“ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul orso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il mio spirito
Card Newman
( Apologia pro vita sua,cit pp381-382)
...Sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboli, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del crocifisso amore.."
( da I nomi del bello e il mistero di Dio; Bruno Forte)
Un aprirsi della porta ed entrar nella luce, vivere in un continuo miracolo del presente, Cristo è presente. Nostra gioia.
L'uomo vive Dio nel sentimento del tutto. Tu sei tutto,ma anche tu, se Dio è in te. Nulla vi è al di fuori di te, nulla tu puoi cercare, perché quello che cerchi è già un te, se Dio è in te
Una vita vissuta "per-con-in Cristo" diventa una vita in cui si riscopre la "sacralità di tutte le cose" ed in cui realmente lo Sposo viene ogni giorno, ogni istante, in ogni azione ben ordinata, in tutto e tutti, perché "se crediamo, tutto è segno di Dio".
Divo Barsotti
Il cristiano è sollecitato così come da tutta la Scrittura, a imitare Dio, il mondo e le sue realtà sono un ostacolo alla sua "divinizzazione", alla sua santità, per il cristiano che vive secondo lo Spirito Amore, il mondo e le sue realtà sono la condizione stessa per divinizzarsi, per entrare per ciò che gli compete, nel disegno e nell'economia della salvezza dell'umanità e del mondo. Così come non v'è salvezza del mondo senza l'opera dell'uomo che lo conduce a perfezione, il cristiano non si salva senza il mondo, poichè è chiamato a santificarlo finchè "Dio sia tutto in tutti", Il mondo è il luogo e il mezzo grazie al quale il cristiano " guidato dallo Spirito" raggiunge la sua santità e il suo essere e vivere nell'Amore"
Padre Lorenzo Rossi
Perchè aiutare gli altri?
Piero Stefani
Non è scontato dare risposta a questa che sino a qualche tempo fa sarebbe parsa una domanda puramente retorica. Oggi, in particolare, è la spinta migratoria che costituisce il contesto «nuovo» in cui interrogativi scontati si ripropongono in termini drammatici, laddove il «come» arriva a mettere in crisi il «perché». Il peso del «come» è grande. Per essere in grado di aiutare gli altri - afferma Piero Stefani - occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche. In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Dobbiamo quindi rinunciare?
No, occorre innanzitutto non lasciare che l'accidia personale e collettiva così come il sentimento della paura o dell'incertezza del futuro abbiano il sopravvento. E, soprattutto, occorre porre come primo imperativo, antidoto d'ogni atteggiamento rinunciatario, quello di cercare di capire.
Per chi avverte nel proprio animo la spinta ad aiutare altre persone, un problema urgente, e spesso delicato e impegnativo, concerne il come farlo.
Quando, nella concretezza delle proprie esistenze, si tocca questo tasto, si comprende senza difficoltà che le buoni intenzioni tante volte non bastano. Ciò vale sia per la dimensione individuale sia per quella collettiva. Di frequente si è costretti a registrare impreviste ricadute negative delle azioni intraprese. Più volte, per scongiurare siffatti esiti, si ricorre a esperti del «come». In questi ambiti acquistano sempre più spazio le competenze tecnico-professionali.
A essere chiamata in causa è praticamente tutta la sfera delle scienze umane colte nel loro versante pratico. Economisti, sociologi, psicoanalisti, psicologi, pedagogisti, consulenti familiari sono le prime, ma non le sole, esemplificazioni che balzano alla mente. Anche sul versante spirituale, per affrontare simili snodi, ci si rivolge a determinate competenze, dalle più tradizionali, come il prete o il confessore, a quelle ispirate ad altre tradizioni religiose, parareligiose o sapienziali. In questi casi il bisogno di aiutare gli altri si intreccia, non raramente, con il sostegno che si cerca per se stessi.
Gli esiti non sono assicurati, a volte si fanno progressi, altre volte si patiscono invece delusioni tanto cocenti da far sì che il fallimento del «come» conduca fino a mettere in discussione il «perché» occorra impegnarsi. La frase colloquiale che suggella questo esito è: «Non c'è più nulla da fare».
L'esperienza attuale ci dice che la serietà della questione del «come» non deve far trascurare il problema del «perché». Non va infatti dato per scontato che prestare aiuto sia una caratteristica tipica della condizione umana. Essa non è presente in ogni circostanza nell'animo di tutti. Risulta quindi urgente trovare risposte alla radicale domanda: «Perché mai dobbiamo aiutare gli altri?».
In realtà, andare alla ricerca di solidi fondamenti per risolvere la questione significherebbe affrontare l'intera sfera della ricerca etica, un compito che va ben al di là della serie di riflessioni qui proposte. Senza alcuna pretesa di conseguire la completezza, ci si limiterà perciò ad avanzare alcune delle molte motivazioni che spingono ad aiutare gli altri.
Secondo una prima approssimazione è dato individuare cinque motivazioni di fondo che inducono a prestare aiuto agli altri. Le elenchiamo senza introdurre alcun ordine gerarchico. Va comunque precisato che esse, pur non escludendo l'aspetto collettivo, tengono soprattutto conto della componente individuale: occorre aiutare gli altri perché conviene; per un moto di compassione o solidarietà presente nell'animo umano; perché è comandato; per la radicale e comune non-autosufficienza della condizione umana; per non espandere il male presente nel mondo.
Al pari di ogni altra schematizzazione, anche quella qui proposta è in parte fallace; essa tende infatti a introdurre confini netti là dove, non di rado, ci sono incroci e sovrapposizioni.
II «proprio interesse»
Vi è un primo modo di declinare il problema che potremmo definire, in senso lato, economico e un secondo classificabile come relazionale (e in questo senso prossimo all'etimo della parola: «con-venire»).
Nell'ambito economico non è dato, per definizione, di prescindere dall'utile. La via da perseguire è mostrare concretamente che il conseguimento del proprio vantaggio implica l'incremento anche di quello altrui. Le formulazioni più tipiche di questo principio si ritrovano nell'ambito dell'economia politica classica. Scrive Antonio Genovesi: «Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti che per la sua felicità, sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l'altrui miseria e, se potete e quando potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse tanto più, purché non si sia pazzi, si debb'esser virtuosi. È legge dell'universo che non si può far la nostra felicità senza fare quella altrui».[1]
Nell'ambito dell'economia il primo fattore che muove a operare è la «propria felicità», il «proprio interesse», il «proprio profitto», il «proprio guadagno». Non può essere che così. La questione è far sì che il proprio tornaconto sia nelle condizioni di procurare vantaggi anche agli altri. L'economia liberale classica era fiduciosa che, per logica interna, nella sfera della produzione e dello scambio non vigesse la regola dell'homo homini lupus.
Secondo un celebre detto di Adam Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che essi hanno per il loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità»;[2] ma facendo i loro interessi i fornitori fanno anche quelli degli acquirenti e viceversa.
Nei due secoli successivi l'ottimistica fiducia tipica della visione economica liberale è largamente saltata; tuttavia resta fermo il fatto che l'ambito economico non è retto dal puro altruismo. Ovviamente è ben possibile, anzi doveroso, porre in discussione la logica liberale pura. È dato impegnarsi per un'«economia civile» e ancor più radicalmente per un'«economia di comunione» [3] ma, «per la contraddizion che nol consente», non è lecito, in campo economico, parlare in termini di pura gratuità e generosità e di assenza di ogni utile, e ciò proprio a motivo del conseguimento di un comune vantaggio.
Tenendo conto di quanto si è appena detto, nasce l'interrogativo del perché spesso non ci si conformi alla legge universale in base alla quale non è dato raggiungere la propria felicità senza fare anche quella altrui. In simili circostanze, argomentare a favore del vantaggio reciproco risulta l'operazione più efficace.
Scrisse David Hume: «Il tuo grano è maturo oggi il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se io oggi lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo alcun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che tu domani mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma sopravviene il maltempo e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di garanzie».[4]
Anche in questo caso l'aiuto dovrebbe avvenire non a motivo di una reciproca benevolenza ma a causa di una palese convenienza. In definitiva, pure se il vicino mi è antipatico traggo vantaggio dall'aiutarlo.
Sono felice se tu sei felice
Intensificando la dimensione dell'utile si può giungere alla posizione espressa nel detto corrente (ma forse oggi un po' meno frequente di ieri): «Fare del bene ti fa bene». Visione attualmente proposta in forma molto schietta da studiosi come la statunitense Barbara Lee Fredrickson (esponente di punta della «psicologia positiva»), secondo la quale essere altruisti rafforza i legami sociali e costruisce la capacità di esprimere amore e sollecitudine, in tal modo la reciproca influenza tra benessere individuale e collettivo consente di raggiungere la felicità e una soddisfazione autentica. Quando aiutiamo gli altri si è felici perché si sperimentano di continuo buone sensazioni fisiche e spirituali.[5]
Con maggiore spessore culturale, un orientamento simile era già stato proposto nel XIX secolo da John Stuart Mill: «Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell'umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa trovano la felicità lungo la strada».[6]
Qui il discorso si raffina, si presuppone infatti che la rinuncia cosciente al conseguimento diretto della propria felicità sia la via migliore per raggiungerla. L'orizzonte rimane comunque quello espresso dalla «regola aurea» dell'utilitarismo stando alla quale il bene coincide con la massima felicità del maggior numero di persone possibili.
Il punto debole della prospettiva sta nel fatto che l'istanza, per realizzarsi appieno, implicherebbe la presenza di una sostanziale parità tra le componenti di una società contraddistinta nella realtà da forti disuguaglianze.
Per conseguire un'utilità comune occorre articolare in modo positivo i rapporti tra uguaglianza e diversità. Tuttavia, se l'utile diviene egemonico, risulta quasi inevitabile che il trattamento riservato alle componenti più deboli della società perda,di consistenza.
La prospettiva emergeva con chiarezza già nei «sacri principi» dell'89. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino recita: «Gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune». Da questa frase è obbligo concludere che l'utile sociale è legato a filo doppio alla disuguaglianza.
Nonostante la loro ispirazione liberale, alle spalle della sfera dei diritti elaborata nel corso della Rivoluzione francese continuava a stagliarsi l'ombra lunga dell'apologo organicistico attribuito a Menenio Agrippa: la società è come un corpo, ogni membro ha una funzione differente da quella degli altri; alcuni sono però indispensabili, altri non strettamente necessari: si può vivere senza una mano, ma non senza cuore o polmoni.
Rispetto al corpo l'unico ambito in cui è dato parlare a pieno titolo di uguaglianza è il fatto che tutte le membra fanno parte di esso. In senso stretto non esisterebbero perciò diritti individuali: è il corpo nel suo insieme che fa sì che tu sia o piede o mano o testa. Per questa ragione il modello antico non è riproponibile alla lettera, esso infatti, nella moderna visione liberale, viene sottoposto a profonda revisione riconducibile a questi termini: ognuno è titolare di diritti e le diversità si giustificano solo in base all'utilità comune. Quest'ultima però rischia di diventare semplicemente l'espressione delle componenti più forti della società che tendono a prendersi cura degli altri soltanto nella misura in cui questa prassi collima con lo sviluppo dei propri interessi.
Tutti nella stessa barca: ovvero le relazioni
L'espressione colloquiale per indicare questa posizione sta nell'affermare: «Siamo tutti nella stessa barca». Nella sua forma più alta il senso della relazione si esprime nel detto secondo cui aiutando gli altri aiuti te stesso e viceversa. In termini complessivi l'elaborazione di questo principio evidenzia che relazione e alterità sono tra loro inversamente proporzionali.
L'«altro» non è una persona che si presenta all'inizio come separata per essere ricondotta progressivamente alla sfera della relazione: fin da principio nessuno è semplicemente un estraneo. Il culmine di questa visione è raggiunto nelle culture che presentano la relazione come il tessuto costitutivo della realtà. Tra esse, per quanto riguarda il risvolto etico, le elaborazioni più pregnanti si trovano nel buddhismo.
A partire da una concezione della realtà relazionale un antico detto sostiene che: «badando a se stessi si bada agli altri; badando agli altri si bada a se stessi (...) E come badando agli altri si bada a se stessi? Con la tolleranza, la non-violenza, l'amicizia, l'indulgenza» (Samyuttanikaya).[7]
Qui il modo di dire «ti fa bene fare del bene» acquista una tale profondità da essere sradicato dal terreno dell'utile per venir direttamente ripiantato in quello ontologico-relazionale (dato e non concesso che il termine «ontologia» sia applicabile al buddhismo). Nella Samyuttanikaya la coincidenza tra il prendersi cura degli altri e di se stessi è esemplificata attraverso l'immagine suggestiva degli acrobati che, allorché formano una piramide umana, si trovano oggettivamente nelle condizioni di far coincidere la propria tutela con quella degli altri e viceversa.
Il detto proverbiale che allude alla barca ha sullo sfondo l'idea, più o meno accentuata, del pericolo: ad accomunarci è la presenza di una minaccia collettiva. Nell'immagine della piramide umana l'idea di un possibile crollo non è evidentemente assente, tuttavia essa non è neppure costitutiva. In questo caso il ruolo decisivo spetta alla relazione. Per costituire un'unica struttura tutti gli acrobati, fin dal principio, si trovano in un rapporto reciproco. Nell'immagine corrente, la barca è un contenitore (fuor di metafora, una situazione accomunante), nel caso della piramide umana invece sono le relazioni stesse a costituire l'insieme. Gli acrobati, quindi, simboleggiano la condizione umana in quanto tale e non già una particolare situazione in cui ci si viene a trovare.
«Rispetto per la vita»
Nella civiltà occidentale sono stati elaborati vari modi per affrontare il tema delle relazioni. Da esse, di solito, non derivano però in modo diretto comportamenti etici rivolti a prestare un aiuto sia agli altri sia a se stessi. Un'esemplificazione particolarmente significativa di questa prospettiva avviene se si guarda all'approccio evolutivo assunto in senso biologico.
Anche prescindendo dal riferirsi a questa o a quest'altra teoria, è dato concludere che tutte le visioni evolutive individuano un legame molto stretto tra i viventi, cosicché di fronte a ciascuno di loro è obbligo concludere che se non ci fosse lui non ci saremmo neppure noi.
Tuttavia questa constatazione descrittiva di per sé non consente di trarre conclusioni etiche univoche: tra XIX e XX secolo si affacciarono sulla scena sia il darwinismo sociale che trasferiva nelle società umane il criterio della struggle for the life, sia visioni che coniugavano in senso positivo e comprensivo l'etica della vita. Tra esse la più celebre è probabilmente quella intuita da Albert Schweitzer nel corso di uno dei suoi soggiorni africani.
«Risalivamo lentamente il fiume (...) cercando con fatica – era la stagione secca – i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Immerso in profonda meditazione sedevo sul ponte della barca, sforzandomi di arrivare al concetto elementare e universale di etica, che non ero riuscito a trovare in nessuna filosofia. (...) Poi il terzo giorno, al tramonto, proprio nel momento in cui ci stavamo facendo strada tra una mandria di ippopotami, balenò nella mia mente, quando meno me lo aspettavo, la frase: "Rispetto per la vita". Il cancello di ferro aveva ceduto; si poteva vedere il sentiero del bosco. Ecco che avevo trovato il modo per arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l'affermazione del mondo e della vita e l'etica. Ora sapevo che l'affermazione etica del mondo e della vita, come pure gli ideali di civiltà, sono fondati nel pensiero».[8]
Il discorso di Schweitzer non è rivolto in modo diretto all'aiuto da offrire agli altri; tuttavia è evidente che il fatto stesso che questi pensieri siano stati per così dire innescati dalla vista di una mandria di ippopotami attesta che il legame tra tutti i viventi è qui assunto come un vero e proprio fondamento; dal canto suo il rispetto della vita, lungi dall'essere inteso come un passivo non intervento, obbliga a fornire un aiuto attivo tutte le volte che ce n'è bisogno.
Compassione e saggezza
«Umana cosa è l'aver compassione agli afflitti» si legge nella prima riga del Decameron. Nell'animo umano compare a volte un forte senso di compassione o di human sympathy nei confronti degli altri. Per quanto in italiano i due termini di «compassione» e «simpatia» abbiano assunto significati fortemente diversi, il loro etimo è, rispettivamente in base al latino e al greco, lo stesso. Esso indica un far proprio il patire e il sentire (nel senso di pathos) altrui.
L'espressione inglese human sympathy si conforma appunto a questo atteggiamento di com-passione attiva. Un problema a questo riguardo è se si tratti di un moto che balena all'improvviso dentro di noi o se, al contrario, sia una presenza costante.
Il buddhismo e il ruolo in esso affidato alla karuna ci prospettano una visione complessiva in cui misericordia, compassione, pietà ed empatia (per cercare una serie di termini che tendono a esprimere i sensi contenuti nel termine karuna) vanno congiunte in modo integrale con la prajna («saggezza»). Non si dà saggezza senza compassione e viceversa.
Ciò fa sì che karuna abbia un carattere universale che trova una qualche corrispondenza in noi tutte le volte in cui proviamo una grande, profonda compassione per la condizione umana in quanto tale (e quindi anche per noi stessi). Ciò non comporta affatto astenersi dall'azione; tuttavia essa è una dimensione profondamente diversa rispetto al moto improvviso che a volte ci spinge a soccorrere gli altri.
Nella maggior parte dei casi questo stato d'animo non dipende da una visione complessiva della realtà, esso scaturisce da sé di fronte a situazioni specifiche. Anche nella Bibbia non mancano episodi che si rifanno a questa dinamica. Per esemplificarla ci limitiamo a solo quattro esempi nei quali il senso di compassione, innescato da un precedente atto di vedere, conduce all'azione.
Iniziamo da un episodio antico, quello in cui la figlia del faraone salva il piccolo Mosè chiuso in un cestino che galleggia tra i canneti del Nilo.[9] Il libro dell'Esodo in questa scena riserva un ruolo decisivo al sentimento umano. La figlia del faraone vede il cestello fra i giunchi e manda la sua schiava a prenderlo. Vi è un primo atto legato al vedere, probabilmente dovuto solo a un moto di curiosità.
Subito dopo si muta però registro: «L'aprì e vide il bambino: eccolo, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: "È un bambino degli ebrei"» (Es 2,6; trad CEI 2008). In effetti il verbo ebraico impiegato in questa occasione (chamal) andrebbe reso meglio con «si commosse». Il pianto della piccola creatura induce alla commozione l'animo adulto. Non si trattò di un puro sentimento passeggero, quel sentimento condusse infatti a prendersi cura di un bambino appartenente a un gruppo perseguitato. Il pianto infantile suscita una risposta attiva.
La successione tra vedere e aver compassione (verbo splagchnizomai, che allude alla componente «viscerale» presente nel linguaggio biblico) compare anche in tre brani presenti solo nel Vangelo di Luca. Il primo è legato a un miracolo. Gesù sta per entrare a Nain. Presso la porta della città scorge un corteo funebre che accompagnava al sepolcro il figlio unico di una madre vedova: «Vedendola il Signore fu preso da grande compassione (esplagchisthe) per lei e le disse: "Non piangere"» (Lc 7,13).
Compassione e commozione muovono Gesù all'azione e lo inducono a richiamare in vita il fanciullo. In questa circostanza il Signore agisce in virtù di un moto interno; nessuno gli rivolse una richiesta, né la vedova compì alcun atto di fede in Gesù. L'azione misericordiosa è unilaterale, essa manifesta una profonda asimmetria tra chi è nelle condizioni di aiutare e chi può essere solo aiutato e qui non si tratta del defunto che, evidentemente, si trovava già in un «mondo altro», quanto di sua madre; è di lei che il Signore ebbe compassione.
Un discorso per più versi analogo è applicabile anche alla parabola del padre misericordioso. Il figlio minore dopo aver dissipato l'eredità torna verso casa. In tutto il tempo del suo smarrimento il padre non l'aveva fatto cercare. Sulla via del ritorno, «quando era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione (esplagchisthe), gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
In alcuni commenti si immagina il padre collocato sulla terrazza nell'atto di scrutare senza posa l'orizzonte lontano. Non è necessario ipotizzarlo. Il vedere può essere stato anche improvviso. Il gesto misericordioso di correre incontro al figlio perduto al fine di ritrovarlo nell'abbraccio e nel bacio non era programmato, scaturisce repentino dalla visione.
La prossimità: frutto di una relazione
L'ultimo esempio è forse il più significativo nel caso in cui si confronti il punto d'arrivo con quello di partenza. Si tratta della parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-36). Di essa conviene sottolineare un aspetto particolare. Il discorso prende avvio da una discussione sui due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Dt 6,4-5; Lv 19,18); rispetto a quest'ultimo comandamento, la parabola estende l'orizzonte mettendo al centro la figura di un uomo (anthropos) che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
Egli non è qualificato in nessun altro modo che in virtù del proprio bisogno. Le componenti identitarie sono presenti dalla parte di coloro che sono chiamati a prestar aiuto (sacerdote, levita, samaritano), non da quella di chi giace mezzo morto ai bordi della strada: egli è semplicemente un uomo.
Il sacerdote, il levita e il samaritano sono nelle condizioni di decidere se diventare prossimo allo sventurato; di contro, al ferito non è dato di scegliere nulla. Per lui chi lo soccorre diviene il suo prossimo, mentre gli altri restano degli estranei. Alla fine della parabola Gesù domanda: «"Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Colui che gli ha fatto misericordia (eleos)"» (Luca 10,36-37).
In questo caso, perciò, occorre affermare non tanto che ogni persona umana è mio prossimo quanto che ognuno può diventarlo se agisco nei suoi confronti all'insegna di una fattiva misericordia. La prossimità è il frutto di una relazione che trasforma l'estraneo in vicino.
Vi è però un aspetto legato all'universalità della motivazione che spinge ad agire. La discussione parte dal precetto e ne esemplifica la portata chiamando in causa un modo di prestare aiuto che non si misura affatto con il comandamento. Data l'ambientazione, bisogna presupporre la conoscenza del precetto del Levitico anche da parte del samaritano (il Pentateuco faceva parte pure della sua tradizione religiosa); tuttavia, egli agisce a motivo dell'estroversione delle proprie viscere e non già per mettere in pratica il comandamento.
Il suo aiuto è mosso da questa motivazione: «Passandogli accanto vide e ne ebbe misericordia (esplagchisthe)» (Lc 10,33). All'universalità del soggetto a cui ci si rivolge («un uomo») corrisponde quella del motivo che induce a operare. Si parte discutendo di un precetto biblico, ma si agisce sospinti da un moto di compassione commossa potenzialmente presente nell'animo di tutti, ma fu solo il samaritano a darvi ascolto.[10]
Rispetto all'uomo privo di identità che giace lungo la strada quanto è richiesto è di passare da un'iniziale estraneità alla costruzione di una prossimità frutto dell'ascolto di viscere estroflesse. Ogni essere umano da estraneo può diventare mio prossimo se segue la voce del frammento di misericordia presente in lui; quanto è decisivo è darvi ascolto e non «passar oltre» come il sacerdote e il levita.[11] Qualcosa di simile successe, per esempio, anche a Henri Dunant quando, nel 1859, arrivò sul campo di battaglia di Solferino.
Di fronte allo spettacolo orrendo – visto non solo da lui ma anche da molti altri – dei feriti abbandonati agonizzanti sul campo, gli sorse l'idea di creare la Croce rossa.[12] Cosa lo spinse a fondare un'organizzazione destinata a occuparsi di tutti i feriti sui campi di battaglia e altrove? Se volessimo impiegare l'immagine evangelica, la risposta sarebbe: egli, a differenza di altri, diede ascolto alla voce delle proprie viscere. Ciò gli consentì di emergere dalla comune indifferenza che attanaglia i più.
«Io sono il Signore Dio tuo»
Nelle considerazioni ora proposte dedicate alla parabola del samaritano, si è evidenziato il passaggio da una discussione legata a un comandamento a un'azione innescata da una compassione commossa. Ora è opportuno compiere il cammino inverso e considerare l'esistenza di un comportamento comandato. Quando si prende in considerazione quest'ambito sorge subito il problema dell'autorità legittimata a comandare.
Per ricorrere a categorie consuete, essa può essere religiosa o civile. Tutti e due gli ambiti sono ricchi di varianti. Nelle nostre considerazioni esemplificative ci concentreremo da un lato su alcuni precetti biblici (senza prendere in considerazione i loro sviluppi presenti nella tradizione ecclesiale) e dall'altro sui contenuti di alcuni articoli costituzionali o legati ai diritti umani (senza occuparsi di leggi positive).
Scegliamo il punto di partenza per molti versi più ovvio; scavando in esso troveremo però aspetti meno scontati, fermo restando che, sul piano della prassi, anche il brano biblico di partenza è già in se stesso assai impegnativo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18); «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19,33-34). In entrambi i casi, la frase è conclusa con un riferimento al Signore posto a fondamento del precetto: non ci sono dubbi sull'autorità a cui spetta di comandare.
«Lo amerai come te stesso (`ahavta lo kamokha)» qui (come in Lv 19,18 in relazione al prossimo) il verbo `ahav, «amare», regge il dativo e non già, come di consueto, l'accusativo. Una traduzione che volesse mantenere la costruzione ebraica potrebbe optare per un «porta amore a...».
Questa resa chiarirebbe che si tratta di una dimensione operativa – la si può comandare appunto per questo motivo – e non già di un appello ai sentimenti. Il suo senso è dunque il seguente: agisci in modo amorevole nei confronti dello straniero.[13] Il comandamento ti ordina di fare a prescindere dal tuo stato d'animo nei confronti della persona che sei chiamato ad amare e aiutare.
Qui non entra in gioco alcuna compassione commossa, si è semplicemente tenuti ad agire in quel modo in ragione dell'imperatività del precetto rivelato dal Signore. Così nella forma presente nel testo biblico. In ogni caso l'appello a un principio fondativo trascendente smorza il ruolo affidato alla soggettività.
La dinamica risulta con particolare evidenza nel caso del comandamento rivolto a favore del nemico. All'inizio del percorso non c'è alcuna istanza riconciliativa, non si ordina di trasformare il sentimento d'avversione in amicizia, semplicemente si comanda un'azione benefica nei riguardi di chi ci è avverso: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico e il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso; mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5; trad. CEI 2008).
La seconda parte della traduzione non appare corretta allorché introduce un «non» (assente in ebraico) che regge un comando («non abbandonarlo a se stesso»). Si tratta peraltro di una resa frequente di un passo oggettivamente difficile da tradurre. E importante precisare sia che «nemico» andrebbe reso, alla lettera, con «colui che ti odia» sia individuare la presenza del comando solo nella parte conclusiva della frase (alla lettera «sciogli, sciogli con lui»); la proposizione precedente esprime invece la scelta iniziale, opposta al soccorso, compiuta da colui che vede la bestia a terra.
La frase andrebbe resa su per giù così: «Quando vedi l'asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico e desisti dal scioglierlo [asino]» proprio allora «sciogli, sciogli con lui [colui che ti odia]».[14]
In conclusione, ci sono due stati d'animo soggettivi di partenza: da una parte l'odio nei tuoi confronti e dall'altro la tendenza a non prestare aiuto; il comando s'innesta in questo plesso di stati d'animo e ordina un'azione positiva a favore di chi prova avversione nei tuoi confronti.
«In spirito di fraternità»
L'oggettività del comando che scavalca gli stati d'animo è ardua da mettere in pratica. Ciò è confermato indirettamente anche dalla Bibbia che in un passo parallelo (Dt 22,1-4) applica al fratello quanto il libro dell'Esodo riferiva al nemico. Nel Vangelo si torna a parlare di nemici. Molti fattori inducono a ritenere che l'amore evocato nei loro confronti debba collocarsi ancora sul piano operativo; bisogna cioè compiere azioni positive nei loro riguardi al fine di non essere presi nella spirale dell'avversione e del rancore.
Il modello citato, quello del Padre celeste, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti, è anch'esso operativo (Mt 5,43-48). Il Padre agisce a favore di tutti, senza che ciò annulli le qualifiche antietiche riservate agli esseri umani. In termini più orientati verso una futura discriminazione, il pensiero torna anche nella Lettera ai romani: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina (...) Al contrario "se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo" (Pr 25,21-22). Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,19-21).
Quando il comando è basato su un'autorità la sua efficacia dipende in larga misura da quanto essa sia riconosciuta. Se la fede in Dio illanguidisce, l'appello all'autorità divina perde efficacia. Lo stesso vale a maggior ragione se non si accredita più al potere divino la capacità di punire. Peraltro la presenza o l'assenza di una componente coercitiva ha una funzione rilevante anche in campo civile.
Per illustrare quest'ambito sono sufficienti pochi riferimenti. Dato l'attuale contesto politico e sociale del nostro paese, il primo esempio da proporre è quasi obbligatoriamente il principio di solidarietà presente nella Costituzione: «La Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
Il principio costituzionale è, per definizione, generale e la sua realizzazione è affidata a leggi positive garantite anche dalla presenza di una componente sanzionatoria. Lo scenario diviene perciò più decisamente connotato o dal rispetto o dalla violazione. Rimane il fatto che anche in sede puramente costituzionale ci si muove nell'orizzonte di un'imperatività basata sull'autorità.
