto. Quindi domani proverò a non festeggiare il «ritorno» di una data, tempo cosmico, né il mio «progresso» in un futuro a scadenza, tempo lineare, ma il tempo della creazione, essere creato e creare. Sarà un martedì «qualunque», quello che torna ogni settimana, e sarà l’unico martedì 2 maggio 2023, ma sarà soprattutto la vita che solo io posso ricevere e fare, piccola, ordinaria, semplice, ma quella che solo io «posso nascere».
Il linguaggio degli occhi
Eugenio Borgna
Non c'è solo il linguaggio delle parole, ma c'è anche il linguaggio dei volti, e degli occhi, degli sguardi, del sorriso, e delle lacrime, che sono espressioni del corpo vivente, del corpo-soggetto, che non è il corpo-oggetto, il corpo-cosa. Si tratta di una distinzione insolita, non facile da comprendere, ma di radicale importanza, sia in psichiatria e in filosofia sia nella vita. Ne vorrei dare un esempio: la mia mano, la mano che sta scrivendo, è corpo-cosa, corpo-oggetto, quando sia considerata da un chirurgo che la operi, e contemporaneamente corpo vivente, corpo-soggetto, quando sia riguardata nella sua trascendenza, nella sua infinita sorgente di significati: la mano che saluta, e che dice gioia o angoscia, tristezza o dolore. Il dolore non ha altro modo di esprimersi che non sia quello del linguaggio del corpo vivente, dei volti e degli occhi, degli sguardi e delle lacrime, dello stupore e del sorriso.
Conoscere questo linguaggio ha una grande importanza nelle relazioni umane, e in particolare nella comprensione dell'indicibile, che le parole non sanno dire, e che attende di essere riconosciuto in una lacrima, o in un sorriso, in un sospiro, o in uno sguardo fugace. Non so quanta attenzione nel corso di una giornata siamo soliti dedicare all'ascolto di questo linguaggio, ma dovremmo sapere che (anche) questo consente di fare scelte pratiche nutrite di saggezza e di prudenza. Sì, gli sguardi, che sono la voce degli occhi, come diceva Marcel Proust, ci consentono di andare al di là dei confini del nostro Io, e ci fanno essere in lontananze altrimenti irraggiungibili, come sulle montagne che luminose sembrano entrare nella stanza in cui sto scrivendo, riverberandosi nella mia interiorità. Gli sguardi si devono accogliere, e rivolgere agli altri, con discrezione e misura, con attenzione e nel silenzio del cuore; ma ci sono sguardi che fanno del male. Lo dice Elias Canetti in un libro, Il gioco degli occhi, che aiuta a riflettere sul senso della vita:
Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. È tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c'è vittima che possa prefigurarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale [...]. La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di quest'occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve.
Sono parole sferzanti che ci dicono come ci siano occhi dall'espressione crudele e aggressiva, e allora guardare negli occhi una persona è conoscerla nella sua dimensione più profonda, ed è una sfida talora dolorosa alla quale non è possibile nondimeno rinunciare.
I volti e gli sguardi sono insomma espressione di un linguaggio che si accompagna, o si sostituisce di volta in volta, al linguaggio delle parole in un carosello senza fine che ci consente di decifrare qualcosa delle emozioni e dei pensieri, delle immaginazioni e della fantasia di una persona, in particolare di una persona che sta male. Sul linguaggio dei volti ha scritto parole bellissime Rainer Maria Rilke:
Mi accade spesso, ora, che un qualche volto mi tocchi in questo modo, la mattina per esempio, così come le mattine qui di solito cominciano, c'è già stato, prestissimo, tanto sole, un'infinità di chiaro, e quando poi, d'improvviso, nell'ombra di un vicolo, un volto ci si tende incontro, si vede allora, per opera del contra sto, un essere con tale nettezza (nettezza delle sfumature), che l'impressione momentanea s'innalza involontariamente a impressione simbolica.
Sono cose, queste, che adombrano il linguaggio velato ed evanescente, segreto e misterioso, dei volti. Non si comunica allora solo con il linguaggio delle parole ma anche con quello del corpo vivente, con le infinite risonanze emozionali e comunicazionali dei volti, che, come dice ancora Rilke, sono più numerosi degli uomini perché ciascuno di noi ha più di un volto. Si comunica con gli sguardi e con le lacrime, con un sospiro e con un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, come ha scritto Leopardi. Sono modi diversi di portare alla luce della coscienza i pensieri e le emozioni che le parole non possono, o non sanno, dire.
Non ci conosciamo nella nostra vita interiore, e non conosciamo quella degli altri, se non tenendo presente il linguaggio delle parole, e delle emozioni che in esse si riflettono, ma anche il linguaggio del silenzio, quello dei volti e degli sguardi, degli occhi e delle lacrime; e a questo riguardo vorrei citare quello che Robert Musil dice del protagonista di un suo splendido racconto:
[in lui erano] le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un'altra persona – fino ad anticiparne l'individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall'espressione dell'atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.
Sono parole di un'inquieta bellezza che ridanno un senso, dilatandole vertiginosamente, a queste mie considerazioni sul linguaggio degli occhi e degli sguardi che un modo saggio di vivere non può dimenticare e non può perdere di vista.
In cerca di risurrezione
Vito Mancuso
Il punto decisivo consiste nel chiarire che cosa dentro di noi sta morendo, per comprendere se esiste almeno un po' la possibilità che un giorno possa risorgere. Sul fatto che qualcosa dentro di noi stia morendo, nessuno, penso, ha più dubbi: lo sentiamo perfettamente, è un rumore sordo e persistente, una specie di basso continuo che ritma funereo le nostre giornate e che deriva dalla consapevolezza delle sempre più incombenti minacce: la guerra nucleare, l'emergenza climatica, lo scollamento tra generazioni mai così profondo nella storia dell'umanità, le abissali sperequazioni tra i pochi superricchi e le masse di diseredati, le migrazioni così massicce di popoli da generare una "deriva dei continenti" di tipo sociale, l'uso dell'intelligenza artificiale assai facilmente trasformabile in abuso, l'ingegneria genetica che corre esattamente lo stesso rischio. E poi c'è quel processo di crescente «infantilizzazione delle masse», per dirla con Amos Oz, che cancella il confine tra politica e spettacolo per cui la gente non vota più chi può governare meglio, ma chi emoziona e diverte, perché questo oggi desiderano i più: essere emozionati, come bambini viziati nel paese dei balocchi.
Tutte insieme queste ombre che gravano su di noi costituiscono una tale oscura densità da portarci a dire: «Basta, voglio andarmene da questa via crucis». Ma di fronte a minacce così globali non è possibile scappare da nessuna parte. Perciò torna la domanda: che cosa precisamente dentro di noi sta morendo?
Hannah Arendt, dal cui pensiero promana la luce salvifica della vera filosofia, ha scritto: «La cosa veramente da comprendere è che l'"anima" può essere distrutta anche senza distruggere l'uomo fisico» (Le origini del totalitarismo, p. 603). A correre un pericolo mortale oggi è "l'anima". L'altro giorno Umberto Galimberti ha dichiarato a questo giornale che l'anima «non appartiene né alla cultura cristiana, né a quella ebraica: è un'invenzione di Platone». Non è vero. Platone ha certamente contribuito ad approfondirne il concetto, ma l'anima era presente in tutte le grandi civiltà prima di lui: in Cina il taoismo parlava di "hun" (l'anima spirituale che sopravvive) e di "po'" (quella psichica che muore); in India gli hindu di "atman" e di "jiva" sostenendo la reincarnazione; in Grecia con Pitagora, Empedocle e Anassagora la filosofia coniò i concetti di "nous" e di "psyché"; ancora prima gli egizi conoscevano tre tipi di anima ("ak, ba, ka") e per ognuno di noi prevedevano al termine della vita la psicostasia, la pesatura della sua anima. Quanto all'ebraismo, in esso è presente un triplice concetto di anima ("nefesh, ruah, neshamà"), per il quale si veda il saggio del rabbino Adin Steinsaltz, L'anima (Giuntina 2018) al cui inizio è scritto: «Abbiamo un'anima. Possiamo affermarlo perché lo percepiamo». E che infine Gesù, teologicamente vicino al movimento dei farisei, condividesse l'esistenza dell'anima e la sua immortalità, risulta evidente dai Vangeli. Altro che «invenzione di Platone».
Ma perché le grandi tradizioni spirituali dell'umanità, religiose e filosofiche, sentirono l'esigenza di parlare di anima? Io penso sia stato per sottolineare la peculiarità umana. Noi umani per molti aspetti siamo un pezzo di mondo materiale, identici a ogni altra manifestazione della materia; per altri aspetti però no, siamo diversi. E fu per esprimere questa differenza che la mente coniò il concetto di anima. La medesima funzione rivestirono altri concetti analoghi, tra cui spirito, coscienza, libertà.
Ecco quindi la risposta alla domanda iniziale: ciò che dentro di noi sta agonizzando è la nostra differenza specifica di esseri umani. La nostra interiorità (la si chiami anima o in altri modi poco importa, ciò che importa è che la si consideri la nostra più preziosa ricchezza) oggi corre il pericolo di essere distrutta, avvertiva Hannah Arendt. Oggi noi possiamo dire: hackerata. Forse lo è già.
Forse noi siamo già in parte hackerati, e i pensieri che esprimiamo a parole non sono più nostri ma di qualcun altro introdottosi dentro la nostra mente. Quando parliamo, chi parla dentro di noi? Quando abbiamo sentimenti, chi sente dentro di noi?
Quello che è sicuro, comunque, è che, non credendo all'anima spirituale e alla sua capacità di guida (detta da Marco Aurelio "?ghemonikón"), noi soffriamo di sfiducia in noi stessi. È questa la malattia mortale, la via crucis di noi postmoderni e postumani: la sfiducia nella nostra umanità. Pico della Mirandola, gloria del pensiero filosofico del Rinascimento italiano, poté scrivere un saggio dal titolo: Oratio de hominis dignitate, ovvero: "Discorso sulla grandezza dell'essere umano". Oggi siamo solo capaci di mettere in evidenza le nostre miserie. Le quali ci sono, è evidente, e sono tante, ma, io penso, non sono tutto.
Si può credere o no alla risurrezione di Cristo che la Chiesa cattolica celebra domani, ma il simbolo che essa rappresenta va al di là della fede teologica perché rimanda alla speranza e alla visione positiva del processo vitale. E se la malattia di cui soffriamo è la sfiducia in noi stessi, il farmaco che ci potrà curare si chiama fiducia.
È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Tutte le cose veramente importanti dell'esistenza psichica non sono razionali: si pensi all'amore, alla passione, all'entusiasmo, all'ispirazione. Ma irrazionale non vuol dire falso, perché la verità non coincide con la ragione, è piuttosto l'esattezza a coincidere con la ragione. La verità è più dell'esattezza: è forza, energia, impeto, impegno; «eroico furore», diceva Giordano Bruno.
Il 3 luglio 1943, mentre si trovava nel lager olandese di Westerbork da cui poi sarebbe stata deportata ad Auschwitz trovandovi la morte il 30 novembre di quello stesso anno, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, scriveva ad alcuni amici: «La miseria che c'è qui è veramente terribile, eppure, la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere». E concludeva: «Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi». L'anima (o la coscienza, o come ancora la si voglia chiamare) è questo posto di guardia dentro di noi, che, per chi ha la fortuna di averlo, può costituire la sua salvezza. La sua risurrezione quotidiana. E che non ci sia nulla di più prezioso, lo insegnano tutti i grandi maestri spirituali, da Socrate al Buddha, da Confucio a Gesù. Quest'ultimo un giorno disse: «A che serve a un essere umano guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?».
Vedere il mondo
con gli occhi dell’anima
Susanna Tamaro
Se penso alla mia infanzia, mi tornano in mente vari Natali, mentre a parte qualche sfuocata immagine di uova sode colorate, non ho alcuna memoria della Pasqua. Per Natale, dai bisnonni, c’era il grande abete che emanava l’odore di resina nella stanza, c’era il crepitio delle fiammelle — allora, in barba a tutte le norme di sicurezza, venivano accese delle candele sugli alberi — c’era la misteriosa attesa dei doni e l’ancor più misterioso latore di tali doni, Gesù Bambino. Il suo rivale — il pancione barbuto di rosso vestito — stava ancora a strigliare le sue renne in qualche paese coperto dalla neve e dai ghiacci. La mia famiglia non era praticante e dunque a quel giorno non si associava alcun rito religioso; era considerato soltanto un momento di festa per ricordare la nascita di un bambino speciale in grado di esaudire i desideri degli altri bambini. Per me Gesù Bambino era Bambino per sempre e non potevo immaginare che sarebbe cresciuto e sarebbe andato incontro al suo destino di uomo adulto.
Soltanto intorno ai sette anni, durante un soggiorno in una colonia, avevo scoperto cosa ne era stato di Lui: eravamo tutti bambini delle scuole elementari e ci avevano portati un pomeriggio al cinema del paese a vedere un film americano, Barabba. Non sono in grado di ricordare se mi fossi subito resa conto che quell’uomo insultato, frustato e gettato nella polvere fosse lo stesso che da bambino mi aveva portato i doni, mentre rammento bene il senso di disagio che mi avevano provocato quelle scene: un disagio che era diventato angoscia assoluta quando Pilato aveva chiesto dal balcone: «Chi volete libero, Gesù o Barabba?». Tutto il mio essere aveva gridato in silenzio Gesù Gesù Gesù! ma la folla in un unico boato aveva ruggito «Barabba», scaraventandomi nella disperazione di chi, a un tratto, si rende conto che il male, l’odio e la menzogna trionfano tra gli uomini, mentre la mite innocenza è destinata ad essere sconfitta. Era chiaro infatti che Gesù era buono mentre Barabba si destreggiava abilmente tra la crudeltà del mondo: perché nessuno, dunque, aveva gridato Gesù? Durante la visione di quel film, quando Gesù aveva risposto con il silenzio alle richieste di Erode di compiere dei miracoli per potersi salvare, una parte di me era insorta, speranzosa: «Parla, fagli vedere quello che sai fare» ma Lui era rimasto zitto. Dare un senso a quel silenzio è un lungo cammino che non tutti hanno voglia di intraprendere. Tanto il tempo del Natale è quello dell’amore distribuito e banalizzato a piene mani, altrettanto il tempo della Pasqua è il tempo dell’odio.
La Pasqua ci ricorda gli abissi dell’animo umano. È una festa in cui ronzano le mosche attratte dal sangue, una festa in cui c’è polvere, sudore e continui gesti di puro sadismo. Chi mai può desiderare di festeggiare un episodio del genere? Molto meglio dunque pensare che, in fondo, non sia altro che la festa della primavera e celebrarla con allegre compagnie e con abbondanti libagioni; non si dice infatti: Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi? regalando un libera-tutti che ci solleva dal contemplare il mistero del male che vive in noi e che, appena può, devasta i nostri giorni? Ammettere la presenza del male che ci inabita è la realtà più fortemente rimossa nel mondo contemporaneo. Tutti abbiamo pronti sulla lingua un crocifiggilo! ma tutti siamo anche angelicamente convinti che questa parola non ci appartenga. Non sarà forse per questo che, in questi tempi così bui, così cupi, così devastati da venti di paura, questo nostro piccolo pianeta, aizzato dai media, si è trasformato in un’unica angosciosa e ferocissima piazza del Sinedrio? Che cos’è che odiamo tanto? Odiamo tutto ciò che ci fa sospettare l’esistenza di una realtà diversa da quella della pura materia. La materia infatti è in nostro potere, possiamo manipolarla a nostro piacimento, indifferenti al fatto che, dalla distruzione dei rapporti umani alle guerre mondiali, tutto discende dall’imperio del suo potere. Cosa c’era in Gesù di così provocatorio da scatenare l’odio delle folle? Non è forse lo stesso odio che vediamo divampare ai nostri giorni contro chiunque o qualsiasi cosa ci ricordi che esiste una realtà che ci trascende e che questa realtà è illuminata dalla luce del bene? Questa luce è lo Spirito puro della vita. La vita vive dell’amore racchiuso in sé stesso. Ed è l’odio per questa energia inarrestabile e impossibile da manipolare che scatenava quel giorno la folla di Gerusalemme, è lo stesso odio che tutti i giorni, da allora fino ad oggi, continua a divampare contro chiunque manifesti in sé lo spirito libero e innocente dell’esistenza.