Considerazioni in gran parte simili alle precedenti valgano per la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a Parigi il 10 dicembre 1948. Il suo primo articolo recita: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». A distanza di oltre un secolo e mezzo, e avendo alle spalle due guerre mondiali, le parole ora citate rievocano i diritti cardine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità.
Li dispongono però in una successione diversa: due sono collocati sulla tavola dei diritti, uno su quella dei doveri. È una differenza significativa. La fraternità non è un dato di partenza indiscutibile. Non ogni essere umano è mio fratello, ma ogni persona può diventare fratello o sorella se ci si relaziona reciprocamente «in spirito di fraternità». È una dinamica che richiama quanto avviene nel caso dell'amicizia: l'essere amici è una conquista comune.
La più condivisa formulazione dei diritti umani si apre prospettando l'esistenza di un'obbligazione. Libertà e uguaglianza sono situate sì nella sfera dei diritti, ma sono anche collegate a un termine, «dignità», reso necessario dall'avere assistito, nel corso della prima metà del Novecento, a forme senza precedenti di degradazione attuate dall'uomo nei confronti dei propri simili.
L'obbligazione si fonda sulla coscienza, parola innovativa rispetto alle precedenti dichiarazioni dei diritti. Come indicano i dibattiti svoltisi in sede ONU in vista della stesura del documento, qui per coscienza non s'intende la voce interiore che rende manifesta l'esistenza di una legge divina; il termine attesta piuttosto la presenza nelle persone di un «sentimento che altri uomini esistono».[15]
Il dare ascolto all'apertura antropologica verso l'altro dovrebbe portare ad agire in spirito di fratellanza. Accanto alla ragione è quindi chiamato in causa il sentimento, il quale, però, lungi dall'indossare i panni molli della spontaneità, è rivestito da quelli più degni e impegnativi dell'obbligazione. Il principio perciò è enunciato perché la sua stessa formulazione spinga ad agire in un determinato modo. Anche qui dunque si apre l'alternativa legata al rispetto o alla violazione.
La radicale-comune povertà
Ogni essere vivente che viene alla luce non ha scelto di nascere. L'affermazione non patisce smentita. Essa resta salda tanto nel caso di un concepimento naturale quanto di uno conseguito attraverso metodi più o meno accentuatamente artificiali. La nascita precede ogni volizione del soggetto. Questa radicale dipendenza ontologica si prolunga nel fatto che al momento della sua uscita dall'utero materno (per limitarci alla sfera dei mammiferi) ogni essere vivente è radicalmente non autosufficiente.
Il venir abbandonato a se stesso comporterebbe una sicura morte. L'aiutare gli altri è dunque componente costitutiva dell'esistenza di ciascuno. Ognuno, guardando a se stesso, è obbligato a concludere che se è tuttora in vita lo deve al fatto di essere stato aiutato. Soccorrere gli altri è quindi definibile come una specie di «regola d'oro» affermativa («Tutto quello che gli uomini volete facciano a voi, anche voi fatelo a loro» Mt 7,12) radicata nell'esistenza stessa. Dato e non concesso che si possa trascrivere liberamente in questi termini, il detto evangelico che ammonisce di ritornare come bambini (Mt 18,1-4) comporta la riconquista della struttura base dell'esistenza che pone al centro la relazione di aiuto.
La radicale comune povertà della condizione umana è la fonte primaria della solidarietà tra le creature. Papa Francesco, nella prefazione al libro del card. G.L. Mulller Povera per i poveri, scrive: «Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all'economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo "dai nostri beni" (cf. Lc 12,15).
Originariamente l'uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente del bisogno e dell'aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell'impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere "creature": non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere».[16]
Sostenere che gli esseri umani nascono liberi e uguali è una visione astratta o, se si vuole, un'affermazione di principio. Quando si viene alla luce non si è infatti né liberi, né uguali. Nella concretezza dell'esistenza è invece affermabile quanto le dichiarazioni dei diritti e dei doveri di solito non esplicitano: tutti gli esseri umani nascono bisognosi di essere aiutati, perciò l'obbligo di prestarsi reciprocamente aiuto è legge primaria della convivenza umana.
Non dare al male l'ultima parola
Guardando alle esistenze individuali, a quella collettiva, o, ancora più ampiamente, alla storia umana nel suo insieme, non sono pochi coloro che concludono che il tasso di male presente nel mondo è tale e tanto da non poter essere in alcun modo sanato. Si tratta della categoria di persone colloquialmente etichettate come pessimiste. Se portata all'eccesso, la loro posizione si riveste dei panni di una sfiducia radicale negli esseri umani che porta all'inazione propria di chi dichiara che ormai non c'è più nulla da fare.
In realtà, la conclusione, apparentemente coerente e lineare, è ingannevole e contraddittoria. Lo è nella misura in cui toglie al male le stimmate dell'inaccettabilità. Se il negativo entra nell'ambito delle cose che ineluttabilmente capitano, esso diviene, di fatto, normalizzato. In tal caso perde mordente la più concreta definizione di male che lo qualifica come una realtà che è ma che non dovrebbe essere.
«Una realtà che è» è una constatazione, il «non dovrebbe essere» è un giudizio di valore che spinge a prestare aiuto all'altro anche se si è consapevoli tanto della parzialità delle proprie azioni quanto della vastità umanamente irrimediabile del male presente nel mondo. Se collocata nell'ambito che le compete, è proprio l'inaccettabilità del male a ingenerare un senso di solidarietà con chi dal male è colpito.
Per ricorrere a un'espressione alquanto semplificata, si potrebbe sostenere che l'autentico pessimista è una persona attiva ma non soddisfatta. Egli non fa il bene perché gli fa bene, vale a dire non lo compie per sentirsi meglio; al contrario lo attua nella consapevolezza dell'insufficienza del proprio intervento. Se è persona di fede coniugherà questo suo agire con la fiducia (invero spesso messa alla prova) che la salvezza è da Dio e non dagli uomini.
Nei confronti di quell'«altro» costituito dalla terra, questa posizione è stata ben espressa in una dichiarazione di intenti di uno dei padri della coltivazione biologica in Italia, l'uomo di fede Gino Girolomoni: «Io non penso che l'agricoltura biologica salverà il mondo, ma la pratico per non stare dalla parte di chi il mondo lo distrugge».[17]
La scelta di fondo è esattamente quella di non stare dalla parte di chi compie il male; ciò comporta che nel frammento che ci compete ci si senta chiamati a curare le ferite di chi è colpito dal negativo, un atteggiamento che riguarda le persone, gli animali, la terra e le cose, e i prodotti artistici. Nel caso dei manufatti quest'atto rientra sotto la categoria del restauro, mentre quando si tratta di persone il conseguimento più alto è espresso dal termine «consolazione», un atto che non annulla quanto è stato, ma che si impegna a far sì che al negativo non spetti l'ultima parola.
Perché aiutare è difficile
Riprendiamo in conclusione l'argomento da cui siamo partiti. Il peso del «come» è grande. Per essere in grado d'aiutare gli altri occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche.
In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Basti pensare al ruolo riservato alla conoscenza delle leggi e delle procedure burocratiche spesso ignote ai più deboli, oppure alla profonda situazione di disagio che colpisce persone sprovviste di determinate abilità (il ruolo un tempo svolto dal non saper leggere e scrivere trova oggi un parallelo nell'essere privi di abilità informatiche ormai necessarie per lo svolgimento di moltissime pratiche amministrative e finanziarie).
Assunta nel suo complesso la sfera del «come» mina sempre più l'immediatezza dell'aiuto diretto a favore degli altri. Per sapere non basta volere. Non stupisce perciò che in più casi si asserisca che l'aiuto maggiore che si può dare è quello di fare un passo indietro e di lasciar fare a chi ha le competenze adeguate.
È solo apparentemente banale dichiarare che oggi la prima azione che il samaritano avrebbe compiuto lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico sarebbe stata quella di chiamare il 118! Si tratta di atto tanto efficace quanto dotato di scarso coinvolgimento personale che probabilmente anche il sacerdote e il levita avrebbero compiuto. Va da sé che non è proponibile prescindere dalla sfera delle competenze, ma è altrettanto certo che esse tendono, più o meno sottilmente, a far impallidire l'ambito che spetta al coinvolgimento etico personale e a rendere sempre più raro l'incontro profondo tra le persone basato sulla componente spirituale.[18]
Su tutte le motivazioni da noi prese in considerazione pesano delle controindicazioni. La dimensione economica legata all'utile e al vantaggioso è esposta all'incertezza della previsione. Ogni investimento, anche nel senso lato del termine, si proietta nel futuro e quindi ha a che fare con un ambito per definizione incerto.
Anche quando ci si muove sul piano dell'aiuto bisogna tener conto che alcune azioni sono soggette a mutamenti di segno in ragione di avvenimenti imprevisti. In questo campo l'eterogenesi dei fini è più che mai all'ordine del giorno. Ogni progetto è esposto a un rischio non preso in considerazione. Rispetto alla compassione grava tanto il suo essere di frequente legata all'oscillazione degli stati d'animo in cui ci si trova quanto la difficoltà d'affrontare il peso della reiterazione: se il samaritano avesse percorso quotidianamente quella strada e tutte le volte avesse incontrato un uomo ferito non si sarebbe comportato nella maniera descritta dalla parabola.
L'esistenza di un comando va incontro a tutti i disagi legati a un'imperatività eteronoma che si presenta poco coinvolgente, se non è fatta interiormente propria, e fredda e distaccata se eseguita solo per il timore delle conseguenze derivate dalla trasgressione.
Il senso di povertà proprio della non autosufficienza umana è turbato dai momenti in cui gli individui, le società e le nazioni si sentono forti e destinati a dominare; ne consegue che per essi lo sfruttamento risulta una realtà ben più attestata dell'aiuto.
Cercare di capire
L'inaccettabilità del male è esposta al rischio di scivolare, a poco a poco, nella rassegnazione o ancor più precisamente nell'accidia, parola di uso ormai raro, ma imparentata con il termine frequentissimo d'indifferenza. Quanto la distingue da quest'ultima è soprattutto il fatto che l'indifferenza riguarda in genere gli altri, mentre l'accidia coinvolge anche se stessi.
Che nell'etimo di «accidia» l'«a» iniziale sia un alfa privativo appare scontato. L'attenzione va quindi riservata all'altra parte del sostantivo: alle sue spalle c'è kedos «cura», «sollecitudine», «pensiero» ma anche «affanno». L'accidia è l' alter ego cupo e spento della spensieratezza. C'è chi non si cura di sé e degli altri perché vive con leggerezza senza lasciarsi turbare né dal proprio domani, né dal doloroso oggi altrui.
Di contro, c'è chi vive alla giornata con spossata stanchezza perché la sua triste condizione gli appare un muro invalicabile privo di futuro; la sua indifferenza alla vita è un fuoco spento che nessun aiuto altrui può ormai riaccendere.
Più del malinconico, l'accidioso ha perduto il gusto della vita; per l'uno e per l'altro ciò è avvenuto senza un motivo preciso. Chi è preda dell'accidia è avvolto da una cupezza rancorosa contro tutto e tutti, a iniziare da se stesso. L'accidia è la declinazione in chiave morale di una depressione valutata all'insegna del vizio e non già della malattia. In ciò sta forse la ragione per la quale oggi la depressione riempie la scena, mentre l'accidia è rintanata dietro le quinte.
Un fattore che si presenta come un ostacolo, oggi forse il più rilevante, rispetto all'aiuto da prestare agli altri è costituito dalla paura. Stato d'animo complesso ma, nella sostanza, in larga misura riconducibile all'attesa, conscia o inconscia, di un danno che altri ci possono arrecare. In effetti ciò riguarda a volte anche noi stessi.
Abbiamo paura dei nostri sentimenti e dei nostri desideri, di quello che potremmo compiere, sperimentiamo la sensazione di non avere risorse sufficienti per affrontare l'ostacolo con cui ci si deve confrontare (banalmente: «Ho paura di non farcela») e così via. In relazione agli altri si paventa un danno che un'entità, di frequente non ben conosciuta, potrebbe arrecare a noi stessi, ai nostri cari, alle nostre risorse, ai nostri beni, al nostro stile di vita, alle nostre fonti di reddito, alla nostra tranquillità e via dicendo.
Anche questa volta l'area di riferimento può essere individuale, relativa a un gruppo ristretto o ampia fino a comprendere intere nazioni. Una delle condizioni indispensabili per aiutare gli altri perciò è di vincere la paura, operazione non semplice in quanto coinvolge nel profondo individui e collettività. Essa poi diviene ancora più ardua in un tempo come il nostro dominato dall'incertezza nei confronti del futuro.
In ogni caso una delle risorse più efficaci per contrastare la paura è vivere sulla scorta di quello che Hannah Arendt considerava il massimo imperativo etico: cercare di capire. Non basta, ma è comunque un passo in avanti di notevole spessore.
* L'articolo riprende e sviluppa i temi presentati in una conferenza tenuta presso la parrocchia San Camillo De Lellis di Chieti il 20.11.2018.
NOTE
1 A. GENOVESI, Autobiografia, lettere e altri scritti: Opere scelte, a cura di G. SAVARESE, Feltrinelli, Milano 1963, 449.
2 Cf. A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, A. Millar, in the Strand, and A. Kincaid and J. Bell, in Edinburgh, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995).'
3 Cf. L. BRUNI, S. ZAMAGNI, L'economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.
4 D. HUME, A Treatise of human nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning finto moral subjects, 3: Of morals, Thomas Longman, at the Ship, London 1740 (trad. it. Trattato sulla natura umana, introduzione, traduzione e note di P. GUGLIELMONI, Bompiani, Milano 2001).
Cf. B.L. FREDRICKSON, Positivity. Groundbreaking research reveals how to embrace the hidden strength of positive emotions, overcome negativity, and thrive, Crown, New York 2009.
6 J.S. Utilitarianism, Longman, Green, Longman, Roberts, and Green, Londra 1864 (trad. it L'utilitarismo, Sugarco, Milano 1992, qui 33).
7 Cf. P. STEFANI, «Religioni-società: lo spirito dei diritti», in Regno-att. 22,2005,735; V. TALAMO (a cura di), Samyuttanikaya. Discorsi a gruppi, Ubaldini, Roma 1998.
8 A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Edizioni di Comunità, Milano 21965, 325.
9 P. STEFANI, «Il pianto di Mosè. È per rinascere che siamo nati», in Regno-att. 22,2018,693.
10 Forse può avere qualche significato constatare che il dottore della Legge, nella sua risposta conclusiva, usa eleos senza richiamarsi a splagchnizomai.
11 Cf. T. RADCLIFF'E, «Non passare oltre» in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, EDB, Bologna 2003, 137.
12 Cf. F. GIAMPICCOLI, Henri Dunant. Il fondatore della Croce Rossa, Claudiana, Torino 2009.
13 Cf. P. STEFANI, «Ama l'immigrato. È come te stesso», in Regno-att. 10,2015,705.
14 Sia pure in un italiano involuto, il punto è stato colto dalla seicentesca traduzione italiana del Diodati: «Se tu vedi l'asino di colui che ti odia giacer sotto il suo carico, mentre tu ti rimani di aiutarlo a farglielo andare oltre, del tutto fa' con lui sì che possa andare oltre». Su questa linea si attesta anche la King James: «If thou see the ass of him that hateth thee lying under his burden, and wouldest forbear to help him, thou shalt surely help with hinv›.
15 Cf. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995, 90.93-97.
16 FRANCESCO, «Prefazione» a G. MULLER, Povera per i poveri. La missione della Chiesa, a cura di P. Azzaro, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, 8s.
17 M. ORLANDI, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, EMI, Bologna 2014, 123: cf. Regno-att. 20,2014,725.
18 Il tema della deresponsabilizzazione personale a fronte delle crescenti competenze sociali è stato affrontato più volte, da par suo, da Ivan Illich: cf. per esempio I. Tuffai, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2008; cf. Regno-att., 20,2008,683.
(FONTE: Il Regno 2/2019, pp. 51-60)
Il duale
Alessandro D’Avenia
Al liceo, imparando la declinazione dei nomi e la coniugazione dei verbi greci, rimasi colpito da una forma grammaticale che a noi manca: il duale. Oltre al singolare (l'occhio vede) e il plurale (gli occhi vedono), i Greci avevano un modo specifico per indicare un elemento che ne implica un altro, non in quanto somma, ma come realtà nuova data proprio dalla relazione dei due.
Per tradurre dovevamo aggiungere un «due», ma la perifrasi di cui l'italiano necessita (i due occhi vedono) non dà sufficiente conto dell'azione congiunta, mentre loro avevano una forma specifica, quasi intraducibile (gli occhi vedono insieme), perché più che il numero segnala l'effetto della relazione.
Il duale non è quindi né un singolare né un plurale: la vista tridimensionale non è la somma di due occhi ma un «occhio a due».
Rari sono i casi in cui negli anni di scuola mi sono imbattuto nel duale, senza per altro capirne del tutto la precisione o necessità. L'ho intuita qualche giorno fa quando, con la mia futura sposa, siamo andati in una bottega di oreficeria e, guidati da una brava maestra (Anna), abbiamo forgiato in nove ore le nostre fedi: dalla fusione dell'oro grezzo fino all'anello, promessa d'amore in molte culture anche tra loro distanti. Due anelli, uno con il nome dell'altro, sono un duale aureo, e di un'educazione «duale» oggi abbiamo grande bisogno, come mostra anche la cruenta cronaca recente. La costruzione degli anelli me lo ha reso ancora più evidente. Come?
Lei ed io non siamo un semplice «noi», ma un «noidue» un «uno in due», una nuova entità, che supera la somma di 1+1, come «due occhi», «due orecchie», «due narici» non sono organi sommati, ma «la vista», «l'udito», «l'olfatto»: «la coppia» non è una somma di single che tentano di stare insieme fino a prova contraria, ma un'azione duale che genera l'inedito.
L'anello di un materiale raro e duraturo forgiato in forma circolare, simbolo di novità nella continuità, è il segno di questa azione duale. Viene posto sull’anulare (che significa appunto «il dito dell'anello») della mano sinistra perché nell'antichità si credeva che fosse collegato al cuore da una vena detta «dell’amore», per cui infilarvi l’anello è abbracciare il cuore dell'altro, l'altro così com'è.
Forgiare gli anelli è stato un impegno fisico di una giornata, come amarsi è un'officina aperta h24 (forgiare viene proprio dal latino fabrica, la bottega del fabbro). Tutto comincia unendo l'argento e il rame all'oro, altrimenti poco malleabile: chiamiamo comunemente questa lega (75% del nobile metallo e 25% per gli altri due) «a 18 carati». I metalli meno nobili sono necessari, come in una relazione gli aspetti meno «brillanti» lo sono perché ci si possa «lavorare»: finalmente c'è qualcuno che ama tutto ciò che siamo, anche il nostro 25% meno nobile, ma proprio questo, nel tempo, ci fa superare noi stessi e fa brillare tutto.
Il piccolo lingotto informe viene poi passato e ripassato in tre differenti presse che, con un certo impegno muscolare, lo trasformano in un filo della larghezza e sezione desiderata. Così fa il tempo: modella la relazione verso il suo compimento, è un nascere sempre di più, non un mero resistere. Il tempo dà la forma giusta alla relazione, spogliandola da idealizzazioni, manipolazioni, giochi di potere: non è infatti mai il tempo a spegnere l'amore, ma il disamore, cioè tutte quelle forme di potere/sottomissione che ho cercato di narrare in «Ogni storia è una storia d'amore», rendendo giustizia a donne dimenticate dalla storia ufficiale.
Ogni volta che il metallo viene «provato» dalle presse, bisogna poi rimetterlo «a fuoco», fino al rosso vivo, cioè in stato di quasi fusione, così le molecole indebolite da colpi e trazioni si riuniscono e rinnovano. È quello che serve nei momenti di crisi o di logorio: riportare la relazione «a fuoco», trasformando proprio ciò che l'ha messa alla prova in occasione per rigenerarla.
Le molecole della relazione di coppia hanno la stessa capacità dell'oro di rinnovarsi, ma solo se le si riporta ogni volta al duale, all'unione senza fusione, all'unità nella differenza, che fa superare le ragioni dell'io contro il tu grazie al «noidue» ritrovato nel fuoco che sin dall'origine aveva creato il legame.
Una fase molto affascinante della forgiatura è poi la chiusura dei due margini ancora separati. Una volta accostati perfettamente a forza di mani (un'azione vi assicuro più che mai faticosamente duale) e pinze, bisogna poggiare sulla linea di sutura un minuscolo frammento d'oro, detto «paglione», una lega aurea che fonde prima dell'altra, altrimenti tutto l'anello sarebbe liquefatto. Il paglione va a riempire perfettamente la fessura tra i margini, diventando poi tutt'uno senza lasciare il segno di unione non appena si porta di nuovo tutto l'anello al rosso vivo. Il paglione sarà la parola o il gesto che, se non vi rinunciamo, riuscirà a vincere e colmare la distanza.
A questo punto, l'anello, ancora irregolare, va martellato su un cono di ferro sino a diventare perfettamente circolare, per poi essere lucidato con lime, carte e setole, di diversa grammatura, fino a far sparire ogni imperfezione e rendere il metallo brillante. Durante la lavorazione non sembrava potessimo ottenere quel risultato, come capita nella relazione, ma alla fine gli anelli erano perfetti, forgiati ad arte dalle nostre mani, sapientemente guidate: la relazione è il (capo)lavoro di una vita. Non erano solo due anelli, ma un duale, un «noidue» aureo: l'unione nella differenza, quell'azione comune che permette a ognuno di essere chi è ma anche chi ancora non è e diventarlo sempre più, grazie all’altro, senza dominio, sottomissione, manipolazione.
Il duale non è quindi a metà strada tra singolare (individuo) e plurale (società), ma è l'origine di entrambi: la «coppia» fa i due, si fa nella differenza senza che diventi opposizione e nell'unità senza che diventi fusione, solo così è un rapporto tra soggetto e soggetto (generativo) e non tra soggetto e oggetto (degenerativo): al massimo di appartenenza corrisponderà il massimo di libertà, al massimo di unione il massimo di individuazione. Come la coppia di occhi, orecchie, narici fanno il vedere, l'udire, il respirare, così il «noidue» fa l'amare, l'uno in due, la forma duale di esistere: co-esistere. Un duale che stiamo scoprendo, imparando, facendo con gioia inattesa, come quelle fedi.
Abitare la vita
Emanuele Borsotti
Abitare è una parola che deriva dal verbo habére che in latino vuol dire: trattenere, occuparsi, possedere e, come forma intensiva frequentativa, continuare ad avere e quindi anche abitare in un luogo, cioè avere una abitudine con quello spazio, farsene quasi un abito, qualcosa che indossiamo e che aderisce radicalmente alla nostra persona. L’uomo è un abitatore di luoghi, di tempi, di storie, di memorie e fa di tutto questo universo il suo habitat, il suo abitare.
Il modo con cui noi uomini stiamo sulla terra è l’abitare (Heidegger).
Bisogna però chiarire come abitiamo o come dovremmo abitare. C’è un abitare improprio che è uno sfiorare il paesaggio, leggere i luoghi come un fondale della nostra vita, come un ambiente palcoscenico che ci resta estraneo, al quale noi non aderiamo intimamente. Ѐ come se il paesaggio fosse un oggetto e noi un soggetto ma senza una profonda relazione fra questi due elementi. L’unico legame fra i due sarebbe una visione superficiale, un aspetto puramente visivo. Pensiamo alla nostra società del selfie: oggi molte volte l’uomo contemporaneo non vede neanche più ciò che sta attraversando, ma frappone fra il luogo e se stesso uno smarphone, un apparecchio fotografico e se va bene rivedrà poi quel luogo nello scatto fatto. Quando però noi scegliamo di fare un passo più in profondità e non ci limitiamo allo sfiorare turistico ecco che viviamo un’esperienza di ancoraggio, cioè abbandoniamo l’esteriorità dello spettatore per entrare in un dialogo. Non si tratta, come diceva Barthes, di limitarci a fotografare il mondo, ma si tratta di rimanere, di percorrere tutta la marezzatura dei luoghi, delle luci, dei momenti.
Questo ancorarsi al luogo è l’esperienza che Cristo fa tante volte. In Marco 10,23 viene usata l’espressione: circumspicere per indicare che Gesù guarda intorno, che ha uno sguardo a 360 gradi ed è questo sguardo che permette a Gesù di amare. Guardarsi intorno è guardare anche dentro l’altro e fare il passo di uno sguardo che ama. Ecco allora l’invito a non fermarsi a posare uno sguardo superficiale sui luoghi, ma ad entrare in una relazione, ad essere implicato dentro l’esperienza di quel luogo.
Ѐ l’esperienza pasquale di Cristo là dove, in Giovanni, si dice che entra nel cenacolo, e “stette in mezzo”, in mezzo non solo dell’ambiente, ma anche del ‘con’ e del ‘fra’ le persone. Ecco allora che nel lasciarsi assorbire da un ambiente e assorbire l’ambiente che ci ospita sta la differenza tra la provvisorietà del turista in transito e l’abitatore del luogo.
Se dunque non sfioriamo i luoghi, ma li abitiamo veramente, dobbiamo confrontarci con l’esperienza di essere costruttori e ricostruttori. L’uomo abita costruendo, costruisce per abitare, ma è proprio perché l’uomo è un abitatore che è in grado di costruire. Vivere è dunque anche questo: costruire e ricostruire luoghi e, attraverso la metafora del luogo, costruire e ricostruire l’esistenza di noi che lo abitiamo. Partiamo da una suggestione che ci viene dalla vecchia sapienza dell’imperatore Adriano - come immaginato dalla Yourcenar, nelle memorie di un grande condottiero - che alla fine della vita fa un bilancio e conclude dicendo: “Io ho costruito e ricostruito”. Costruire come sinonimo di collaborare con la terra, di “lavorare con” e “faticare con” perché labor in latino vuol dire innanzitutto fatica, quindi lavoro. Collaborare con la terra è imprimere il segno dell’uomo in un paesaggio che quindi ne resterà modificato per sempre. E in questo modo contribuiamo a una lenta trasformazione che è la vita delle città, degli edifici, dei nostri spazi vitali. E poi costruire è anche opera di ricostruzione perché bisogna fare i conti con la labilità delle cose e con il tempo, grande scultore, ma anche grande distruttore. Quindi ricostruire è collaborare con il tempo, con il passato, se ne coglie lo spirito, lo si modifica, lo si conserva e gli si imprime un movimento propulsivo cercando di farlo arrivare verso l’avvenire. Ricostruire significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti, l’esperienza sorgiva della vita. Quindi costruire è principalmente un atto di speranza: è dare forma al presente, plasmare la materia, dare una direzione alla vita e sporgerla verso l’avvenire, verso il durevole, verso quello che è il lascito ereditario. Sempre dalla Yourcenar, Adriano dice: “Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno”. Le cose sono sempre costruende, sempre da costruire, sempre da riedificare. Allo stesso modo la nostra umanità, la nostra vita interiore, le nostre profondità spirituali come i nostri legami affettivi sono sempre incompiuti e quindi in costruzione continua. Costruire come speranza e ricostruire come forma architettonica della consolazione è questa l’idea che ci viene dalla Scrittura, dall’AT e dagli scritti profetici.
Sono testi nei quali il verbo ricostruire e il verbo consolare vengono coniugati in parallelo e i paralleli sinonimici dell’ebraico ci dicono appunto che c’è una profonda osmosi fra le due cose.
Ricostruire un edificio, ricostruirsi una vita dopo una frattura significa fare un’opera di architettura della consolazione. Ѐ l’esperienza di Israele dopo l’esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme quando il Signore consola ricostruendola dalle sue rovine, riaprendo un giardino là dove c’era solo un deserto. Questo induce in un canto di gioia. E ancora possiamo dire che la costruzione è un’opera di incontro. Costruire significa incontrare. Quando l’uomo costruisce lo fa a partire da un numero di elementi architettonici basilari limitati.
La novità sta nel numero infinito di combinazioni di questi elementi di base e questo crea l’unicità. Unicità dell’incontro tra l’uomo e un luogo e unicità dell’incontro fra gli uomini all’interno di questo luogo.
E anche nell’incontro tra la mia vita e gli incidenti dell’esistenza perché la vita è anche costruire nonostante gli incidenti, accettando anche un cambio di angolatura che ci porta ad aprire vie nuove.
Le mie città nascono da incontri, dagli incontri dell’uomo con un angolo della terra - imperatore Adriano.