E dunque mai come ora dobbiamo riflettere sul vero significato della Pasqua. La parola Pasqua vuol dire passaggio, perché ricorda la liberazione degli ebrei dall’Egitto. E noi, quale passaggio dovremmo fare? Quello della liberazione dai nostri Egitti interiori, dalle schiavitù che ci rendono sempre più lontani dalla verità dell’umano; il passaggio che ci porti a contemplare un’altra dimensione del tempo. Il tempo! Non è forse questo il vincolo claustrofobico con cui ci tengono prigionieri gli invisibili faraoni di questa nostra epoca? Il tempo attuale ha un’unica dimensione, quella di Cronos che divora i suoi figli. Non viene più lasciato un tempo per l’intimità, per la crescita, per le domande. Bisogna produrre e consumare, consumare e produrre. E nel momento in cui non sei in grado di fare né l’uno né l’altro, sei eliminato dal sistema come se fossi una pallina di una roulette impazzita. Del diritto di riappropriarsi di un tempo umano — il tempo in cui concedersi l’inquietudine delle domande, il tempo di andare alla ricerca delle risposte, di vivere le relazione nella luce dell’intima comprensione della fraternità — non si sente purtroppo parlare mai. Il compimento della Pasqua si manifesta proprio in questo: nell’Eterno che spezza la crosta opaca e rigida del tempo e, con un raggio di luce, irrompe — o meglio irromperebbe, se gli permettessimo di farlo — nei nostri cuori, ricordandoci che la nostra vita è sempre affacciata sul mistero e che questo mistero è illuminato dalla salvifica presenza della speranza. Nel mio racconto Per voce sola, la protagonista di famiglia ebraica raccontava che il padre aveva l’abitudine di portarla in giro al sabato per la città facendole osservare le cose che nei giorni normali potevano esserle sfuggite. Perché oggi, le diceva, tu vedi tutto con quattro occhi. I tuoi occhi più quelli dell’anima. Ma mentre per gli ebrei, il Sabato continua ad essere Sabato, nel cristianesimo è avvenuta una totale profanazione del tempo della Domenica, che è diventata un giorno come tutti gli altri, anzi forse anche peggio perché, essendo libera dal lavoro, si è trasformata in un’occasione di massimo consumo. E il tempo per le domande? Il tempo per scoprire lo sguardo dell’anima? Allora, tra tutti i diritti che vengono reclamati, non sarebbe il caso di aggiungere questo? Il diritto del tempo dell’umano, un tempo che si affaccia sul mistero della morte e costantemente si interroga su questa realtà. E direi anche il diritto di preservare l’innocenza dei bambini che, senza alcun condizionamento dogmatico, capiscono da soli che tra Gesù e Barabba, è meglio scegliere Gesù.
Un albero che fiorisce sotto la croce
di Alessandro D’Avenia
Un ragazzaccio.Morì a 26 anni, forse avvelenato, eppure fece in tempo a rivoluzionare l’arte. Si chiamava Tommaso ma, orfano di padre, inquieto, incurante di sé e del mondo (riscuoteva solo se era in ristrettezze), lo chiamarono (Tom)Masaccio. A lui interessava solo dipingere: fare nella pittura la rivoluzione che Brunelleschi e Donatello avevano operato nell’architettura e nella scultura inaugurando il Rinascimento. Chi va a Firenze in Santa Maria Novella per la sua Trinità o in Santa Maria del Carmine, nella cappella Brancacci, per le storie di Pietro, sa di che rivoluzione parlo. La scorsa settimana ho avuto la fortuna di contemplare un suo capolavoro inaspettatamente esposto al Museo Diocesano di Milano in occasione della Pasqua: la Crocifissione del Polittico di Pisa del 1426, abitualmente a Napoli al Museo di Capodimonte. L’allestimento milanese, sapientemente ideato dalla direttrice Nadia Righi, segue la logica oggi più che mai necessaria dell’a tu per tu con l’opera: vi si arriva davanti passo passo, con le informazioni, il silenzio e il vuoto indispensabili per ricevere il dono che ogni capolavoro può offrirci se gli diamo lo spaziotempo di accadere in noi, e non fuori di noi fotografandolo e andando avanti. Se ci si avvicina con tatto, l’opera fa la sua, di opera, cioè ci dona ciò che avevamo dimenticato di chiederle: lo stupore per un pezzo di mondo e la gratitudine di esserci anche noi in quello stesso mondo in cui la creatività non è impegnata solo a inventare missili e menzogne. E Masaccio che cosa inventa? Che la morte è, a ben vedere, una nascita. E come?
La croce in forma di fiamma, la violenza in forma di croce, la resurrezione in forma di seme che dà frutto. Il nostro talento è la parte di noi destinata al mondo ma, se non lo scopriamo e mettiamo in gioco, di noi non resterà nulla, perché il talento è l’amore che ci è già stato dato ma che sta a noi decidere se girare al mondo, vincendo la paura di non averlo e la pigrizia di non giocarselo. Di Tommaso di Ser Giovanni di Mone dei Cassai, in arte Masaccio, resta infatti ciò che ha fatto di e con questo amore in soli 26 anni. Buona Pasqua di Resurrezione del vostro talento, cioè del modo in cui potete amarvi e amare meglio.
Dovunque sotto il cielo
di Alessandro D’Avenia
Ho celebrato il giorno dedicato a Dante Alighieri, il Dantedì del 25 marzo (probabile data di inizio del suo viaggio nell’aldilà e, non a caso, festa dell’Annunciazione a Maria, nove mesi prima del Natale, e data simbolica dell’inizio della creazione divina associata alla primavera), concludendo il racconto della Commedia a teatro in tre serate intitolate: «Di nostra vita: inferno, purgatorio, paradiso».
Ritengo che questi non siano luoghi in cui andremo, ma in cui siamo (sono stati e strati dell’esistenza) ogni giorno, per scelta più o meno consapevole. La grande letteratura non scherma la vita, ma ne testimonia l’esperienza «senza mezzi termini», cioè con precisione di parole. Quando il poeta narra il viaggio nell’aldilà sta vagando nell’al di qua da esiliato: ha perso tutto, non potrà mai più tornare a Firenze a causa di un’ingiusta condanna. La sua vita è «imprigionata» eppure trova la strada verso il cielo, non andando in alto, ma scavando oltre l’abisso: toccando il fondo gelato dell’inferno, Dante scopre infatti che è un’apertura, e quella che sembrava una discesa era invece un’ascesa. Arrivati al centro della Terra, Virgilio aiuta Dante a calarsi lungo il corpo di Satana (un corpo a corpo con il male) che è lì incastrato, per poi aiutarlo a mettersi a testa in giù e introdurlo nell’altro emisfero, dove salirà sul monte del purgatorio, per poi volare in paradiso.
Dante mi ha dato le parole per definire un’esperienza che prima o poi capita a tutti: per toccare il cielo bisogna prima toccare il fondo e, addirittura, attraversarlo. Le morti, e la morte, in cui incappiamo sono passaggi (la Pasqua che si avvicina significa in ebraico «passaggio»). Sono solo metafore o è realtà?
Se tracciamo la direzione del cammino di Dante scopriamo che all’inferno va sempre verso sinistra, in Purgatorio verso destra, in Paradiso in verticale: la mappa «di nostra vita» è una spirale (puntate il vostro indice in basso e fatelo ruotare verso sinistra, lentamente girate la mano verso l’alto, senza smettere di far girare il dito: il movimento rotatorio da sinistra ora va verso destra). Il viaggio dantesco è quindi fatto di due spirali (l’inferno è una voragine a imbuto, il purgatorio il monte corrispondente), un’unica salita verso un centro-punto-nodo e in un’unica direzione: avanzare nel compimento di sé attraverso l’incontro con gli altri (è l’opera con più personaggi della letteratura mondiale) e con l’Altro, e di conseguenza con sé stessi, perché è solo nella relazione che noi definiamo la verità di chi siamo.
Dante va quindi sempre in una sola direzione, verso l’alt(r)o, in progressiva liberazione dal «peso» della vita: il «peccato». Con «peccato» si traduce una parola antica che significava «fuori bersaglio, fuori centro», ciò che non va a buon fine, come quando si rompe un vaso prezioso o uno sportivo subisce un grave incidente, e diciamo: «Che peccato!». L’esclamazione non si riferisce all’infrazione di regole, ma al mancato compimento di qualcosa il cui fine era palese: «pecca» chi tradisce se stesso.
Ognuno di noi è chiamato a farsi capolavoro, compiere la sua «forma», il peccato «de-forma» come un vandalo il capolavoro. Io pecco, manco il bersaglio, tutte le volte che mi tradisco, cioè mi illudo di non essere chi sono e quindi tradisco il mio desiderio, che è la chiamata rivolta dalla vita a me e solo a me: principio di animazione che mi conferisce un posto unico al mondo. Dante nel suo lungo percorso d’ascesa a spirale impara a non tradirsi (inferno), a liberarsi da ciò che lo spinge a tradirsi (purgatorio), a volar dritto verso il proprio compimento (paradiso).
Insomma la spirale in salita della Commedia è la figura geometrica che rappresenta meglio il cammino di ogni persona verso il centro di sé: essere e fare ciò che solo io posso essere e fare, vivere la vita autentica da cui mi allontano o a cui mi avvicino per tentativi, anche dolorosi, in ascesa verso me stesso. I miraggi di esistenza, desideri fallaci di esistenza e d’amore, ci de-centrano facendoci vivere vite non nostre: «un vero peccato!». Per con-centrarsi, raccogliere le energie e indirizzarle al bersaglio di cui siamo freccia assetata, è necessario avanzare salendo, cioè riconoscere nell’esperienza quotidiana ciò che porta a tradirsi o a essere «centrati»: disperazione, tristezza e gioia ne sono segni infallibili.
La nostra vita è un inferno se siamo fuori dal centro (disperazione); un purgatorio se, trovatolo, ci dis-perdiamo in altro (tristezza); un paradiso se ogni nostro gesto nasce dalla nostra unicità (gioia).
Lo scriveva già Pavese nel suo Mestiere di vivere: «Come mai, senza saperlo, hai diretto tutto a un centro? Logica interna, provvidenza, istinto vitale?». Qualunque risposta diamo, il centro (originalità e ispirazione: ciò per cui sono al mondo e vengo sempre più al mondo) agisce in noi: se siamo in traiettoria siamo in paradiso, se deviamo in purgatorio, se rinunciamo all’inferno. La vita allora è necessariamente un cammino per capire che cosa ci fa fiorire o marcire, una continua messa a punto del desiderio: il contrario di «peccare» è «fare centro».
Ma come capire se siamo (con-)centrati? Diamo frutto («concentrato» si dice di un succo genuino) nel modo di essere che ci rende originali, cioè originari: una mela è il fine del seme ma al tempo stesso l’origine di nuovi semi. Anche a Dante accade così. Alla fine del viaggio, faccia a faccia con Dio, non si dissolve ma si compie, cioè diventa il Dante che solo Dante può essere, e infatti «torna» sulla Terra, cioè a se stesso, rinnovato: è sempre in esilio e senza nulla, ma del tutto centrato, restituito al suo sé autentico, figlio del Dio, creatore e amore, che ha incontrato faccia a faccia. Adesso le energie che lo rendono pienamente uomo, creare e amare, sono libere: noi ci realizziamo dando al mondo ciò che in noi è al mondo già da sempre destinato, costi quel che costi.
Chiedersi se oggi sono all’inferno, in purgatorio o in paradiso, significa in fondo domandarsi se oggi la vita in e a attorno a me diminuisce, ristagna o aumenta, cioè se non ho tradito me stesso.
Quando al poeta viene proposto di tornare a Firenze, 15 anni dopo esser stato esiliato, a patto di confessare pubblicamente una colpa mai commessa, Dante risponde nella famosa lettera a un amico fiorentino: «Non è questa la via del ritorno in patria, ma se una via diversa si troverà che non leda l’onestà di Dante, quella non a lenti passi accetterò, ma se non si entra a Firenze per una siffatta via, a Firenze non entrerò più. E allora? Non vedrò forse dovunque la luce del sole e delle stelle? Non potrò forse meditare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo? Né certo mi mancherà un pezzo di pane».
In esilio, ma fedele a se stesso, Dante si è (e ci ha) costruito una patria, dove è libero dovunque si trovi. Per andare in paradiso la strada più breve è toccare il fondo (il dolore è vita che vuole guarire e nascere) e spezzare lo strato di «peccato» (menzogne e disamore) che ci impedisce di abitare il cielo che già ci portiamo dentro e che solo noi possiamo «aprire» sulla Terra. Dovunque.
Il midollo della vita La vita eterna!
Alessandro D’Avenia
Oggi si celebra la giornata della felicità 20 marzo , festa inaugurata dall’Onu qualche anno fa su suggerimento del Bhutan che ha sostituito il Prodotto Interno Lordo con la Felicità Interna Lorda come criterio per giudicare un Paese. Solo dall’Oriente poteva provenire una proposta di felicità basata sull’armonia interiore e la calma, mentre in Occidente crediamo in una felicità ad alta tensione e incentrata sulla performance. Infatti poi da noi fioccano le classifiche stilate su dati più o meno quantificabili, che vedono la Finlandia al primo posto e l’Italia al quarantasettesimo: sarà così? Che cosa si chiede a una persona, e quindi a un Paese, quando domandiamo se è felice?
C’è una risposta trasversale capace di unire culture così diverse? Io direi: «la vita eterna», che non è la vita dopo la morte, ma quella di questo lunedì che o diventa eterno o non può essere neanche questo lunedì. Non bastano le performance dell’eccitazione e auto-realizzazione occidentali (piacere, potere, possesso) che fa del lunedì una fede produttiva ma sfinente, né la calma che placa questi desideri e si solleva sul lunedì come se non esistesse, anche se poi resta lì, da scalare. Eterna è per me l’esperienza del midollo della vita. Uso la parola midollo perché è ciò che Omero faceva per dire eternità, aiòn, originariamente il midollo osseo da cui si faceva dipendere la forza vitale (ungendo il corpo i Greci credevano di ripristinare il midollo). Ma, fuor di metafora, che cosa è questo midollo della felicità?
Marco racconta al capitolo 10 del suo vangelo, all’incrocio tra Oriente e Occidente, che un giorno un ragazzo placcò letteralmente Cristo per chiedergli: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Voleva il manuale di istruzioni per la felicità: non si riferiva alla vita dopo la morte, che non era nel suo orizzonte umano, ma a una vita felice subito, una vita piena, dato che la sua, pur essendo ricco come specificato dal testo, non gli bastava. Per dire «vita eterna» il ragazzo usa due parole: zoé (la vita che condividiamo con tutti i viventi, la vita della quale vivono piante, animali e uomini) aiònios, l’eterno in opposizione al tempo misurabile (chronos). Zoé aiònios è infatti usato nel vangelo per distinguerla dalla vita come psychè, il respiro, la vita che finisce, e infatti dalla stessa radice di aiònios viene l’avverbio greco per dire «sempre» (aieì). La vita eterna è quindi la vita «sempre», non misurabile in respiri o lunedì, una vita talmente profonda da usare il midollo osseo (non un sentimento) come controparte materiale. Di questa vita, a differenza di quella misurata in lunedì e respiri, facciamo esperienza quando diciamo che il tempo vola o si ferma, espressioni che indicano infatti momenti di profonda felicità. In italiano potremmo dire che la vita degli orologi è quella dell’essere viventi, mentre la vita eterna è quella dell’essere vivi.
Per la felicità non basta essere viventi, occorre essere vivi: se infatti avessimo la possibilità di scegliere se passare i nostri anni sedati e senza soffrire, o affrontando tutto ciò che la vita da svegli comporta, credo che sceglieremmo la seconda. Felicità e vita viva (eterna), midollo della vita, sono quindi in qualche modo sinonimi. I contadini romani usavano felice per le piante: arbor felix era semplicemente «l’albero che dà frutto», la pianta che raggiunge il suo scopo. Se la felicità è quindi di chi genera il suo frutto, la vita eterna, la vita da vivi, è quella in cui questo accade in ogni istante. È felice, ha vita eterna, chi dà frutto «sempre», in qualsiasi condizione. E come si fa? Nel capitolo successivo a quello del ragazzo ricco, Marco racconta un altro episodio che mi ha sempre spiazzato. Cristo, affamato, vede un fico rigoglioso, si avvicina ma non trova frutti e, benché il testo specifichi che non era stagione di raccolta, Cristo maledice l’albero. L’indomani passando di lì i discepoli vedono che l’albero è stecchito. Se si fosse voluto raccontare un miracolo scontato si sarebbe inventato che Cristo trova i fichi benché non sia la stagione, e invece fa il contrario: lascia un segno. Alla luce di tutti i passi in cui Cristo paragona la vita umana a un seme chiamato a dar frutto, credo che volesse rendere evidente ai suoi qualcosa che riguardava loro e non la pianta: a differenza degli alberi per gli uomini è sempre tempo di dar frutto, cioè di essere felici, non dipende da giorni, stagioni, condizioni esteriori, ma da una scelta fatta istante per istante. L’uomo può essere «sempre» felice, cioè dare «sempre» frutto, e questo dipende da quanta vita eterna è in lui.
Ma allora questa vita eterna che cosa è? Tutto ciò in cui io genero vita, do frutto: quando creo e quando amo, le due caratteristiche che Cristo attribuisce al Padre e quindi a sé come uomo. Credenti o no, la paternità di cui parla Cristo è un modo di indicare la capacità di generare continuamente, e la condizione di figlio è quella di chi riceve «sempre» questa vita per poi generarne altrettanta: dare «sempre» frutto. Infatti a quel ragazzo che gli chiede come avere la vita eterna risponde di lasciare tutto e di seguirlo, cioè di vivere la sua stessa vita di «figlio» (colui che tutto riceve per poi tutto dare) e di non perdere tempo dietro a cose che quel giovane aveva già verificato essere insoddisfacenti. Il ragazzo non volle e «se ne andò via triste»: gli succede ciò che succede a un albero sterile, non è «felice» (fecondo) ma «triste» (infecondo).
La felicità è «vita eterna» se riesco liberamente a trasformare ogni istante in materia per essere e fare ciò che solo io posso essere e fare: creare secondo i miei talenti e amare secondo le mie possibilità, né più né meno. E se questo può accadere scrivendo, camminando, cucinando, facendo una lezione, con la febbre, con l’ansia, con la paura... e tutte le declinazioni del quotidiano, il lunedì non diventa né una performance né un ostacolo, ma lo spazio-tempo dell’eterno, del midollo della vita. Vita e eterna devono andare insieme perché l’eterno è ciò che rende la vita «viva» e la vita è la materia prima che rende l’eterno «vivibile». Vorrei quindi che questa fosse per noi la giornata della vita eterna, che è far esperienza del midollo della vita, dare frutto anche di lunedì: far bene e con amore quello per cui siamo fatti e far essere nel bene e nell’amore quelli per cui siamo fatti. E questo non è né una performance né un vuoto interiore, ma uno spazio in cui, con un po’ di coraggio, si permette alla vita di raggiungerci e di moltiplicarsi in e attraverso di noi, con tutto quello che questo comporta di lacrime di gioia o di dolore, proprio quelle lacrime che Omero credeva fossero il frutto dello sciogliersi del midollo, l’eterno che si fa vivo, in ciascuno di noi. Chiedere «Sei felice?» in fondo è chiedere «Sei vivo?».
Esercizi di insostituibilità
Alessandro D’Avenia
Di recente ho visto due film che ruotano attorno all’amicizia dei protagonisti: Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin, spiriti di vendetta, simili alle Arpie greche, di un’immaginaria isola irlandese) di Martin McDonagh (regista del bellissimo Tre manifesti a Ebbing) e Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, tratto dal bel libro di Paolo Cognetti.
Nel primo film due amici, ogni giorno, dopo il lavoro, si ritrovano a bere nel pub del villaggio, ma all’improvviso uno dichiara all’altro che non vuole più vederlo perché lui, violinista, non può sprecare il tempo in chiacchiere inutili con uno stupido pastore: deve impegnarsi a comporre una melodia immortale. Così si scatena un duello grottesco che coinvolge i tranquilli abitanti di un villaggio incastonato tra mare e colline.
Nel secondo film i due amici sono invece legati dalla montagna: uno le appartiene per nascita, l’altro per vocazione. Nonostante lo scorrere del tempo e le giravolte della vita la loro amicizia rimane salda come le meravigliose montagne che le fanno, non da sfondo, ma da fondamento.
Che cosa hanno in comune due film così diversi? La ricerca di ciò a cui oggi chiediamo salvezza: l’incontro d’amore con le cose e con gli altri. Nell’uno e nell’altro film la creazione diventa interlocutrice silenziosa della ricerca di un modo nuovo di vivere da parte dei protagonisti. Lo trovano?
Già il famoso esploratore islandese di Leopardi, dopo un lungo viaggio ai confini del mondo, aveva scovato e interrogato la Natura sul segreto della felicità, senza però ricevere alcuna risposta se non la morte: la Natura fa il suo corso ed è a noi indifferente, come ci ha ricordato il recente terremoto (anche se indifferenti — cioè incapaci di cogliere le differenze — a volte siamo noi più preoccupati di Sanremo che di quelle popolazioni).
Ma in questi due film non c’è la Natura, astrazione senza relazione di una cultura che legge la realtà come una macchina (emblematico nel secondo film il momento in cui il montanaro dice a una ragazza che non esiste la Natura ma quel prato, quel bosco... cose con un nome che permette una relazione viva), ma c’è la Creazione, parola che, senza bisogno di aderire a una fede, lascia intatto il mistero di un ordine iscritto nelle cose che diventa quindi un invito alla scoperta, all’incontro, alla cura.
La bellezza del mondo è per me una domanda assordante: le cose non sono tenute a essere belle eppure lottano per esserlo, e in questo per me c’è una promessa, una richiesta, un’ispirazione.
Anche le relazioni tra gli uomini potrebbero essere così, ma l’uomo preferisce imporre la sua di legge.
Quando il musicista del primo film decide di non voler vedere mai più l’amico per creare il suo capolavoro, impone una legge che esclude l’altro se non è utile al proprio successo, un’ideologia che lo disancora dalla realtà e innesca la distruzione di sé e del mondo.
Di contro gli amici del secondo film non perdono se stessi proprio perché non si perdono tra loro.
I due film, in controtendenza per ritmo e fisicità del racconto, mi hanno aiutato a sentire con più precisione un bisogno che, con il tempo e in questo nostro tempo, cresce in me: un modo di vivere che, ridimensionata l’ossessione del fare per esistere, prediliga il ricevere per esistere, ricevere è infatti la condizione necessaria per incontrare cose e persone, sentire come propria carne la corteccia di un albero e la pelle di una persona.
Quando corazziamo l’ego impaurito dalla morte con illusioni di immortalità, come il famoso cavaliere inesistente di Calvino, tutto armatura, cose e persone diventano ostacolo o strumento: non esistono più con noi ma per noi, da creature, e quindi da consanguinei, si riducono in scorte ed, esaurite, in scorie.
Per imparare a sentire il mondo come mia carne ho quindi cominciato a fare due esercizi. Il primo è camminare, attività ancora libera da performance (sebbene adesso anche i passi vengano contati per smaltire calorie) e il cui fine è l’azione stessa del camminare. Camminare risana la relazione tra corpo e spirito, tra corpo e mondo: si entra in contatto, con tatto, con ogni cosa/persona che diventa una parola rivolta solo a noi. Basta poco ogni giorno, purché si usino tutti e cinque i sensi (senza telefono, e faccio fatica): l’inesperienza corporea e feriale del mondo è una delle ferite più gravi della nostra psiche.
Qualcuno penserà che ho tempo da perdere, quando si tratta proprio di una scelta che ne sottrae ad attività più utili, redditizie, divertenti. Mi obbligo a camminare, non a vagare come un flâneur, ma libero da secondi fini, a parte raggiungere i luoghi dove sono diretto.
Camminare è un esercizio di insostituibilità: non può farlo nessuno al mio posto.
Esercitarsi a essere insostituibili serve a diventarlo e si scopre quanto spesso vendiamo il nostro corpo al nulla.
La vita, a esserne discepoli, è maestra generosa: risponde nella misura in cui siamo presenti e facciamo domande.
Un boccone di realtà mi nutre molto più di uno digitale e rende il cuore più intelligente: attento e paziente, le due qualità dell’amore. Faccio scoperte e ricevo ispirazioni, come un Colombo metropolitano che trova il Nuovo Mondo, cioè un mondo rinnovato.
Il secondo esercizio è quello del «come stai». All’inizio dei messaggi non scrivo più «come stai?» (spesso sostituito dalla formula «spero tu stia bene», per evitare la risposta altrui) per poi chiedere ciò che voglio, ma dico subito ciò che voglio e solo alla fine chiedo: «ma tu, come stai?». Questo permette agli altri, come alle cose mentre cammino, di avere lo spaziotempo per dirsi, essere il fine e non un mezzo. Il verbo «stare» del «come stai?» significa «come abiti la vita? dove sei?».
Ho bisogno, io per primo in un contesto così veloce e disincarnato, di sostare (so stare?), cioè di una «stanza» per raccontare.
I due esercizi (ognuno può trovare i suoi), camminare e far stanza, mi stanno aiutando a ricevere la vita che non riesce a raggiungermi quando sono altrove, impegnato a impormi più che a dispormi.
«Cammino» e «stanza» danno a cose e persone la possibilità di un incontro d’amore e, insieme, diventiamo il centro del mondo, anche se non fa notizia. Ma per me la silenziosa notizia è questa: se un punto qualsiasi dell’universo può diventare il suo centro, forse questa è la legge della gioia quotidiana.
«L’autentica bellezza schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano» (Benedetto XVI, Discorso, 21 novembre 2009).
Se la nostalgia, Dio e la bellezza sono così intimamente legati allora l'arte non può che esserne una manifestazione privilegiata. «La nostalgia» – scriveva Marcello Veneziani sulle pagine de Il Giornale – «è il sentimento originario che ha mosso l'arte, il pensiero e la grande letteratura di ogni tempo. Da Omero a Kavafis, da Saffo a Pasolini, la nostalgia è l'anima della poesia. L'uomo è un animale nostalgico, non sa vivere solo del presente. Vive tra l'attesa ponderata del futuro e la nostalgia delle origini».
“Essere amati è il grande privilegio”. Discorso sul Paradiso attraverso la poesia
Che cos’è il paradiso, l’ho capito dall’attesa, l’ho capito aspettando la telefonata di una persona cara, o nel ricevere una mail da lei in procinto di venirmi a trovare. Quello che scopro è che l’attesa si annulla, l’attesa si azzera sempre, non rimane in noi, il seguito conquista tutto.
Il paradiso dev’essere questo, non un’attesa inutile, bensì attesa che si annulla nella prossimità dell’incontro. Quindi si attende senza aspettare, arricchendosi nella vicinanza della compagnia. È un po’ come in quei siti online che si scorrono con il cursore, arrivati in fondo ecco che il cursore sale in alto, rivelando che c’è ancora spazio da visitare, che non c’è fine e si può andare avanti ancora.
L’azzeramento corrisponde a una nuova qualità del sentire, aperta a una prospettiva rinnovata del vedere, del punto di vista, del soggetto in attesa, pronto ma mai afferrato da delusioni, sempre in atto di conoscere il vero. Questo io ho scoperto aspettando. È una scoperta sicura, non è qualcosa di effimero, è anticipo di ciò che sarà, già qui. Perciò ognuno è un mezzo, è un ponte per il mistero che c’è di là. Ognuno è creato, ed è fatto di questo. Attesa che viviamo del paradiso, attesa che non si accumula pesando sul nostro animo, fino a franare, annientandoci. L’attesa ci convince sul nostro stato.
Forti di questo, cresciamo immensamente, di minuto in minuto, di secondo in secondo, attimo dopo attimo. La concezione del tempo acquista una velocità impensabile, profonda, sublime. Avviene già fra noi, in relazione a fatti, cose e persone precisi, identificabili. Ad esempio, aspettando una persona che teniamo a cuore, si sente che il tempo si dilata, si curva su di noi e sullo spazio che ci sta intorno. Tutto cambia. Ce ne accorgiamo dai volti degli altri, non sembrano più estranei, non s’intercetta più nel loro sguardo una negatività, un limite, un’angustia. Il mondo sta lì, davanti a noi, per dire questo, affinché ci si ponga davanti a questo. E se avviene uno scontro, qualcosa che all’improvviso ferisce, quello rivela il non-ancora, il non-avvenuto-ancora, la stazione che vediamo sfuggire in velocità dal finestrino del treno in corsa, cioè l’immagine che ci attraversa gli occhi, ma senza fermarsi, senza fissarsi sulla retina, non impressionata dalla luce, dal colore, dal movimento. Siamo in attesa, dunque ci troviamo nell’attimo successivo, sempre e sempre.
Questa condizione io l’attribuisco a una percezione divina, che s’impasta in noi, si rapprende come la materia del colore nell’umido di un intonaco fresco, nell’affresco che noi siamo di Dio, nel dipinto che Lui fa giorno per giorno di noi, anche se non ce ne accorgiamo, anche se la nostra inconsapevolezza non è radice di male.
Davide BrulloGiorgio AnelliOttanta poetesse per Cristina CampoCito l’amico poeta Daniele Piccini: “Così, così ritornerà compiuta / l’attesa fatta di tutte le crune”. Come a dire che la cruna non è passaggio stretto, bensì spalancamento continuo, e multiplo, improvviso, recante stupore, condizione umana che si apre, circonda, coinvolge. Ci si sente fiore commosso nel corso della lettura dei versi appena citati, per l’anticipo che si avverte nel dire, nel toccare lo spessore di questo passaggio, in eccedenza di linguaggio, come scrive il filosofo Paul Ricoeur nel suo La logica di Gesù, libro ispirato, felice, in cui si analizza lo stile del linguaggio cristiano, in particolare delle Beatitudini.
Essere amati è il grande privilegiodelle creature.
Inizia così Per la cruna (Crocetti Editore), di Daniele Piccini. Chi è amato?, viene da chiedersi. Davvero è privilegio?, o l’amore è il segno di quello che avverrà per tutti, che sta accadendo, è in atto. Troppo comodo se avvenisse in un colpo solo, penso io.
Anche quando si muovononella notte franosa, a basso lume,qualcuno li conosce.
Chi?, chi è capace di questo riconoscimento se non qualcuno in stato d’amore, rapito dalla stessa conoscenza del farsi corpo, forma, riconoscibilità di corpo e forma, tratti dall’invisibilità che si rivela nell’attimo, in un barlume.
Qualcuno li contiene come un fiume,anche se loro ignorano, incoscienti.
Il poeta apre alla carità, che, al contempo, persegue un mistero, già nello sguardo delle cose (delle cose, certo!), se non ci fosse quello sguardo che accoglie, fatto di carità e mistero, non ci sarebbe niente. Viene da parafrasare san Paolo: Se anche conoscessi tutto, e mi mancasse la carità, che cosa sarei? Infatti ci si perde per mancanza, per natura nostra di limitatezza. In realtà il recupero è in azione, ce lo dice il poeta; un radar appare nella poesia emblematicamente, capace di intercettare tutto l’amore del mondo, che non lascia fuggire. Niente è perso. Qui, gli altri, i nostri simili, le altre creature umane, si allontanano soltanto per essere contemplati, per vederli nella loro interezza. Perché sono degli interi, non degli uomini a metà.
Così si perdono lontani e vannoma non escono maida quel radar inquieto.
Si tratta di un radar che non riesce solo a individuare la posizione delle cose, la loro posizione nello spazio, è un radar che è in grado di arrivare ovunque, estremo frutto di amore, radar di vita caritatevole, che comprende.
Camere illuminate nelle notti.
Attenzione, il lume basso è diventato luce piena!
Ne ho viste nelle città più remote.
È luce che raggiunge i posti più lontani e inaccessibili.
Ognuna brilla come stella accesa.La sua fornace manda lampi chiari.
Il buio è vinto! Ecco che ritorna l’uomo dell’inizio della poesia.
Rivedo la creatura a cui pensavo,le stelle s’infittivano la primavolta allo sguardo semplice.
È sempre lui ma è cambiato, è cambiato l’ambiente che lo circonda, oppure, si può dire, che è un ambiente più vasto a definirlo, un mare di stelle s’infittisce intorno a lui. È la vita di quell’uomo che s’illumina. Chi è?, adesso lo sappiamo, perché lo contempla uno sguardo innamorato, che s’innamora del suo mistero senza ostacoli.
Il vero protagonista è lo sguardo del poeta, punta elicoidale, mi piace dire, tale è la sua intensità, che indirizzando precisamente e per destino il vedere, ha già segnato con il suo sguardo l’uomo, e non lo lascia più. Ora l’uomo può vivere di vita propria, compiuta, sebbene ancora da vivere.
Cosa sarebbe stato, non sapevo.
Possibile?, viene da chiedersi. La poesia, nell’ultimo verso, sembra deludere il lettore, eppure non è paradossale il volere di Dio, che Dio voglia che noi viviamo, apparentemente abbandonati a noi stessi, ma in realtà individui supremi per benevolenza, per sacrificio, l’amore che ama per la prima volta attraverso la scoperta della sua natura, in perenne ascolto. “La psiche non è mai in silenzio” dice la filosofa Maria Zambrano, che è la modalità dell’agire dell’uomo, nell’ampliamento del suo essere. Il poeta, al colmo della sua tensione, è dotato anche di questo sentire illimitato. Il senso è portare tutto davanti a Dio.
V. Gambardella
Il mondo in cui stare..non sono solo canzonette
Alessandro D’Avenia "
Festival è l’antico termine francese che indicava un evento sacro e popolare, arricchito da musica e danze. Nasceva dal bisogno di interrompere la fatica del lavoro quotidiano e condividerne i frutti.
Dettata dal calendario liturgico e dai ritmi stagionali di terra e cielo, la festa dava senso agli altri giorni: riposare e gioire insieme del lavoro fatto, con musica e danza che sono i simboli umani della libertà dalle necessità dei giorni feriali. I Greci interrompevano anche le guerre per i loro festival. La città pagava il biglietto a tutti, anche ai più poveri, perché potessero partecipare a ciò che permetteva di riposare e di esistere come comunità. La polis, città in greco, da cui «politica», non era un contenitore di corpi, ma un progetto di vita da creare insieme: un’armonia che tutti erano chiamati a realizzare, per andare oltre il mero stato di necessità e vincere un po’ la morte. Il tutto si è poi trasferito nelle feste liturgiche cristiane, qualcosa rimane nei nostri sabati del villaggio, ma nel «villaggio globale» tutto questo accade in tv. Nella cultura secolare e nella società di massa ciò che crea comunità si è trasferito sullo schermo. Il Festival della canzone è infatti un’occasione (un’altra è la Nazionale di calcio) per riposare e rifondarsi come comunità. Ci basta? Funziona?