Quando io mi rapporto con uno spazio mi sto sostanzialmente rapportando con del non-umano e paradossalmente il non umano del luogo (vegetale, minerale) riesce a far vibrare le corde dell’umano e tocca il mio intimo. Ѐ il paradosso di un uomo che si umanizza anche in virtù di quel non umano. Sempre che si accetti di compiere l’esercizio dell’attenzione. “L’attenzione è l’apertura dell’essere umano a ciò che lo circonda, un’attenzione non solo ad extra, ma anche ad intra rivolta verso ciò che è in noi” (Zambrano). Attenzione deriva dal verbo tendere quindi significa slanciarsi verso, avere una direzione, voler procedere verso. Ma questa esperienza dell’abitare luoghi concreti, fisici, palpabili diventa sempre porta verso qualcosa che supera la fisicità del luogo. Quando Giovanni dice: “Il vento soffia dove vuole, ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va” ci fa anche capire che, per esempio attraverso lo stormire delle fronde, quel luogo vegetale diventa il luogo di un’esperienza fisica dell’impalpabile. L’esperienza dell’intangibile del vento mi si dà grazie al luogo vegetale che si muove in virtù di quel passaggio. L’impalpabile diventa presenza. (lo stesso si potrebbe dire di un altro impalpabile: la luce). L’esperienza della vita spirituale, ma anche gli affetti, gli amori, i dolori…funzionano come il vento, come la luce. L’uomo fa l’esperienza che qualcosa dell’ordine dello spirituale si sprigiona a partire da ciò che è fisico. Allora la frattura fra il fisico e lo spirituale in certi momenti viene meno e i luoghi diventano dei legami.
In Giovanni 1,14 si legge: “Il mistero di Dio in Cristo è mistero di un Dio, di una Parola che viene ad abitare in mezzo a noi”. “Maestro dove abiti”? e Gesù: “Venite e vedete” e i discepoli fanno un’esperienza. Questa esperienza principale che l’uomo fa dell’abitare si radica in una prima abitazione, che è l’abitazione nel corpo. Il corpo nostra prima abitazione. L’uomo è un corpo abitante e abitato. Il nostro corpo abita innanzitutto nel corpo di una donna, noi veniamo al mondo come abitanti e usciti da quella prima casa incominciamo ad abitare nel mondo esterno, a coabitare con gli altri. E poi l’uomo abita il corpo dell’altro; l’esperienza dell’amore fisico della coppia è l’esperienza dell’abitare realmente le profondità del corpo dell’altro. Questo avviene anche nell’esperienza della fede quando nella comunione il mio corpo diventa l’abitazione del corpo di Dio, e il corpo di Dio che abita nel corpo dell’uomo crea il corpo della chiesa. Noi mangiamo ciò che siamo, noi mangiamo quel corpo che stiamo diventando. Se questo è vero allora l’uomo è il primo luogo per l’altro uomo. Prima di trovare luoghi fisici che lo ospitano, il cucciolo dell’uomo che viene al mondo trova il suo primo luogo in un altro. Per il bambino la figura genitoriale rappresenta il luogo primario, il suo primo orizzonte è lo sguardo della madre che si china sulla culla. Quando poi diventa grande, si stacca dal luogo- corpo- materno e incomincia ad abitare i luoghi fisici dello spazio. E allora ci affidiamo alla sintesi fulminea di S. Agostino: “Amando, noi abitiamo con il cuore” cioè noi abitiamo con il cuore là dove si trovano i nostri affetti e tradotto in un altro modo: dove è il nostro amore, il nostro cuore, là noi abitiamo. Abitare un luogo implica sempre delle scelte e chiede anche di lasciarsi istruire dall’alterità del luogo, lasciarsi educare dagli spazi in cui si abita.
L’uomo come può abitare i luoghi? L’uomo abita la terra con merito perché fa tante cose, ma bisogna aggiungere al merito delle cose che si fanno quella postura poetica dell’abitare che Holderlin e altre personalità del mondo della cultura hanno così sintetizzato: “abitare poeticamente”.
Poeticamente ci rimanda al verbo poiein che significa fare, abitare facendo e facendoci. Poetare significa aiutare noi stessi e gli altri ad abitare la vita. Questa azione dell’abitare poeticamente è per Holderlin l’azione del misurare la distanza tra cielo e terra. Noi abitiamo quando siamo capaci di custodire questa nostra duplice appartenenza alla terra sulla quale appoggiamo i piedi e al cielo verso il quale protendiamo il capo. La grande sfida è vivere in una duplice dimensione: chi impara ad avere una consuetudine buona, armonica con i luoghi fisici può ritrovarsi alla scuola preziosa dove imparare ad abitare amorevolmente, poeticamente se stesso; chi sa abitare se stesso, i suoi spazi interiori è capace di abitare amorevolmente, poeticamente i luoghi esterni. Ma questa è un’arte che si apprende nel tempo, con fatica e con pazienza. Con il coraggio di osare l’originalità di ciascuno.
Sperare
di Giovanni De Mauro
“La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio.
Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita.
Significa riconoscere l’incertezza del futuro e impegnarsi a cercare di partecipare alla sua creazione.
Significa affrontare le difficoltà e accettare l’incertezza. Sperare significa riconoscere che si può proteggere qualcosa di ciò che si ama anche se si soffre per ciò che non si può proteggere – e sapere che dobbiamo agire senza conoscere l’esito di queste azioni.
Più e più volte il mondo è stato cambiato da persone che, all’inizio, sembravano troppo deboli per sfidare le istituzioni più potenti del loro tempo. Sperare significa accettare la disperazione come emozione ma non come analisi. Riconoscere che ciò che è improbabile è possibile, così come ciò che è probabile non è inevitabile. Capire che difficile non equivale a impossibile. Pianificare e accettare il fatto che l’imprevisto spesso sconvolge i piani, sia in meglio sia in peggio.
Sapere che i potenti hanno le loro debolezze e che noi, che in teoria siamo deboli, abbiamo un grande potere insieme, il potere di cambiare il mondo, lo abbiamo fatto in passato e lo faremo ancora. Sapere che il futuro sarà come lo costruiamo nel presente. Sapere che la gioia può apparire nel bel mezzo di una crisi e che una crisi è un bivio.
Forse la speranza è il coraggio di perseverare quando vincere sembra difficile; forse non è la speranza ma la fede che sostiene le persone quando il successo sembra inconcepibile.
È in questo senso che ne parla il drammaturgo Václav Havel, che è stato un catalizzatore della rivoluzione e del cambio di regime in Cecoslovacchia negli anni settanta e ottanta: ‘La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che vale la pena fare qualcosa a prescindere da come andrà a finire’”
Trascendenza
Paolo Zini
Nel pensiero occidentale il termine trascendenza gode di un autentico rilievo sintomatico, per la plurivocità di semantizzazioni che ha saputo condensare, quasi ricapitolandovi i tornanti fondamentali di un’articolata storia della teoresi e del costume.
I referenti privilegiati del termine hanno visto succedersi l’oltremondanità noetico-metafisica nella filosofia classica, il principio soteriologico e il destino escatologico della storia nella filosofia medioevale, i canoni regolativi dell’impresa civile e politica nell’umanesimo, l’inviolabilità della dignità soggettiva nella modernità illuministica e l’ideale della realizzazione del sé nella postmodernità.
A dispetto dell’eccesso di schematizzazione che pare implicato in tale sequenza, le figure di trascendenza che vi si profilano tracciano una parabola che, per il suo valore euristico, potrebbe essere di qualche utilità considerare.
L’abrasività degli aforismi nietzschiani - che restituiscono lo sviluppo del pensiero occidentale attraverso i canoni investigativi di una rigorosa eziopatogenesi - non esita a identificare nel platonismo un’ossessione per la trascendenza, origine ultima di quel vilipendio etico-religioso della vita che avrebbe trovato in secoli di filosofia la propria legittimazione teorica.
Il carattere discutibile dell’ermeneutica nietzschiana non può impedire di riconoscervi un’intuizione pertinente, circa la solidità del vincolo che annoda, nella filosofia occidentale, i destini dell’umano alle forme di identificazione e di ossequio alla trascendenza.
Con Platone – di nuovo il convincimento di Nietzsche qui è irrefutabile - l’istanza metafisica non diviene semplicemente prescrittiva relativamente ad una particolare deontologia della conoscenza, ma giunge ad ispirare una vera e propria assiologia epistemologica, che sancisce per quindici secoli la primazialità cognitiva del sapere circa la trascendenza delle cause ultime.
Il convenire dell’apertura dell’intelligenza umana e dell’intelligibilità ultima del reale definisce un segmento di consostanzialità ontologica e gnoseologica che decide la singolarità personale e discrimina la dignità della sua vocazione storica; sono istruttive al riguardo le parole solenni di Socrate nel Fedone: “Qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano, né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme. Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri, ebbene, vuoi che ti esponga, o Cebete, la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?” (Platone, 2001, 99d).
Con l’avvento del cristianesimo l’identificazione greca della trascendenza ed i suoi riflessi sull’autoidentificazione dell’umano conoscono una trascrizione soteriologica di impatto culturale e civile decisivo. Principio gnoseologico risolutivo per la competenza dell’umano circa la contraddizione storica dell’esistere è la Rivelazione, alla cui luce l’uomo conosce la misura della propria precarietà cognitiva ma pure le ragioni del proprio riscatto e della propria speranza. Alla bios theoretikos della tradizione greca, quale forma dell’esistere dell’umano riuscito, subentra la fede, quale abito intellettuale e volitivo acceso dall’obbedienza all’anticipazione pasquale del destino escatologico della storia. Corrispondentemente, alla trascendenza greca del logos, che eroga consistenza ontologica al cosmo e supera il carattere aporetico della contingenza storica dell’ente, subentra la trascendenza del Verbo, che vince le tenebre dell’ignoranza e della morte e inaugura l’attesa del giudizio escatologico che compirà la trasfigurazione trinitaria della storia. L’identificazione cristiana della trascendenza diventa principio di rideterminazione teologale dell’esistenza all’intersezione di un dono e di un compito che rivelano alla libertà la sua provenienza ed il suo destino.
Ben documentano la potenza della riqualificazione soteriologica della storia da parte dell’evento cristiano le parole di un’opera di Anselmo d’Aosta che così illustra la verità dell’esistere alla luce della fede: “Quale condotta più misericordiosa si può infatti riconoscere di quella del Padre, il quale, al peccatore condannato ai tormenti eterni e privo di quanto potrebbe salvarlo, dice: «Prendi il mio Unigenito e offrilo per te», e il Figlio da parte sua: «Prendi me e redimi te»? Questo dicono in qualche modo, quando ci chiamano e ci attirano alla fede cristiana” (Anselmo d’Aosta, 2007, II.20).
La Stimmung rinascimentale, accreditata da una singolare incisività culturale, revoca alcune fondamentali premesse cristiane della civiltà medioevale; l’osservatorio che consente di registrare la radicalità del cambiamento è quello della disciplina della convivenza civile in ordine alla quale il machiavellismo politico può essere icasticamente riconosciuto come laboratorio di una risemantizzazione della nozione di trascendenza. Il realismo del Principe descritto da Machiavelli, obliterando le giustificazioni metafisiche ed oltremondane del patto civile e della sua tutela istituzionale, svela - attraverso l’autoreferenzialità della ragione politica e il culto antiprovvidenzialistico dell’occasione che tesaurizza l’eccentricità della fortuna - l’assolutizzazione dell’orizzonte mondano quale pertinenza antropologica. In tale orizzonte rigorosamente storico ha un ruolo fondamentale l’eminenza antropologica, che si legittima per riferimento alla trascendenza non più della ragione metafisica dei fini, ma dell’astuzia opportunistica dei mezzi.
La soggettività nata dall’Umanesimo non considera dimidiato il proprio pregio per l’estraneità alle coordinate protologiche ed escatologiche che nella rivelazione cristiana la vedevano eletta a senso del cosmo meritevole il Sacrificio di Dio e la definitività di un destino eterno, piuttosto avverte l’ebbrezza della propria vocazione al dominio storico entro il quale celebra la sua assolutezza. La misura angusta ed immanente di una mondanità che trae da sé le forme della propria disciplina emerge con chiarezza inequivoca dalla deontologia politica del Principe di Machiavelli: “Resta ora a vedere quali devono essere i modi e governi d’un Principe con li sudditi e con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito scrivendone ancor io, non essere tenuto presuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma, essendo l'intento mio scriver cosa utile a chi l’intende, m’è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa: e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverria fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua” (Niccolò Machiavelli, 1858, XV).
Con la modernità illuminista il senso della trascendenza soggettiva, che l’Umanesimo insieme assegna ed affranca dal corso naturale degli eventi per inaugurare nella storia il protagonismo civile, si palesa come coscienza dell’autonomia della ragione e del potere di autodeterminazione della libertà. Il progetto kantiano è, da questo punto di vista, emblematico: la dignità dell’uomo non risiede nella capacità della sua intelligenza di riconoscere ultimativamente il principio trascendente del logos intrinseco alla realtà quale fonte di disciplina morale; piuttosto, il rigoroso ed esclusivo convenire di ragione e libertà nell’autonomia soggettiva subordina, al progetto della solitaria edificazione di sé, senso e valore dell’impresa civile e della sua eventuale referenza religiosa. È la trascendenza della differenza razionale dell’umano, identificata con il suo importo critico, rispetto ad ogni indigenza materiale, ad ogni prescrizione civile e ad ogni sentimento religioso, il fondamento di ogni prescrizione e legittimazione di senso. Le parole di Kant relative allo spirito illuministico sono molto precise: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo. Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. […] Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro. […] A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi” (Kant, 1783).
Con la temperie postilluminista, nella quale viviamo, l’estenuazione del rilievo socioculturale della trascendenza oltremondana conosce, forse a dispetto di numerose apparenze contrarie, la sua radicalizzazione. Non devono infatti ingannare il cosiddetto sacro di ritorno o la sovradeterminazione rituale e pseudoreligiosa dell’esistere cui si dirigono nostalgie individuali e collettive della società dei consumi. Oggetto di sacralizzazione pare infatti essere un ideale del sé caratterizzato da un’omeostasi assoluta, raggiunta attraverso la soddisfazione consumistica dei bisogni e l’esorcizzazione tecnica, mediatica e medica della sofferenza.
La fortunata espressione di Charles Taylor, che caratterizza il nostro tempo come età secolare, rimarca la filigrana immanentistica della figura di trascendenza cui l’uomo postilluminista riserva il proprio culto, annodandovi le costellazioni di significati deputate ad orientare l’esistere.
A caratterizzare, di riflesso, il tipo umano rappresentativo delle convivenze occidentali della contemporaneità, secondo Taylor, sarebbe l’identità schermata, esito di un processo di natura antropocentrica e solipsistica innescato dal senso di superiorità del soggetto sul mondo, dall’intensità di un nuovo rapporto della soggettività con se stessa e da una radicale reversibilità imposta dalla sua libertà ad ogni forma di vincolo con altri: “Quali erano (e sono) i vantaggi di questa identità schermata, antropocentrica? Le sue attrattive sono piuttosto ovvie, almeno per noi. Un senso di potere, di idoneità, derivante dalla capacità di dare ordine al proprio mondo e a se stessi. E, nella misura in cui tale potere era legato alla ragione e alla scienza, anche il senso di aver fatto grandi progressi in termini di conoscenza e comprensione. Oltre al potere e alla ragione, questo antropocentrismo presentava però anche un altro vantaggio notevole: un senso d’invulnerabilità. Vivendo in un mondo disincantato, il sé schermato non è più aperto, esposto a un mondo di spiriti e forze che attraversano il confine della mente e negano, perciò l’idea stessa dell’esistenza di un confine certo. Le paure, le ansie, persino i terrori che caratterizzano il sé poroso sono ormai alle spalle. Questo senso di padronanza di sé, di uno spazio mentale interiore sicuro, risulta ancora più forte, se oltre al disincanto del mondo abbiamo anche intrapreso la svolta antropocentrica e non facciamo più affidamento sul potere di Dio” (Taylor, 2009, p. 383).
Il prezzo però dell’identità schermata, retaggio di una trascrizione immanentistica di ogni trascendenza e di ogni differenza, pare sortire effetti autistici, che l’indagine di Taylor rimarca in modo tagliente: “L’identità schermata è profondamente ancorata nel nostro ordine sociale, nel nostro radicamento nel tempo secolare, nelle discipline distaccate di cui ci siamo fatti carico. Questo ancoraggio garantisce la nostra invulnerabilità, ma può essere vissuto anche come un limite, persino come una prigione, che ci rende ciechi o insensibili a tutto ciò che si trova al di là di tale mondo umano ben ordinato e ai suoi progetti razionali in senso strumentale. Può così facilmente diffondersi l’idea che ci manchi qualcosa, che le nostre vite siano tagliate fuori da qualcosa, come se vivessimo dietro uno specchio” (Taylor, 2009, p. 384).
Se la parabola tracciata nomina le figure di trascendenza divenute ispiratrici dei processi di costituzione e giustificazione degli assetti epistemologici, politici e civili del costume oggi dominanti, va nondimeno riconosciuto che numerose voci continuano a richiamare l’importanza di una diversa elaborazione del vincolo della coscienza all’ulteriorità oltremondana come condizione impreteribile di esercizio nobile della libertà.
Nel panorama culturale contemporaneo non mancano poi diagnosi che attribuiscono il disorientamento postmoderno e il tratto depressivo del suo approccio all’esistere proprio all’immanentizzazione soggettivistica di ogni trascendenza: “La nostra civiltà è la prima che si crede immortale, mentre forse è semplicemente la prima alla quale manchi un consapevole sentimento di limitazione. […] Eppure, fagocitando ogni rispetto del limite assieme a quello per dio e per la morte, la nostra civiltà sembra quasi aver seguito un cammino opposto e regressivo. […] La sua laicizzazione non è stata solo adeguamento a nuove regole esterne, ma metamorfosi interiore e trasmutazione dell’anima in luogo così complesso da farsi sempre più difficilmente esprimibile. Se dio è stato rimosso dai cieli e incorporato sotto forma di aspirazioni come lui infinite, anche la morte, allontanata dagli occhi, si riaffaccia all’interno dei soggetti travestita da depressione non razionalmente motivabile. Il nucleo di tale ripiegamento dello slancio vitale è una colpa assoluta, priva di motivi visibili, cui corrisponde un vissuto di insufficiente giustificazione dell’esistere” (Zoja, 2004, pp. 209-210).
I riflessi preoccupanti della seduzione immanentistica tipicamente occidentale suggeriscono forse di prestare attenzione a quegli autori impegnati a stigmatizzare la ridefinizione antropocentrica della trascendenza che la libertà finita vorrebbe ridurre a riflesso del proprio narcisismo.
Tra questi autori si segnala Levinas, la cui proposta speculativa è una rigorosa declinazione dell’assunto circa il carattere antropologicamente genetico della Trascendenza come Alterità e dell’Alterità come Trascendenza.
“Al di là della fame che si può saziare, della sete che si può calmare e dei sensi che si possono appagare, esiste l’Altro, assolutamente altro, che si desidera oltre queste soddisfazioni, senza che il corpo conosca alcun gesto per appagare il Desiderio, senza che sia possibile inventare una nuova carezza. Desiderio insaziabile, non perché corrisponda a una fame infinita, ma perché non reclama alcun nutrimento. Desiderio senza soddisfazione, che, proprio per questo, prende atto dell’alterità dell’Altro (Altrui) e la colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell’essere” (Levinas, 1989, p. 42).
Levinas ritiene sia compito urgente della filosofia ripensare il realismo della libertà riconoscendovi tanto un’insuperabile serietà storica quanto un’indigenza radicale che interdice all’umano ogni illusione autarchica e prometeica. Forse la provocazione di Levinas potrebbe sostenere una riformulazione dell’interrogativo circa l’origine trascendente del senso che nutre la libertà autorizzandone l’esercizio ed animando la reciprocità della dedizione interumana. Tale interrogativo potrebbe essere posto in ossequio ai guadagni dell’umanesimo e della modernità circa il valore dell’emancipazione civile, dell’autonomia della ragione, della fecondità culturale della libertà; non da tale ossequio viene infatti la necessità di una liquidazione della trascendenza che invece esibisce la persuasività della propria assolutezza mentre assicura tutela all’umano divenuto consapevole del prezzo e del pregio del cimento della propria libertà.
Nessuna coscienza soggettiva potrebbe essere definitivamente all’altezza delle severe esigenze del proprio compito quando patisse senza possibilità d’appello il giudizio della disperante potenza erosiva del tempo; sono sempre gli indizi e i simboli storici della trascendenza del senso e del senso della trascendenza ad erogare alla libertà insieme alle ragioni della propria speranza la coscienza della propria serietà e dignità.
Bibliografia
Anselmo d’Aosta (A. Orazzo ed.), Perché un Dio Uomo? Lettera sull’incarnazione del Verbo, Città Nuova, Roma 2007.
I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo, 1783, reperibile on-line al sito <http://bfp.sp.unipi.it/classici/illu.html> (visitato il 29.12.2011).
E. Levinas, La filosofia e l’idea dell’infinito, in E. Levinas - A. Peperzak (F. Ciaramelli ed.), Etica come filosofia prima, Guerini e Associati, Milano 1989, 31-46.
N. Machiavelli, Il Principe, in Id., Opere complete, II voll., Libreria di Francesco San Vito, Milano 1858.
Platone (G. Reale ed.), Fedone (Il pensiero filosofico), La Scuola, Brescia 200119.
Ch. Taylor (P. Costa ed.), L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009
L. Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Bergamo 20042.
Alessandro D’Avenia "La fine del mondo"
La prima: sappiamo che quando un certo tipo di stelle invecchia si espande ma, per la prima volta, abbiamo acquisito immagini di un pianeta che, a 13mila anni luce da noi, precipita dentro una di queste stelle con uno sbuffo di polvere.
La seconda: la probabile origine dei quasar (QUAsi stellAR: sorgente di luce quasi stellare). Scoperti sessant'anni fa, sono i più potenti oggetti celesti noti: brillano come un miliardo di miliardi di stelle ma in uno spazio ristretto come potrebbe essere il nostro sistema solare. Lo studio di 48 galassie in cui sono presenti hanno svelato che i quasar sono l'effetto dello scontro tra due galassie. Gli astrofisici ci raccontano il passato, scoprendo le costanti che regolano l'universo allo stesso modo in cui alcuni uccelli migrano e i mandorli fioriscono: la scoperta della nostra origine è ipotesi sul nostro futuro. Infatti queste due ricerche, anche se del tutto indipendentemente, ci annunciano, proprio per la regolarità del cosmo, che il mondo finirà per uno di questi due motivi: o il Sole, che è una di quelle stelle che invecchiando si espande, ci inghiottirà o la nostra galassia si scontrerà con quella di Andromeda.
Quando? In entrambi i casi i due eventi sono ipotizzati tra 5 miliardi di anni: la fine è sicura ed ha una scadenza indicativa, come i cibi.
Chi se ne importa, direte voi, l'universo di anni ne ha 14 miliardi e noi solo 2 milioni: c'è ancora «tutto il tempo» prima della «fine del mondo»! Siamo sicuri?
La tanto abusata frase di Saint-Exupéry sul fatto che si vede bene solo con il cuore, coglie un punto tutt'altro che sentimentale, confermato dalla fisica quantistica: noi vediamo ciò che siamo. Scopriamo fuori di noi ciò che ci portiamo dentro: in negativo quando non lo vogliamo affrontare, come quando vediamo negli altri i nostri difetti (quanti tirchi, permalosi, invidiosi... lo sono perché lo siamo prima di tutto noi); in positivo quando riconosciamo fuori qualcosa che abbiamo prima accolto dentro di noi (chi è innamorato scopre il cielo, chi è malinconico la Luna). E così quando scopriamo certi fenomeni naturali vediamo noi stessi: la nostra origine è il nostro futuro.
Nei 5 miliardi di anni che restano c'è quindi non solo una scadenza ma un promemoria del desiderio. Lo aveva già intuito Giuseppe Ungaretti, quando, in trincea, durante la prima guerra mondiale, in una notte estiva, scrisse su un pezzetto di carta:
«Chiuso tra cose mortali (anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio?» (Dannazione - 29 giugno 1916).
Sentiva nella carne la «mortalità» di tutto, persino del cielo stellato con la sua illusione d'infinito già segnalata sulle carte dell'anima da Leopardi. Ma l'ultimo verso testimonia, di fronte al “finire” di tutte le cose, che qualcosa in noi si ostina invece a «in-finire»: la parola Dio viene infatti da un'antica radice per «Luce», da cui termini apparentemente lontani come Zeus in greco, dies (giorno) in latino, divino in italiano.
Di fronte al buio che avvolge la nostra origine e la nostra fine, il cuore brama luce.
Ma che cosa dovrei farci di 5 miliardi di anni se a me ne restano poche decine? Farli entrare in quelle decine, rendendole «la fine del mondo». Come? Lo dice bene un racconto dello scrittore russo, naturalizzato francese, Andreï Makine, che ruota attorno a un ricordo d'infanzia nell'asfissiante Russia sovietica. Giocando a nascondino tra le tribune deserte che ospitavano fino a poche ore prima i rappresentanti del partito osannati dalla massa, un bambino trova una donna, sola, che legge la lettera del suo amato, tra le lacrime: «Non era la prima donna ad abbagliarmi con la sua bellezza. Era la prima, però, a rivelarmi che una donna che ama non appartiene al nostro mondo ma ne crea un altro e lì resta, sovrana, inaccessibile alla febbrile rapacità dei giorni che passano... La bellezza umile del volto femminile dalle palpebre abbassate rendeva ridicole le tribune e chi le occupava, e la pretesa degli uomini di ergersi a profeti della Storia. La verità era espressa dal silenzio di quella donna, dalla sua solitudine, dal suo amore così grande che perfino il bambino sconosciuto che scendeva i gradini ne era rimasto abbagliato per sempre».
Quel volto fa capire al bambino che l'eden che il comunismo gli prometteva e inculcava a scuola era una frottola, perché mancava l'essenziale: «Era prevista ogni cosa nella società ideale: il lavoro entusiasta delle masse, i progressi favolosi della scienza e della tecnica, la conquista dello spazio che avrebbe portato l'uomo verso galassie sconosciute, l'abbondanza materiale e i consumi ragionevoli legati al cambiamento radicale della mentalità. Tutto, proprio tutto! Eccetto... Non pensai “l'amore”, semplicemente rividi la giovane donna in mezzo alla grande calma soleggiata delle nevi. Una donna con gli occhi chiusi e il cui volto si protendeva verso colui che amava» (Il libro dei brevi amori eterni).
Quel volto di donna che piangeva l'amato, morto nella guerra voluta da chi occupava poco prima quegli stessi spalti, smascherava il potere con cui l'uomo e gli Stati si illudono di esistere, di essere padroni del tempo, opponendogli l'unico metodo di riuscirci davvero: amare. Infatti chi ama ha «tutto il tempo»: lo riceve (da una carezza, da una cosa bella, da un amico...) e lo dà (in una carezza, facendo una cosa bella, a un amico...). Invece per chi cerca di accaparrarsi il tempo, usando ed esaurendo le cose e gli altri (e fa quindi in vario modo la guerra), il mondo finisce continuamente.
L'amore, come la luce, piega tempo e spazio in una sorta di legge della «relatività esistenziale», che poi è la legge della «relazione universale». Diciamo infatti di una cosa che è la «fine del mondo» sia perché è talmente bella (la bellezza è amore in atto) da crearne uno nuovo, come fa l'amore della donna sulle tribune, sia perché qualcuno lo distrugge, come coloro che, osannati, occupavano quelle stesse tribune.
Amore o disamore: sta a noi scegliere quale «fine del mondo» fare, senza aspettare che il Sole ci inghiotta o che ci investa Andromeda.
Enzo Bianchi "La forza della debolezza"
In Occidente siamo convinti che la dimensione in cui ci troviamo a vivere oggi sia la precarietà: soffriamo di questa condizione più che in altre stagioni. La vita è da sempre qualcosa di precario – nasce, cresce, decade – ma oggi ne abbiamo maggiore consapevolezza. E se il termine “precarietà” rimanda a ciò che è ottenuto con la preghiera (prex), esso indica anche ciò che è provvisorio, non garantito per sempre.
La condizione umana stessa è precaria, mutevole, instabile, fragile: ogni essere umano è sempre destinato a nascere, crescere e poi decadere fino a morire. Ciò che deve sempre suscitare meraviglia, però, è che Dio non solo abbia creato realtà precarie, ma dopo averle create le abbia riconosciute come “buone e belle” (cf.Gen 1). Poche cose sono precarie come un fiore, ma chi, contemplandolo, non sa vederne la bellezza?