Per l’evento, famiglie, amici e parenti si radunano in soggiorno e, se non è possibile, in chat. Si commenta, si danno voti, si demolisce, si osanna, in perfetto stile tribale social. Ma da dove viene questo potere unificante? È un rito culturale: riscopriamo la nostra lingua che, con le sue vocali finali e il suo ritmo, è fatta per il canto. È un rito sociale: riesce a unire, come la Nazionale, tutte le generazioni, da Mattarella a Madame. È un rito religioso, dal testo sacro della Costituzione alle omelie nei monologhi, un rito che ha per fortuna anche le sue «eresie»: la profanazione dei Fiori simbolo del festival è stata interpretata dai ministranti come un sacrilegio, ed era invece l’istintivo smascheramento dell’ipocrisia (ipocrita in greco era l’attore), per ricordarsi che è solo una messa in scena, la verità è altro. È un rito politico, con i suoi voti: nei festival antichi l’autore vinceva raccontando Antigone, Prometeo o Alcesti, miti in cui il popolo si riconosceva e grazie ai quali si interrogava sul senso della vita.
E i nostri quali sono? Quest’anno si è cantato quasi solo del mito dell’Amore, in tutte le sue declinazioni (famiglia, coppia, amicizia): relazioni spezzate, finte, stanche, tradite, finite, ma anche riparate...
Ogni comunità si unisce per curare le sue ferite e in un Paese dalle relazioni (col corpo, con se stessi, con gli altri, con le cose) fragili e frantumate si è levato un canto piuttosto lugubre, una lunga malinconica preghiera perché l’amore torni a darci gioia e non solo fallimenti. La parola (anche quella dei monologhi) non sempre è riuscita a in-carnarsi (farsi carne) e in-cantarsi (farsi canto), ed è suonata a volte artificiosa, in questi casi la musica è diventata un pre-testo, ma è il rischio che l’arte corre quando entra in tv. Ci sono stati però anche momenti in cui gli artisti sono riusciti a tradurre il loro incontro, doloroso o meravigliato, con la realtà, in note originali sgorgate dalla fonte da cui nasce ogni autentico gesto creativo: la vita spirituale, che, comune all’umano di ogni latitudine, è ciò che unisce veramente le persone. La si riconosce quando, ascoltando un pezzo, qualcosa in noi si trasforma, la pelle d’oca lo manifesta, come fa la bellezza se non è un cartonato della vita, una comunicazione senza comunione, un incantesimo senza incanto.
Forse è un po’ inevitabile a causa del sistema che mette in competizione e in discussione l’ispirazione artistica: Tenco si è tolto la vita anche per questo, proprio a Sanremo, e del potere della tv di svuotare i linguaggi e falsificare i bisogni della gente ha detto tutto Pasolini negli stessi anni.
Comunque sia noi di Sanremo abbiamo bisogno perché è San Remo: se manca il patrono un Paese non esiste, manca ciò che unisce gli uomini, il sacro, cioè, fuor di metafora, ciò che riceviamo dal passato e con cui dobbiamo fare i conti per rinnovarci. Che cosa fonda la nostra comunità e ci fa appartenere a questo Paese tanto da volerlo custodire e far crescere insieme? In un tempo in cui, individualisticamente slegati, ci sembra di non appartenere a nulla e nessuno, abbiamo ancor più bisogno di simboli (parola che significa «unire ciò che è separato»).
Quali sono i nostri? Lo sport e le canzoni, in tv. È sempre più difficile trovare unità e gioia negli spazi dove la vita si svolge ogni giorno (città, scuola, cultura...) e non appartenere soltanto a supermercati, piattaforme streaming o social. Sarebbe bello fare città, civitas, comunità e civiltà, in posti in cui ci si trattiene e non solo ci si intrattiene, in cui si costruisce e non solo si consuma. Ma se ci uniamo per qualche sera, disposti a tardare davanti al teleschermo pur lavorando l’indomani, è perché ne abbiamo bisogno, o almeno ne ha avuto bisogno un italiano su sei, gli altri cinque cercano altrove. Ma, quando lo spettacolo è finito, quell’italiano aveva più vita o più sonno? Torna a lavorare, come dice amaramente la canzone dei miei conterranei, «per non stare» con chi ama, o invece ha ricevuto energie nuove per amare meglio chi ha accanto? Abbiamo fatto comunità o solo ascolti?
Comunque sia ci aggrappiamo ancora all’arte per sapere se c’è un altro mondo, bello e unito, a cui appartenere, un mondo ancora da fare e in cui si può ancora cantare insieme per spostare la morte più in là.
L’amore autentico offre tempo e presenza
di ENZO BIANCHI
Vorrei tentare una rilettura della sua prassi dall’ottica del nostro stile di vita. Ovvero, non citerò brani evangelici, ma vorrei tenerli sullo sfondo, per vedere come essi agiscono su noi suoi discepoli e discepole, nel nostro stile di vita quotidiano. In quale modo lo stile di vita di Gesù plasma e ispira il nostro vivere la comunione?
Gesù ha vissuto l’amore innanzituttooffrendo il suo tempo e la sua presenza. Oggi la contraddizione all’amore autentico viene soprattutto dalla mancanza di tempo (prospettiva che si è rovesciata in questo periodo di pandemia!), dal non dare all’altro la propria presenza. I ritmi della vita, gli impegni di lavoro, le molteplici cose da fare, le scadenze che ci paiono inderogabili, tutte queste realtà ci mangiano il tempo; sicché, pur avendo tempo per molte altre cose, non abbiamo più tempo per le cose gratuite, quelle che non ci portano guadagno. Ci manca il tempo dell’incontro: incontriamo le persone che dobbiamo incontrare per ragioni di lavoro, anzi cerchiamo di moltiplicare gli incontri che possono “rendere”, ma non c’è più tempo per l’incontro che non fa parte del nostro lavoro e che non ci fa guadagnare. Dare tempo per amore, dare la presenza all’altro senza fare nulla e anche senza dire nulla, ci sembra tempo sprecato. Eppure non c’è amore dove non c’è presenza dell’uno all’altro.
Gesù ha inoltre avuto una grande attenzione per l’altro, a cominciare dal suo corpo. Occorre avere la percezione che l’altro non è un partner ideale davanti a me, né un tu qualsiasi, un altro e basta, ma è un corpo con cui devo relazionarmi, un corpo che aspetta da me degli atteggiamenti, un linguaggio, perché per comunicare i corpi devono esprimersi. Si tratta dunque di riconoscere il corpo dell’altro realmente, non di definirlo solo in base a criteri di bellezza, avvenenza, crescita sana.
È normale che un corpo seduca, attragga, interessi, oppure respinga e faccia provare repulsione. Al riguardo, per incontrare l’altro occorrono molta attenzione, molta sapienza, molto esercizio per disciplinare le nostre emozioni e i nostri sentimenti: non possiamo amare l’altro solo se ci piace! È facile provare sentimenti di attrazione per chi è bello, giovane, piacevole, ma per amare l’altro occorre accogliere innanzitutto quel preciso corpo, perché la sua vita che voglio e devo incontrare è inscritta in quel corpo, nei suoi occhi, nelle sue labbra, nelle sue mani… L’altro non ha un corpo: è un corpo! Se è un corpo, allora non posso accendere l’amore senza accogliere il suo corpo. Solo attraverso il corpo passa l’amore.
Non esiste un contatto, una relazione con una persona, che non passi attraverso la relazione con il suo corpo. Chiediamoci semplicemente: perché Francesco di Assisi ha baciato un lebbroso? Non ha amato un lebbroso facendogli la carità o pregando per lui: l’ha baciato! Nella relazione è anche il corpo che parla: parla da giovane e da anziano, da sano e da malato, da bello e da brutto. Va detto che ogni corpo è una persona, ogni corpo – dice il cristiano – è “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Ogni corpo è un membro del corpo di Cristo.
Gesù ha voluto entrare in relazione con gli altri interrogandoli, conversando e dialogando.Per crescere nella conoscenza e nell’amore occorre avvicinarsi all’altro, accogliere il suo corpo con attenzione e quindi entrare in dialogo con lui, ascoltandolo e parlandogli. Si inizia ascoltando l’altro, restando silenziosi, a volte ascoltando il silenzio dell’altro. Occorre poi intervenire, magari rispondendo o ponendo domande, ma sempre con un atteggiamento che dica l’interesse per la relazione. Solo a queste condizioni si accende la comunicazione: comunicazione di parole, di silenzi, di gesti, di sguardi, di un “toccare” l’altro. La comunicazione è vitale, per questo esige che vi siano impegnati il cuore, la mente, il corpo con i suoi atteggiamenti. Ascolto dell’altro per cogliere dove lui è; ascolto dell’altro per conoscere ciò che lui porta nel cuore e vuole comunicare a me; ascolto dell’altro per far crescere l’amore; ascolto dell’altro per predispormi a riconoscerlo affidabile, in una relazione che ci impegnerà reciprocamente.
Se uno non ascolta, non si predispone ad amare, non può accedere all’amore; e se uno non parla, non entra nella dinamica dell’amore, perché non parlare è il primo modo per sottrarsi alla relazione e per negarla. Sincerità e verità diventano allora assolutamente necessarie alla comunicazione e rendono possibile l’edificare la relazione nell’amore. Si pensi solo a una parola semplice eppure così decisiva: “Io ti amo”, parola detta in sincerità, detta come confessione e promessa. Parola che sempre sottintende la domanda: “E tu mi ami?”, attendendo una risposta. In queste parole si gioca “il senso dell’eternità” (‘olam: Qo 3,11) che ogni essere umano porta in sé!
In ogni relazione d’amore accade tuttavia che il male prevalga sul bene, che l’amore sia tradito, si ammali, sia contraddetto. Nessuna illusione: nell’amicizia, nella storia dell’amore vissuta nel matrimonio, nei rapporti di amore prima o poi avviene una contraddizione. A volte è uno che viene meno, mentre l’altro resta saldo; a volte entrambi i partner dell’amore diventano infedeli l’uno all’altro. Ciò accade, ma non deve essere così deludente da impedire la relazione d’amore, né essere giudicato quale morte dell’amore. Bisogna prepararvisi, bisogna metterlo in conto anche quando ci si promette reciprocamente la fedeltà, il non venire meno. Anzi, occorrerebbe che chi ama metta in contro che l’altro mancherà e, di conseguenza, si impegni a perdonare per ripartire, per ricominciare, fino a dimenticare il venire meno dell’altro. Qui si misura la maturità dell’amore: amore vissuto concretamente, non idealizzato, amore innestato in ciò che io sono e in ciò che l’altro è.
Ecco perché è decisiva la capacità, la volontà, la responsabilità del perdonare, sulla quale Gesù ha dato l’esempio fino alla fine. Perdonare è amare con coraggio, è credere che l’amore che si vive è più forte delle contraddizioni che riceve. Chi ha un cuore che sa perdonare, ha un cuore grande, abitato dall’amore, un amore che sa accogliere dall’altro non solo la bellezza, le virtù, i doni, ma anche i difetti, le fragilità, le cadute, anche le cattiverie. A volte il cammino di chi ama è gravemente ferito, quasi impossibile da percorrere: i questi casi occorre fermarsi, sostare, non muoversi, restare in attesa dell’altro che si è smarrito… Ci vuole molta pazienza e poi, sì, la capacità di perdonare, di riprendere con sé l’altro e di ripartire nell’amore. Questa è la vittoria dell’amore sulla morte (cf. Ct 8,6) che possiamo sperimentare qui sulla terra! Questa è la comunione che la chiesa, corpo di Cristo, può vivere e testimoniare al mondo.
L'etica del reincanto
intervista ad Alberto Meschiari
Da più parti si osserva con preoccupazione quanto sia diffuso nella comunicazione politica e interpersonale, soprattutto nei social media, il linguaggio dell'aggressività e dell'odio che porta a un imbarbarimento delle relazioni sociali a tutti i livelli. È urgente pertanto riscoprire il valore di altre modalità di comunicazione, più rispettose e civili, dove la gentilezza può giocare un ruolo importante. La gentilezza, infatti, è uno strumento prezioso per comprendere l'altro e costruire insieme un orizzonte comune dal quale osservare e risolvere i problemi. Benedetta Smargiassi, autrice di una tesi di laurea sul ruolo della gentilezza nei processi comunicativi, ha posto alcune domande su questo tema al filosofo Alberto Meschiari, evidenziando nella sua riflessione punti di contatto con Luigi Pareyson e Karl Jaspers. Il dialogo, oltretutto, offre a Meschiari la possibilità di spiegare il suo progetto di un'etica del reincanto che lo ha impegnato negli ultimi anni: rimettere al centro del discorso filosofico la persona con i suoi imprescindibili valori, contro la progressiva manipolazione e banalizzazione dell'esistenza.
Leggendo il suo libro Gentilezza. Per un'etica del reincanto (Edizioni Tassinari, Firenze 2017), emerge con forza un invito rinnovato alla scelta della gentilezza come abitudine, modalità di relazione con gli altri esseri umani e con il mondo. Com'è nato in lei l'interesse per questa tematica?
A un certo punto del mio percorso nella filosofia sentii l'esigenza di andare oltre il mestiere che avevo praticato fin lì di storico della materia. Per la mia sensibilità e natura volevo che la filosofia mi aiutasse a orientarmi nella vita, a rispondere a domande come queste: chi sono io? Come devo condurre la mia vita? Dov'è che ho sbagliato? Dov'è finito l'amore? Il primo atto di questo rivolgimento lo realizzai in un libriccino che pubblicai nel 2003 a Pisa: A cosa serve la filosofia nella vita? Mi interessava rispondere alla domanda: a cosa serve la filosofia nella vita, non nella carriera universitaria. Poi, guardandomi attorno e considerando quanto stesse dilagando un generale conformismo cominciai a lavorare a quella che avrei chiamato «etica del reincanto». Così nel 2010 – come vedi occorrono molti anni per elaborare qualche idea – pubblicai Riprendersi la vita. Per un'etica del reincanto.
Perché «riprendersi la vita»? Ce l'aveva forse rubata qualcuno? E in tal caso, a quale vita stavo pensando? L'etica del reincanto nacque da una constatazione: rispetto agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui i grandi ideali sociali e politici nutrivano e stimolavano l'impegno personale e l'entusiasmo del fare insieme, a partire dagli anni Ottanta ho avvertito crescere intorno a me il disagio e lo smarrimento a mano a mano che il mercato prendeva il sopravvento sulla politica – determinando sempre più pesantemente i valori di riferimento e gli stili di vita – e la politica perdeva quell'affiato etico che l'aveva caratterizzata nella precedente stagione. Quei due processi concomitanti hanno portato allo sgretolamento non solo della compagine sociale ma anche dell'identità personale, finché la vita di ciascuno si è trovata sempre più disseminata in un pulviscolo di comportamenti privi di motivi aggreganti, di forti ragioni di coesione.
Di fronte a questa constatazione, ho cominciato a chiedermi se all'individuo non rimanesse altra possibilità che conformarsi allo strapotere del capitalismo neoliberista, penetrato fin nei meandri più intimi del privato, o se invece potesse sottrarre qualcosa di sé al suo condizionamento. Un poco alla volta il mio interrogativo si trasformò nell'assunzione di un impegno, nello spostamento dei miei interessi dalla Storia della Filosofia all'Etica. E qui la prima domanda che mi sorse spontanea fu questa: che cosa può fare un filosofo di fronte a questa realtà, in che modo può uscire dal "limbo" delle sue dotte ricerche e ridurre la distanza fra i suoi studi accademici e i disagi che serpeggiano nella società? Come può trovare una parola immediatamente operativa, che possa trasformarsi in azione?
Guardandomi attorno, mi parve di leggere su molti visi ogni giorno di più i segni di un sofferto vuoto esistenziale, unito all'incapacità di individuarne le cause; le invocazioni inascoltate di vite svuotate dall'interno, tutte ripiegate sulle merci, sul rapporto compulsivo con le meraviglie tecnologiche, come se fossero lampade di Aladino dai magici poteri, dispensatrici di promesse che non si avverano mai. Vedevo una sempre più diffusa obesità del corpo accompagnarsi a una complementare anoressia dello spirito. Forse, mi dicevo, abbiamo spinto troppo innanzi, con un'intenzione cieca e caparbiamente autodistruttiva, il nostro disincanto: niente ci colpisce profondamente, niente ci tocca veramente, tutto ci è indifferente allo stesso modo. Ostentiamo perfino con sfrontatezza il nostro disincanto come un segno di virilità e di emancipazione. Ma l'indifferenza, il non dare importanza a niente, sono il suicidio dell'anima.