I cattolici hanno rimosso la precarietà, soprattutto quando pensano alla Chiesa e alle realizzazioni spirituali da loro intraprese. Si sentono garantiti dalla parola di Gesù: Non praevalebunt (Mt 16,18), interpretandola in modo illegittimo come assicurazione, garanzia. Gesù però non esenta dalla precarietà la comunità cristiana, le assicura solo che su di essa, come sul mondo, il male non avrà l’ultima parola.
Sappiamo dalla Storia che le comunità cristiane a un certo punto si sono mostrate talmente precarie da essere cancellate dalla geografia della terra. Sì, per molti secoli, almeno qui in Europa, le chiese sono apparse potenti, in condizioni di sicurezza, ma oggi i cristiani sono ridotti a minoranza in un contesto in cui domina l’indifferenza. Ma in verità questa sarebbe la condizione normale dei cristiani nel mondo. Anomala era la cristianità da Costantino fino ai tempi moderni. Gesù aveva parlato solo di sale, di luce, di una città posta sopra un monte (cf. Mt 5,13-16), aveva anche descritto la dinamica del Regno evocando quella del lievito nella pasta (cf. Mt 13,33). Essere minoranza addirittura nascosta non significa essere insignificanti, deboli, fragili, non significa essere spiritualmente decadenti. Oggi noi vediamo molte comunità “precarie”, poco efficienti e poco visibili, incapaci di eloquenza e di essere una presenza in grado di farsi ascoltare.
Ma in realtà ciò che conta è che queste realtà vivano secondo il Vangelo, siano segni di narrazione di Gesù Cristo. Povere e deboli, oppure numerose e forti, in realtà ciò che conta è che testimonino soprattutto il comandamento nuovo, cioè definitivo, lasciato loro da Gesù: quello dell’amore reciproco.
“Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10),confessava l’apostolo Paolo, e questo può essere vissuto anche nelle situazioni di precarietà comunitaria. Ha scritto Armand Veilleux: “Anche con la nostra debolezza, o addirittura proprio a causa della nostra debolezza, noi abbiamo una missione da svolgere in un mondo sofferente” e San Bernardo, in una situazione di crisi e di insuccessi nella sua vita, vagava per i boschi ripetendo: “O beata debolezza!”, perché confessava di imparare più dalla sua fragilità che dalla sua forza.
Vivere di fede nella vita quotidiana
Fede è possedere
ragioni per vivere
Riccardo Tonelli
La stragrande maggioranza degli uomini vive di fede: affidano infatti a cose, persone, sogni e progetti un pezzo della loro esistenza. Chi crede in Gesù Cristo, condivide questo atteggiamento comune, lo orienta verso orizzonti nuovi, lo fonda su una radice che afferma insperabilmente sicura. Come fanno tutti, consegna la sua vita e la sua speranza a qualcosa che, in qualche modo, lo supera.
La diversità tra la fede cristiana e la fede con cui ci diamo ragioni per vivere, provocati dai problemi che la vita di tutti i giorni ci lancia, è tanto importante e qualificante che i cristiani pretendono, proprio sulla forza della loro fede, di essere gente che vive in questo mondo come se fosse di un altro mondo.
I punti di contatto sono però tanti che solo chi condivide il significato del sostantivo «fede», può dire in termini seri la novità che proviene dall'aggettivo «cristiana».
Per questa ragione propongo di incominciare la nostra ricerca sulla fede cristiana mettendoci sinceramente alla scuola degli uomini che sanno vivere di fede in modo maturo. La mia fede in Gesù Cristo, a cui non posso rinunciare per una falsa pretesa di neutralità, ispira la riflessione e la orienta verso direzioni che altrimenti potrebbero sfuggirmi.
L'espressione «vivere di fede» viene utilizzata in differenti contesti. Si parla di fede politica, di fede in una persona o in una istituzione; qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una squadra di calcio.
In questi modelli esiste un denominatore comune: fede è un complesso di ideali, capaci di guidare gli orientamenti di una persona, fino a sollecitare un impegno coerente di vita.
Nella declinazione religiosa la fede riferisce a Dio il fondamento di questi ideali e l'orizzonte ultimo della vita.
La fede cristiana assume e condivide questo atteggiamento. Lo radica sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia. E si esprime come risposta personale alla Parola ascoltata. Si differenzia dalle altre fedi religiose perché riconosce in Gesù di Nazaret il testimone definitivo del Padre.
Un complesso di ideali assunti per «identificazione»
Il complesso di ideali, in cui una persona si riconosce e a cui ispira la sua esistenza (da quelli politici a quelli sportivi, fino a quelli che investono le dimensioni più radicali della vita e chiamano direttamente in causa Gesù Cristo), sono assunti attraverso un processo di identificazione.
L'identificazione è un processo formativo molto originale, diverso da quello di cui abitualmente ci serviamo per apprendere nuove informazioni o per acquisire nuove competenze.
Nell'insegnamento, chi sa comunica la sua scienza agli altri. Essi ascoltano, valutano e assimilano le proposte. Per abilitarci a competenze che non avevamo (la guida di un automobile, l'uso del computer, una disciplina sportiva...), la via normale è quella della ripetizione dei gesti adeguati: provando e riprovando, diventiamo competenti.
In tutti i casi, al centro c'è uno specialista che fa la sua proposta e ne giustifica la correttezza sul filo della logica.
Nei processi di identificazione le cose procedono in modo assai diverso. Riconosciamo qualcuno significativo e importante per noi per quello che è. All'esperto viene sostituito il testimone; alla logica subentra l'esperienza. Decidiamo così di aprire a lui il santuario intimissimo della nostra vita, per affidargli la gestione delle ragioni decisive dell'esistenza.
Qualche volta si tratta di ragioni oggettivamente piccole e povere. La persona che le condivide le valuta però così importanti da fondare in esse un pezzo della sua passione e del suo entusiasmo.
Altre volte si tratta di ragioni grandi e impegnative, per cui vale davvero la spesa giocare tutta la vita.
L'identificazione scatta nei confronti di una persona, singola e concreta, nei confronti di un gruppo sociale di appartenenza, e, qualche volta, anche nei confronti di una istituzione.
L'operazione è delicata e un po' pericolosa, soprattutto quando non ci sono di mezzo solo aspetti parziali dell'esistenza, ma tutta la vita ne viene afferrata. Non esistono però alternative. Gli «ideali», quelli che danno ragioni per vivere, sporgono sempre verso l'ignoto e il non posseduto. Non diventano significativi perché sono pienamente verificati; lo diventano solo perché sono resi significativi dalla testimonianza di alcune persone. Siamo disposti ad accettare il rischio di giocare la nostra esistenza su un fondamento che non riusciamo a possedere in modo pieno e verificabile, perché stimiamo «degni di fiducia» questi nostri interlocutori.
Dare vita e dare ragioni per vivere
Questo fatto merita un'attenzione speciale: ci introduce nel mistero della generazione della vita.
Esiste una persona, una comunità, un gruppo di credenti, che è portatore di un insieme di ragioni per credere alla vita e sperare in essa dentro la morte. Questo soggetto consegna ad altri l'ideale in cui si riconosce.
Lo fa come gesto d'amore. Non ha nessun altro scopo recondito. Non vuole diffondere nuovi modelli culturali; non ha prodotti raffinati da immettere sul mercato. Non cerca proseliti per la sua causa. Non gli interessa produrre strumenti di pressione, magari a fin di bene.
Ha una sola intensa passione: la vita. E si lascia inquietare profondamente dalla diffusa domanda di vita. Ha vissuto un'esperienza che ha rassicurato la sua incertezza e ha confortato la sua paura. E vuole offrire ad altri il dono di cui è stato fatto ricco.
L'intenzione e i gesti che accompagnano e verificano la sua testimonianza sono le uniche prove che la rendono «credibile», in una compagnia che sostiene e rende forte la sua povera voce e i suoi gesti incerti.
Sulla provocazione della sua testimonianza, altri ritrovano ragioni per vivere e per sperare. Nasce la fede. Qualcuno può ora dire: «Adesso anch'io credo alla vita».
Dare la vita sul piano fisico, nella generazione della carne, è un avvenimento misteriosamente grande e impegnativo. Continua l'impresa divina della creazione. Non è però sufficiente: dà la vita veramente solo chi dà ragioni per vivere. Senza ragioni per vivere, la vita è una disperazione: molto meglio la morte.
Nella fede, che ci scambiamo da persona a persona, si realizza il livello più alto di generazione. Sostenendo la fede di una persona, noi le diamo la vita.
Vivere di fede è possedere ragioni per vivere; donare la fede, suscitando ideali per cui vivere, è dare pienamente la vita.
LA QUALITÀ DI UNA FEDE «ADULTA»
Ho già avanzato una punta di sospetto sull'identificazione, perché questo processo ha sempre il rischio di diventare manipolatorio. Ci sentiamo tanto in crisi, alla ricerca affannosa di ragioni per vivere, che diventiamo disposti a svendere la nostra libertà e ci fidiamo ciecamente di colui che ci fa proposte.
La zona di rischio è tanto più larga, quanto è intensa la ricerca di speranza o quanto le proposte sono offerte con toni solenni e seducenti.
L'ho già detto: non ci sono alternative. Gli ideali che danno fondamento alla nostra speranza si accettano per scommessa, rinunciando alle fredde procedure razionali.
Questa condizione fa problema a chi vuole giocare la sua umanità in piena responsabilità.
Di qui l'interrogativo: quando posso considerarmi adulto nel vortice del processo di identificazione?
Quali condizioni personali indicano che è diventata fede «adulta» l'atteggiamento vitale di chi affida a un fondamento le sue ragioni per vivere e per sperare?
Il bambino affida la sua speranza alla mano sicura della mamma. Lo fa senza chiedersi il perché di questo suo atteggiamento e senza pretendere motivi che lo giustifichino.
Non è certo questo lo stile di una fede «adulta». Possiamo però considerare «fede» adulta l'atteggiamento di chi vuole rendersi conto di tutto e non decide nulla della sua vita se non quando tutti i conti gli tornano con sicurezza? Certamente no. La fede ha sempre una dose alta di rischio personale. Non possiamo mai dire: «è così, e solo così», come quando ci mettiamo a dimostrare un teorema di matematica.
La fede adulta non assomiglia all'atteggiamento
critico dello scienziato, ma neppure a quello del bambino nelle braccia della madre. Quando, allora, divento adulto nella fede?
Lo stretto rapporto esistente tra fede e vita giustifica una risposta che può suonare un po' strana: la qualità della fede, come la qualità della vita, si misura dalla sfida della morte.
La fede è «adulta» quando sa possedere anche la morte. Lo esprimo mettendo in risalto due caratteristiche di questo difficile confronto.
Ricostruire l'identità dall'interiorità
Ci chiediamo spesso chi siamo, anche per riuscire a dire a noi stessi chi vogliamo essere. Ce lo chiediamo provocati nel confronto con gli altri e nel frastuono di mille seducenti proposte.
Di risposte ne abbiamo tantissime, tutte pronte all'uso. Dalla parte della morte, in quel silenzio impietoso che essa provoca, le scopriamo spesso troppo fragili per bastare a saziare un'inquietudine mai spenta.
Una cosa è certa: l'identità è l'esito di una lunga faticosa marcia di conquista. Solo a fine percorso sappiamo chi siamo veramente. Non possiamo pretendere di dircelo una volta per sempre, attingendo poi a questa definizione con la stessa presunzione con cui trattiamo il nostro conto in banca.
Il momento della morte è quello in cui in modo definitivo possiamo finalmente affermare la nostra identità. Ma, a quel punto, non ci serve più. Siamo come quegli studenti a cui balena la soluzione intelligente del problema qualche istante dopo aver concluso l'esame.
L'identità non è utile a fine percorso; serve il lento procedere della nostra giornata, tappa dopo tappa.
Possiamo sognare un tipo di identità conclusiva, nel momento solenne della morte, solo se l'abbiamo costruita così giorno dopo giorno.
Quale identità?
Non voglio dare una risposta sul piano dei contenuti. Questo è, in ultima analisi, un problema strettamente personale. Nelle pagine che seguono darò qualche suggerimento di merito. Non è la soluzione dei problemi; rappresenta solo un punto su cui confrontare la soluzione che personalmente ci diamo.
Chiedo invece di verificare subito il modo con cui decidiamo la nostra identità. Su questo modello procedurale la fede diventa «adulta».
Possiamo costruire la nostra identità solo dal silenzio della nostra interiorità. Ci diciamo «chi sia- mo» e «chi ci sogniamo» in quello spazio intimissimo e personale dove siamo sempre inesorabilmente soli e poveri. Lì ci ritroviamo senza le cose, i titoli, le sicurezze e gli idoli che ci danno conforto e sembrano tanto preziosi per dire a tutti chi siamo.
Anche se ci affannassimo ad accumulare tesori di questo tipo, la morte ce li strapperebbe tutti, inesorabile come un ladro.
La morte ci lascia senza le cose: dunque senza identità, se l'abbiamo costruita sulle cose. Un'identità dall'interiorità resiste invece al vento della morte. Nasce nel distacco quotidiano e progressivo, che anticipa quello della morte. Ci diciamo «chi siamo a», re fra- stando da soli, anche in mezzo a una compagnia fragorosa di amici e di testimoni.
Questa è la fede adulta: una fede che viene dal silenzio dell'interiorità, dove tutte le voci risuonano interessanti, ma dove nessuna può pretendere di darci quella ragione per vivere e per sperare di cui abbiamo ardente bisogno.
La fede ci costringe al coraggio solitario che assomiglia tantissimo a quello dei martiri d'un tempo passato e del nostro tempo: la fede trova forza e sostegno in se stessa e non cerca l'appoggio del consenso e dell'applauso.
Vivere di fede è quindi evento di libertà, un gesto che irrompe nel centro più intimo dell'esistenza. Spesso non siamo in grado di oggettivare in modo adeguato questa esperienza. Ma essa resta, come una decisione ultima di coscienza non più applaudita da alcuno, in una speranza illimitata che supera le delusioni della vita e l'impotenza di fronte alla morte.
Che cosa festeggiamo il giorno del compleanno?
Alessandro D’Avenia
Trimalchione, grottesco protagonista del Satyricon dello scrittore latino Petronio, durante un banchetto si vanta d’aver visto la Sibilla Cumana, la famosa profetessa di Apollo che, avendo domandato al dio il dono dell’immortalità si era però dimenticata quello dell’eterna giovinezza.
E così continuava a invecchiare, tanto da essersi ridotta a una larva decrepita, bersaglio dei ragazzi del luogo che, passandole davanti, chiedevano: «Sibilla, che cosa vuoi?», e ai quali rispondeva sconsolata: «Voglio morire». Questa storia mi è tornata in mente perché domani festeggio il compleanno, il giorno in cui ricevere i doni giusti: non tanto l’immortalità ma magari l’eterna giovinezza, che i cavalieri di Artù cercarono nel Graal, gli esploratori spagnoli in una fonte d’acqua ai Caraibi, gli alchimisti nell’elisir di lunga vita, Faust e Dorian Gray nel patto col demonio, e noi nei ritrovati tecnico-medico-estetici, come l’imprenditore americano Bryan Johnson che, a 45 anni (i miei, per l’ultimo giorno), ha deciso di investire due milioni di dollari l’anno per uno staff di 30 persone che deve riportare il suo corpo all’età di 18 anni, sottoponendosi a una routine giornaliera da «paziente». Non mi attira il modello che fa della vita riuscita solo la vita «materialmente» giovane (vivere «da malati» per «morire sani») e quindi vorrei festeggiare questo compleanno con più gioia del precedente, perché 46 anni fa è stato solo l’inizio di una cosa che siamo chiamati a fare sempre di più. Nascere. Perché?
Festeggio sì il mio aver cominciato a venire alla luce, ma ancor più il poter venire sempre più alla luce, perché vivere è impegnarsi a nascere del tutto, e non cercare di non morire, che mi sembra troppo poco, anche perché è ciò che facciamo senza proporcelo, per istinto.
Quell’istinto che consente agli animali di nascere una volta per tutte al parto, fornendoli da subito di tutto ciò che devono essere e fare: conservarsi e riprodursi. A noi questa semplicità non è concessa. Infatti, per uno scherzo dell’evoluzione, ci mettiamo un tempo infinito a nascere del tutto, come mi dimostrano i due figli nati di recente a coppie di amici. Dopo mesi ancora non sanno fare nulla da soli, ci «mettono una vita» a nascere, forse proprio perché il nostro compito è «metterci una vita»: tutta la vita. Noi umani, se la prima volta nasciamo a nostra insaputa, poi siamo chiamati a nascere, per scelta, ogni giorno fino all’ultimo, tanto che siamo gli unici capaci di smettere di nascere, togliendoci la vita in vari modi, a dimostrazione che sull’istinto di conservarsi e perpetuarsi in noi prevale altro: la libertà. Il nostro compito non è quindi preservarci dalla morte, quello è il compito che ci dà la natura in quanto specie vivente: il compito umano è invece partorirsi, individuarsi, non essere solo rappresentanti «della specie» ma «speciali». In questo senso la vita è tutta iniziazione alla vita, venire sempre di più alla luce. Ma che cosa deve venire alla luce? Che cosa vorrei quindi festeggiare domani? Non il tempo che passa (che festa sarebbe?), ma quello che non passa. E quale non passa? Noi siamo fatti di tre tempi. C’è il tempo cosmico, quello circolare della natura, delle cose che tornano sempre come le stagioni. Poi c’è il tempo storico, lineare, fatto dagli eventi che si danno una volta sola (la primavera torna ogni anno, ma questa ci sarà solo nel 2023). Alcune culture, soprattutto orientali, cercano nel primo tempo la vera vita, diventare tutt’uno con il cosmo; altre, come la nostra, la cercano nel secondo, la vera vita è nel futuro, nel domani, più vivo e meglio è. Ma questi due tempi non mi bastano perché, in entrambi i casi, io non so che fine faccio: se sarò tutt’uno con il cosmo che ne sarà di me? Se la felicità è nel futuro, chi decide quando arriva? Allora vivo anche e soprattutto un terzo tempo, che chiamo del nascere, e che, mescolato ai primi due, è fatto di eventi che mi piace definire «brevi vite eterne».
Da che cosa sono fatte? Innanzitutto dall’esperienza che in questo istante non mi sto dando la vita da solo, ma in qualche modo sono dato a me stesso, mi ricevo in dono. E poi da azioni creative (libere e originali), cioè che posso fare solo io. Questo è il tempo che non passa, Il tempo del nascere, fatto quindi di «essere da» (in questo momento la vita mi è data) e «essere per» (mi è data per crearne altra): sono nel tempo storico ma non aspetto il futuro, sono nel tempo cosmico ma sono irripetibile. Questo essere aperti «da» e «per» è «la fine del mondo» perché ne inaugura uno nuovo nell’istante presente. Come?
Ricevendo e creando amore, liberamente. Non parlo dell’amore come qualità morale, ma come capacità di essere generati e generare, ricevere e dare più vita alla vita, essere e far essere qualcosa che altrimenti non ci sarebbe. Per esempio: scrivere questa pagina con amore significa farlo ricevendola dall’ispirazione e dando poi vita alle parole e alle persone che la leggono; fare una lezione con amore significa riceverla dalla storia umana e farla dando poi vita all’argomento e alle persone che ascoltano; fare una cena con amore significa riceverla dal tempo a disposizione e farla dando poi vita agli ingredienti e alle persone a tavola... Fare con amore significa ricevere e dare vita in ciò che si fa: l’istante diventa l’incrocio dell’amore ricevuto e dato. E così, anche se spesso non riesco e mi tradisco, ciò che in me è chiamato a nascere sempre di più viene alla luce, perché l’unica maniera di essere vivi è essere pieni di vita. Questo «terzo» tempo non lo cerco in angoli nascosti, in oggetti, sorgenti, elisir, patti, ma lo ricevo e lo creo, eternità di istanti. È il tempo dell’essere amati e dell’amare, se solo restituissimo a questo verbo la sua vertiginosa energia creativa: il potere di potere tutto. Quindi domani proverò a non festeggiare il «ritorno» di una data, tempo cosmico, né il mio «progresso» in un futuro a scadenza, tempo lineare, ma il tempo della creazione, essere creato e creare. Sarà un martedì «qualunque», quello che torna ogni settimana, e sarà l’unico martedì 2 maggio 2023, ma sarà soprattutto la vita che solo io posso ricevere e fare, piccola, ordinaria, semplice, ma quella che solo io «posso nascere».
L’esercizio della speranza
Enzo Bianchi
In Occidente, ma non solo, si percepisce da decenni il segno dominante della “crisi”. Da più parti questo nostro tempo è addirittura letto come tempo della “fine”: fine della civiltà occidentale (Jacques Derrida), fine della modernità (Gianni Vattimo), fine non solo della cristianità ma anche del cristianesimo, che sembra perdere la capacità propulsiva innestata dal tentativo di riforma ecclesiale del concilio e del post-concilio.
Dominano la precarietà del presente e l’incertezza del futuro, e soprattutto per le nuove generazioni vi è un’incognita che desta diverse paure per la sua imprevedibilità e per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano: viviamo in un mondo in fuga, che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di comprendere dove stiamo andando. Per questo nel suo saggio Le nuove paure Marc Augé giunge a denunciare che oggi si teme più il vivere che il morire. In particolare, i nostri ragazzi si lasciano vincere da qualcosa che non sanno neppure nominare e guardare in volto, eppure sperimentano come distruttivo: il nichilismo, che spesso impedisce ogni ricerca di senso e di felicità. Per queste ragioni credo che oggi più che mai occorrerebbe riascoltare la domanda: “Che cosa posso sperare?”. E anche: “Che cosa possiamo sperare insieme?”. È una domanda a volte muta, che con fatica ho sentito e sento risuonare in molti incontri e dialoghi con i giovani. È la domanda più profonda, che essi non sanno neppure facilmente articolare. La speranza, infatti, non è un atteggiamento da assumere o rifiutare tout court, ma è il frutto di un discernimento, di un’attesa fondata sul pensare, sul riflettere, sull’ascoltare, sul confrontarsi, ed è anche un esercizio di grande responsabilità.
L’umano non è un dato una volta per tutte, bensì è un divenire che abbisogna di un orientamento, di una progettualità, di uno scopo per cui operare, in modo da trovare un senso. Ha ragione Fëdor Dostoevskij quando afferma che «vivere senza speranza è impossibile», perché le persone alle quali è sottratta la speranza divengono aggressive, violente, apatiche, fino a cadere in una sorta di angoscia autodistruttiva.
Vi è però un’errata comprensione della speranza dalla quale guardarsi: quella di chi tende costantemente oltre il presente, senza coglierlo nella sua irripetibilità, costringendosi così a un’esistenza vissuta al futuro anteriore. No, non si vive aspettando di vivere, preparandosi sempre, e invano, a una felicità che non arriva mai… Sperare è un’arte, è l’essere pronti a ciò che ancora non è nato, è un atto di fede e un’adesione convinta a una promessa: è una lotta contro la disperazione, ed è per questo che è capace di sperare in profondità solo chi ha conosciuto la tentazione di disperare.
La speranza, infine, è il frutto di relazioni vive, si nutre dell’essere insieme: mai senza l’altro! E non lo si dimentichi: si può solo “sperare per tutti”, mai solo per se stessi.
Eugenio Borgna, elogio della «mitezza»: è questa la forza da insegnare
Tutti i libri di Eugenio Borgna, psichiatra e scrittore novantaduenne, sono pervasi da un raffinato senso dell’impossibile: dalla fragilità come forza fino alla mitezza come leva per cambiare il mondo. E proprio l’ultimo, pubblicato da Einaudi, è dedicato alla Mitezza, atteggiamento che oggi sembra un territorio eccentrico, invasi come siamo dall’irascibilità (o suscettibilità, come argomentava già anni fa Umberto Eco). Eppure Borgna non esita a dichiarare, parafrasando i Vangeli: «Beati i miti, perché la mitezza è la stella del mattino». (intervista di Roberta Scorranese)
Professore, proviamo a convincere i milioni di italiani che si lasciano sedurre dall’arroganza verbale dei talk show televisivi?
«Certo, il mondo in cui viviamo tende ad essere contrassegnato dalla violenza e dall’arroganza, dall’indifferenza e dalla mancanza di gentilezza e di tenerezza, che non consentono di ascoltare e di partecipare al dolore e alla sofferenza delle persone che la vita ci fa incontrare. Ma non solo: anche quando la violenza e l’arroganza ci sono estranee, grande è la tentazione di isolarci, di allontanarci dagli altri, di non essere aperti alle relazioni umane».
Una diffidenza che sconfina nell’indifferenza. Ma ci si può «allenare» alla mitezza, secondo lei?
«La mitezza è una dote che ho conosciuto nella sua luce interiore, quando mi sono incontrato con la sofferenza psichica, con la follia come sorella infelice della poesia, ma la mitezza è contagiosa, se incontriamo persone miti, qualcosa cambia nel nostro cuore, e lo diveniamo, almeno in parte, anche noi. L’immagine dell’allenarsi a vivere con mitezza è molto bella, e, direi, si confonde con l’immagine del contagio: l’una e l’altra testimoniano del valore e del significato della mitezza».
Norberto Bobbio – come lei riporta – diceva che la mitezza è «attiva», la mansuetudine è «passiva». Da psichiatra, lei crede che praticare la mitezza aiuti a risolvere alcuni conflitti?
«La distinzione che Norberto Bobbio propone mi sembra molto felice, perché la mitezza è una virtù, così egli la chiama, sociale, e cioè immersa nella vita di ogni giorno. La mitezza cambia il modo di essere in relazione con gli altri, ma cambia (anche) il modo di esserlo con la nostra vita interiore. La mitezza ci dà il tempo di ripensare ai nostri conflitti, di riconoscerne le sorgenti, di accettarli, o almeno di attenuarne le fiammate emozionali. La mitezza è come una torcia sempre accesa, che ci aiuta a ritrovare il nostro cammino interiore, anche nelle notti oscure dell’anima. Conoscere meglio i nostri stati d’animo è un modo per portare alla luce e mitigare le aggressività che sono in noi e delle quali non sempre siamo consapevoli».
Nel suo libro, uno dei passaggi più suggestivi è quello in cui la mitezza si lega alla nostalgia. In che modo?
«L’una e l’altra fanno pensare ad un passato che non muore, e continua a vivere nel presente. Come ha scritto sant’Agostino, la speranza è la memoria del futuro, non dimentica le cose passate, ma le apre al futuro. La persona mite non conosce la disperazione, perché è sempre accompagnata dalla speranza, che le consente di guardare alla vita nei suoi momenti felici, ma anche in quelli infelici. La mitezza consente a chi cura e a chi è curato di entrare in una relazione la più terapeutica possibile. La mitezza allarga e umanizza il nostro sguardo sulle cose che sono in noi, e sulle cose che ci circondano. La poesia, quella leopardiana in particolare, ci aiuta a trovare le parole che ci consentono di riconoscere la mitezza nella sua forma di vita dotata di senso».
Lei fa anche degli esempi letterari, come Alëša Karamazov, straordinario personaggio dostoevskiano.
«Leggendo il grande romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, si conosce quella che è la mitezza nella sua umanità e nella sua leggerezza, nella sua delicatezza, vorrei ripeterlo e nella sua freschezza, nella sua indicibile capacità di perdonare. Una persona mite sa tollerare le aggressioni, e le dimentica, sa conciliare le dissonanze, che tengono lontane le persone, le une dalle altre. La mitezza di una persona, giovane, o anziana, si riconosce immediatamente, basta un sorriso, e basta uno sguardo, il modo di salutare, e il modo di stringere la mano. Una atmosfera, anche familiare, di tensione, si allenta, e si illumina, nel momento in cui entra una persona mite. Sì, la mitezza, diceva Norberto Bobbio, è una virtù molto più femminile che non maschile, e non potrei non essere d’accordo, anche se ovviamente non sempre è così».
La mitezza si può insegnare?
«La scuola ha una grande importanza nell’insegnare cosa sia la mitezza, e come la si possa riconoscere nella sua fragilità. La poesia ci aiuta a coglierne la presenza nella sua dimensione psicologica e umana, e anche qualche film, nel mio libro si parla di un bellissimo film di un grande regista francese, Robert Bresson, che si ispira ad uno splendido racconto di Dostoevskij (ancora!): La mite».
Il linguaggio degli occhi
Eugenio Borgna
Non c'è solo il linguaggio delle parole, ma c'è anche il linguaggio dei volti, e degli occhi, degli sguardi, del sorriso, e delle lacrime, che sono espressioni del corpo vivente, del corpo-soggetto, che non è il corpo-oggetto, il corpo-cosa. Si tratta di una distinzione insolita, non facile da comprendere, ma di radicale importanza, sia in psichiatria e in filosofia sia nella vita. Ne vorrei dare un esempio: la mia mano, la mano che sta scrivendo, è corpo-cosa, corpo-oggetto, quando sia considerata da un chirurgo che la operi, e contemporaneamente corpo vivente, corpo-soggetto, quando sia riguardata nella sua trascendenza, nella sua infinita sorgente di significati: la mano che saluta, e che dice gioia o angoscia, tristezza o dolore. Il dolore non ha altro modo di esprimersi che non sia quello del linguaggio del corpo vivente, dei volti e degli occhi, degli sguardi e delle lacrime, dello stupore e del sorriso.
Conoscere questo linguaggio ha una grande importanza nelle relazioni umane, e in particolare nella comprensione dell'indicibile, che le parole non sanno dire, e che attende di essere riconosciuto in una lacrima, o in un sorriso, in un sospiro, o in uno sguardo fugace. Non so quanta attenzione nel corso di una giornata siamo soliti dedicare all'ascolto di questo linguaggio, ma dovremmo sapere che (anche) questo consente di fare scelte pratiche nutrite di saggezza e di prudenza. Sì, gli sguardi, che sono la voce degli occhi, come diceva Marcel Proust, ci consentono di andare al di là dei confini del nostro Io, e ci fanno essere in lontananze altrimenti irraggiungibili, come sulle montagne che luminose sembrano entrare nella stanza in cui sto scrivendo, riverberandosi nella mia interiorità. Gli sguardi si devono accogliere, e rivolgere agli altri, con discrezione e misura, con attenzione e nel silenzio del cuore; ma ci sono sguardi che fanno del male. Lo dice Elias Canetti in un libro, Il gioco degli occhi, che aiuta a riflettere sul senso della vita:
Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. È tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c'è vittima che possa prefigurarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale [...]. La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di quest'occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve.
Sono parole sferzanti che ci dicono come ci siano occhi dall'espressione crudele e aggressiva, e allora guardare negli occhi una persona è conoscerla nella sua dimensione più profonda, ed è una sfida talora dolorosa alla quale non è possibile nondimeno rinunciare.
I volti e gli sguardi sono insomma espressione di un linguaggio che si accompagna, o si sostituisce di volta in volta, al linguaggio delle parole in un carosello senza fine che ci consente di decifrare qualcosa delle emozioni e dei pensieri, delle immaginazioni e della fantasia di una persona, in particolare di una persona che sta male. Sul linguaggio dei volti ha scritto parole bellissime Rainer Maria Rilke:
Mi accade spesso, ora, che un qualche volto mi tocchi in questo modo, la mattina per esempio, così come le mattine qui di solito cominciano, c'è già stato, prestissimo, tanto sole, un'infinità di chiaro, e quando poi, d'improvviso, nell'ombra di un vicolo, un volto ci si tende incontro, si vede allora, per opera del contra sto, un essere con tale nettezza (nettezza delle sfumature), che l'impressione momentanea s'innalza involontariamente a impressione simbolica.
Sono cose, queste, che adombrano il linguaggio velato ed evanescente, segreto e misterioso, dei volti. Non si comunica allora solo con il linguaggio delle parole ma anche con quello del corpo vivente, con le infinite risonanze emozionali e comunicazionali dei volti, che, come dice ancora Rilke, sono più numerosi degli uomini perché ciascuno di noi ha più di un volto. Si comunica con gli sguardi e con le lacrime, con un sospiro e con un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, come ha scritto Leopardi. Sono modi diversi di portare alla luce della coscienza i pensieri e le emozioni che le parole non possono, o non sanno, dire.
Non ci conosciamo nella nostra vita interiore, e non conosciamo quella degli altri, se non tenendo presente il linguaggio delle parole, e delle emozioni che in esse si riflettono, ma anche il linguaggio del silenzio, quello dei volti e degli sguardi, degli occhi e delle lacrime; e a questo riguardo vorrei citare quello che Robert Musil dice del protagonista di un suo splendido racconto:
[in lui erano] le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un'altra persona – fino ad anticiparne l'individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall'espressione dell'atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.
Sono parole di un'inquieta bellezza che ridanno un senso, dilatandole vertiginosamente, a queste mie considerazioni sul linguaggio degli occhi e degli sguardi che un modo saggio di vivere non può dimenticare e non può perdere di vista.
In cerca di risurrezione
Vito Mancuso
Il punto decisivo consiste nel chiarire che cosa dentro di noi sta morendo, per comprendere se esiste almeno un po' la possibilità che un giorno possa risorgere. Sul fatto che qualcosa dentro di noi stia morendo, nessuno, penso, ha più dubbi: lo sentiamo perfettamente, è un rumore sordo e persistente, una specie di basso continuo che ritma funereo le nostre giornate e che deriva dalla consapevolezza delle sempre più incombenti minacce: la guerra nucleare, l'emergenza climatica, lo scollamento tra generazioni mai così profondo nella storia dell'umanità, le abissali sperequazioni tra i pochi superricchi e le masse di diseredati, le migrazioni così massicce di popoli da generare una "deriva dei continenti" di tipo sociale, l'uso dell'intelligenza artificiale assai facilmente trasformabile in abuso, l'ingegneria genetica che corre esattamente lo stesso rischio. E poi c'è quel processo di crescente «infantilizzazione delle masse», per dirla con Amos Oz, che cancella il confine tra politica e spettacolo per cui la gente non vota più chi può governare meglio, ma chi emoziona e diverte, perché questo oggi desiderano i più: essere emozionati, come bambini viziati nel paese dei balocchi.
Tutte insieme queste ombre che gravano su di noi costituiscono una tale oscura densità da portarci a dire: «Basta, voglio andarmene da questa via crucis». Ma di fronte a minacce così globali non è possibile scappare da nessuna parte. Perciò torna la domanda: che cosa precisamente dentro di noi sta morendo?
Hannah Arendt, dal cui pensiero promana la luce salvifica della vera filosofia, ha scritto: «La cosa veramente da comprendere è che l'"anima" può essere distrutta anche senza distruggere l'uomo fisico» (Le origini del totalitarismo, p. 603). A correre un pericolo mortale oggi è "l'anima". L'altro giorno Umberto Galimberti ha dichiarato a questo giornale che l'anima «non appartiene né alla cultura cristiana, né a quella ebraica: è un'invenzione di Platone». Non è vero. Platone ha certamente contribuito ad approfondirne il concetto, ma l'anima era presente in tutte le grandi civiltà prima di lui: in Cina il taoismo parlava di "hun" (l'anima spirituale che sopravvive) e di "po'" (quella psichica che muore); in India gli hindu di "atman" e di "jiva" sostenendo la reincarnazione; in Grecia con Pitagora, Empedocle e Anassagora la filosofia coniò i concetti di "nous" e di "psyché"; ancora prima gli egizi conoscevano tre tipi di anima ("ak, ba, ka") e per ognuno di noi prevedevano al termine della vita la psicostasia, la pesatura della sua anima. Quanto all'ebraismo, in esso è presente un triplice concetto di anima ("nefesh, ruah, neshamà"), per il quale si veda il saggio del rabbino Adin Steinsaltz, L'anima (Giuntina 2018) al cui inizio è scritto: «Abbiamo un'anima. Possiamo affermarlo perché lo percepiamo». E che infine Gesù, teologicamente vicino al movimento dei farisei, condividesse l'esistenza dell'anima e la sua immortalità, risulta evidente dai Vangeli. Altro che «invenzione di Platone».
Ma perché le grandi tradizioni spirituali dell'umanità, religiose e filosofiche, sentirono l'esigenza di parlare di anima? Io penso sia stato per sottolineare la peculiarità umana. Noi umani per molti aspetti siamo un pezzo di mondo materiale, identici a ogni altra manifestazione della materia; per altri aspetti però no, siamo diversi. E fu per esprimere questa differenza che la mente coniò il concetto di anima. La medesima funzione rivestirono altri concetti analoghi, tra cui spirito, coscienza, libertà.
Ecco quindi la risposta alla domanda iniziale: ciò che dentro di noi sta agonizzando è la nostra differenza specifica di esseri umani. La nostra interiorità (la si chiami anima o in altri modi poco importa, ciò che importa è che la si consideri la nostra più preziosa ricchezza) oggi corre il pericolo di essere distrutta, avvertiva Hannah Arendt. Oggi noi possiamo dire: hackerata. Forse lo è già.
Forse noi siamo già in parte hackerati, e i pensieri che esprimiamo a parole non sono più nostri ma di qualcun altro introdottosi dentro la nostra mente. Quando parliamo, chi parla dentro di noi? Quando abbiamo sentimenti, chi sente dentro di noi?
Quello che è sicuro, comunque, è che, non credendo all'anima spirituale e alla sua capacità di guida (detta da Marco Aurelio "?ghemonikón"), noi soffriamo di sfiducia in noi stessi. È questa la malattia mortale, la via crucis di noi postmoderni e postumani: la sfiducia nella nostra umanità. Pico della Mirandola, gloria del pensiero filosofico del Rinascimento italiano, poté scrivere un saggio dal titolo: Oratio de hominis dignitate, ovvero: "Discorso sulla grandezza dell'essere umano". Oggi siamo solo capaci di mettere in evidenza le nostre miserie. Le quali ci sono, è evidente, e sono tante, ma, io penso, non sono tutto.
Si può credere o no alla risurrezione di Cristo che la Chiesa cattolica celebra domani, ma il simbolo che essa rappresenta va al di là della fede teologica perché rimanda alla speranza e alla visione positiva del processo vitale. E se la malattia di cui soffriamo è la sfiducia in noi stessi, il farmaco che ci potrà curare si chiama fiducia.
È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Tutte le cose veramente importanti dell'esistenza psichica non sono razionali: si pensi all'amore, alla passione, all'entusiasmo, all'ispirazione. Ma irrazionale non vuol dire falso, perché la verità non coincide con la ragione, è piuttosto l'esattezza a coincidere con la ragione. La verità è più dell'esattezza: è forza, energia, impeto, impegno; «eroico furore», diceva Giordano Bruno.
Il 3 luglio 1943, mentre si trovava nel lager olandese di Westerbork da cui poi sarebbe stata deportata ad Auschwitz trovandovi la morte il 30 novembre di quello stesso anno, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, scriveva ad alcuni amici: «La miseria che c'è qui è veramente terribile, eppure, la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere». E concludeva: «Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi». L'anima (o la coscienza, o come ancora la si voglia chiamare) è questo posto di guardia dentro di noi, che, per chi ha la fortuna di averlo, può costituire la sua salvezza. La sua risurrezione quotidiana. E che non ci sia nulla di più prezioso, lo insegnano tutti i grandi maestri spirituali, da Socrate al Buddha, da Confucio a Gesù. Quest'ultimo un giorno disse: «A che serve a un essere umano guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?».
La Pasqua sconfigge il nulla: la lezione laica della resurrezione
M.Recalcati
Nella tradizione cristiana la Pasqua celebra la risurrezione di Gesù Cristo. L'esperienza della morte sulla croce viene riscattata da quella della vita che ritorna in vita dopo la sua fine dando definitiva morte alla morte. Quale lezione laica possiamo ricavare da questo racconto? Innanzitutto la Pasqua cristiana presuppone l'esperienza dell'abbandono assoluto: la notte del Getsemani e il supplizio della crocifissione precedono l'avvento della risurrezione. È questo un primo grande insegnamento: l'esperienza della caduta e della sconfitta – di cui la morte è la figura più definitiva e scabrosa – non può essere aggirata, sebbene non sia l'ultima parola possibile sulla vita. È la lettura che Walter Benjamin dà dell'Angelo della storia: il movimento inesorabile del tempo storico che lascia alle sue spalle macerie e distruzione non può non tenere conto della necessità di dare agli sconfitti e a tutti coloro che sono stati vittime dell'ingiustizia una possibilità di riscatto e di speranza. Per questo lo sguardo dell'Angelus novus resta rivolto all'indietro: il progresso irreversibile della storia non può dimenticare gli ultimi, gli esclusi, i dannati della terra.
Se riprendiamo alla lettera il racconto evangelico della risurrezione, troviamo al centro del mistero pasquale la scoperta del sepolcro vuoto. Per Michel de Certeau è la cifra più fondamentale del cristianesimo: l'assenza del corpo di Cristo descrive una forma radicale della presenza, una sorta di magnete che genera desiderio, parola, scrittura, vita. Il vuoto del sepolcro ci costringe a cercare Gesù tra i vivi e non tra i morti. È questa un'altra lezione fondamentale della Pasqua cristiana: esiste sempre un resto indistruttibile – eternamente vivente - in ogni morte. Sempre, qualcosa di chi non è più con noi, resta con noi. Un grande filosofo, recentemente scomparso, ha lasciato ai suoi cari un biglietto di congedo con scritto: "portatemi con voi". Non chiede di essere rimpianto o compianto come un morto tra i morti, ma di essere portato come vivo da chi è ancora vivo. Lezione essenziale che si combina con un'altra altrettanto decisiva: come si può restare fedeli all'evento che ha cambiato la nostra vita? Per i suoi discepoli, Gesù è stato, infatti, questo evento. La sua morte impone il problema della sua eredità. Accade per ciascuno di noi: sono stato fedele all'incontro che ha cambiato la mia vita? L'incontro con un amore, con un maestro, con un ideale, con una vocazione? Ho vissuto coerentemente con quell'incontro, con la decisione necessaria, assumendomene pienamente il rischio? Oppure ho tradito, ho voltato le spalle, ho ripudiato quell'evento? Il nostro tempo non crede più nel carattere inaudito dell'incontro. Più che un episodio sovrannaturale - la rianimazione di un morto – la risurrezione è un evento che rompe la nostra rappresentazione ordinaria della vita e della morte. È possibile che qualcosa resti indistruttibile, che nemmeno il potere della morte sia in grado di distruggere? È possibile che un vuoto – quello del sepolcro nel racconto cristiano – divenga motore di un desiderio, di una vita nuova? Nell'immagine benjaminiana dell'angelo della storia, gli innumerevoli morti caduti nell'ingiustizia e nell'oblio attendono ancora di essere riscattati. I loro resti continuano ad ardere come braci che non si spengono. Accade con tutti i nostri innumerevoli morti, quelli che abbiamo amato e perduto. La risurrezione di Gesù mostra il carattere indistruttibile di ciò che resta. È un grande tema biblico che unisce la Torah ai Vangeli: è solo in ciò che resta - nella pietra di scarto - che dobbiamo vedere la possibilità di un nuovo inizio. Le apparizioni di Gesù dopo la sua morte di fronte ai suoi discepoli abbattuti per la perdita del loro maestro, hanno il potere di riattivare il loro desiderio rendendo più forte la loro fede. Queste apparizioni non devono essere lette come delle suggestioni psicologiche o dei fenomeni soprannaturali, perché sono il ritorno di chi se n’é andato da questa vita, ma continua a restare con noi. Possiamo leggerle come un appello a restare fedeli a ciò che è stato per noi l'evento dell'incontro. Si tratta di un appello al quale è necessario rispondere per non lasciare alla morte l'ultima parola. Per questo Paolo di Tarso poteva affermare che «se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede». È solo la fedeltà all'evento a rendere l'evento ancora vivo. Ogni incontro degno di questo nome è il nome di qualcosa che non smette di risorgere, di venire alla luce, di bruciare, di essere sempre con noi.
La resurrezione cristiana non è allora la proiezione di un desiderio illusorio di immortalità che rinvierebbe ad una felicità ultraterrena, ma un evento che esige fedeltà. Il nostro tempo che ha decapitato l'esperienza della trascendenza e del mistero, non può pensare alla risurrezione se non come a una storia consolatoria a lieto fine. Il nostro tempo non concede più spazio all'evento irripetibile dell'incontro che può rendere la vita nuova. L'evento della risurrezione ci invita, invece, a pensare che è ancora possibile dire, come ricordava Gabriel Marcel, a qualcuno che si ama profondamente: «Tu non morrai!». È la lezione più profonda della Pasqua cristiana: contro la spietata evidenza del nulla, il risorto ci ricorda che qualcosa può restare, che non tutto quello che è stato è destinato a divenire nulla.
Vedere il mondo
con gli occhi dell’anima
Susanna Tamaro
Se penso alla mia infanzia, mi tornano in mente vari Natali, mentre a parte qualche sfuocata immagine di uova sode colorate, non ho alcuna memoria della Pasqua. Per Natale, dai bisnonni, c’era il grande abete che emanava l’odore di resina nella stanza, c’era il crepitio delle fiammelle — allora, in barba a tutte le norme di sicurezza, venivano accese delle candele sugli alberi — c’era la misteriosa attesa dei doni e l’ancor più misterioso latore di tali doni, Gesù Bambino. Il suo rivale — il pancione barbuto di rosso vestito — stava ancora a strigliare le sue renne in qualche paese coperto dalla neve e dai ghiacci. La mia famiglia non era praticante e dunque a quel giorno non si associava alcun rito religioso; era considerato soltanto un momento di festa per ricordare la nascita di un bambino speciale in grado di esaudire i desideri degli altri bambini. Per me Gesù Bambino era Bambino per sempre e non potevo immaginare che sarebbe cresciuto e sarebbe andato incontro al suo destino di uomo adulto.
Soltanto intorno ai sette anni, durante un soggiorno in una colonia, avevo scoperto cosa ne era stato di Lui: eravamo tutti bambini delle scuole elementari e ci avevano portati un pomeriggio al cinema del paese a vedere un film americano, Barabba. Non sono in grado di ricordare se mi fossi subito resa conto che quell’uomo insultato, frustato e gettato nella polvere fosse lo stesso che da bambino mi aveva portato i doni, mentre rammento bene il senso di disagio che mi avevano provocato quelle scene: un disagio che era diventato angoscia assoluta quando Pilato aveva chiesto dal balcone: «Chi volete libero, Gesù o Barabba?». Tutto il mio essere aveva gridato in silenzio Gesù Gesù Gesù! ma la folla in un unico boato aveva ruggito «Barabba», scaraventandomi nella disperazione di chi, a un tratto, si rende conto che il male, l’odio e la menzogna trionfano tra gli uomini, mentre la mite innocenza è destinata ad essere sconfitta. Era chiaro infatti che Gesù era buono mentre Barabba si destreggiava abilmente tra la crudeltà del mondo: perché nessuno, dunque, aveva gridato Gesù? Durante la visione di quel film, quando Gesù aveva risposto con il silenzio alle richieste di Erode di compiere dei miracoli per potersi salvare, una parte di me era insorta, speranzosa: «Parla, fagli vedere quello che sai fare» ma Lui era rimasto zitto. Dare un senso a quel silenzio è un lungo cammino che non tutti hanno voglia di intraprendere. Tanto il tempo del Natale è quello dell’amore distribuito e banalizzato a piene mani, altrettanto il tempo della Pasqua è il tempo dell’odio.
La Pasqua ci ricorda gli abissi dell’animo umano. È una festa in cui ronzano le mosche attratte dal sangue, una festa in cui c’è polvere, sudore e continui gesti di puro sadismo. Chi mai può desiderare di festeggiare un episodio del genere? Molto meglio dunque pensare che, in fondo, non sia altro che la festa della primavera e celebrarla con allegre compagnie e con abbondanti libagioni; non si dice infatti: Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi? regalando un libera-tutti che ci solleva dal contemplare il mistero del male che vive in noi e che, appena può, devasta i nostri giorni? Ammettere la presenza del male che ci inabita è la realtà più fortemente rimossa nel mondo contemporaneo. Tutti abbiamo pronti sulla lingua un crocifiggilo! ma tutti siamo anche angelicamente convinti che questa parola non ci appartenga. Non sarà forse per questo che, in questi tempi così bui, così cupi, così devastati da venti di paura, questo nostro piccolo pianeta, aizzato dai media, si è trasformato in un’unica angosciosa e ferocissima piazza del Sinedrio? Che cos’è che odiamo tanto? Odiamo tutto ciò che ci fa sospettare l’esistenza di una realtà diversa da quella della pura materia. La materia infatti è in nostro potere, possiamo manipolarla a nostro piacimento, indifferenti al fatto che, dalla distruzione dei rapporti umani alle guerre mondiali, tutto discende dall’imperio del suo potere. Cosa c’era in Gesù di così provocatorio da scatenare l’odio delle folle? Non è forse lo stesso odio che vediamo divampare ai nostri giorni contro chiunque o qualsiasi cosa ci ricordi che esiste una realtà che ci trascende e che questa realtà è illuminata dalla luce del bene? Questa luce è lo Spirito puro della vita. La vita vive dell’amore racchiuso in sé stesso. Ed è l’odio per questa energia inarrestabile e impossibile da manipolare che scatenava quel giorno la folla di Gerusalemme, è lo stesso odio che tutti i giorni, da allora fino ad oggi, continua a divampare contro chiunque manifesti in sé lo spirito libero e innocente dell’esistenza.
E dunque mai come ora dobbiamo riflettere sul vero significato della Pasqua. La parola Pasqua vuol dire passaggio, perché ricorda la liberazione degli ebrei dall’Egitto. E noi, quale passaggio dovremmo fare? Quello della liberazione dai nostri Egitti interiori, dalle schiavitù che ci rendono sempre più lontani dalla verità dell’umano; il passaggio che ci porti a contemplare un’altra dimensione del tempo. Il tempo! Non è forse questo il vincolo claustrofobico con cui ci tengono prigionieri gli invisibili faraoni di questa nostra epoca? Il tempo attuale ha un’unica dimensione, quella di Cronos che divora i suoi figli. Non viene più lasciato un tempo per l’intimità, per la crescita, per le domande. Bisogna produrre e consumare, consumare e produrre. E nel momento in cui non sei in grado di fare né l’uno né l’altro, sei eliminato dal sistema come se fossi una pallina di una roulette impazzita. Del diritto di riappropriarsi di un tempo umano — il tempo in cui concedersi l’inquietudine delle domande, il tempo di andare alla ricerca delle risposte, di vivere le relazione nella luce dell’intima comprensione della fraternità — non si sente purtroppo parlare mai. Il compimento della Pasqua si manifesta proprio in questo: nell’Eterno che spezza la crosta opaca e rigida del tempo e, con un raggio di luce, irrompe — o meglio irromperebbe, se gli permettessimo di farlo — nei nostri cuori, ricordandoci che la nostra vita è sempre affacciata sul mistero e che questo mistero è illuminato dalla salvifica presenza della speranza. Nel mio racconto Per voce sola, la protagonista di famiglia ebraica raccontava che il padre aveva l’abitudine di portarla in giro al sabato per la città facendole osservare le cose che nei giorni normali potevano esserle sfuggite. Perché oggi, le diceva, tu vedi tutto con quattro occhi. I tuoi occhi più quelli dell’anima. Ma mentre per gli ebrei, il Sabato continua ad essere Sabato, nel cristianesimo è avvenuta una totale profanazione del tempo della Domenica, che è diventata un giorno come tutti gli altri, anzi forse anche peggio perché, essendo libera dal lavoro, si è trasformata in un’occasione di massimo consumo. E il tempo per le domande? Il tempo per scoprire lo sguardo dell’anima? Allora, tra tutti i diritti che vengono reclamati, non sarebbe il caso di aggiungere questo? Il diritto del tempo dell’umano, un tempo che si affaccia sul mistero della morte e costantemente si interroga su questa realtà. E direi anche il diritto di preservare l’innocenza dei bambini che, senza alcun condizionamento dogmatico, capiscono da soli che tra Gesù e Barabba, è meglio scegliere Gesù.
Un albero che fiorisce sotto la croce
di Alessandro D’Avenia
Un ragazzaccio.Morì a 26 anni, forse avvelenato, eppure fece in tempo a rivoluzionare l’arte. Si chiamava Tommaso ma, orfano di padre, inquieto, incurante di sé e del mondo (riscuoteva solo se era in ristrettezze), lo chiamarono (Tom)Masaccio. A lui interessava solo dipingere: fare nella pittura la rivoluzione che Brunelleschi e Donatello avevano operato nell’architettura e nella scultura inaugurando il Rinascimento. Chi va a Firenze in Santa Maria Novella per la sua Trinità o in Santa Maria del Carmine, nella cappella Brancacci, per le storie di Pietro, sa di che rivoluzione parlo. La scorsa settimana ho avuto la fortuna di contemplare un suo capolavoro inaspettatamente esposto al Museo Diocesano di Milano in occasione della Pasqua: la Crocifissione del Polittico di Pisa del 1426, abitualmente a Napoli al Museo di Capodimonte. L’allestimento milanese, sapientemente ideato dalla direttrice Nadia Righi, segue la logica oggi più che mai necessaria dell’a tu per tu con l’opera: vi si arriva davanti passo passo, con le informazioni, il silenzio e il vuoto indispensabili per ricevere il dono che ogni capolavoro può offrirci se gli diamo lo spaziotempo di accadere in noi, e non fuori di noi fotografandolo e andando avanti. Se ci si avvicina con tatto, l’opera fa la sua, di opera, cioè ci dona ciò che avevamo dimenticato di chiederle: lo stupore per un pezzo di mondo e la gratitudine di esserci anche noi in quello stesso mondo in cui la creatività non è impegnata solo a inventare missili e menzogne. E Masaccio che cosa inventa? Che la morte è, a ben vedere, una nascita. E come?
La croce in forma di fiamma, la violenza in forma di croce, la resurrezione in forma di seme che dà frutto. Il nostro talento è la parte di noi destinata al mondo ma, se non lo scopriamo e mettiamo in gioco, di noi non resterà nulla, perché il talento è l’amore che ci è già stato dato ma che sta a noi decidere se girare al mondo, vincendo la paura di non averlo e la pigrizia di non giocarselo. Di Tommaso di Ser Giovanni di Mone dei Cassai, in arte Masaccio, resta infatti ciò che ha fatto di e con questo amore in soli 26 anni. Buona Pasqua di Resurrezione del vostro talento, cioè del modo in cui potete amarvi e amare meglio.
Dovunque sotto il cielo
di Alessandro D’Avenia
Ho celebrato il giorno dedicato a Dante Alighieri, il Dantedì del 25 marzo (probabile data di inizio del suo viaggio nell’aldilà e, non a caso, festa dell’Annunciazione a Maria, nove mesi prima del Natale, e data simbolica dell’inizio della creazione divina associata alla primavera), concludendo il racconto della Commedia a teatro in tre serate intitolate: «Di nostra vita: inferno, purgatorio, paradiso».
Ritengo che questi non siano luoghi in cui andremo, ma in cui siamo (sono stati e strati dell’esistenza) ogni giorno, per scelta più o meno consapevole. La grande letteratura non scherma la vita, ma ne testimonia l’esperienza «senza mezzi termini», cioè con precisione di parole. Quando il poeta narra il viaggio nell’aldilà sta vagando nell’al di qua da esiliato: ha perso tutto, non potrà mai più tornare a Firenze a causa di un’ingiusta condanna. La sua vita è «imprigionata» eppure trova la strada verso il cielo, non andando in alto, ma scavando oltre l’abisso: toccando il fondo gelato dell’inferno, Dante scopre infatti che è un’apertura, e quella che sembrava una discesa era invece un’ascesa. Arrivati al centro della Terra, Virgilio aiuta Dante a calarsi lungo il corpo di Satana (un corpo a corpo con il male) che è lì incastrato, per poi aiutarlo a mettersi a testa in giù e introdurlo nell’altro emisfero, dove salirà sul monte del purgatorio, per poi volare in paradiso.
Dante mi ha dato le parole per definire un’esperienza che prima o poi capita a tutti: per toccare il cielo bisogna prima toccare il fondo e, addirittura, attraversarlo. Le morti, e la morte, in cui incappiamo sono passaggi (la Pasqua che si avvicina significa in ebraico «passaggio»). Sono solo metafore o è realtà?
Se tracciamo la direzione del cammino di Dante scopriamo che all’inferno va sempre verso sinistra, in Purgatorio verso destra, in Paradiso in verticale: la mappa «di nostra vita» è una spirale (puntate il vostro indice in basso e fatelo ruotare verso sinistra, lentamente girate la mano verso l’alto, senza smettere di far girare il dito: il movimento rotatorio da sinistra ora va verso destra). Il viaggio dantesco è quindi fatto di due spirali (l’inferno è una voragine a imbuto, il purgatorio il monte corrispondente), un’unica salita verso un centro-punto-nodo e in un’unica direzione: avanzare nel compimento di sé attraverso l’incontro con gli altri (è l’opera con più personaggi della letteratura mondiale) e con l’Altro, e di conseguenza con sé stessi, perché è solo nella relazione che noi definiamo la verità di chi siamo.
Dante va quindi sempre in una sola direzione, verso l’alt(r)o, in progressiva liberazione dal «peso» della vita: il «peccato». Con «peccato» si traduce una parola antica che significava «fuori bersaglio, fuori centro», ciò che non va a buon fine, come quando si rompe un vaso prezioso o uno sportivo subisce un grave incidente, e diciamo: «Che peccato!». L’esclamazione non si riferisce all’infrazione di regole, ma al mancato compimento di qualcosa il cui fine era palese: «pecca» chi tradisce se stesso.