Dal mio punto d'osservazione ho creduto di individuare un motivo di questa sofferenza. Presi nell'ebbrezza del consumismo, abbiamo trascurato e poi abbandonato del tutto la cura della nostra spiritualità, come se fosse un accessorio superfluo nella costruzione della personalità o una zavorra che rallenti la fretta con cui ci affanniamo a tenere il passo del mondo. Ci dimentichiamo facilmente di non essere solo corpo e mente, ma anche spiritualità, e viviamo come se non fossimo toccati da questa dimensione costitutiva di un'esistenza degna di essere vissuta. Discendono in gran parte da qui, a mio avviso, il nostro disagio, il nostro malessere, la nostra aggressività. Perché viviamo costantemente fuori di noi, siamo assenti a noi stessi per gran parte della nostra vita o per tutta, come se il nostro corpo e la nostra mente fossero case disabitate, abbandonate dal loro inquilino. La vita è anche una questione di equilibrio: fra corpo•, mente e spiritualità.
L'etica del reincanto prende il suo nome e la sua ragion d'essere dal suo opposto, il disincanto. Di disincantamento del mondo parlò per la prima volta l'economista e sociologo tedesco Max Weber nel 1917 in una conferenza che tenne a Monaco di Baviera e che pubblicò due anni dopo con il titolo di Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione). Con quel termine egli si riferiva all'effetto del processo di intellettualizzazione e razionalizzazione che costituiva per lui l'essenza del capitalismo. Da allora, il disincanto ha fatto molta strada e ha preso la forma della mercificazione di ogni esistente, esseri umani compresi, perché ridotti a cose, strumenti e non fini. Negli ultimi decenni, la razionalità neoliberista ha spinto gli esseri umani sempre più verso un progressivo processo di desolidarizzazione. Le dinamiche che vigono in economia hanno finito per invadere e determinare anche la sfera privata e relazionale, portando a considerare sé stessi, gli altri e la natura in un'ottica strumentale, di prestazioni e guadagno. Il Sé, l'altro e la natura sono stati ridotti a cose manipolabili per i fini del mercato: quanto si possono sfruttare? Quanto se ne può ricavare? Questo significa oggi disincanto. Se non che, ciò che l'uomo desidera nei recessi più profondi e più intimi di sé stesso, ci ricorda il filosofo basco Fernando Savater, e da cui tutti gli altri desideri discendono, è di non essere cosa (El contenido de la felicidad).
Ora, se questa è la situazione, la mia domanda è se non possiamo muoverci noi, singolarmente, quando non si muovono le condizioni oggettive e non s'intravedono soluzioni collettive, chiedendo alla filosofia che cosa si possa fare, individualmente, per contrastare questa frustrazione nell'universo dei valori, questa crescente perdita di senso dell'esistenza. L'individuo che non trova più conferma delle proprie convinzioni nell'ideologia politica e che sente di non essere appagato dalla fede religiosa in un qualche problematico aldilà, non può imparare a liberarsi da sé dai troppi condizionamenti di questo modello socioeconomico? La mia risposta è sì. Il singolo ha una vita sola, e non può attendere i tempi di maturazione della società o della politica affinché essa cambi. Può invece avviare responsabilmente da sé un processo di autoliberazione e di autoformazione. E può farlo, cominciando col rimettere al centro della propria attenzione la persona con i suoi valori, contro la progressiva banalizzazione dell'esistenza. È qui che si aggancia il discorso sulla gentilezza.
A fronte del significato di mercificazione di ogni esistente assunto dal disincanto postmoderno, reincanto ha da significare allora religiosità, religiosa cura del vivente, rispetto per ogni essere umano e per la natura, che vanno considerati «fini in sé», come chiedeva Kant, e non esclusivamente «mezzi per noi». Superare il disincanto dell'utile, del funzionale, del calcolabile, del quantificabile, per incontrare sé stessi, l'altro e la vita, per riscoprire lo straordinario nel quotidiano, il dialogo, il silenzio, l'ascolto, la crescita culturale, la comunicazione autentica, l'immedesimazione e il sentimento della comunione di destino. E perfino l'amore. (Su questi temi ho pubblicato cinque strategie del reincanto: Sul dialogo, Il libriccino del silenzio, Filosofia del camminare, L'arte di amare, Il magico mondo dei libri). La devastazione dell'ambiente e della morale, la degradazione delle relazioni umane sono anche figlie del disincanto a oltranza, della «desacralizzazione radicale del mondo in cui viviamo» (Savater).
Anche Umberto Galimberti sospetta che la malattia dello spirito contemporaneo derivi dall'aver perduto non tanto Dio quanto l'incanto del mondo, la capacità di trovarvi «un riflesso dell'anima». Per James Hillman abbiamo svuotato il mondo della sua anima (L'anima del mondo e il pensiero del cuore). Viviamo continuamente indaffarati nell'inessenziale, è per questo che abbiamo l'impressione che l'esistenza sia soprattutto «una continua fuga, un divenire in perdita, lo svanire di qualcosa che non si è mai posseduto, che non c'è mai stato» (Claudio Magris, Alfabeti). Lo sentiamo che nella vita c'è qualcosa di veramente desiderabile, però questo desiderabile ci sfugge sempre, perché abbiamo sempre qualcos'altro da fare. E allora tutta la nostra vita, quotidianamente presa da questo qualcos'altro, finisce per ridursi a fare qualcos'altro (Francesco Alberoni, Innamoramento e amore).
È questa la vita che ci viene quotidianamente sottratta – insieme al tempo per viverla – da una continua deviazione della nostra attenzione e delle nostre energie su cose futili e banali, che non faranno mai biografia: è la vita interiore, la vita dell'anima. Gli ultimi trent'anni ci hanno lasciato solo un corpo e una mente – facilmente sostituibili da quelli di chiunque altro – e ci hanno svuotato della spiritualità, della nostra interiorità, del luogo cioè in cui noi siamo veramente unici e insostituibili, dove proviamo emozioni e sentimenti, dove sappiamo soffrire e gioire, dove possiamo trascenderci grazie alla bellezza. L'etica del reincanto è dunque una proposta di ri-orientamento esistenziale, una sorta di bussola per la conduzione della vita.
Nel febbraio del 2017 riprendeva a Parma l'annuale ciclo di conferenze filosofiche Pensare la vita, che quell'anno aveva per tema L'arte di vivere. Io proposi di parlare della gentilezza, perché mi pareva che rientrasse bene nell'arte di vivere e fosse al tempo stesso una forma di reincanto. Ma come mi sia venuto in mente quell'argomento, francamente non lo ricordo.
Il suo testo si sviluppa come una conversazione con un giovane interlocutore, quasi a ricalcare il rapporto maestro-studente tipico della Grecia antica. Nella scrittura si rivolge a un Tu particolare, oppure si tratta di un dialogo aperto con le nuove generazioni? Ritiene che ci sia spazio nel mondo globalizzato per la riscoperta della gentilezza, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti in quanto neo o futuri cittadini del mondo?
Uno dei miei difetti è quello di pensare sempre il rapporto con í giovani come un rapporto pedagogico. Forse perché sento la differenza di età e di esperienze. Non ho amato molto parlare a intere scolaresche: è dispersivo e mi sembra di non rivolgermi a nessuno in particolare, ma a un soggetto collettivo indistinto. Invece ho sempre amato molto il rapporto a due. Sì, forse questo fa un po' Grecia antica. E poi, in quanto adulto, concordo con Bertrand Russell quando scriveva come esergo alla sua Storia della filosofia occidentale: «Insegnare a vivere senza la certezza e tuttavia senza essere paralizzati dall'esitazione è forse la funzione principale a cui la filosofia può ancora assolvere nel nostro tempo, per chi la studia». Insegnare a vivere: era questo che mi piaceva nel rapporto coi giovani. Non insegnare cosa ha detto Hegel o cosa ha detto Kant, secondo il riassunto del manuale. Ma insegnare a vivere. Servendomi ovviamente anche dei filosofi, così come degli scrittori e dei poeti. E perfino dei film o delle canzoni. Ne parlo nel mio ultimo libro Itaca. La navigazione della vita (commento a Kavafis).
No, non si trattava di un Tu particolare, è che mi capita spesso di rivolgermi a un Tu, così, del tutto spontaneamente. Il primo opuscolo che ho pubblicato, di sole 12 pagine, al prezzo di 1 euro, si chiama Lettera ai giovani sull'amore. Anche là mi sono rivolto a un Tu, forse a un figlio e a una figlia immaginari che non ho. Come scrivi tu: è forse il desiderio di un dialogo aperto con le generazioni più giovani. Un altro dei miei opuscoli, Il mondo che vorrei, inizia così: «Mia dolcissima giovane amica, mi chiedesti un giorno, mentre scendevamo dai monti in uno splendido autunno di sole, di descriverti il mondo che ho sognato, il mondo che vorrei. Lo chiedevi a me, che ho la maggior parte della mia vita alle spalle, affinché il mio racconto ti aiutasse a orientare meglio la tua, che ti attende davanti. Come vedi, non ho dimenticato la mia promessa di farlo. E se non ti ho risposto subito, è perché mi sono riservato il tempo di dedicarmi interamente a te, con tutto il mio affetto e la mia attenzione. Le risposte, sai, non stanno sempre bell'e pronte nella mente. A volte occorre lasciare che sia il cuore a trovarle». (L'accenno alla montagna discende dal fatto che per 17 anni ho accompagnato dei gruppi a camminare in montagna).
Deve esserci questo spazio per la riscoperta della gentilezza. E nella misura in cui non c'è, dobbiamo impegnarci a crearlo. In ogni occasione possibile. Nella quotidianità. Quanto ne saremo arricchiti anche noi!
Nella lettura di Gentilezza ho trovato notevoli punti di contatto con due filosofi contemporanei, di cui ho cercato di analizzare la costruzione filosofica circa la comunicazione, ritrovandone dei tratti riconducibili alla categoria di gentilezza. In modo particolare, il focus è stato posto su Verità e interpretazione di Luigi Pareyson e Chiarificazione dell'esistenza di Karl Jaspers: in entrambi gli autori è attribuita una notevole importanza all'apertura sincera nei confronti delle prospettive altrui, che rappresentano l'unico e indispensabile mezzo per un confronto interpersonale autentico. Ritiene che ci siano consonanze tra il loro impianto filosofico e i concetti da lei espressi in Gentilezza? Può la gentilezza essere modalità di facilitazione per un dialogo volto a un ampliamento della comprensione della realtà dei singoli e delle comunità?
Credo in effetti che ci siano le consonanze a cui fai riferimento, anche se conosco meglio Karl Jaspers di Luigi Pareyson, che tuttavia stimo molto. Ti confesso che trovarmi collocato in compagnia di due autori di questo calibro mi ha fatto tremare le vene nei polsi! Il primo, un grande maestro; il secondo, un gigante addirittura. Ma se la lettura dei loro libri e del mio opuscoletto ti ha dato qualcosa, ne sono molto lieto. Fra l'altro, so bene che le mie modeste considerazioni vanno d'accordo con l'esistenzialismo. Anzi, con gli esistenzialismi, al plurale. Ho imparato molto da questa corrente di pensiero, già a partire dalla frequentazione di Soren Kierkegaard tanti anni fa. Fu lui a spostare decisamente i miei interessi dalla Storia della filosofia all'Etica, con le sue domande inquietanti.
Sono passati tanti anni ormai dal giorno in cui mi colpì profondamente una sua domanda che poneva a bruciapelo in Aut-Aut: cosa ne diresti, diceva, se chiedessi alla filosofia cosa deve fare l'uomo nella vita? È davvero un argomento terribile contro di essa, se non ha nulla da rispondermi. Ciò che m'interessava riguardava il mio orientamento sul mondo e nel mondo, il mio bisogno di dare un'impostazione alla mia vita, di avere dei riferimenti che mi aiutassero a capire dove mi trovavo nel mio cammino, non la storia della filosofia occidentale o quella della Chiesa di Danimarca. Queste sono informazioni per la mente. Quelle sono domande per lo spirito, vale a dire formazione.
Jaspers è stato uno dei miei autori, anche se non dei più importanti. La sua Psicopatologia generale mi suggeriva delle osservazioni fondamentali, ad esempio quella secondo cui l'anima non è uno stato definitivo, ma un divenire, evolversi, svilupparsi. Oppure quest'altra: la malattia psichica ha le sue radici nell'insieme della vita e per la sua comprensione non si può staccare da essa. Un'osservazione che ebbe grandi conseguenze in psichiatria. O ancora: ci sono profondità dell'essere umano che non si possono conoscere psicologicamente, ma che solo la filosofia e la poesia possono illuminare. Questa colpì molto Eugenio Borgna. O questa: colui che descrive cerca di fornire al lettore, usando un linguaggio comune, un quadro vivace, chiaro, senza elaborare concetti. Nel suo stile c'è qualcosa di artistico. L'analitico invece non traccia quadri. Egli pensa più di quanto possa osservare, e ogni osservazione si trasforma immediatamente per lui in un lavoro intellettuale. Uccide il fatto psichico vivo, per possederne i concetti. Per questo, tutto ciò che ha acquisito è una base sulla quale può costruire sistematicamente, secondo un piano. E qui cade la differenza fra spiegare e comprendere. La comunicazione avviene sul piano del comprendere. La scienza sul piano dello spiegare. Oppure la sua Psicologia delle visioni del mondo, dove afferma che la vita è un compito, una responsabilità, un'esperienza a cui non si può porre un termine conclusivo. Ma ho attinto molto anche ad altri esistenzialismi, a JeanPaul Sartre (con la sua idea del farsi progetto a sé stessi), a Martin Heidegger (trascendere il puro esserci per fondare se stessi, per diventare esistenza).
Il suo libro traccia un profilo ben definito della categoria della gentilezza, identificandola come una scelta consapevole e costantemente rinnovata da parte del soggetto, e offre interessanti spunti applicativi validi per ogni situazione. Nel testo, come anche in Pareyson e Jaspers, si fa riferimento alla reciprocità come vincolo alla nascita di una comunicazione autentica. Nonostante ciò, è possibile, a suo avviso, applicare la gentilezza in contesti oppositivi? Come si può fare, e quali sono secondo lei i risvolti dell'utilizzo della gentilezza in terreno di conflitto?
Temo proprio che non sia possibile. Temo che la gentilezza possa praticarsi solo su un terreno di reciprocità, anche se inizialmente magari un po' scettica e sospettosa. Personalmente, sono molto intollerante nei confronti degli arroganti e degl'intolleranti. Ciò che credo si possa fare è tentare di ammorbidire le reciproche posizioni, cercare se non vi siano punti d'intesa. Ma quando non ci sono, quando l'altro non ha alcuna intenzione di porsi sul terreno del dialogo, la gentilezza è inapplicabile. Io non sono per «porgere l'altra guancia». D'altronde, se ci pensi, Luigi Pareyson ebbe un ruolo nella Resistenza contro il nazifascismo. Ciò significa che si scontrò con il muro dell'impossibilità di dialogare, di comunicare. In quel momento, la gentilezza con il nemico mortale diventa inapplicabile. Il rispetto e la reciprocità sono i fondamenti essenziali su cui si può sviluppare e praticare la gentilezza. Quando l'altro si sente rispettato, lo si dispone già a essere gentile. Ma se manca il rispetto, si ha prima l'esigenza di farlo valere. Quando l'altro Mostra l'intenzione di sopraffarci, bisogna ricorrere ad altre strategie: o la fuga o lo scontro frontale. Oppure, quand'è più grosso, l'astuzia di Ulisse.
La scelta della gentilezza si configura come un atto libero del singolo, ma gli effetti di questa decisione si riflettono anche su tutta la collettività. Sarebbe auspicabile, dunque, che la modalità di vita gentile fosse estesa il più possibile nella comunità in cui si vive, in modo da favorire il confronto aperto e la convivenza serena tra persone. Come si possono, a suo avviso, incentivare le soggettività ad abbracciare l'uso della gentilezza? È un processo possibile?
Beh, io credo che in molti casi la gentilezza sia contagiosa. Come ho scritto, mi pare, nell'opuscolo, gentilezza è anche il riconoscimento che l'altro ha, come noi, un'anima, una sua verità, una sua dignità, una sua finalità in sé. Quando percepisco che la persona che ho di fronte è disarmata, fragile, vulnerabile, che è magari frustrata dalla vita, amareggiata, mi viene spontaneo essere gentile, tenderle una mano. A volte basta una parola, un sorriso, una piccola attenzione, guardarla negli occhi. Questo le fa sentire che è accolta nel mondo, che è accolta dai suoi simili, non rifiutata con indifferenza. «La gentilezza nasce probabilmente da qui, dalla capacità di cogliere l'invisibile, di prestare attenzione alle emozioni nascoste, in noi e negli altri, nel riconoscere il comune destino. Cominciamo allora ad accorgerci, da un gesto, da uno sguardo, da una risposta, da minimo segno, che ogni persona che incontriamo è alle prese, proprio come noi, con la difficoltà di vivere. Evitiamo di aggredirla, avviciniamola con gentilezza, perché, se incontra solo gente aggressiva, si chiuderà sempre di più al mondo». E se noi siamo gentili con lei, è assai probabile che anche lei sia gentile con noi. Søren Kierkegaard annotava nel suo diario che «la trasparenza dell'esistenza esige che si sia ciò che si insegna». La responsabilità verso l'altro risiede anche, e forse soprattutto, nell'esempio che si dà con la propria conduzione della vita.