Ognuno di noi è chiamato a farsi capolavoro, compiere la sua «forma», il peccato «de-forma» come un vandalo il capolavoro. Io pecco, manco il bersaglio, tutte le volte che mi tradisco, cioè mi illudo di non essere chi sono e quindi tradisco il mio desiderio, che è la chiamata rivolta dalla vita a me e solo a me: principio di animazione che mi conferisce un posto unico al mondo. Dante nel suo lungo percorso d’ascesa a spirale impara a non tradirsi (inferno), a liberarsi da ciò che lo spinge a tradirsi (purgatorio), a volar dritto verso il proprio compimento (paradiso).
Insomma la spirale in salita della Commedia è la figura geometrica che rappresenta meglio il cammino di ogni persona verso il centro di sé: essere e fare ciò che solo io posso essere e fare, vivere la vita autentica da cui mi allontano o a cui mi avvicino per tentativi, anche dolorosi, in ascesa verso me stesso. I miraggi di esistenza, desideri fallaci di esistenza e d’amore, ci de-centrano facendoci vivere vite non nostre: «un vero peccato!». Per con-centrarsi, raccogliere le energie e indirizzarle al bersaglio di cui siamo freccia assetata, è necessario avanzare salendo, cioè riconoscere nell’esperienza quotidiana ciò che porta a tradirsi o a essere «centrati»: disperazione, tristezza e gioia ne sono segni infallibili.
La nostra vita è un inferno se siamo fuori dal centro (disperazione); un purgatorio se, trovatolo, ci dis-perdiamo in altro (tristezza); un paradiso se ogni nostro gesto nasce dalla nostra unicità (gioia).
Lo scriveva già Pavese nel suo Mestiere di vivere: «Come mai, senza saperlo, hai diretto tutto a un centro? Logica interna, provvidenza, istinto vitale?». Qualunque risposta diamo, il centro (originalità e ispirazione: ciò per cui sono al mondo e vengo sempre più al mondo) agisce in noi: se siamo in traiettoria siamo in paradiso, se deviamo in purgatorio, se rinunciamo all’inferno. La vita allora è necessariamente un cammino per capire che cosa ci fa fiorire o marcire, una continua messa a punto del desiderio: il contrario di «peccare» è «fare centro».
Ma come capire se siamo (con-)centrati? Diamo frutto («concentrato» si dice di un succo genuino) nel modo di essere che ci rende originali, cioè originari: una mela è il fine del seme ma al tempo stesso l’origine di nuovi semi. Anche a Dante accade così. Alla fine del viaggio, faccia a faccia con Dio, non si dissolve ma si compie, cioè diventa il Dante che solo Dante può essere, e infatti «torna» sulla Terra, cioè a se stesso, rinnovato: è sempre in esilio e senza nulla, ma del tutto centrato, restituito al suo sé autentico, figlio del Dio, creatore e amore, che ha incontrato faccia a faccia. Adesso le energie che lo rendono pienamente uomo, creare e amare, sono libere: noi ci realizziamo dando al mondo ciò che in noi è al mondo già da sempre destinato, costi quel che costi.
Chiedersi se oggi sono all’inferno, in purgatorio o in paradiso, significa in fondo domandarsi se oggi la vita in e a attorno a me diminuisce, ristagna o aumenta, cioè se non ho tradito me stesso.
Quando al poeta viene proposto di tornare a Firenze, 15 anni dopo esser stato esiliato, a patto di confessare pubblicamente una colpa mai commessa, Dante risponde nella famosa lettera a un amico fiorentino: «Non è questa la via del ritorno in patria, ma se una via diversa si troverà che non leda l’onestà di Dante, quella non a lenti passi accetterò, ma se non si entra a Firenze per una siffatta via, a Firenze non entrerò più. E allora? Non vedrò forse dovunque la luce del sole e delle stelle? Non potrò forse meditare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo? Né certo mi mancherà un pezzo di pane».
In esilio, ma fedele a se stesso, Dante si è (e ci ha) costruito una patria, dove è libero dovunque si trovi. Per andare in paradiso la strada più breve è toccare il fondo (il dolore è vita che vuole guarire e nascere) e spezzare lo strato di «peccato» (menzogne e disamore) che ci impedisce di abitare il cielo che già ci portiamo dentro e che solo noi possiamo «aprire» sulla Terra. Dovunque.
Il midollo della vita La vita eterna!
Alessandro D’Avenia
Oggi si celebra la giornata della felicità 20 marzo , festa inaugurata dall’Onu qualche anno fa su suggerimento del Bhutan che ha sostituito il Prodotto Interno Lordo con la Felicità Interna Lorda come criterio per giudicare un Paese. Solo dall’Oriente poteva provenire una proposta di felicità basata sull’armonia interiore e la calma, mentre in Occidente crediamo in una felicità ad alta tensione e incentrata sulla performance. Infatti poi da noi fioccano le classifiche stilate su dati più o meno quantificabili, che vedono la Finlandia al primo posto e l’Italia al quarantasettesimo: sarà così? Che cosa si chiede a una persona, e quindi a un Paese, quando domandiamo se è felice?
C’è una risposta trasversale capace di unire culture così diverse? Io direi: «la vita eterna», che non è la vita dopo la morte, ma quella di questo lunedì che o diventa eterno o non può essere neanche questo lunedì. Non bastano le performance dell’eccitazione e auto-realizzazione occidentali (piacere, potere, possesso) che fa del lunedì una fede produttiva ma sfinente, né la calma che placa questi desideri e si solleva sul lunedì come se non esistesse, anche se poi resta lì, da scalare. Eterna è per me l’esperienza del midollo della vita. Uso la parola midollo perché è ciò che Omero faceva per dire eternità, aiòn, originariamente il midollo osseo da cui si faceva dipendere la forza vitale (ungendo il corpo i Greci credevano di ripristinare il midollo). Ma, fuor di metafora, che cosa è questo midollo della felicità?
Marco racconta al capitolo 10 del suo vangelo, all’incrocio tra Oriente e Occidente, che un giorno un ragazzo placcò letteralmente Cristo per chiedergli: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Voleva il manuale di istruzioni per la felicità: non si riferiva alla vita dopo la morte, che non era nel suo orizzonte umano, ma a una vita felice subito, una vita piena, dato che la sua, pur essendo ricco come specificato dal testo, non gli bastava. Per dire «vita eterna» il ragazzo usa due parole: zoé (la vita che condividiamo con tutti i viventi, la vita della quale vivono piante, animali e uomini) aiònios, l’eterno in opposizione al tempo misurabile (chronos). Zoé aiònios è infatti usato nel vangelo per distinguerla dalla vita come psychè, il respiro, la vita che finisce, e infatti dalla stessa radice di aiònios viene l’avverbio greco per dire «sempre» (aieì). La vita eterna è quindi la vita «sempre», non misurabile in respiri o lunedì, una vita talmente profonda da usare il midollo osseo (non un sentimento) come controparte materiale. Di questa vita, a differenza di quella misurata in lunedì e respiri, facciamo esperienza quando diciamo che il tempo vola o si ferma, espressioni che indicano infatti momenti di profonda felicità. In italiano potremmo dire che la vita degli orologi è quella dell’essere viventi, mentre la vita eterna è quella dell’essere vivi.
Per la felicità non basta essere viventi, occorre essere vivi: se infatti avessimo la possibilità di scegliere se passare i nostri anni sedati e senza soffrire, o affrontando tutto ciò che la vita da svegli comporta, credo che sceglieremmo la seconda. Felicità e vita viva (eterna), midollo della vita, sono quindi in qualche modo sinonimi. I contadini romani usavano felice per le piante: arbor felix era semplicemente «l’albero che dà frutto», la pianta che raggiunge il suo scopo. Se la felicità è quindi di chi genera il suo frutto, la vita eterna, la vita da vivi, è quella in cui questo accade in ogni istante. È felice, ha vita eterna, chi dà frutto «sempre», in qualsiasi condizione. E come si fa? Nel capitolo successivo a quello del ragazzo ricco, Marco racconta un altro episodio che mi ha sempre spiazzato. Cristo, affamato, vede un fico rigoglioso, si avvicina ma non trova frutti e, benché il testo specifichi che non era stagione di raccolta, Cristo maledice l’albero. L’indomani passando di lì i discepoli vedono che l’albero è stecchito. Se si fosse voluto raccontare un miracolo scontato si sarebbe inventato che Cristo trova i fichi benché non sia la stagione, e invece fa il contrario: lascia un segno. Alla luce di tutti i passi in cui Cristo paragona la vita umana a un seme chiamato a dar frutto, credo che volesse rendere evidente ai suoi qualcosa che riguardava loro e non la pianta: a differenza degli alberi per gli uomini è sempre tempo di dar frutto, cioè di essere felici, non dipende da giorni, stagioni, condizioni esteriori, ma da una scelta fatta istante per istante. L’uomo può essere «sempre» felice, cioè dare «sempre» frutto, e questo dipende da quanta vita eterna è in lui.
Ma allora questa vita eterna che cosa è? Tutto ciò in cui io genero vita, do frutto: quando creo e quando amo, le due caratteristiche che Cristo attribuisce al Padre e quindi a sé come uomo. Credenti o no, la paternità di cui parla Cristo è un modo di indicare la capacità di generare continuamente, e la condizione di figlio è quella di chi riceve «sempre» questa vita per poi generarne altrettanta: dare «sempre» frutto. Infatti a quel ragazzo che gli chiede come avere la vita eterna risponde di lasciare tutto e di seguirlo, cioè di vivere la sua stessa vita di «figlio» (colui che tutto riceve per poi tutto dare) e di non perdere tempo dietro a cose che quel giovane aveva già verificato essere insoddisfacenti. Il ragazzo non volle e «se ne andò via triste»: gli succede ciò che succede a un albero sterile, non è «felice» (fecondo) ma «triste» (infecondo).
La felicità è «vita eterna» se riesco liberamente a trasformare ogni istante in materia per essere e fare ciò che solo io posso essere e fare: creare secondo i miei talenti e amare secondo le mie possibilità, né più né meno. E se questo può accadere scrivendo, camminando, cucinando, facendo una lezione, con la febbre, con l’ansia, con la paura... e tutte le declinazioni del quotidiano, il lunedì non diventa né una performance né un ostacolo, ma lo spazio-tempo dell’eterno, del midollo della vita. Vita e eterna devono andare insieme perché l’eterno è ciò che rende la vita «viva» e la vita è la materia prima che rende l’eterno «vivibile». Vorrei quindi che questa fosse per noi la giornata della vita eterna, che è far esperienza del midollo della vita, dare frutto anche di lunedì: far bene e con amore quello per cui siamo fatti e far essere nel bene e nell’amore quelli per cui siamo fatti. E questo non è né una performance né un vuoto interiore, ma uno spazio in cui, con un po’ di coraggio, si permette alla vita di raggiungerci e di moltiplicarsi in e attraverso di noi, con tutto quello che questo comporta di lacrime di gioia o di dolore, proprio quelle lacrime che Omero credeva fossero il frutto dello sciogliersi del midollo, l’eterno che si fa vivo, in ciascuno di noi. Chiedere «Sei felice?» in fondo è chiedere «Sei vivo?».
Ognuno di noi cuore dell'universo
Divo Barsotti
Ognuno di noi può essere cuore dell’universo, non in quanto ha una missione visibile, ma in quanto esercita un’azione tanto più efficace quanto più questa azione è libera da ogni condizionamento di tempo, di luogo, di poteri fisici e anche intellettuali: l’amore.
L’amore che, direi, scioglie la preghiera dell’uomo è un amore che si estende come l’amore stesso di Dio.
Ed ecco allora la cosa importante: ogni giorno voi compite l’azione più grande di tutte; ve ne siete mai resi conto? Ogni giorno, dicendo la preghiera litanica, estendete la vostra azione a tutti i viaggiatori, i malati, i prigionieri, i naviganti.
Ecco come la preghiera nostra ci dona una certa partecipazione all’immensità stessa di Dio; e solo nella preghiera possiamo avere questa immensità.
Noi si rimane stupiti, ma la mia azione nella preghiera si estende quanto si estende l’azione di Dio, perché tutta l’azione di Dio è in dipendenza dalla preghiera dell’uomo; Dio si è messo siffattamente nelle mani dell’uomo, che dipende dalla tua preghiera lo sciogliere questa onnipotenza perché agisca nel mondo» (Esercizi 1973).
«Sì, per chi non ha fede siamo dei megalomani. E anche a voi non è sembrata megalomania quanto vi dissi ieri nell’omelia che noi abbiamo nelle nostre mani il destino del mondo, che dobbiamo portare nelle nostre mani tutto l’universo? Eppure questo vuol dire essere cristiani. Non per quello che siamo noi, ma per quello che Dio ci ha fatto unendoci al Figlio suo. Ora, questa coscienza è quella che avevano i primi cristiani, i quali si sentivano, dice la Lettera a Diogneto, “l’anima del mondo”. Ed ecco perché Aristide diceva che “è per la preghiera dei cristiani che il mondo sussiste”. Erano tre gatti e avevano questa pretesa!» (Esercizi 1976).
Conversione del cuore
Divo Barsotti
Siamo nella Quaresima: la Quaresima ci richiama alla penitenza. È con la penitenza che si è iniziato il ministero di Gesù.
Ma che cos’è precisamente la penitenza? Soltanto il pentimento di quello che possiamo aver fatto di male sarebbe ben poco per caratterizzare invece quello che con questo termine intende la Chiesa e intende il Signore. Il termine “penitenza” è una traduzione molto imperfetta di un termine greco che viene usato dagli evangelisti proprio per dire il contenuto della prima predicazione di Gesù, quando inizia il suo ministero.
Il termine greco è metánoia e voi potete capire già che cosa può voler dire. Nous è la mente, è lo spirito, anzi la psiche, l’anima, e meta vuol dire proprio un capovolgimento, un rovesciamento del nostro essere interiore.
Di qui voi capite che quando noi pensiamo che penitenza voglia dire soltanto pentimento dei peccati è troppo poco. Quando pensiamo alla penitenza come al complesso di azioni afflittive, mortificanti per la nostra natura, ugualmente si dice qualcosa ma non si dice quasi nulla, perché, quando si pensa appunto ad azioni afflittive, in generale si pensa a quelle azioni afflittive che non toccano affatto il nous, lo spirito, ma toccano il corpo.
Ecco perché uno dei decreti ultimi sulla riforma della penitenza quaresimale sembrava quasi eliminare quello che finora sembrava il contenuto specifico proprio della Quaresima. Quello che poteva sembrare il vero contenuto della Quaresima era stato eliminato non dalla Chiesa, ma dal fatto che i cristiani non ci credevano più, non facevano più nulla in questo senso. Ma forse i cristiani, non sottomettendosi più a quelle prove, davano segno d’aver capito di più la penitenza veramente cristiana, se non altro davano l’impressione di aver capito che quelle penitenze valevano poco e non era il caso nemmeno di dar loro importanza.
Qual è allora la vera penitenza a cui ci richiamano il Signore e la Chiesa nel tempo quaresimale? Questa penitenza ci richiama intanto a una coscienza di una nostra opposizione radicale con Dio. Se si impone una conversione, segno è che noi non siamo rivolti al Signore, ma gli voltiamo le spalle.
Possiamo noi dire questo? Sì, possiamo dirlo! Nel fondo del nostro spirito noi rimaniamo in una certa opposizione a Dio fintanto che non siamo dei santi. Solo il santo vive, anche nell’atto suo primo, anche nell’atto suo più interiore, questa perfetta adesione a Dio, questa perfetta trasparenza dell’essere alla luce divina. Noi nel nostro più intimo siamo opachi alla luce, nel nostro più intimo, senza esserne forse nemmeno consapevoli minimamente, noi viviamo una certa opposizione a Lui. E questa opposizione da che cosa deriva?
Mi sembra così chiaro quello che dice sant’Agostino, mi sembra così evangelico e così biblico: «Due amori fecero le due città: l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio». La vera conversione è una conversione che implica precisamente l’amore. L’amore è il rivolgersi dell’essere, è l’ordinarsi dell’essere: l’essere ama in quanto si ordina. E dunque questo vuol dire che di per sé non si può dividere l’essere dall’amore; praticamente c’è un’identificazione fra essere e amore, però il contenuto di questo amore deriva dall’ordinarsi. Ci si ordina in un modo o ci si ordina in un altro. Se tu non ami Dio, non per questo non ami: ami te stesso. Se tu ami Dio, non per questo tu non sei, anzi realizzi te stesso precisamente come Dio ti ha voluto, come suo figlio e sua creatura.
Qual è la conversione dunque a cui ci chiama il Signore, la vera penitenza? È questo terremoto interiore, questo rivolgimento dell’essere onde tutto in noi si ordina a Lui, e per ordinarsi a Lui si strappa a un precedente amore, sfugge, si sottrae a un’attrazione che s’imponeva finora al nostro spirito e ci sottraeva, almeno in parte, a Dio stesso.
Se noi non avessimo bisogno di questa conversione, noi saremmo già santi. Possiamo dire di essere santi? No: vuol dire che abbiamo bisogno di convertirci. Se la santità è il nostro ordinarci totale a Dio, vuol dire che ancora non siamo totalmente ordinati, vuol dire che abbiamo bisogno di conversione. Ma da che cosa? Probabilmente, per noi tutti, dall’amore di noi stessi, come dice sant’Agostino: «Due amori fecero le due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé».
Si impone dunque una liberazione dai nostri egoismi, si impone dunque che noi sappiamo veramente rinunciare a noi stessi. L’abnegazione di sé: ecco quello che implica la conversione del cuore.
Ritiro del 4 marzo 1968 a Viareggio
Precipitare..
Alessandro d'Avenia
«Ho ascoltato la Passione secondo Matteo
che tramuta in bellezza il dolore.
Ho letto Fuga di morte di Celan
che tramuta in bellezza il dolore.
Nei corridoi del metrò il dolore non si tramuta, solo perdura, senza tregua».
Adam Zagajevski
Tramutare il dolore in bellezza è possibile solo così, e la Pasqua lo racconta: un uomo ucciso brutalmente torna nel quotidiano vivere dei suoi e si fa riconoscere dalle ferite («Metti il dito nei buchi» dice all’incredulo Tommaso, lo invita a «precipitare» nel dolore trasformato in vita dall’amore), perché «risorgere» è precipitare — per amore — nella vita, come afferma Tarì alla fine del libro: «Più il dolore ti schiaccia più la reazione della vita è forte. Come se il male premesse su una molla e ne saltasse fuori il bene. Per chi ha una vita serena è incomprensibile, ma per noi attaccati dalla malattia e dalla morte la vita diventa un bene da spolpare fino all’osso. Sofia ci ha costretti a sorridere quando non ne avevamo la forza, a cantare per ore, a leggere favole, a essere il suo corpo. Quello che inizialmente sentivamo come una forzatura, ha invece insegnato ai nostri cervelli a tracciare una strada alternativa, ha creato nuove sinapsi, prodotto ossitocina. L’esercizio di forzare la felicità alla fine l’ha resa possibile».
Risorgere è l’esercizio quotidiano di precipitare (guardare, ascoltare, cercare soluzioni) nella realtà: solo così sboccia la vita in e attorno a noi.
Amare non è un’emozione ma un’azione di testa, cuore e corpo, una presa di posizione di fronte alle cose e alle persone, come Tarì dice alle colleghe: «Se vedeste quello che vedo io in lei (Laura), se vedeste dentro questo corpo che non risponde una ragazzina come le altre desiderosa di scoprire, di sapere, di giocare, di interagire, allora tutta la classe sarebbe migliore, voi sareste delle persone migliori e il mondo sarebbe una favola». Solo quando «precipitiamo per amore» anche il dolore dei corridoi del metrò (o della scuola) si trasforma in bellezza ed è Pasqua di resurrezione. Ne abbiamo bisogno tutti: me lo e ve lo auguro.
Corpi celesti e terrestri
Alessandro D’Avenia
«Che sfortuna! Quest’anno Pasqua è di domenica».
Non dimenticherò questa frase di un’alunna che qualche anno fa si rammaricava del giorno di vacanza mancato, convinta che Pasqua cadesse in data fissa e non sempre e solo di domenica. Ignoranza «stellare», dovuta all’aver perso i segni del tempo cosmico di cui la Pasqua, credenti o meno che siamo, è un richiamo evidente, infatti la data cade nella domenica successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera (21 marzo), quindi in un arco di tempo che può andare dal 22 marzo al 25 aprile.
Si incrociano calendario settimanale (la domenica è il giorno della resurrezione di Cristo e si chiama infatti così perché è «del Signore», dominicus in latino), calendario lunare (il mese dipende dai pleniluni, in continuità con il calendario lunisolare ebraico) e l’inizio della stagione della rinascita (l’equinozio, dal latino aequa nox, «notte uguale», è il momento dell’anno in cui i raggi del sole cadono perpendicolarmente sull’asse di rotazione della Terra così da avere 12 ore di luce e 12 di buio: avviene due volte l’anno, all’inizio dell’autunno quando il buio comincia a prevalere e all’inizio della primavera quando a farlo è la luce). Primo giorno della settimana, compimento del mese lunare ed equilibrio luce-buio nel moto della Terra attorno al Sole: la Pasqua ci collega quindi a corpi celesti i cui movimenti cosmici regolari scandiscono il tempo. Il mancato rapporto con questi corpi (de-siderio significa distanza dalla stella) ha conseguenze disastrose (dis-astro vuol dire invece stella avversa). Perché?
I corpi celesti nel capitolo primo della Genesi, a differenza delle culture in cui sono divinità, sono dei segna-tempo: «Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra"». Oggi abbiamo quasi dimenticato l’esistenza delle stelle a causa dell’inquinamento luminoso, di cui purtroppo l’Italia è uno dei campioni. In una notte tersa e senza altri disturbi l’occhio umano può scorgere circa 6 mila stelle: chi ha assistito allo spettacolo della Via Lattea (il nome della nostra galassia che di stelle ne ha 200 miliardi ed è solo una tra i miliardi di galassie dell’universo) non lo dimentica mai più. Solo facendo realmente esperienza dello spazio infinito ritroviamo la nostra salutare posizione nel cosmo e un sano rapporto con il tempo, come diceva Pascal nei suoi Pensieri: «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto all’infinito, un tutto in confronto al nulla, un qualcosa di mezzo tra nulla e tutto».
Finché lo segnavamo con gli orologi solari (le meridiane) il tempo era legato al cielo, ma nel XIV secolo l’orologio meccanico ha svincolato il tempo dalle stelle misurando segmenti senza un’azione celeste diretta. Oggi il senso del tempo dipende da lancette e telefoni: se per Dante era l’Amor a muovere spazio e tempo (il Sole e l’altre stelle), per noi è il Meccanismo: figli delle Rotelle non delle Stelle.
Qualche giorno fa un amico, prestigioso astrofisico e autore di un libro bellissimo (Marco Bersanelli, Lo spettacolo del cielo), mi ricordava che il buio che scorgiamo nella notte, tra una stella e l’altra, è in realtà luce composta da onde non percepibili dal nostro occhio. Lui che ha dedicato la vita intera a studiare quel «buio luminoso» mi spiegava che siamo arrivati a vedere la radiazione di luce presente quasi all’origine dell’espansione del nostro universo, 14 miliardi di anni fa: un pulviscolo luminoso che ha generato tutto, dalle galassie agli elementi di cui siamo fatti. Mi diceva provocatoriamente indicando l’oro del suo anello nuziale: «Questo è fatto per metà dell’esplosione di una supernova e per metà dallo scontro di due stelle di neutroni». Quando parlo con lui mi rendo conto del rapporto sorprendente tra la mia infinitesimale vicenda umana e questa infinita storia cosmica. Proprio perché nel cosmo (lo chiamiamo così non a caso, cosmo significa in greco ordine e bellezza e lo usiamo infatti sia per «la volta» celeste sia per «il volto» umano, come indica la parola cosmesi) c’è armonia possiamo affidargli la misura del tempo.
Una sera di qualche mese fa, davanti a una pizza, gli confidavo il mio sgomento di fronte a questo spazio-tempo infiniti che costringono a ritenersi un nulla, e lui mi rispondeva rimettendo le cose nel giusto ordine: «Tutto questo non avrebbe senso se non ci fossero due amici che ne gioiscono e ne parlano davanti a una pizza: il senso del cosmo risiede proprio in questi due amici seduti a questo tavolo».
È così, solo quando in noi si riannodano terra e cielo, destino ed esistenza, corpi celesti e terrestri, la vita è piena di senso. Amo la Pasqua anche per questo, riannoda l’infinito al finito: morte e resurrezione di Cristo avvengono nell’intreccio armonico dei segni cosmici (plenilunio, primavera e primo giorno della settimana) con una donna che, all’alba della prima domenica della storia, corre al sepolcro per sistemare bene (cosmesi) il corpo del morto composto di fretta il venerdì della crocifissione a motivo del sabato ebraico incombente.
Giovanni, nel capitolo 20 del suo racconto, dice che Maria Maddalena, questo il nome della donna, trovata la tomba aperta e vuota, scoppia in lacrime. Un uomo lì accanto, che lei prende per il giardiniere, le chiede: «Perché piangi?». Maria gli chiede se sia stato lui a spostare il corpo. A quel punto l’uomo la chiama per nome: «Maria!». E lei, dal tono della voce, riconosce l’amato Cristo in una forma umana che sfugge alle leggi fisiche che conosciamo, pur mostrando la «fisicità» di un giardiniere: corpo celeste e terrestre. Godremo presto della vacanza che dipende da questa storia e credo sia importante, credenti o meno, colmare un po’ di quella ignoranza stellare della mia ex-alunna. Ciò che gli uomini hanno chiamato Dio in tutte le culture e tempi, non è qui una potenza cosmica ignara di noi ma un uomo che chiede a una donna «perché piangi?» e ne pronuncia il nome con amore, affidandole, per prima (primato su cui noi maschi dovremmo riflettere), l’annuncio di una vita nuova e in-attesa.
Come 14 miliardi di anni dell’universo e 2 mila miliardi di galassie in espansione trovano senso in due amici che ne parlano a tavola, così l’amore infinito che il nostro cuore brama si nasconde nel volto di qualcuno che ci sceglie tra 7 miliardi di persone: ci chiede il motivo del nostro pianto e asciuga le lacrime del nostro dolore pronunciando il nostro nome come fosse sinonimo di «amore, ora e sempre», e così quel nome può resistere e rinascere da ogni tipo di morte.
Esercizi di insostituibilità
Alessandro D’Avenia
Di recente ho visto due film che ruotano attorno all’amicizia dei protagonisti: Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin, spiriti di vendetta, simili alle Arpie greche, di un’immaginaria isola irlandese) di Martin McDonagh (regista del bellissimo Tre manifesti a Ebbing) e Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, tratto dal bel libro di Paolo Cognetti.
Nel primo film due amici, ogni giorno, dopo il lavoro, si ritrovano a bere nel pub del villaggio, ma all’improvviso uno dichiara all’altro che non vuole più vederlo perché lui, violinista, non può sprecare il tempo in chiacchiere inutili con uno stupido pastore: deve impegnarsi a comporre una melodia immortale. Così si scatena un duello grottesco che coinvolge i tranquilli abitanti di un villaggio incastonato tra mare e colline.
Nel secondo film i due amici sono invece legati dalla montagna: uno le appartiene per nascita, l’altro per vocazione. Nonostante lo scorrere del tempo e le giravolte della vita la loro amicizia rimane salda come le meravigliose montagne che le fanno, non da sfondo, ma da fondamento.
Che cosa hanno in comune due film così diversi? La ricerca di ciò a cui oggi chiediamo salvezza: l’incontro d’amore con le cose e con gli altri. Nell’uno e nell’altro film la creazione diventa interlocutrice silenziosa della ricerca di un modo nuovo di vivere da parte dei protagonisti. Lo trovano?
Già il famoso esploratore islandese di Leopardi, dopo un lungo viaggio ai confini del mondo, aveva scovato e interrogato la Natura sul segreto della felicità, senza però ricevere alcuna risposta se non la morte: la Natura fa il suo corso ed è a noi indifferente, come ci ha ricordato il recente terremoto (anche se indifferenti — cioè incapaci di cogliere le differenze — a volte siamo noi più preoccupati di Sanremo che di quelle popolazioni).
Ma in questi due film non c’è la Natura, astrazione senza relazione di una cultura che legge la realtà come una macchina (emblematico nel secondo film il momento in cui il montanaro dice a una ragazza che non esiste la Natura ma quel prato, quel bosco... cose con un nome che permette una relazione viva), ma c’è la Creazione, parola che, senza bisogno di aderire a una fede, lascia intatto il mistero di un ordine iscritto nelle cose che diventa quindi un invito alla scoperta, all’incontro, alla cura.
La bellezza del mondo è per me una domanda assordante: le cose non sono tenute a essere belle eppure lottano per esserlo, e in questo per me c’è una promessa, una richiesta, un’ispirazione.
Anche le relazioni tra gli uomini potrebbero essere così, ma l’uomo preferisce imporre la sua di legge.
Quando il musicista del primo film decide di non voler vedere mai più l’amico per creare il suo capolavoro, impone una legge che esclude l’altro se non è utile al proprio successo, un’ideologia che lo disancora dalla realtà e innesca la distruzione di sé e del mondo.
Di contro gli amici del secondo film non perdono se stessi proprio perché non si perdono tra loro.
I due film, in controtendenza per ritmo e fisicità del racconto, mi hanno aiutato a sentire con più precisione un bisogno che, con il tempo e in questo nostro tempo, cresce in me: un modo di vivere che, ridimensionata l’ossessione del fare per esistere, prediliga il ricevere per esistere, ricevere è infatti la condizione necessaria per incontrare cose e persone, sentire come propria carne la corteccia di un albero e la pelle di una persona.
Quando corazziamo l’ego impaurito dalla morte con illusioni di immortalità, come il famoso cavaliere inesistente di Calvino, tutto armatura, cose e persone diventano ostacolo o strumento: non esistono più con noi ma per noi, da creature, e quindi da consanguinei, si riducono in scorte ed, esaurite, in scorie.
Per imparare a sentire il mondo come mia carne ho quindi cominciato a fare due esercizi. Il primo è camminare, attività ancora libera da performance (sebbene adesso anche i passi vengano contati per smaltire calorie) e il cui fine è l’azione stessa del camminare. Camminare risana la relazione tra corpo e spirito, tra corpo e mondo: si entra in contatto, con tatto, con ogni cosa/persona che diventa una parola rivolta solo a noi. Basta poco ogni giorno, purché si usino tutti e cinque i sensi (senza telefono, e faccio fatica): l’inesperienza corporea e feriale del mondo è una delle ferite più gravi della nostra psiche.
Qualcuno penserà che ho tempo da perdere, quando si tratta proprio di una scelta che ne sottrae ad attività più utili, redditizie, divertenti. Mi obbligo a camminare, non a vagare come un flâneur, ma libero da secondi fini, a parte raggiungere i luoghi dove sono diretto.
Camminare è un esercizio di insostituibilità: non può farlo nessuno al mio posto.
Esercitarsi a essere insostituibili serve a diventarlo e si scopre quanto spesso vendiamo il nostro corpo al nulla.
La vita, a esserne discepoli, è maestra generosa: risponde nella misura in cui siamo presenti e facciamo domande.
Un boccone di realtà mi nutre molto più di uno digitale e rende il cuore più intelligente: attento e paziente, le due qualità dell’amore. Faccio scoperte e ricevo ispirazioni, come un Colombo metropolitano che trova il Nuovo Mondo, cioè un mondo rinnovato.
Il secondo esercizio è quello del «come stai». All’inizio dei messaggi non scrivo più «come stai?» (spesso sostituito dalla formula «spero tu stia bene», per evitare la risposta altrui) per poi chiedere ciò che voglio, ma dico subito ciò che voglio e solo alla fine chiedo: «ma tu, come stai?». Questo permette agli altri, come alle cose mentre cammino, di avere lo spaziotempo per dirsi, essere il fine e non un mezzo. Il verbo «stare» del «come stai?» significa «come abiti la vita? dove sei?».
Ho bisogno, io per primo in un contesto così veloce e disincarnato, di sostare (so stare?), cioè di una «stanza» per raccontare.
I due esercizi (ognuno può trovare i suoi), camminare e far stanza, mi stanno aiutando a ricevere la vita che non riesce a raggiungermi quando sono altrove, impegnato a impormi più che a dispormi.
«Cammino» e «stanza» danno a cose e persone la possibilità di un incontro d’amore e, insieme, diventiamo il centro del mondo, anche se non fa notizia. Ma per me la silenziosa notizia è questa: se un punto qualsiasi dell’universo può diventare il suo centro, forse questa è la legge della gioia quotidiana.
«L’autentica bellezza schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano» (Benedetto XVI, Discorso, 21 novembre 2009).
Se la nostalgia, Dio e la bellezza sono così intimamente legati allora l'arte non può che esserne una manifestazione privilegiata. «La nostalgia» – scriveva Marcello Veneziani sulle pagine de Il Giornale – «è il sentimento originario che ha mosso l'arte, il pensiero e la grande letteratura di ogni tempo. Da Omero a Kavafis, da Saffo a Pasolini, la nostalgia è l'anima della poesia. L'uomo è un animale nostalgico, non sa vivere solo del presente. Vive tra l'attesa ponderata del futuro e la nostalgia delle origini».
“Essere amati è il grande privilegio”. Discorso sul Paradiso attraverso la poesia
Che cos’è il paradiso, l’ho capito dall’attesa, l’ho capito aspettando la telefonata di una persona cara, o nel ricevere una mail da lei in procinto di venirmi a trovare. Quello che scopro è che l’attesa si annulla, l’attesa si azzera sempre, non rimane in noi, il seguito conquista tutto.
Il paradiso dev’essere questo, non un’attesa inutile, bensì attesa che si annulla nella prossimità dell’incontro. Quindi si attende senza aspettare, arricchendosi nella vicinanza della compagnia. È un po’ come in quei siti online che si scorrono con il cursore, arrivati in fondo ecco che il cursore sale in alto, rivelando che c’è ancora spazio da visitare, che non c’è fine e si può andare avanti ancora.
L’azzeramento corrisponde a una nuova qualità del sentire, aperta a una prospettiva rinnovata del vedere, del punto di vista, del soggetto in attesa, pronto ma mai afferrato da delusioni, sempre in atto di conoscere il vero. Questo io ho scoperto aspettando. È una scoperta sicura, non è qualcosa di effimero, è anticipo di ciò che sarà, già qui. Perciò ognuno è un mezzo, è un ponte per il mistero che c’è di là. Ognuno è creato, ed è fatto di questo. Attesa che viviamo del paradiso, attesa che non si accumula pesando sul nostro animo, fino a franare, annientandoci. L’attesa ci convince sul nostro stato.
Forti di questo, cresciamo immensamente, di minuto in minuto, di secondo in secondo, attimo dopo attimo. La concezione del tempo acquista una velocità impensabile, profonda, sublime. Avviene già fra noi, in relazione a fatti, cose e persone precisi, identificabili. Ad esempio, aspettando una persona che teniamo a cuore, si sente che il tempo si dilata, si curva su di noi e sullo spazio che ci sta intorno. Tutto cambia. Ce ne accorgiamo dai volti degli altri, non sembrano più estranei, non s’intercetta più nel loro sguardo una negatività, un limite, un’angustia. Il mondo sta lì, davanti a noi, per dire questo, affinché ci si ponga davanti a questo. E se avviene uno scontro, qualcosa che all’improvviso ferisce, quello rivela il non-ancora, il non-avvenuto-ancora, la stazione che vediamo sfuggire in velocità dal finestrino del treno in corsa, cioè l’immagine che ci attraversa gli occhi, ma senza fermarsi, senza fissarsi sulla retina, non impressionata dalla luce, dal colore, dal movimento. Siamo in attesa, dunque ci troviamo nell’attimo successivo, sempre e sempre.
Questa condizione io l’attribuisco a una percezione divina, che s’impasta in noi, si rapprende come la materia del colore nell’umido di un intonaco fresco, nell’affresco che noi siamo di Dio, nel dipinto che Lui fa giorno per giorno di noi, anche se non ce ne accorgiamo, anche se la nostra inconsapevolezza non è radice di male.
Davide BrulloGiorgio AnelliOttanta poetesse per Cristina CampoCito l’amico poeta Daniele Piccini: “Così, così ritornerà compiuta / l’attesa fatta di tutte le crune”. Come a dire che la cruna non è passaggio stretto, bensì spalancamento continuo, e multiplo, improvviso, recante stupore, condizione umana che si apre, circonda, coinvolge. Ci si sente fiore commosso nel corso della lettura dei versi appena citati, per l’anticipo che si avverte nel dire, nel toccare lo spessore di questo passaggio, in eccedenza di linguaggio, come scrive il filosofo Paul Ricoeur nel suo La logica di Gesù, libro ispirato, felice, in cui si analizza lo stile del linguaggio cristiano, in particolare delle Beatitudini.
Essere amati è il grande privilegiodelle creature.
Inizia così Per la cruna (Crocetti Editore), di Daniele Piccini. Chi è amato?, viene da chiedersi. Davvero è privilegio?, o l’amore è il segno di quello che avverrà per tutti, che sta accadendo, è in atto. Troppo comodo se avvenisse in un colpo solo, penso io.
Anche quando si muovononella notte franosa, a basso lume,qualcuno li conosce.
Chi?, chi è capace di questo riconoscimento se non qualcuno in stato d’amore, rapito dalla stessa conoscenza del farsi corpo, forma, riconoscibilità di corpo e forma, tratti dall’invisibilità che si rivela nell’attimo, in un barlume.
Qualcuno li contiene come un fiume,anche se loro ignorano, incoscienti.
Il poeta apre alla carità, che, al contempo, persegue un mistero, già nello sguardo delle cose (delle cose, certo!), se non ci fosse quello sguardo che accoglie, fatto di carità e mistero, non ci sarebbe niente. Viene da parafrasare san Paolo: Se anche conoscessi tutto, e mi mancasse la carità, che cosa sarei? Infatti ci si perde per mancanza, per natura nostra di limitatezza. In realtà il recupero è in azione, ce lo dice il poeta; un radar appare nella poesia emblematicamente, capace di intercettare tutto l’amore del mondo, che non lascia fuggire. Niente è perso. Qui, gli altri, i nostri simili, le altre creature umane, si allontanano soltanto per essere contemplati, per vederli nella loro interezza. Perché sono degli interi, non degli uomini a metà.
Così si perdono lontani e vannoma non escono maida quel radar inquieto.
Si tratta di un radar che non riesce solo a individuare la posizione delle cose, la loro posizione nello spazio, è un radar che è in grado di arrivare ovunque, estremo frutto di amore, radar di vita caritatevole, che comprende.
Camere illuminate nelle notti.
Attenzione, il lume basso è diventato luce piena!
Ne ho viste nelle città più remote.
È luce che raggiunge i posti più lontani e inaccessibili.
Ognuna brilla come stella accesa.La sua fornace manda lampi chiari.
Il buio è vinto! Ecco che ritorna l’uomo dell’inizio della poesia.
Rivedo la creatura a cui pensavo,le stelle s’infittivano la primavolta allo sguardo semplice.
È sempre lui ma è cambiato, è cambiato l’ambiente che lo circonda, oppure, si può dire, che è un ambiente più vasto a definirlo, un mare di stelle s’infittisce intorno a lui. È la vita di quell’uomo che s’illumina. Chi è?, adesso lo sappiamo, perché lo contempla uno sguardo innamorato, che s’innamora del suo mistero senza ostacoli.
Il vero protagonista è lo sguardo del poeta, punta elicoidale, mi piace dire, tale è la sua intensità, che indirizzando precisamente e per destino il vedere, ha già segnato con il suo sguardo l’uomo, e non lo lascia più. Ora l’uomo può vivere di vita propria, compiuta, sebbene ancora da vivere.
Cosa sarebbe stato, non sapevo.
Possibile?, viene da chiedersi. La poesia, nell’ultimo verso, sembra deludere il lettore, eppure non è paradossale il volere di Dio, che Dio voglia che noi viviamo, apparentemente abbandonati a noi stessi, ma in realtà individui supremi per benevolenza, per sacrificio, l’amore che ama per la prima volta attraverso la scoperta della sua natura, in perenne ascolto. “La psiche non è mai in silenzio” dice la filosofa Maria Zambrano, che è la modalità dell’agire dell’uomo, nell’ampliamento del suo essere. Il poeta, al colmo della sua tensione, è dotato anche di questo sentire illimitato. Il senso è portare tutto davanti a Dio.
V. Gambardella
Il mondo in cui stare..non sono solo canzonette
Alessandro D’Avenia "
Festival è l’antico termine francese che indicava un evento sacro e popolare, arricchito da musica e danze. Nasceva dal bisogno di interrompere la fatica del lavoro quotidiano e condividerne i frutti.
Dettata dal calendario liturgico e dai ritmi stagionali di terra e cielo, la festa dava senso agli altri giorni: riposare e gioire insieme del lavoro fatto, con musica e danza che sono i simboli umani della libertà dalle necessità dei giorni feriali. I Greci interrompevano anche le guerre per i loro festival. La città pagava il biglietto a tutti, anche ai più poveri, perché potessero partecipare a ciò che permetteva di riposare e di esistere come comunità. La polis, città in greco, da cui «politica», non era un contenitore di corpi, ma un progetto di vita da creare insieme: un’armonia che tutti erano chiamati a realizzare, per andare oltre il mero stato di necessità e vincere un po’ la morte. Il tutto si è poi trasferito nelle feste liturgiche cristiane, qualcosa rimane nei nostri sabati del villaggio, ma nel «villaggio globale» tutto questo accade in tv. Nella cultura secolare e nella società di massa ciò che crea comunità si è trasferito sullo schermo. Il Festival della canzone è infatti un’occasione (un’altra è la Nazionale di calcio) per riposare e rifondarsi come comunità. Ci basta? Funziona?
Per l’evento, famiglie, amici e parenti si radunano in soggiorno e, se non è possibile, in chat. Si commenta, si danno voti, si demolisce, si osanna, in perfetto stile tribale social. Ma da dove viene questo potere unificante? È un rito culturale: riscopriamo la nostra lingua che, con le sue vocali finali e il suo ritmo, è fatta per il canto. È un rito sociale: riesce a unire, come la Nazionale, tutte le generazioni, da Mattarella a Madame. È un rito religioso, dal testo sacro della Costituzione alle omelie nei monologhi, un rito che ha per fortuna anche le sue «eresie»: la profanazione dei Fiori simbolo del festival è stata interpretata dai ministranti come un sacrilegio, ed era invece l’istintivo smascheramento dell’ipocrisia (ipocrita in greco era l’attore), per ricordarsi che è solo una messa in scena, la verità è altro. È un rito politico, con i suoi voti: nei festival antichi l’autore vinceva raccontando Antigone, Prometeo o Alcesti, miti in cui il popolo si riconosceva e grazie ai quali si interrogava sul senso della vita.
E i nostri quali sono? Quest’anno si è cantato quasi solo del mito dell’Amore, in tutte le sue declinazioni (famiglia, coppia, amicizia): relazioni spezzate, finte, stanche, tradite, finite, ma anche riparate...
Ogni comunità si unisce per curare le sue ferite e in un Paese dalle relazioni (col corpo, con se stessi, con gli altri, con le cose) fragili e frantumate si è levato un canto piuttosto lugubre, una lunga malinconica preghiera perché l’amore torni a darci gioia e non solo fallimenti. La parola (anche quella dei monologhi) non sempre è riuscita a in-carnarsi (farsi carne) e in-cantarsi (farsi canto), ed è suonata a volte artificiosa, in questi casi la musica è diventata un pre-testo, ma è il rischio che l’arte corre quando entra in tv. Ci sono stati però anche momenti in cui gli artisti sono riusciti a tradurre il loro incontro, doloroso o meravigliato, con la realtà, in note originali sgorgate dalla fonte da cui nasce ogni autentico gesto creativo: la vita spirituale, che, comune all’umano di ogni latitudine, è ciò che unisce veramente le persone. La si riconosce quando, ascoltando un pezzo, qualcosa in noi si trasforma, la pelle d’oca lo manifesta, come fa la bellezza se non è un cartonato della vita, una comunicazione senza comunione, un incantesimo senza incanto.
Forse è un po’ inevitabile a causa del sistema che mette in competizione e in discussione l’ispirazione artistica: Tenco si è tolto la vita anche per questo, proprio a Sanremo, e del potere della tv di svuotare i linguaggi e falsificare i bisogni della gente ha detto tutto Pasolini negli stessi anni.
Comunque sia noi di Sanremo abbiamo bisogno perché è San Remo: se manca il patrono un Paese non esiste, manca ciò che unisce gli uomini, il sacro, cioè, fuor di metafora, ciò che riceviamo dal passato e con cui dobbiamo fare i conti per rinnovarci. Che cosa fonda la nostra comunità e ci fa appartenere a questo Paese tanto da volerlo custodire e far crescere insieme? In un tempo in cui, individualisticamente slegati, ci sembra di non appartenere a nulla e nessuno, abbiamo ancor più bisogno di simboli (parola che significa «unire ciò che è separato»).
Quali sono i nostri? Lo sport e le canzoni, in tv. È sempre più difficile trovare unità e gioia negli spazi dove la vita si svolge ogni giorno (città, scuola, cultura...) e non appartenere soltanto a supermercati, piattaforme streaming o social. Sarebbe bello fare città, civitas, comunità e civiltà, in posti in cui ci si trattiene e non solo ci si intrattiene, in cui si costruisce e non solo si consuma. Ma se ci uniamo per qualche sera, disposti a tardare davanti al teleschermo pur lavorando l’indomani, è perché ne abbiamo bisogno, o almeno ne ha avuto bisogno un italiano su sei, gli altri cinque cercano altrove. Ma, quando lo spettacolo è finito, quell’italiano aveva più vita o più sonno? Torna a lavorare, come dice amaramente la canzone dei miei conterranei, «per non stare» con chi ama, o invece ha ricevuto energie nuove per amare meglio chi ha accanto? Abbiamo fatto comunità o solo ascolti?
Comunque sia ci aggrappiamo ancora all’arte per sapere se c’è un altro mondo, bello e unito, a cui appartenere, un mondo ancora da fare e in cui si può ancora cantare insieme per spostare la morte più in là.
L’amore autentico offre tempo e presenza
di ENZO BIANCHI
Vorrei tentare una rilettura della sua prassi dall’ottica del nostro stile di vita. Ovvero, non citerò brani evangelici, ma vorrei tenerli sullo sfondo, per vedere come essi agiscono su noi suoi discepoli e discepole, nel nostro stile di vita quotidiano. In quale modo lo stile di vita di Gesù plasma e ispira il nostro vivere la comunione?
Gesù ha vissuto l’amore innanzituttooffrendo il suo tempo e la sua presenza. Oggi la contraddizione all’amore autentico viene soprattutto dalla mancanza di tempo (prospettiva che si è rovesciata in questo periodo di pandemia!), dal non dare all’altro la propria presenza. I ritmi della vita, gli impegni di lavoro, le molteplici cose da fare, le scadenze che ci paiono inderogabili, tutte queste realtà ci mangiano il tempo; sicché, pur avendo tempo per molte altre cose, non abbiamo più tempo per le cose gratuite, quelle che non ci portano guadagno. Ci manca il tempo dell’incontro: incontriamo le persone che dobbiamo incontrare per ragioni di lavoro, anzi cerchiamo di moltiplicare gli incontri che possono “rendere”, ma non c’è più tempo per l’incontro che non fa parte del nostro lavoro e che non ci fa guadagnare. Dare tempo per amore, dare la presenza all’altro senza fare nulla e anche senza dire nulla, ci sembra tempo sprecato. Eppure non c’è amore dove non c’è presenza dell’uno all’altro.
Gesù ha inoltre avuto una grande attenzione per l’altro, a cominciare dal suo corpo. Occorre avere la percezione che l’altro non è un partner ideale davanti a me, né un tu qualsiasi, un altro e basta, ma è un corpo con cui devo relazionarmi, un corpo che aspetta da me degli atteggiamenti, un linguaggio, perché per comunicare i corpi devono esprimersi. Si tratta dunque di riconoscere il corpo dell’altro realmente, non di definirlo solo in base a criteri di bellezza, avvenenza, crescita sana.
È normale che un corpo seduca, attragga, interessi, oppure respinga e faccia provare repulsione. Al riguardo, per incontrare l’altro occorrono molta attenzione, molta sapienza, molto esercizio per disciplinare le nostre emozioni e i nostri sentimenti: non possiamo amare l’altro solo se ci piace! È facile provare sentimenti di attrazione per chi è bello, giovane, piacevole, ma per amare l’altro occorre accogliere innanzitutto quel preciso corpo, perché la sua vita che voglio e devo incontrare è inscritta in quel corpo, nei suoi occhi, nelle sue labbra, nelle sue mani… L’altro non ha un corpo: è un corpo! Se è un corpo, allora non posso accendere l’amore senza accogliere il suo corpo. Solo attraverso il corpo passa l’amore.
Non esiste un contatto, una relazione con una persona, che non passi attraverso la relazione con il suo corpo. Chiediamoci semplicemente: perché Francesco di Assisi ha baciato un lebbroso? Non ha amato un lebbroso facendogli la carità o pregando per lui: l’ha baciato! Nella relazione è anche il corpo che parla: parla da giovane e da anziano, da sano e da malato, da bello e da brutto. Va detto che ogni corpo è una persona, ogni corpo – dice il cristiano – è “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Ogni corpo è un membro del corpo di Cristo.
Gesù ha voluto entrare in relazione con gli altri interrogandoli, conversando e dialogando.Per crescere nella conoscenza e nell’amore occorre avvicinarsi all’altro, accogliere il suo corpo con attenzione e quindi entrare in dialogo con lui, ascoltandolo e parlandogli. Si inizia ascoltando l’altro, restando silenziosi, a volte ascoltando il silenzio dell’altro. Occorre poi intervenire, magari rispondendo o ponendo domande, ma sempre con un atteggiamento che dica l’interesse per la relazione. Solo a queste condizioni si accende la comunicazione: comunicazione di parole, di silenzi, di gesti, di sguardi, di un “toccare” l’altro. La comunicazione è vitale, per questo esige che vi siano impegnati il cuore, la mente, il corpo con i suoi atteggiamenti. Ascolto dell’altro per cogliere dove lui è; ascolto dell’altro per conoscere ciò che lui porta nel cuore e vuole comunicare a me; ascolto dell’altro per far crescere l’amore; ascolto dell’altro per predispormi a riconoscerlo affidabile, in una relazione che ci impegnerà reciprocamente.
Se uno non ascolta, non si predispone ad amare, non può accedere all’amore; e se uno non parla, non entra nella dinamica dell’amore, perché non parlare è il primo modo per sottrarsi alla relazione e per negarla. Sincerità e verità diventano allora assolutamente necessarie alla comunicazione e rendono possibile l’edificare la relazione nell’amore. Si pensi solo a una parola semplice eppure così decisiva: “Io ti amo”, parola detta in sincerità, detta come confessione e promessa. Parola che sempre sottintende la domanda: “E tu mi ami?”, attendendo una risposta. In queste parole si gioca “il senso dell’eternità” (‘olam: Qo 3,11) che ogni essere umano porta in sé!
In ogni relazione d’amore accade tuttavia che il male prevalga sul bene, che l’amore sia tradito, si ammali, sia contraddetto. Nessuna illusione: nell’amicizia, nella storia dell’amore vissuta nel matrimonio, nei rapporti di amore prima o poi avviene una contraddizione. A volte è uno che viene meno, mentre l’altro resta saldo; a volte entrambi i partner dell’amore diventano infedeli l’uno all’altro. Ciò accade, ma non deve essere così deludente da impedire la relazione d’amore, né essere giudicato quale morte dell’amore. Bisogna prepararvisi, bisogna metterlo in conto anche quando ci si promette reciprocamente la fedeltà, il non venire meno. Anzi, occorrerebbe che chi ama metta in contro che l’altro mancherà e, di conseguenza, si impegni a perdonare per ripartire, per ricominciare, fino a dimenticare il venire meno dell’altro. Qui si misura la maturità dell’amore: amore vissuto concretamente, non idealizzato, amore innestato in ciò che io sono e in ciò che l’altro è.
Ecco perché è decisiva la capacità, la volontà, la responsabilità del perdonare, sulla quale Gesù ha dato l’esempio fino alla fine. Perdonare è amare con coraggio, è credere che l’amore che si vive è più forte delle contraddizioni che riceve. Chi ha un cuore che sa perdonare, ha un cuore grande, abitato dall’amore, un amore che sa accogliere dall’altro non solo la bellezza, le virtù, i doni, ma anche i difetti, le fragilità, le cadute, anche le cattiverie. A volte il cammino di chi ama è gravemente ferito, quasi impossibile da percorrere: i questi casi occorre fermarsi, sostare, non muoversi, restare in attesa dell’altro che si è smarrito… Ci vuole molta pazienza e poi, sì, la capacità di perdonare, di riprendere con sé l’altro e di ripartire nell’amore. Questa è la vittoria dell’amore sulla morte (cf. Ct 8,6) che possiamo sperimentare qui sulla terra! Questa è la comunione che la chiesa, corpo di Cristo, può vivere e testimoniare al mondo.
L'etica del reincanto
intervista ad Alberto Meschiari
Da più parti si osserva con preoccupazione quanto sia diffuso nella comunicazione politica e interpersonale, soprattutto nei social media, il linguaggio dell'aggressività e dell'odio che porta a un imbarbarimento delle relazioni sociali a tutti i livelli. È urgente pertanto riscoprire il valore di altre modalità di comunicazione, più rispettose e civili, dove la gentilezza può giocare un ruolo importante. La gentilezza, infatti, è uno strumento prezioso per comprendere l'altro e costruire insieme un orizzonte comune dal quale osservare e risolvere i problemi. Benedetta Smargiassi, autrice di una tesi di laurea sul ruolo della gentilezza nei processi comunicativi, ha posto alcune domande su questo tema al filosofo Alberto Meschiari, evidenziando nella sua riflessione punti di contatto con Luigi Pareyson e Karl Jaspers. Il dialogo, oltretutto, offre a Meschiari la possibilità di spiegare il suo progetto di un'etica del reincanto che lo ha impegnato negli ultimi anni: rimettere al centro del discorso filosofico la persona con i suoi imprescindibili valori, contro la progressiva manipolazione e banalizzazione dell'esistenza.
Leggendo il suo libro Gentilezza. Per un'etica del reincanto (Edizioni Tassinari, Firenze 2017), emerge con forza un invito rinnovato alla scelta della gentilezza come abitudine, modalità di relazione con gli altri esseri umani e con il mondo. Com'è nato in lei l'interesse per questa tematica?
A un certo punto del mio percorso nella filosofia sentii l'esigenza di andare oltre il mestiere che avevo praticato fin lì di storico della materia. Per la mia sensibilità e natura volevo che la filosofia mi aiutasse a orientarmi nella vita, a rispondere a domande come queste: chi sono io? Come devo condurre la mia vita? Dov'è che ho sbagliato? Dov'è finito l'amore? Il primo atto di questo rivolgimento lo realizzai in un libriccino che pubblicai nel 2003 a Pisa: A cosa serve la filosofia nella vita? Mi interessava rispondere alla domanda: a cosa serve la filosofia nella vita, non nella carriera universitaria. Poi, guardandomi attorno e considerando quanto stesse dilagando un generale conformismo cominciai a lavorare a quella che avrei chiamato «etica del reincanto». Così nel 2010 – come vedi occorrono molti anni per elaborare qualche idea – pubblicai Riprendersi la vita. Per un'etica del reincanto.
Perché «riprendersi la vita»? Ce l'aveva forse rubata qualcuno? E in tal caso, a quale vita stavo pensando? L'etica del reincanto nacque da una constatazione: rispetto agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui i grandi ideali sociali e politici nutrivano e stimolavano l'impegno personale e l'entusiasmo del fare insieme, a partire dagli anni Ottanta ho avvertito crescere intorno a me il disagio e lo smarrimento a mano a mano che il mercato prendeva il sopravvento sulla politica – determinando sempre più pesantemente i valori di riferimento e gli stili di vita – e la politica perdeva quell'affiato etico che l'aveva caratterizzata nella precedente stagione. Quei due processi concomitanti hanno portato allo sgretolamento non solo della compagine sociale ma anche dell'identità personale, finché la vita di ciascuno si è trovata sempre più disseminata in un pulviscolo di comportamenti privi di motivi aggreganti, di forti ragioni di coesione.
Di fronte a questa constatazione, ho cominciato a chiedermi se all'individuo non rimanesse altra possibilità che conformarsi allo strapotere del capitalismo neoliberista, penetrato fin nei meandri più intimi del privato, o se invece potesse sottrarre qualcosa di sé al suo condizionamento. Un poco alla volta il mio interrogativo si trasformò nell'assunzione di un impegno, nello spostamento dei miei interessi dalla Storia della Filosofia all'Etica. E qui la prima domanda che mi sorse spontanea fu questa: che cosa può fare un filosofo di fronte a questa realtà, in che modo può uscire dal "limbo" delle sue dotte ricerche e ridurre la distanza fra i suoi studi accademici e i disagi che serpeggiano nella società? Come può trovare una parola immediatamente operativa, che possa trasformarsi in azione?