Alla tua ultima domanda le cose si complicano un poco, perché credo che entri in causa l'empatia. Empatia è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri e di reagire con sentimenti consoni. È una reazione affettiva alle emozioni dell'altro che consente di capirlo, di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d'onda. Ora, da un lato, essa pare avere un fondamento biologico, dall'altro ha certamente un fondamento culturale. In anni recenti la neurologia ha provato a cercare nella biologia la sede della genesi del male (a mio giudizio, la spina nella carne di tutti i filosofi). Scrive Simon Baron-Cohen (La scienza del male. L'empatia e le origini della crudeltà) che se si guarda al concetto di male per analizzarlo, non c'è alcuna spiegazione, mentre quello di empatia pare avere una capacità esplicativa. Il grado zero dell'empatia significa non avere consapevolezza di come ci si relaziona con gli altri, ignari che ci possano essere anche altri punti di vista. In Questione di cervello sostiene che il cervello maschile sembra essere programmato per la "sistematizzazione", ha la tendenza ad analizzare, a vagliare ed elaborare sistemi. Qualsivoglia sistema: motori d'auto, computer, scienza, matematica, ingegneria. Ma se il mezzo più adatto a capire e prevedere eventi e il funzionamento di oggetti è la sistematizzazione, il mezzo più adatto a capire una persona è invece l'empatia. Che sembra essere una caratteristica preferenziale del cervello femminile. Si tratta di due processi diametralmente opposti, che dipendono da regioni cerebrali distinte. Essere empatici significa leggere il clima emotivo che si stabilisce tra le persone, mettersi facilmente nei panni degli altri. I maschi assumono che esista una rappresentazione oggettiva della realtà, che ovviamente corrisponde alla loro versione dei fatti. Le donne, invece, partono dall'assunto che nel mondo vi sia la soggettività e lasciano spazio alle interpretazioni diverse, ognuna delle quali ha diritto di essere considerata valida.
Tra i fattori biologici che hanno buone probabilità di contribuire sensibilmente alle differenze tra cervello maschile e cervello femminile, afferma Baron-Cohen, vi è il sistema endocrino. I maschi producono più testosterone delle femmine, già prima della nascita. Il livello ormonale influirebbe sulla capacità di provare empatia. In particolare, più testosterone circola nel sangue, più il cervello sa comprendere i sistemi e meno sa cogliere le sfumature delle relazioni affettive. Un cervello dotato in misura media di entrambe le caratteristiche (empatia e capacità di sistematizzazione) sarebbe l'ideale. Il maschio sembra inoltre orientato a considerare gli altri e il mondo sul piano di una strategia (Mino Vianello, Genere spazio potere. Verso una società post-maschilista): non solo di spiegazione e di ordinamento, aggiungo io, ma anche di sfruttamento, di dominio, di sottomissione, di annientamento. Dunque come oggetti, mai come soggetti. Se da un lato è assai probabile che gli uomini non avrebbero potuto sopravvivere nella natura senza questa ragione strategica orientata all'esterno, non si può negare che essa abbia finito con l'estendersi al rapporto degli uomini fra di loro. Mentre è evidente che un approccio strategico, finalizzato al dominio, non è l'unico modo di relazionarsi. Tantomeno il più indicato a salvaguardare l'esistenza dell'umanità in questo particolare momento della sua storia. Se questo atteggiamento è estraneo alle donne è perché la percezione della propria soggettività consentirebbe loro di cogliere anche l'altro come soggetto.
Sventuratamente, a mio modo di vedere, il modello culturale e socio-economico patriarcale-maschilista in cui viviamo tende a sviluppare anche nelle donne solo il lato maschile della loro mente e dunque a promuovere anche in loro un approccio esclusivamente strategico agli altri, riducendo due diversi modi di intenzionare il mondo (cioè di attribuirgli un significato) a uno solo, quello maschile: un impoverimento assoluto, una perdita secca per l'intero genere umano. Dare voce in sé stessi a una mente androgina, come auspicava Virginia Woolf, a quella maggiore felicità creativa che si prova quando le due metà della mente, maschile e femminile, si congiungono, mi appare oggi come la realizzazione più urgente e più autentica di sé, come un obiettivo degno di essere perseguito con il massimo impegno e il più grande entusiasmo. Ora, le donne hanno già dato prova sufficiente di saper esercitare il lato maschile della loro mente anche meglio dei maschi, quando possano godere delle medesime condizioni, giacché vi sono state obbligate. Quand'è che i maschi seguiranno il loro esempio e impareranno ad ascoltare il lato femminile della propria? Quand'è che maschi e femmine impareranno finalmente ad attivare entrambi i lati della mente? Un'etica del reincanto non potrà affermarsi veramente senza questa rivoluzione. Che è sempre individuale, personale. Che grande obiettivo sarebbe, a cui la scuola di ogni ordine e grado dovrebbe mirare, insegnando ai ragazzi a coltivare il genio dell'infanzia, ad amare la poesia e i poeti, a valorizzare la propria creatività anche in questa direzione e non soltanto in quella matematica, fisica, informatica o economica; ad ascoltare emozioni e sentimenti, a riconoscere che la mente di ciascuno non è una ma due, maschile e femminile insieme. Questo si chiamerebbe veramente educare, formare. Che grande scuola di autentica democrazia sarebbe allora! In caso contrario, una scuola di pura informazione sfornerà solo cervelli maschili per il mercato, che non si pone certo come fine il bene degli esseri umani, ma esclusivamente il profitto di qualcuno.
(FEERIA, 2022/1 - n. 61, pp. 8-14)
La vita come discernimento
Gianluca Zurra
Il “discernimento” è una parola tradizionale della fede cristiana. Pensiamo, per esempio, al discernimento spirituale, fatto di ascolto e di preghiera, di aiuto reciproco e di suggerimenti fraterni. Dai più semplici monasteri fino alle più grandi abbazie, come dalla quotidianità delle nostre parrocchie fino ai grandi Concili, il discernimento rappresenta una tappa decisiva, tramite cui si realizzano le scelte ecclesiali più importanti, nell’intimità della coscienza come nello spazio pubblico, in genere dopo attenti confronti e verifiche.
Oggi, rimettendo al centro la forma sinodale della Chiesa, si è riscoperto questo processo di decisione, che coinvolge l’interiorità, certo, ma sempre dentro un contesto di relazioni comunitarie. Dire sinodalità, dunque, significa dire “percorso di scelta”, poiché senza la ricerca e il raggiungimento di una effettiva decisione comune il cammino sinodale rischierebbe di rimanere sterile.
Ci soffermiamo, allora, su questa parola, così antica ma anche bisognosa di essere riletta per la nostra situazione odierna.
La vita come discernimento
Per prima cosa è necessario ricordare che la vita stessa nel suo insieme è discernimento, cioè una vera e propria iniziazione a saper scegliere imparando a separare, a distinguere, a lasciare, a non volere tutto. Il senso di ogni cosa, infatti, non si dà per facile trasparenza immediata, ma può essere colto solo attraversando, leggendo e assumendo con libertà e responsabilità ciò che succede lungo la strada dell’esistenza. Inoltre, per il fatto che la nostra umanità è plurale, sinfonica, a più voci e non monolitica, il confronto tra le diversità non può essere evitato. Discernere, pertanto, richiama la nostra unicità di esseri umani, grazie alla quale non ci limitiamo a vivacchiare biologicamente, ma ci lasciamo interpellare dalla vita e con fatica scegliamo a proposito del futuro e del nostro posto nel mondo.
La tentazione più grande, oggi, sembra duplice: da un lato ritenere che si possa vivere senza decidere, quasi cercando di restare alla finestra senza scendere in strada, e dall’altra immaginare che il discernimento possa accadere tra sé e sé, nel chiuso del proprio intimismo, senza quella rete di relazioni, fatte di persone, di ambienti, di cose che ci circondano.
Scegliere, invece, si deve ed è possibile nella misura in cui ci si fida a tal punto da abbassare le proprie difese, per scoprire che proprio gli altri hanno qualcosa di unico da dirci a proposito di noi stessi. Fiducia e apertura sono il doppio motore del discernimento, che potrà giungere così ad un taglio, ad una separazione che fa partire, nascere e decidere: chi vuole tenere tutto non prenderà mai una direzione, ma tenderà a girare freneticamente come in una rotonda, senza scegliere davvero una strada.
Il cristianesimo si è intrecciato da sempre con questa profonda esigenza umana, presentandosi come la “Via” inaugurata da Gesù che, senza sostituirsi alla libertà, le permette di compiere il duro lavoro della scelta, evitando che resti a galleggiare “a metà strada” priva di una destinazione buona.
Il discernimento di Gesù
Gesù è riconoscibile come Maestro e Signore grazie al suo modo unico di leggere la realtà e di fare discernimento lungo tutta la sua vita. Basti pensare ai due grandi “deserti” da lui vissuti: le tentazioni[1], che lo spingono a rivelare il Padre secondo una logica di violenza e di spettacolarizzazione, a cui resiste dopo una lunga lotta di riflessione a partire dalle Scritture, e l’orto degli ulivi[2], luogo della sua decisione più drammatica, quella di continuare fino in fondo a testimoniare l’amore anche nel rifiuto violento che gli uomini gli stanno preparando.
Eppure, questi momenti di intima solitudine sono pieni di tutte quelle relazioni che il Figlio di Dio vive sulla sua pelle e tramite cui soltanto può fare discernimento a proposito del desiderio buono del Padre verso di lui. Nel gesto battesimale del Battista, inatteso e sorprendente, Gesù approfondisce il senso della sua identità udendo la voce dall’alto, mentre nei molteplici incontri lungo la strada comprende sempre meglio l’universalità della sua missione. Grazie alla rilettura della Legge e dei Profeti dà forma alla sua esistenza, fino a scoprire il Regno di Dio nelle cose di tutti i giorni e nella imprevista accoglienza dei piccoli e dei semplici. Quello di Gesù è uno sguardo di discernimento continuo, per il quale nulla di ciò che viene “dall’alto” può essere percepito senza il continuo attraversamento, saggio e profondo, di tutto ciò che arriva “dal basso”.
Uno dei brani evangelici più significativi a proposito del discernimento è senza dubbio Lc 12, 54-59: Gesù rimanda i suoi interlocutori alla responsabilità della loro coscienza, senza sostituirsi alla libertà consapevole a cui ciascuno è chiamato. La capacità di discernere il cambiamento del tempo atmosferico ricorda la necessità di saper valutare il tempo presente: “perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. L’esempio che viene utilizzato è spiazzante, ma assai suggestivo: sapersi accordare con l’avversario lungo la strada è conveniente, almeno per evitare violenze e ingiustizie più grandi. Colpisce come lo sguardo del Figlio di Dio sia molto concreto, liberando il discernimento da una cornice moralistica, per introdurlo invece nella logica, spesso drammatica e difficile, della costruzione della fraternità e della pacificazione. La fede, di cui Gesù è iniziatore e accompagnatore, diventa così criterio di scelta e direzione possibile per la coscienza, che non viene sollevata in modo infantile dal suo lavoro, ma condotta a muoversi con saggezza nelle molteplici esperienze della vita.
Per il medesimo motivo Gesù chiama a sé una comunità di discepoli e consegna loro, non a singoli, il compito missionario del discernimento evangelico, tramite un processo che diventerà fondamentale per la forma sinodale della Chiesa. Ne è testimonianza l’inizio del capitolo 10 di Luca[3]: i discepoli vengono inviati a due a due, non da soli, verso un contesto in cui è necessario prima di tutto cogliere la grande e promettente quantità della messe. Seguono poi alcune indicazioni su come muoversi nell’annuncio, con mezzi poveri e con libertà di spirito, senza protagonismi o invadenze che intacchino la libera accoglienza del vangelo. C’è poi un ritorno degli inviati, che raccontano e fanno un resoconto comunitario dell’accaduto; ma c’è bisogno di una ulteriore parola di Gesù perché ciò che succede possa essere pienamente compreso. Invio, stile evangelico, racconto e disposizione alla revisione del proprio lavoro sono i passaggi fondamentali di ogni discernimento, che è sempre relazionale, mai intimistico o magico.
Che Gesù ne sia davvero maestro lo si nota già nell’episodio della sua adolescenza, quando rimane al tempio di Gerusalemme senza ritornare nella carovana famigliare[4]. É suggestivo che proprio qui venga utilizzato il termine “sinodo” (comitiva, strada insieme): il Figlio adolescente riesce a discernere il luogo in cui deve stare in quel momento grazie alle molte voci “sinodali” della sua famiglia e della sua casa, comprese quella di Giuseppe e di sua madre, Maria. Certo, i genitori si stupiscono, ma a loro volta comprendono, mossi al discernimento, che ciò che sta accadendo è generativo: ogni vero percorso sinodale conduce a trovare una strada, un posto in cui poter dire: “qui e in questo modo ci si può occupare al meglio e insieme delle cose del Padre, dentro la quotidianità della storia”.
Dunque, è la fede stessa di Gesù a manifestarsi nella forma di un discernimento sulla vita e per tale motivo egli diviene Signore di ogni discernimento chiesto a chiunque si lasci condurre e rinnovare dal racconto evangelico. Un elemento è chiaro: soggetto di questo lavoro è sempre una comunità, perché non è possibile decidere di sé indipendentemente dal rapporto con gli altri.
Il discernimento ecclesiale
Quali criteri possiamo raccogliere a proposito di un discernimento ecclesiale veramente sinodale, secondo la forma di Cristo e del suo Spirito? I passaggi di questo processo, che deve giungere a decisioni precise, possibili e concrete, sono almeno tre: “stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano, tenere al centro la profezia del racconto evangelico custodito dall’Eucaristia e creare luoghi istituzionali di decisione feconda e di revisione comunitaria. Tenendo sullo sfondo l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus[5] possiamo tracciare meglio questi tre passi.
“Stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano vuol dire stare con pazienza e fermezza sulla strada di tutti, ascoltando dall’interno ciò che succede nel cuore di ciascuno e attorno a noi, come Gesù verso i due discepoli smarriti. Non si tratta di ascoltare per giudicare e insegnare, ma per maturare un pieno e profondo “patire insieme”. Solo dentro questo lavoro di “compassione”, che istruisce e smuove il cuore, è possibile lasciarci guidare dalle Scritture, che aprono porte inattese lungo il sentiero. La richiesta accorata dei discepoli verso lo straniero incontrato perché entri e rimanga a tavola con loro è già frutto di un discernimento che non avviene a caso, ma che è stato suscitato da un confronto con i precedenti fatti di Pasqua illuminati dalla Legge e dai Profeti, a cui Gesù fa riferimento. Il discernimento si compie però solamente quando i due discepoli ripercorrono la strada all’incontrario, incontrando il resto della comunità e gioendo con loro per il riconoscimento del Risorto. Questo ultimo passaggio è ciò che ci manca di più nella Chiesa: non basta ascoltare la vita e le Scritture in maniera sinodale, ma si tratta di vivere sinodalmente anche il processo decisionale che scaturisce da quel discernimento, in modo che non sia in mano a uno solo o a un gruppo di pochi. È necessario che, anche chi ha la responsabilità ultima nel ministero, eserciti tale autorità dentro spazi e modalità che non cancellino il percorso precedente, ma lo assumano realmente e lo rilancino in vista di una sua revisione nuovamente comunitaria.
Solo attraversando tutti questi momenti, senza saltarne nessuno, il discernimento, compito fondamentale della nostra vita, compiuto da Gesù nella sua stessa esistenza, può diventare un reale cammino ecclesiale, tramite il quale è possibile, oggi come allora, scioglierci insieme nella professione di fede: “Abbiamo visto il Signore”. E a questo punto la sinodalità troverebbe la sua efficacia come effettivo processo decisionale nello Spirito, in grado di alleggerire e innovare: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”[6].
NOTE
[1] Cfr. Mt 4, 1-11.
[2] Cfr. Mc 14, 32-42.
[3] Cfr. Lc 10, 1-20.
[4] Cfr. Lc 2, 41-50.
[5] Cfr. Lc 24, 13-35.
[6] Cfr. 1Ts 5, 21.
Fiorire in qualsiasi terreno si è piantati
La memoria di tre donne
Alessandro D’Avenia
La vita è grande, buona, attraente ed eterna. Lo scrive nel suo Diario una ragazza ebrea morta ad Auschwitz a 29 anni: Esther (Etty) Hillesum, che voglio ricordare in vista della prossima giornata della Memoria. La scrittrice Elisabetta Rasy le ha dedicato un’intensa biografia (Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza) come gesto di gratitudine per averle fatto scoprire, in momenti oscuri, che vivere è trovare la propria forma, in qualsiasi circostanza. Lo stesso accadde sette anni fa a una mia alunna, sedicenne in crisi, alla quale prestai il Diario di Etty che mi restituì con una lettera: «Se prima mi limitavo a vedere il bianco e il nero, ora le sfumature fanno parte di me. Mi è impossibile non vedere cose che mi rattristano, ma non oso più incolpare la vita. Etty è così simile a me che leggendo mi sono sentita finalmente Bene (con la maiuscola), le sue parole sono uno specchio: è stato liberatorio ammettere che il dolore c’è e che anche qualcun altro lo ha vissuto. Etty mi ha insegnato molto con la sua giovane irrequietezza, forza, fede, ma soprattutto con il suo amore inarrestabile per la vita. Questo è ciò che il libro mi ha trasmesso: la forza la possiedo anch’io, devo tirarla fuori; i tesori li ho nell’anima. La vita non è mai sbagliata, bisogna ascoltarsi, ascoltarla. Ti lancia una sfida e le devi tener testa. Ne avevo davvero bisogno».
Una scrittrice nota e con tanti libri alle spalle e un’adolescente alle prime armi con la vita trovano in Etty la loro «memoria». Perché? La mia alunna aveva ricopiato dei passi e li commentava (parola che significa raccogliere nella mente: ricordare). Dopo queste parole di Etty: «Stai cercando di rinchiudere la vita in poche formule ma non è possibile, la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata. Ma semplice potresti essere tu», annotava: «Questa frase ha dato il via alla svolta. Mi ricorderà ciò che è bene non dimenticare mai». La memoria non è una soffitta di cose in disuso, ma la facoltà di ridare forma alla vita (la giovinezza di cui parla Rasy nel suo libro) quando ci sembra sia diventata in-forme se non de-forme. Etty amava leggere il Vangelo e fece sua una frase di Cristo: «Non siate in ansia per il domani, basta a ogni giorno la sua pena». Non è un invito alla rassegnazione ma alla lotta, infatti «pena» in questo passo significa letteralmente «ferita», qualcosa che brucia e manca, che non si può ignorare e richiede cura. Etty ne traeva alcune conseguenze in un’altra pagina scelta dalla mia alunna: «Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, dobbiamo offrire loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire».
Per Etty il male può esser superato solo curando, dentro di noi, la ferita che ci ha inferto: «Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi e non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi». La «metamorfosi» (tras-formazione, trovare forma, essere in forma) che la mia alunna cercava era descritta in un altro passo ricopiato dal Diario: «Vivevo sempre come in una fase preparatoria, come se ogni cosa che facevo non fosse ancora quella “vera”, ma una preparazione a qualcosa di diverso, di grande, di vero, appunto. Ora questo sentimento è cessato. Io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena viverla ora, oggi, in questo momento». Etty consegnava a un’adolescente paralizzata il segreto della vita buona, grande, attraente ed eterna (che vuol dire sempre giovane), non sposando la retorica di un ottimismo senza fondamento, ma affrontando e superando il male. Come? Invece di tentare di fuggire decide di rimanere a fare l’assistente nel campo per rifugiati della cittadina olandese di Westerbrok, dove scrive una frase che ho fatto mia e cito a chi mi dice che non si può più credere in Dio dopo i campi di concentramento: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio».
Anche io vivo momenti di buio in cui la vita mi pare senza senso, ma con Etty ho capito che sono proprio i momenti in cui Dio si manifesta come non me lo aspetto: un Dio che ha bisogno dell’uomo, di me, per continuare a ri-creare il mondo in quella situazione specifica. Etty lo dice così: «Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te». Etty decide di difendere e curare il divino che c’è in ogni persona: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Cercava in sé le risorse per riuscirci: «Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, che non è poi nient’altro che il mio esser ricolma di te». Etty «concepisce» (fa nascere) la propria e altrui divinità come compimento della propria e altrui umanità, come riconosceva anche la mia alunna: «Sono ricca di qualcosa che per me è grande e appagante: aver Dio con me». Etty scopre così che si può: «fiorire e dar frutti in qualunque terreno si è piantati” e infatti, come racconta Rasy: «al campo, va di baracca in baracca, porta ai più sofferenti il cibo e l’acqua calda che può trovare, qualche indumento per chi ne ha più bisogno... poi cerca un cantuccio per leggere e scrivere». Etty non rinuncia a essere e fare ciò che solo lei può essere e fare in quel «campo» così arido, fosse anche solo apparecchiare la tavola. Tutto era cominciato tenendo un diario con lo scopo di: «Trovare una forma, la mia forma», lavorare dentro tanto quanto fuori. Come sarebbe utile, in tempi di diffusa incoscienza di sé, coltivare a scuola questa pratica di scrittura e non limitarsi ai temi, per scoprire che la memoria è cosa viva: com-mentare salva la memoria, ram-mentare salva l’anima, ri-membrare addirittura salva il corpo. Etty tenne il Diario fino al giorno prima di esser deportata ad Auschwitz: partendo lo affidò a un’infermiera, era il frutto che lei, aspirante scrittrice, aveva maturato nel «campo» in cui era stata «piantata» e che nutre molti in cerca «di forma». La forma della memoria: ciò che non possiamo dimenticare per avere, in qualsiasi situazione ed età, una vita grande, buona, attraente ed eterna. PS. Del Diario di Etty esistono due versioni (da Adelphi), una ridotta che consiglio per iniziare, per poi aprirsi a quella integrale, come è accaduto a me
Dio esiste ed è qui!
Divo Barsotti
Se c’è la fede, tutto nasce da lì: ecco, Dio non è più un Dio
di carta, è il Dio vivente! Lo conosci, ma lo conosci in quanto è
una Persona, non lo conosci perché sai il catechismo, non lo conosci perché conosci la teologia, lo conosci perché l’hai veduto,
perché Egli è entrato nella tua vita, perché Egli si è manifestato a
te, e perché la manifestazione di Dio alla tua anima ha voluto dire
per la tua anima un desiderio incoercibile di essere unita a Lui e,
nello stesso tempo, una grande paura per il senso della tua debo[1]lezza, per il senso della tua impotenza, della tua povertà spirituale.
Conoscenza di fede che è molto maggiore, molto più importante
di una conoscenza teologica. Un teologo può parlare della Santissima Trinità fumando una sigaretta, ed è una cosa spaventosa, se
si pensa bene, ma lo può fare perché Dio è un Dio un po’ di carta,
un Dio con il quale si ragiona facilmente: è un Dio senza potenza, che non ha alcuna forza nella tua vita interiore. Perché? Per[1]ché la fede è poca, la fede è poca! Una persona, una donna, una
semplice donna, magari analfabeta, che non conosce altro magari
che un po’ di catechismo può vivere una unione con Dio, può vivere una fede più viva, anche dei teologi. Senza dubbio santa Teresa, o santa Gemma Galgani avevano più fede del vescovo della
loro diocesi. Pensiamo santa Gemma Galgani e il vescovo di Luca del tempo. È impressionante la differenza che vi è fra un vescovo buono ma mediocre, e questa anima che è totalmente presa
dall’amore del Cristo, che non vede altro che Lui, che non pensa
altro che a Lui, che vive una vita in cui veramente viene consumata dall’amore. Certamente la fede di santa Gemma era molto più
grande della fede del suo vescovo, anche se il vescovo era vescovo e Gemma Galgani era una povera scema, come lei si firmava.
Quello che conta nella vita religiosa, dunque, è la fede perché la
fede è l’organo che ci mette in comunione con Dio. Vorrei sapere: è lo stesso guardare una fotografia della montagna o scalare la
montagna? Vi sembra la stessa cosa? Vediamo, vi sembra davvero
la stessa cosa? Non credo davvero, ebbene quelli che vivono, che
parlano anche di Dio possono essere come quelli che guardano una
fotografia. Altro è guardare la fotografia, altro è scalare la montagna, altro è vivere un contatto vero con Dio. Guardate bene che la
fede vi deve mantenere in un contatto reale con una persona vivente. Dio è, Dio esiste, Dio è qui!
D. Barsotti, Brevi meditazioni, in «Rivista di Ascetica e Mistica» (2002) 1,
pp. 16, 15, 14.
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Un calcio alla morte.. far fiorire la vita
Alessandro D’Avenia
Gianluca Vialli è stato, nella mia adolescenza, un eroe di quello strano sport contro-evoluzionistico per cui l’abilità non dipende dalla mano, che ha reso l’uomo uomo, ma da un arto molto meno preciso: il piede (pedestre è un’offesa: «è fatto con i piedi»). Nel calcio anche il gesto più bello «è fatto con i piedi», la mano è vietata (solo Maradona l’ha resa, furbescamente, tocco divino): arcaica nostalgia di una danza primordiale che incanta l’altro per trafiggerlo nel suo territorio sacro (la rete) con il «colpo» che arriva quando non lo aspetti o da chi non lo aspetti. Per questo sport pedestre il mondo impazzisce come un tempo i popoli incitavano gli eroi su un «campo» di battaglia: attacco, difesa, ali, assedio, manovra, bordata, barriera, parata... Il calcio, se funziona, è guerra sublimata (i pacifici si scatenano, gli sconosciuti si abbracciano): tribalismo in purezza. Per questo la morte di un suo «eroe» mi ha ricordato quando Ulisse, nel suo viaggio di ritorno, fa tappa tra i morti e incontra Achille, che aveva preferito morire giovane ma glorioso nella guerra di Troia piuttosto che vecchio ma ignoto a tutti. Ulisse lo elogia ma Achille risponde che preferirebbe essere l’ultimo servo in vita piuttosto che il re nell’aldilà. Il guerriero famoso per le sue gesta è in crisi: che se ne fa della gloria da morto? Ma allora: per che cosa vale la pena vivere? Chi è veramente un eroe?
Eroe originariamente significava semplicemente «uomo», ma per essere pienamente uomini o donne ci vuole la qualità che si è saldata alla parola eroe: il coraggio. Quello di rispondere di noi stessi, intervenendo nella realtà grazie a una forza interiore che ci abita (desiderio) e ci spinge a essere un «mai prima d’ora e mai più dopo». Questo rende ogni persona eroe/eroina: insostituibile. Una vita compiuta è quindi una vita che prova a rispondere a una chiamata: che cosa puoi essere e fare solo tu? Gli antichi lo chiamavano destino, ciò che il fato decide per te, io preferisco destinazione: una libera risposta a ciò che la vita offre. La chiamata di ognuno, se solo ne osservassimo lo stato cristallino, brilla già nell’infanzia. Gianluca Vialli da bambino giocava tutto il giorno a pallone nella casa di campagna a Grumello, ma non gli bastava e andò a piazzarsi, sempre e solo in attacco, sul campetto dell’oratorio di Cristo Re a Cremona. È la storia di molti bambini, ma la differenza sta nel fatto che, quella chiamata, venne presa sul serio da qualcuno: così un destino diventa destinazione. Entra in scena Franco Cistriani, professore di Italiano che si divertiva ad allenare i giovanissimi del Pizzighettone, squadra in provincia di Cremona. Quando l’insegnante-allenatore vide il ragazzino, lo arruolò subito, lo fece migliorare e lo seguì fino a che non fu notato dalla Cremonese... il resto è storia. Questa fase della vita del calciatore è, come per tutti, il momento in cui la chiamata si manifesta con due tratti essenziali: il pezzo di mondo verso cui ci chiama l’energia del desiderio (le cose in cui «amar fare» e «saper fare» coincidono) e il maestro che ci mette in condizioni di rispondere alla chiamata. La vita, con quello che ci dà, pone la domanda, la riposta siamo noi stessi, il maestro aiuta a rispondere: non risponde al posto nostro (cosa che a volte i genitori fanno) e non dà risposte a domande mai poste (cosa che a volte accade a scuola). A noi adulti capita, prima ancora di aver scoperto il pezzo di mondo che li chiama, di imporre a bambini e ragazzi occupazioni, prestazioni, standard, carriere, aspettative, che spengono l’energia speciale e specifica di ciascuno o la dirottano fuori da loro stessi, dalla loro chiamata.
Gianluca Vialli amava giocare e sapeva farlo, ma senza Franco Cistriani, che lui stesso ha definito «il mio primo maestro», questa storia non la potremmo raccontare, almeno non così. Ma non basta. Quest’uomo non solo sapeva e amava fare il suo lavoro, era altresì capace di stringere e coltivare, anche in malattia, relazioni buone (famiglia e amici). Benché i medici lo frenassero, non rinunciava a trovarsi con gli amici e a lavorare fino a che ha potuto. Amore per il nostro da fare quotidiano e relazioni buone: due elementi che definiscono una vita riuscita. Come tutti, avrà avuto difetti, fragilità, cadute, ma ciò che resta è il «senso» dato dalla vita e alla vita, «senso» vuol dire infatti sia «significato» sia «destinazione». Eraclito, filosofo antico, diceva che la disposizione a diventare ciò che siamo chiamati a essere (ethos, il carattere che in greco significa anche casa) è il divino (daimon, tradotto anche con destino) in noi: questa originaria e originale disposizione nasce con noi e chiede di compiersi, ma noi possiamo tradirla (per mancanza di conoscenza e/o accettazione di chi siamo) o essere spinti a tradirla (abbracciando illusioni di destino proposte dall’esterno). Quando invece la vita diventa la risposta alla chiamata autentica, la morte non è una sconfitta ma, come nel calcio, la fine della partita. Il tempo della partita finisce (di-partita) per tutti, ma il punto è se il fischio finale, a prescindere dal risultato, ci ha sorpresi «in azione», l’azione di rispondere come solo noi potevamo fare. In questi ultimi tempi sono morti tanti «eroi», ma è facile distinguere chi era solo «famoso» e chi invece è stato «uomo», cioè «divino»: intorno a lui/lei è fiorita la vita e non solo l’ego.
La bellezza della vita..vedere l'invisibile nel visibile
di ENZO BIANCHI
Per affrontare in profondità un discorso sulla bellezza, occorre anzitutto il coraggio di dire che la bellezza è un enigma, anche se oggi se ne parla spesso con troppa ingenuità. Dall’alba della modernità risuonano come sempre attuali le inquiete parole di Albrecht Dürer: “Che cosa sia la bellezza non lo so”, perché ogni tentativo di definirla appare inadeguato, insufficiente. La bellezza è ambigua, come tutte le cose che si manifestano quali realtà terrestri, sperimentate dagli umani. La bellezza seduce, ferisce, intimorisce, esalta, ammutolisce…
Occorre fare una distinzione preliminare: c’è una bellezza cantata dalla fede, la bellezza di Dio, il Creatore, della quale fanno esperienza quanti e quante, grazie alla dýnamis dello Spirito santo, sanno esercitare i sensi della fede; c’è d’altra parte una bellezza delle creature esperibile da ogni essere umano, nella pienezza dei suoi sensi corporei. Il credente può addirittura dare del tu alla bellezza di Dio, confessando che la bellezza non è un attributo, una proprietà, ma un soggetto, Dio stesso, secondo le note parole di Agostino: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato” (Confessioni 10,27). Così nelle sante Scritture si proclama: “Splendido sei tu e magnifico, o Dio!” (Sal 76,5), e si afferma che Dio sarà la bellezza della città santa: “Dominus erit pulchritudo tua” (Is 60,19). Ma quando il salmista e il profeta dichiarano questo, si riferiscono a una bellezza confessabile solo nella fede, perché “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18).
Più facile da decifrare è la bellezza del Re Messia, celebrato come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45,3), cantato dalla sposa del Cantico con le parole: “Tu sei bello e grazioso, o mio amato!” (Ct 1,15). Ma nella misura in cui le Scritture si applicano al Messia Gesù, questa bellezza può essere intesa come “altra”, bellezza del pastore, di colui che si prende cura del suo popolo: “Io sono il pastore buono e bello (kalós)” (Gv 10,11.14); addirittura può essere non-bellezza, quando egli si rivela come il Servo del Signore: “Lo abbiamo visto, non aveva né bellezza né splendore” (Is 53,2). La bellezza di Cristo trascende il visibile: solo l’agápe, l’amore, è in grado di narrarla e dunque di indurre a contemplarla.
Vi è d’altra parte la bellezza delle creature, quelle che Dio, dopo averle create, vide che erano “cosa bella e buona” (tob: Gen 1,4.10.12.18.21.25); tra di esse si segnala l’adam, il terrestre, creatura “molto bella” (tob me‘od: Gen 1,31). Questa bellezza si offre alla nostra contemplazione: è la bellezza del cielo (cf. Sal 8,4); è la bellezza della natura, delle epifanie cosmiche (cf. Sir 42,15-43,33), nelle quali “ogni opera di Dio supera la bellezza dell’altra: chi può stancarsi di contemplare il loro splendore?” (Sir 42,25). Questa creazione è carica di bellezza, così che il libro della Sapienza può proclamare: “Tu ami tutte le creature esistenti, non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato … Come potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza, … o Signore, amante della vita?” (Sap 11,24-26).
Ma la bellezza delle creature – come si diceva – non è priva di ambiguità e di equivoci, perché può diventare bellezza dell’idolo, falso antropologico prima che teologico, può essere una bellezza seducente che induce alla tentazione: “la donna vide che l’albero era … affascinante per gli occhi” (Gen 3,6), così come era buono (tob) e appetitoso; e David, vedendo la bellissima Betsabea dalla terrazza della sua reggia, fu sedotto fino a causare l’omicidio di suo marito pur di averla (cf. 2Sam 11). Tutti conoscono la frase di Fëdor Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo” (ma nel testo de L’idiota si tratta di una domanda!); si dimentica però che per lui la bellezza è tanto quella epifanica, divina, quanto quella idolatrica che egli dichiara bellezza di Sodoma. Dunque entrambi queste bellezze feriscono: o sono effroi, “sorprendente spavento” – come amava dire Jean-Louis Chrétien – oppure inducono all’ékstasis, ma sono bellezze differenti!
Ogni essere umano è affamato e assetato di bellezza, ma il discernimento della bellezza rivelativa di Dio e della sua azione richiede un’educazione dell’intelligenza del cuore, un cammino di discernimento mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni bellezza. Più l’aspetto sensibile attira per la sua bellezza, più l’uomo è tentato di non ascoltare la propria interiorità, per restare invece catturato dall’esteriorità. Sono note le riflessioni contenute nel capitolo 13 del libro della Sapienza e, in particolare, in quel passo che intenerisce il cuore e, nel contempo, denuncia il processo di seduzione della bellezza, la quale desta il desiderio di possedere e di consumare:
Se gli uomini, affascinati dalla bellezza delle creature, le hanno prese per dèi …
se, colpiti da stupore per esse,
non sono stati capaci di contemplare,
attraverso la loro grandezza e la loro bellezza, il loro autore,
per costoro leggero è il rimprovero,
perché si sono ingannati cercando Dio e volendolo trovare …
e perché le cose viste sono belle (Sap 13,3-7).
Ecco il dramma della bellezza: è facile proclamare che la bellezza indica, in-segna, rivela Dio, ma fare l’itinerario attraverso la bellezza per giungere alla contemplazione della bellezza divina non è facile, anzi è drammatico! Basti pensare al volto, al corpo dell’adam, maschio e femmina: più vediamo il bello, più potremmo cogliere in esso il sacramento della bellezza di Dio; ma più facilmente noi umani, come incantati, scegliamo la via idolatrica dell’adorazione della creatura, ci prostriamo a causa della sua bellezza, fino alla cosificazione del bello, al consumismo del bello privato della sua soggettività e della sua sacramentalità divina. L’uomo è immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), ma non è così facile giungere a questo riconoscimento. Non a caso Gesù – come recita un suo splendido detto non canonico – ha affermato: “Hai visto un uomo, hai visto Dio”, rivelazione che dovrebbe causare soprattutto una responsabilità del soggetto verso l’altro.
Amo molto l’interpretazione della trasfigurazione di Cristo fornita dalla spiritualità orientale cristiana. Secondo alcuni autori non fu Gesù a trasfigurarsi, ma furono gli occhi dei discepoli che conobbero un processo di trasfigurazione e così furono resi capaci di vedere in lui ciò che prima non vedevano: egli era carne fragile come loro ma, nello stesso tempo, Figlio di Dio, immagine del Padre invisibile. Sì, noi abbiamo bisogno di trasfigurazione per percepire la vera bellezza, per vedere l’invisibile nel visibile.
In pegno
Alessandro D’Avenia
L’Epifania, appena trascorsa, è la festa dei doni, in alcune tradizioni è infatti il giorno dei regali. A proposito di doni, l’anno scorso mi ha colpito il gesto di un nuovo amico che, le volte che mi ha invitato a cena, alla fine mi ha regalato una bottiglia del vino bevuto durante la serata. Ho provato una gioia, credo, simile a quella di mia nipote quando va a una festa in cui ai bambini invitati viene offerto un piccolo regalo. Quando è l’invitato a ricevere un regalo significa che la sua sola presenza (presente in italiano è il regalo) è dono, e merita di essere sottolineata. Tutto questo mi è sembrato l’avverarsi di quanto avevo letto con stupore nel Signore degli Anelli di Tolkien: nelle prime pagine, che scoraggiano tanti lettori, è descritta minuziosamente la festa di compleanno di un hobbit, popolo che ha la consuetudine di fare doni, non al festeggiato, ma a ogni invitato. Questa inversione di ruoli potrebbe illuminare la faticosa vita ordinaria che ricomincia: l’Epifania, festa dei doni, non è la fine delle feste ma il loro fine. La radice antica della parola dono indicava infatti la creazione di una energia nuova attraverso un potere quasi magico (ne rimane traccia nel nostro «dote»). Perché?
Leggendo l’Odissea si rimane colpiti dal fatto che, nel congedare chi ha ricevuto ospitalità durante un viaggio, gli si offre un dono. Questo garantiva una rete di alleanze a distanza, necessarie in un mondo in cui avere un posto dove riparare era questione di vita o di morte. Ma perché proprio un dono? Un bene può avere due valori: d’uso, soddisfa bisogni, o di scambio, procura altri beni. Se ho una mela posso mangiarla (uso) o darla per un’arancia (scambio). Il dono invece inventa un altro tipo di valore, detto di legame: un bene donato fonda relazioni o rafforza quelle esistenti (ti regalo la mela per creare un legame). Da che cosa dipende? Gli antropologi hanno scoperto che è come se l’oggetto donato ricevesse un pezzo della nostra anima, che poi cercherà di tornare indietro, ma insieme a chi ha ricevuto il dono. Ma allora che differenza c’è tra un dono e uno scambio commerciale? Non si dice forse «scambiarsi» i doni? La differenza sta nel fatto che nel dono non c’è pretesa di contraccambio.
Nel caso dei doni la restituzione (del pezzo di me che nel «frattempo» rimane presso l’altro) è libera: la possibilità del contro-dono, senza scadenza, in questo modo trasforma il tempo in legame, mentre nel commercio il debito viene subito estinto (la relazione dura quanto la compravendita). Quando un fidanzato dona un diamante, mette un pezzo d’anima nel tempo del «per sempre». Il dono infatti, se non mira a manipolare, controllare o sottomettere, determina uno squilibrio «positivo», che genera e rigenera la relazione (generoso e generare hanno la stessa radice) nel tempo. Il dono apre la possibilità di un legame, in cui però l’impegno – vi risuona il nostro «dare in pegno» - a restituire è a scelta dell’altro. Se il contraccambio è preteso il dono è falso, mira al controllo, mentre il dono autentico «vincola liberando» o «libera vincolando», come i «legami» buoni (il contrario delle «catene»). Il contraccambio è rimandato all’infinito e lo squilibrio creato non è di potere ma di amore, che non è mai essere «in pari» ma «in gioco». Donare è una formidabile risposta umana al nostro essere «a tempo», dà senso al tempo perché il senso del tempo sono le relazioni. In questo periodo abbiamo ricevuto doni, benché la festa non fosse nostra: a Natale (come il mio amico a cena, mia nipote e gli hobbit ai compleanni, gli antichi greci con l’ospitalità) sono gli invitati a ricevere doni.
A Natale si narra che Dio si fa dono per creare una possibile relazione con gli uomini, tanto che, appena nato, riceve già il contraccambio da sconosciuti (pastori e magi) e, divenuto adulto, sintetizza così la sua esistenza: «Nessuno mi toglie la vita, ma la dono da me stesso, poiché ho il potere di donarla e il potere di riprenderla di nuovo». Questa frase è la definizione di libertà più bella e coraggiosa che io conosca: il dono è il culmine della libertà. Io per esempio ho scoperto una relazione vera con Dio solo quando ho imparato a ricevere doni da lui, liberandomi di un rapporto commerciale (superstizioso): io do questo a Lui e Lui è buono con me (religione, re-ligare, ha la radice di legame, ed è l’opposto di superstizione che invece significa sottomissione). Chi dona veramente cerca una relazione senza scadenza, chi invece lo fa per sentirsi «a posto» o per mettere «a posto» l’altro, non sta donando ma esercitando potere.
Donare è il segreto di ogni relazione duratura, non essere «in pari» ci «lega», non per senso di colpa o sottomissione, ma per magnificare gratuitamente l’esistenza dell’altro che, se e quando vorrà, risponderà. Un dono autentico dice: «è bello che tu esista, non perdiamoci». Ricominciata la vita ordinaria possiamo coltivare il «potere legante» dei doni: chiederci se in ciò che facciamo c’è un po’ di dono e fare piccole sorprese alle persone amate o da amare meglio. Potremmo anche inaugurare un «salva-donaio» in cui ogni settimana mettere un foglietto con su scritto il dono più bello, alla fine dell’anno potremo così leggere una cinquantina di «presenti» (in italiano i regali sono la «presenza» del donatore, come l’appello a scuola) che ci hanno «legato» alla vita nel 2023, momenti di «grazia» (da gratis) in cui un dono ci ha risvegliato dal sonno o dalla noia.
La gratitudine è il sentimento (ri-)creativo più potente che io conosca: quando ricevo qualcosa in pegno dentro me scatta l’impegno, un’energia che mi spinge, senza costrizione, a restituire alla vita ciò che mi ha dato, a lasciare in eredità più vita di quella ricevuta. È ri-conoscente chi è stato ri-conosciuto: a scuola, per esempio, i ragazzi sono grati (riconoscenti) se sono gratificati (riconosciuti). Il salvadonaio peserà più di tutte le fatiche dell’anno, perché conterrà il tempo salvato dalle relazioni, cioè dai doni ricevuti e dati. Nella mia prima settimana del 2023 ho scritto questo momento di grazia: «Una lunga camminata nel bosco innevato con la mia amata e due cari amici, per raggiungere una baita nascosta tra le montagne, dove abbiamo condiviso il pranzo del primo dell’anno». E voi?
Alessandro D’Avenia
Custodire e aumentare la vita di tutto e di tutti 2023
"Crisi permanente (Permacrisi)"
Per il dizionario britannico Collins la parola del 2022 è permacrisis (permanent crisis, crisi permanente): «Un periodo esteso di instabilità e insicurezza». Si è imposta all’attenzione mondiale in aprile quando Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, ha detto: «Alcuni dicono che viviamo in un’era di permacrisis: ci muoviamo da un’emergenza all’altra. Solo 10 anni fa abbiamo affrontato la peggiore crisi finanziaria dagli anni ’30, poi la peggiore pandemia dal 1919 e ora la più grave crisi geopolitica in Europa dalla fine della guerra fredda».
Qualche ora fa, brindando, ci siamo di sicuro augurati una parola migliore per il nuovo anno. Quale? Sembrerà paradossale ma la risposta è nascosta proprio dentro permacrisi. «Crisi» era infatti il gesto, descritto nell’Iliade, di separare e scegliere i chicchi nella spiga. La pula finiva in un fuoco (di paglia) e il grano nel pane. Crisi è quindi, non come vorrebbe Lagarde, uno stato permanente di emergenza senza sbocco e a cui siamo fatalisticamente sottoposti ma, come vuole Omero, uno stato di giudizio e impegno permanente: separare l’essenziale dal superfluo nel raccolto (dalla stessa radice di crisi vengono infatti parole come cer-nita, cer-tezza, de-creto, in/es-cre-mento...).
Insomma l’attuale stato permanente di crisi è un passaggio necessario al nascere di qualcosa di nuovo. Che cosa?
La crisi permanente è la fine di alcuni aspetti dell’epoca moderna che per sei secoli ha scandito il senso del nostro tempo: se i nostri orologi lo segnano in senso orario è perché così si muove la luce solare su una meridiana nell’emisfero nord, dove fu inventato l’orologio meccanico (se lo fosse stato in quello sud le lancette ruoterebbero al contrario). Adesso è entrato in crisi permanente ciò che in questo modello di rapporto con il mondo non funziona più:
1. Strappato alla natura ogni potere abbiamo ottenuto quello di autodistruzione: per la prima volta nella storia non abbiamo più potere sul nostro potere. Liberatosi del senso del limite della cultura precedente, da pezzetto di natura (mondo antico) o creatura (mondo medievale) l’uomo si è fatto creatore: non è sottomesso alla natura né riceve il mondo in custodia, ma lo crea con la tecnica.
2. Quest’uomo senza limiti si è paradossalmente ritrovato solo, atomo o individuo (due parole che significano indivisibile), ed ha dovuto costruire i legami sociali con il potere (politico, economico, culturale): la massa ha sostituito il popolo o la comunità.
3. La cultura, cioè l’insieme delle invenzioni per umanizzare la vita in ogni ambito, si è ispirata (la cultura nasce sempre dalla religione, cultura ha la stessa radice di culto) a una nuova fede: il progresso (il meglio è sempre da venire e da fare, più si accelera più saremo felici). Ma l’accelerazione necessaria a estrarre dalla realtà, divenuta miniera, ciò che serve al Progresso è spesso violenza (sfruttamento e inquinamento): la miniera si esaurisce, e noi con lei (la depressione è la malattia del secolo). La crisi sarà quindi permanente sino a che non trasformeremo questo tipo di rapporto con il mondo. La parola crisi ci aiuta ancora: in greco era anche il culmine di una malattia, oltre il quale o arrivava la guarigione o la fine.
La permacrisi sarà salutare solo se cambieremo lo stile di vita che ci ha fatto ammalare:
1. la tecnica è chiamata a mettersi al servizio del «naturale» contro ogni violenza trans-naturale o trans-umana;
2. la massa è chiamata a stringere relazioni autentiche, legami che non sciolgano (la liquidità di Bauman) ma coniughino l’unicità della persona con il tutto;
3. la cultura è chiamata alla cura e non all’esaurimento di ciò che è umano nell’uomo. A scuola, per esempio, la «permacrisi» c’è da anni. Abbiamo aumentato gli oggetti per rinnovare la didattica (nel culto del progresso è la tecnica che dovrebbe salvarci) ma non siamo riusciti di pari passo a far progredire i soggetti, seguendoli uno a uno per scoprire ciò in cui sono insostituibili per la comunità (la «crisi» della parola individuo potrebbe generare: insostituibile). Se il luogo fatto per umanizzare deprime insegnanti (burn out e precariato) e studenti (malessere e abbandono), va «criticato». Non si tratta di buttare tutto ma di separare paglia e grano: tecnologia a beneficio dei soggetti (servizio), relazioni generative per scoprire l’insostituibile di ciascuno (comunità), cultura per aumentare l’umano nell’uomo (cura). Esempi di conseguenze concrete: costruzione di spazi (aule) abitabili e belli, non centrati sugli oggetti (banchi o strumenti digitali) ma sui soggetti (relazioni); ricerca del vero-bello-giusto basata sulla collaborazione e non sulla competizione; continuità didattica per garantire cammini educativi personalizzati nel tempo (ogni ragazzo è speciale, cioè «specie protetta»); sostituire la paura (prestazione) con la curiosità (presenza) come leva dell’apprendimento...
Nel recente G20 a Bali, Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum, dettando la linea d’azione ai potenti del mondo, offriva come soluzione alla crisi... le cause stesse della crisi, contraddicendo i fini (sostenibilità, inclusione, transizione) con i mezzi proposti: «Se consideriamo tutte le sfide possiamo parlare di multicrisi: economica, sociale, politica, ecologica e istituzionale. Ciò che dobbiamo affrontare è una profonda ristrutturazione sistemica del nostro mondo. Il mondo avrà un aspetto differente dopo che avremo completato questo processo di transizione. Governo e imprese devono collaborare per diventare un pesce veloce, perché nel mondo di oggi non si tratta più del pesce grande che mangia il pesce piccolo, ma del pesce veloce che mangia quello lento».
Ancora una volta un’idea di rapporto con il mondo «moderna» e quindi ormai vecchia: imporre dall’alto una ristrutturazione operata da governi e imprese (cittadini non pervenuti) mangiandosi gli uni gli altri grazie alla velocità. È appena finito un secolo che ha mostrato i limiti di questa costruzione del mondo (definisco la mia identità attraverso lo scontro e lo sfruttamento dell’altro, mangiandolo): guerre nate da miti nazionalistici; malattie e danni ecologici scaturiti da esperimenti e sfruttamento senza limiti; eccidi di massa ispirati da ideologie belliche in cui la persona non conta nulla; ingiustizie sociali generate dall’accumulo di risorse nelle mani di pochi o dallo sfruttamento di categorie più fragili...
Questi frutti mortiferi mostrano ciò che manca all’emisfero in cui gli orologi segnano il tempo solo in un senso, ma che purtuttavia ha il merito di averli inventati. Il tempo ha anche un «altro senso», non mi riferisco solo alle istanze che vengono dal sud (geografico e sociale) del mondo ma a un «significato» diverso: custodire e aumentare la vita di tutto e tutti.