Guardandomi attorno, mi parve di leggere su molti visi ogni giorno di più i segni di un sofferto vuoto esistenziale, unito all'incapacità di individuarne le cause; le invocazioni inascoltate di vite svuotate dall'interno, tutte ripiegate sulle merci, sul rapporto compulsivo con le meraviglie tecnologiche, come se fossero lampade di Aladino dai magici poteri, dispensatrici di promesse che non si avverano mai. Vedevo una sempre più diffusa obesità del corpo accompagnarsi a una complementare anoressia dello spirito. Forse, mi dicevo, abbiamo spinto troppo innanzi, con un'intenzione cieca e caparbiamente autodistruttiva, il nostro disincanto: niente ci colpisce profondamente, niente ci tocca veramente, tutto ci è indifferente allo stesso modo. Ostentiamo perfino con sfrontatezza il nostro disincanto come un segno di virilità e di emancipazione. Ma l'indifferenza, il non dare importanza a niente, sono il suicidio dell'anima.
Dal mio punto d'osservazione ho creduto di individuare un motivo di questa sofferenza. Presi nell'ebbrezza del consumismo, abbiamo trascurato e poi abbandonato del tutto la cura della nostra spiritualità, come se fosse un accessorio superfluo nella costruzione della personalità o una zavorra che rallenti la fretta con cui ci affanniamo a tenere il passo del mondo. Ci dimentichiamo facilmente di non essere solo corpo e mente, ma anche spiritualità, e viviamo come se non fossimo toccati da questa dimensione costitutiva di un'esistenza degna di essere vissuta. Discendono in gran parte da qui, a mio avviso, il nostro disagio, il nostro malessere, la nostra aggressività. Perché viviamo costantemente fuori di noi, siamo assenti a noi stessi per gran parte della nostra vita o per tutta, come se il nostro corpo e la nostra mente fossero case disabitate, abbandonate dal loro inquilino. La vita è anche una questione di equilibrio: fra corpo•, mente e spiritualità.
L'etica del reincanto prende il suo nome e la sua ragion d'essere dal suo opposto, il disincanto. Di disincantamento del mondo parlò per la prima volta l'economista e sociologo tedesco Max Weber nel 1917 in una conferenza che tenne a Monaco di Baviera e che pubblicò due anni dopo con il titolo di Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione). Con quel termine egli si riferiva all'effetto del processo di intellettualizzazione e razionalizzazione che costituiva per lui l'essenza del capitalismo. Da allora, il disincanto ha fatto molta strada e ha preso la forma della mercificazione di ogni esistente, esseri umani compresi, perché ridotti a cose, strumenti e non fini. Negli ultimi decenni, la razionalità neoliberista ha spinto gli esseri umani sempre più verso un progressivo processo di desolidarizzazione. Le dinamiche che vigono in economia hanno finito per invadere e determinare anche la sfera privata e relazionale, portando a considerare sé stessi, gli altri e la natura in un'ottica strumentale, di prestazioni e guadagno. Il Sé, l'altro e la natura sono stati ridotti a cose manipolabili per i fini del mercato: quanto si possono sfruttare? Quanto se ne può ricavare? Questo significa oggi disincanto. Se non che, ciò che l'uomo desidera nei recessi più profondi e più intimi di sé stesso, ci ricorda il filosofo basco Fernando Savater, e da cui tutti gli altri desideri discendono, è di non essere cosa (El contenido de la felicidad).
Ora, se questa è la situazione, la mia domanda è se non possiamo muoverci noi, singolarmente, quando non si muovono le condizioni oggettive e non s'intravedono soluzioni collettive, chiedendo alla filosofia che cosa si possa fare, individualmente, per contrastare questa frustrazione nell'universo dei valori, questa crescente perdita di senso dell'esistenza. L'individuo che non trova più conferma delle proprie convinzioni nell'ideologia politica e che sente di non essere appagato dalla fede religiosa in un qualche problematico aldilà, non può imparare a liberarsi da sé dai troppi condizionamenti di questo modello socioeconomico? La mia risposta è sì. Il singolo ha una vita sola, e non può attendere i tempi di maturazione della società o della politica affinché essa cambi. Può invece avviare responsabilmente da sé un processo di autoliberazione e di autoformazione. E può farlo, cominciando col rimettere al centro della propria attenzione la persona con i suoi valori, contro la progressiva banalizzazione dell'esistenza. È qui che si aggancia il discorso sulla gentilezza.
A fronte del significato di mercificazione di ogni esistente assunto dal disincanto postmoderno, reincanto ha da significare allora religiosità, religiosa cura del vivente, rispetto per ogni essere umano e per la natura, che vanno considerati «fini in sé», come chiedeva Kant, e non esclusivamente «mezzi per noi». Superare il disincanto dell'utile, del funzionale, del calcolabile, del quantificabile, per incontrare sé stessi, l'altro e la vita, per riscoprire lo straordinario nel quotidiano, il dialogo, il silenzio, l'ascolto, la crescita culturale, la comunicazione autentica, l'immedesimazione e il sentimento della comunione di destino. E perfino l'amore. (Su questi temi ho pubblicato cinque strategie del reincanto: Sul dialogo, Il libriccino del silenzio, Filosofia del camminare, L'arte di amare, Il magico mondo dei libri). La devastazione dell'ambiente e della morale, la degradazione delle relazioni umane sono anche figlie del disincanto a oltranza, della «desacralizzazione radicale del mondo in cui viviamo» (Savater).
Anche Umberto Galimberti sospetta che la malattia dello spirito contemporaneo derivi dall'aver perduto non tanto Dio quanto l'incanto del mondo, la capacità di trovarvi «un riflesso dell'anima». Per James Hillman abbiamo svuotato il mondo della sua anima (L'anima del mondo e il pensiero del cuore). Viviamo continuamente indaffarati nell'inessenziale, è per questo che abbiamo l'impressione che l'esistenza sia soprattutto «una continua fuga, un divenire in perdita, lo svanire di qualcosa che non si è mai posseduto, che non c'è mai stato» (Claudio Magris, Alfabeti). Lo sentiamo che nella vita c'è qualcosa di veramente desiderabile, però questo desiderabile ci sfugge sempre, perché abbiamo sempre qualcos'altro da fare. E allora tutta la nostra vita, quotidianamente presa da questo qualcos'altro, finisce per ridursi a fare qualcos'altro (Francesco Alberoni, Innamoramento e amore).
È questa la vita che ci viene quotidianamente sottratta – insieme al tempo per viverla – da una continua deviazione della nostra attenzione e delle nostre energie su cose futili e banali, che non faranno mai biografia: è la vita interiore, la vita dell'anima. Gli ultimi trent'anni ci hanno lasciato solo un corpo e una mente – facilmente sostituibili da quelli di chiunque altro – e ci hanno svuotato della spiritualità, della nostra interiorità, del luogo cioè in cui noi siamo veramente unici e insostituibili, dove proviamo emozioni e sentimenti, dove sappiamo soffrire e gioire, dove possiamo trascenderci grazie alla bellezza. L'etica del reincanto è dunque una proposta di ri-orientamento esistenziale, una sorta di bussola per la conduzione della vita.
Nel febbraio del 2017 riprendeva a Parma l'annuale ciclo di conferenze filosofiche Pensare la vita, che quell'anno aveva per tema L'arte di vivere. Io proposi di parlare della gentilezza, perché mi pareva che rientrasse bene nell'arte di vivere e fosse al tempo stesso una forma di reincanto. Ma come mi sia venuto in mente quell'argomento, francamente non lo ricordo.
Il suo testo si sviluppa come una conversazione con un giovane interlocutore, quasi a ricalcare il rapporto maestro-studente tipico della Grecia antica. Nella scrittura si rivolge a un Tu particolare, oppure si tratta di un dialogo aperto con le nuove generazioni? Ritiene che ci sia spazio nel mondo globalizzato per la riscoperta della gentilezza, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti in quanto neo o futuri cittadini del mondo?
Uno dei miei difetti è quello di pensare sempre il rapporto con í giovani come un rapporto pedagogico. Forse perché sento la differenza di età e di esperienze. Non ho amato molto parlare a intere scolaresche: è dispersivo e mi sembra di non rivolgermi a nessuno in particolare, ma a un soggetto collettivo indistinto. Invece ho sempre amato molto il rapporto a due. Sì, forse questo fa un po' Grecia antica. E poi, in quanto adulto, concordo con Bertrand Russell quando scriveva come esergo alla sua Storia della filosofia occidentale: «Insegnare a vivere senza la certezza e tuttavia senza essere paralizzati dall'esitazione è forse la funzione principale a cui la filosofia può ancora assolvere nel nostro tempo, per chi la studia». Insegnare a vivere: era questo che mi piaceva nel rapporto coi giovani. Non insegnare cosa ha detto Hegel o cosa ha detto Kant, secondo il riassunto del manuale. Ma insegnare a vivere. Servendomi ovviamente anche dei filosofi, così come degli scrittori e dei poeti. E perfino dei film o delle canzoni. Ne parlo nel mio ultimo libro Itaca. La navigazione della vita (commento a Kavafis).
No, non si trattava di un Tu particolare, è che mi capita spesso di rivolgermi a un Tu, così, del tutto spontaneamente. Il primo opuscolo che ho pubblicato, di sole 12 pagine, al prezzo di 1 euro, si chiama Lettera ai giovani sull'amore. Anche là mi sono rivolto a un Tu, forse a un figlio e a una figlia immaginari che non ho. Come scrivi tu: è forse il desiderio di un dialogo aperto con le generazioni più giovani. Un altro dei miei opuscoli, Il mondo che vorrei, inizia così: «Mia dolcissima giovane amica, mi chiedesti un giorno, mentre scendevamo dai monti in uno splendido autunno di sole, di descriverti il mondo che ho sognato, il mondo che vorrei. Lo chiedevi a me, che ho la maggior parte della mia vita alle spalle, affinché il mio racconto ti aiutasse a orientare meglio la tua, che ti attende davanti. Come vedi, non ho dimenticato la mia promessa di farlo. E se non ti ho risposto subito, è perché mi sono riservato il tempo di dedicarmi interamente a te, con tutto il mio affetto e la mia attenzione. Le risposte, sai, non stanno sempre bell'e pronte nella mente. A volte occorre lasciare che sia il cuore a trovarle». (L'accenno alla montagna discende dal fatto che per 17 anni ho accompagnato dei gruppi a camminare in montagna).
Deve esserci questo spazio per la riscoperta della gentilezza. E nella misura in cui non c'è, dobbiamo impegnarci a crearlo. In ogni occasione possibile. Nella quotidianità. Quanto ne saremo arricchiti anche noi!
Nella lettura di Gentilezza ho trovato notevoli punti di contatto con due filosofi contemporanei, di cui ho cercato di analizzare la costruzione filosofica circa la comunicazione, ritrovandone dei tratti riconducibili alla categoria di gentilezza. In modo particolare, il focus è stato posto su Verità e interpretazione di Luigi Pareyson e Chiarificazione dell'esistenza di Karl Jaspers: in entrambi gli autori è attribuita una notevole importanza all'apertura sincera nei confronti delle prospettive altrui, che rappresentano l'unico e indispensabile mezzo per un confronto interpersonale autentico. Ritiene che ci siano consonanze tra il loro impianto filosofico e i concetti da lei espressi in Gentilezza? Può la gentilezza essere modalità di facilitazione per un dialogo volto a un ampliamento della comprensione della realtà dei singoli e delle comunità?
Credo in effetti che ci siano le consonanze a cui fai riferimento, anche se conosco meglio Karl Jaspers di Luigi Pareyson, che tuttavia stimo molto. Ti confesso che trovarmi collocato in compagnia di due autori di questo calibro mi ha fatto tremare le vene nei polsi! Il primo, un grande maestro; il secondo, un gigante addirittura. Ma se la lettura dei loro libri e del mio opuscoletto ti ha dato qualcosa, ne sono molto lieto. Fra l'altro, so bene che le mie modeste considerazioni vanno d'accordo con l'esistenzialismo. Anzi, con gli esistenzialismi, al plurale. Ho imparato molto da questa corrente di pensiero, già a partire dalla frequentazione di Soren Kierkegaard tanti anni fa. Fu lui a spostare decisamente i miei interessi dalla Storia della filosofia all'Etica, con le sue domande inquietanti.
Sono passati tanti anni ormai dal giorno in cui mi colpì profondamente una sua domanda che poneva a bruciapelo in Aut-Aut: cosa ne diresti, diceva, se chiedessi alla filosofia cosa deve fare l'uomo nella vita? È davvero un argomento terribile contro di essa, se non ha nulla da rispondermi. Ciò che m'interessava riguardava il mio orientamento sul mondo e nel mondo, il mio bisogno di dare un'impostazione alla mia vita, di avere dei riferimenti che mi aiutassero a capire dove mi trovavo nel mio cammino, non la storia della filosofia occidentale o quella della Chiesa di Danimarca. Queste sono informazioni per la mente. Quelle sono domande per lo spirito, vale a dire formazione.
Jaspers è stato uno dei miei autori, anche se non dei più importanti. La sua Psicopatologia generale mi suggeriva delle osservazioni fondamentali, ad esempio quella secondo cui l'anima non è uno stato definitivo, ma un divenire, evolversi, svilupparsi. Oppure quest'altra: la malattia psichica ha le sue radici nell'insieme della vita e per la sua comprensione non si può staccare da essa. Un'osservazione che ebbe grandi conseguenze in psichiatria. O ancora: ci sono profondità dell'essere umano che non si possono conoscere psicologicamente, ma che solo la filosofia e la poesia possono illuminare. Questa colpì molto Eugenio Borgna. O questa: colui che descrive cerca di fornire al lettore, usando un linguaggio comune, un quadro vivace, chiaro, senza elaborare concetti. Nel suo stile c'è qualcosa di artistico. L'analitico invece non traccia quadri. Egli pensa più di quanto possa osservare, e ogni osservazione si trasforma immediatamente per lui in un lavoro intellettuale. Uccide il fatto psichico vivo, per possederne i concetti. Per questo, tutto ciò che ha acquisito è una base sulla quale può costruire sistematicamente, secondo un piano. E qui cade la differenza fra spiegare e comprendere. La comunicazione avviene sul piano del comprendere. La scienza sul piano dello spiegare. Oppure la sua Psicologia delle visioni del mondo, dove afferma che la vita è un compito, una responsabilità, un'esperienza a cui non si può porre un termine conclusivo. Ma ho attinto molto anche ad altri esistenzialismi, a JeanPaul Sartre (con la sua idea del farsi progetto a sé stessi), a Martin Heidegger (trascendere il puro esserci per fondare se stessi, per diventare esistenza).
Il suo libro traccia un profilo ben definito della categoria della gentilezza, identificandola come una scelta consapevole e costantemente rinnovata da parte del soggetto, e offre interessanti spunti applicativi validi per ogni situazione. Nel testo, come anche in Pareyson e Jaspers, si fa riferimento alla reciprocità come vincolo alla nascita di una comunicazione autentica. Nonostante ciò, è possibile, a suo avviso, applicare la gentilezza in contesti oppositivi? Come si può fare, e quali sono secondo lei i risvolti dell'utilizzo della gentilezza in terreno di conflitto?
Temo proprio che non sia possibile. Temo che la gentilezza possa praticarsi solo su un terreno di reciprocità, anche se inizialmente magari un po' scettica e sospettosa. Personalmente, sono molto intollerante nei confronti degli arroganti e degl'intolleranti. Ciò che credo si possa fare è tentare di ammorbidire le reciproche posizioni, cercare se non vi siano punti d'intesa. Ma quando non ci sono, quando l'altro non ha alcuna intenzione di porsi sul terreno del dialogo, la gentilezza è inapplicabile. Io non sono per «porgere l'altra guancia». D'altronde, se ci pensi, Luigi Pareyson ebbe un ruolo nella Resistenza contro il nazifascismo. Ciò significa che si scontrò con il muro dell'impossibilità di dialogare, di comunicare. In quel momento, la gentilezza con il nemico mortale diventa inapplicabile. Il rispetto e la reciprocità sono i fondamenti essenziali su cui si può sviluppare e praticare la gentilezza. Quando l'altro si sente rispettato, lo si dispone già a essere gentile. Ma se manca il rispetto, si ha prima l'esigenza di farlo valere. Quando l'altro Mostra l'intenzione di sopraffarci, bisogna ricorrere ad altre strategie: o la fuga o lo scontro frontale. Oppure, quand'è più grosso, l'astuzia di Ulisse.
La scelta della gentilezza si configura come un atto libero del singolo, ma gli effetti di questa decisione si riflettono anche su tutta la collettività. Sarebbe auspicabile, dunque, che la modalità di vita gentile fosse estesa il più possibile nella comunità in cui si vive, in modo da favorire il confronto aperto e la convivenza serena tra persone. Come si possono, a suo avviso, incentivare le soggettività ad abbracciare l'uso della gentilezza? È un processo possibile?
Beh, io credo che in molti casi la gentilezza sia contagiosa. Come ho scritto, mi pare, nell'opuscolo, gentilezza è anche il riconoscimento che l'altro ha, come noi, un'anima, una sua verità, una sua dignità, una sua finalità in sé. Quando percepisco che la persona che ho di fronte è disarmata, fragile, vulnerabile, che è magari frustrata dalla vita, amareggiata, mi viene spontaneo essere gentile, tenderle una mano. A volte basta una parola, un sorriso, una piccola attenzione, guardarla negli occhi. Questo le fa sentire che è accolta nel mondo, che è accolta dai suoi simili, non rifiutata con indifferenza. «La gentilezza nasce probabilmente da qui, dalla capacità di cogliere l'invisibile, di prestare attenzione alle emozioni nascoste, in noi e negli altri, nel riconoscere il comune destino. Cominciamo allora ad accorgerci, da un gesto, da uno sguardo, da una risposta, da minimo segno, che ogni persona che incontriamo è alle prese, proprio come noi, con la difficoltà di vivere. Evitiamo di aggredirla, avviciniamola con gentilezza, perché, se incontra solo gente aggressiva, si chiuderà sempre di più al mondo». E se noi siamo gentili con lei, è assai probabile che anche lei sia gentile con noi. Søren Kierkegaard annotava nel suo diario che «la trasparenza dell'esistenza esige che si sia ciò che si insegna». La responsabilità verso l'altro risiede anche, e forse soprattutto, nell'esempio che si dà con la propria conduzione della vita.
Alla tua ultima domanda le cose si complicano un poco, perché credo che entri in causa l'empatia. Empatia è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri e di reagire con sentimenti consoni. È una reazione affettiva alle emozioni dell'altro che consente di capirlo, di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d'onda. Ora, da un lato, essa pare avere un fondamento biologico, dall'altro ha certamente un fondamento culturale. In anni recenti la neurologia ha provato a cercare nella biologia la sede della genesi del male (a mio giudizio, la spina nella carne di tutti i filosofi). Scrive Simon Baron-Cohen (La scienza del male. L'empatia e le origini della crudeltà) che se si guarda al concetto di male per analizzarlo, non c'è alcuna spiegazione, mentre quello di empatia pare avere una capacità esplicativa. Il grado zero dell'empatia significa non avere consapevolezza di come ci si relaziona con gli altri, ignari che ci possano essere anche altri punti di vista. In Questione di cervello sostiene che il cervello maschile sembra essere programmato per la "sistematizzazione", ha la tendenza ad analizzare, a vagliare ed elaborare sistemi. Qualsivoglia sistema: motori d'auto, computer, scienza, matematica, ingegneria. Ma se il mezzo più adatto a capire e prevedere eventi e il funzionamento di oggetti è la sistematizzazione, il mezzo più adatto a capire una persona è invece l'empatia. Che sembra essere una caratteristica preferenziale del cervello femminile. Si tratta di due processi diametralmente opposti, che dipendono da regioni cerebrali distinte. Essere empatici significa leggere il clima emotivo che si stabilisce tra le persone, mettersi facilmente nei panni degli altri. I maschi assumono che esista una rappresentazione oggettiva della realtà, che ovviamente corrisponde alla loro versione dei fatti. Le donne, invece, partono dall'assunto che nel mondo vi sia la soggettività e lasciano spazio alle interpretazioni diverse, ognuna delle quali ha diritto di essere considerata valida.
Tra i fattori biologici che hanno buone probabilità di contribuire sensibilmente alle differenze tra cervello maschile e cervello femminile, afferma Baron-Cohen, vi è il sistema endocrino. I maschi producono più testosterone delle femmine, già prima della nascita. Il livello ormonale influirebbe sulla capacità di provare empatia. In particolare, più testosterone circola nel sangue, più il cervello sa comprendere i sistemi e meno sa cogliere le sfumature delle relazioni affettive. Un cervello dotato in misura media di entrambe le caratteristiche (empatia e capacità di sistematizzazione) sarebbe l'ideale. Il maschio sembra inoltre orientato a considerare gli altri e il mondo sul piano di una strategia (Mino Vianello, Genere spazio potere. Verso una società post-maschilista): non solo di spiegazione e di ordinamento, aggiungo io, ma anche di sfruttamento, di dominio, di sottomissione, di annientamento. Dunque come oggetti, mai come soggetti. Se da un lato è assai probabile che gli uomini non avrebbero potuto sopravvivere nella natura senza questa ragione strategica orientata all'esterno, non si può negare che essa abbia finito con l'estendersi al rapporto degli uomini fra di loro. Mentre è evidente che un approccio strategico, finalizzato al dominio, non è l'unico modo di relazionarsi. Tantomeno il più indicato a salvaguardare l'esistenza dell'umanità in questo particolare momento della sua storia. Se questo atteggiamento è estraneo alle donne è perché la percezione della propria soggettività consentirebbe loro di cogliere anche l'altro come soggetto.
Sventuratamente, a mio modo di vedere, il modello culturale e socio-economico patriarcale-maschilista in cui viviamo tende a sviluppare anche nelle donne solo il lato maschile della loro mente e dunque a promuovere anche in loro un approccio esclusivamente strategico agli altri, riducendo due diversi modi di intenzionare il mondo (cioè di attribuirgli un significato) a uno solo, quello maschile: un impoverimento assoluto, una perdita secca per l'intero genere umano. Dare voce in sé stessi a una mente androgina, come auspicava Virginia Woolf, a quella maggiore felicità creativa che si prova quando le due metà della mente, maschile e femminile, si congiungono, mi appare oggi come la realizzazione più urgente e più autentica di sé, come un obiettivo degno di essere perseguito con il massimo impegno e il più grande entusiasmo. Ora, le donne hanno già dato prova sufficiente di saper esercitare il lato maschile della loro mente anche meglio dei maschi, quando possano godere delle medesime condizioni, giacché vi sono state obbligate. Quand'è che i maschi seguiranno il loro esempio e impareranno ad ascoltare il lato femminile della propria? Quand'è che maschi e femmine impareranno finalmente ad attivare entrambi i lati della mente? Un'etica del reincanto non potrà affermarsi veramente senza questa rivoluzione. Che è sempre individuale, personale. Che grande obiettivo sarebbe, a cui la scuola di ogni ordine e grado dovrebbe mirare, insegnando ai ragazzi a coltivare il genio dell'infanzia, ad amare la poesia e i poeti, a valorizzare la propria creatività anche in questa direzione e non soltanto in quella matematica, fisica, informatica o economica; ad ascoltare emozioni e sentimenti, a riconoscere che la mente di ciascuno non è una ma due, maschile e femminile insieme. Questo si chiamerebbe veramente educare, formare. Che grande scuola di autentica democrazia sarebbe allora! In caso contrario, una scuola di pura informazione sfornerà solo cervelli maschili per il mercato, che non si pone certo come fine il bene degli esseri umani, ma esclusivamente il profitto di qualcuno.
(FEERIA, 2022/1 - n. 61, pp. 8-14)
La vita come discernimento
Gianluca Zurra
Il “discernimento” è una parola tradizionale della fede cristiana. Pensiamo, per esempio, al discernimento spirituale, fatto di ascolto e di preghiera, di aiuto reciproco e di suggerimenti fraterni. Dai più semplici monasteri fino alle più grandi abbazie, come dalla quotidianità delle nostre parrocchie fino ai grandi Concili, il discernimento rappresenta una tappa decisiva, tramite cui si realizzano le scelte ecclesiali più importanti, nell’intimità della coscienza come nello spazio pubblico, in genere dopo attenti confronti e verifiche.
Oggi, rimettendo al centro la forma sinodale della Chiesa, si è riscoperto questo processo di decisione, che coinvolge l’interiorità, certo, ma sempre dentro un contesto di relazioni comunitarie. Dire sinodalità, dunque, significa dire “percorso di scelta”, poiché senza la ricerca e il raggiungimento di una effettiva decisione comune il cammino sinodale rischierebbe di rimanere sterile.
Ci soffermiamo, allora, su questa parola, così antica ma anche bisognosa di essere riletta per la nostra situazione odierna.
La vita come discernimento
Per prima cosa è necessario ricordare che la vita stessa nel suo insieme è discernimento, cioè una vera e propria iniziazione a saper scegliere imparando a separare, a distinguere, a lasciare, a non volere tutto. Il senso di ogni cosa, infatti, non si dà per facile trasparenza immediata, ma può essere colto solo attraversando, leggendo e assumendo con libertà e responsabilità ciò che succede lungo la strada dell’esistenza. Inoltre, per il fatto che la nostra umanità è plurale, sinfonica, a più voci e non monolitica, il confronto tra le diversità non può essere evitato. Discernere, pertanto, richiama la nostra unicità di esseri umani, grazie alla quale non ci limitiamo a vivacchiare biologicamente, ma ci lasciamo interpellare dalla vita e con fatica scegliamo a proposito del futuro e del nostro posto nel mondo.
La tentazione più grande, oggi, sembra duplice: da un lato ritenere che si possa vivere senza decidere, quasi cercando di restare alla finestra senza scendere in strada, e dall’altra immaginare che il discernimento possa accadere tra sé e sé, nel chiuso del proprio intimismo, senza quella rete di relazioni, fatte di persone, di ambienti, di cose che ci circondano.
Scegliere, invece, si deve ed è possibile nella misura in cui ci si fida a tal punto da abbassare le proprie difese, per scoprire che proprio gli altri hanno qualcosa di unico da dirci a proposito di noi stessi. Fiducia e apertura sono il doppio motore del discernimento, che potrà giungere così ad un taglio, ad una separazione che fa partire, nascere e decidere: chi vuole tenere tutto non prenderà mai una direzione, ma tenderà a girare freneticamente come in una rotonda, senza scegliere davvero una strada.
Il cristianesimo si è intrecciato da sempre con questa profonda esigenza umana, presentandosi come la “Via” inaugurata da Gesù che, senza sostituirsi alla libertà, le permette di compiere il duro lavoro della scelta, evitando che resti a galleggiare “a metà strada” priva di una destinazione buona.
Il discernimento di Gesù
Gesù è riconoscibile come Maestro e Signore grazie al suo modo unico di leggere la realtà e di fare discernimento lungo tutta la sua vita. Basti pensare ai due grandi “deserti” da lui vissuti: le tentazioni[1], che lo spingono a rivelare il Padre secondo una logica di violenza e di spettacolarizzazione, a cui resiste dopo una lunga lotta di riflessione a partire dalle Scritture, e l’orto degli ulivi[2], luogo della sua decisione più drammatica, quella di continuare fino in fondo a testimoniare l’amore anche nel rifiuto violento che gli uomini gli stanno preparando.
Eppure, questi momenti di intima solitudine sono pieni di tutte quelle relazioni che il Figlio di Dio vive sulla sua pelle e tramite cui soltanto può fare discernimento a proposito del desiderio buono del Padre verso di lui. Nel gesto battesimale del Battista, inatteso e sorprendente, Gesù approfondisce il senso della sua identità udendo la voce dall’alto, mentre nei molteplici incontri lungo la strada comprende sempre meglio l’universalità della sua missione. Grazie alla rilettura della Legge e dei Profeti dà forma alla sua esistenza, fino a scoprire il Regno di Dio nelle cose di tutti i giorni e nella imprevista accoglienza dei piccoli e dei semplici. Quello di Gesù è uno sguardo di discernimento continuo, per il quale nulla di ciò che viene “dall’alto” può essere percepito senza il continuo attraversamento, saggio e profondo, di tutto ciò che arriva “dal basso”.
Uno dei brani evangelici più significativi a proposito del discernimento è senza dubbio Lc 12, 54-59: Gesù rimanda i suoi interlocutori alla responsabilità della loro coscienza, senza sostituirsi alla libertà consapevole a cui ciascuno è chiamato. La capacità di discernere il cambiamento del tempo atmosferico ricorda la necessità di saper valutare il tempo presente: “perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. L’esempio che viene utilizzato è spiazzante, ma assai suggestivo: sapersi accordare con l’avversario lungo la strada è conveniente, almeno per evitare violenze e ingiustizie più grandi. Colpisce come lo sguardo del Figlio di Dio sia molto concreto, liberando il discernimento da una cornice moralistica, per introdurlo invece nella logica, spesso drammatica e difficile, della costruzione della fraternità e della pacificazione. La fede, di cui Gesù è iniziatore e accompagnatore, diventa così criterio di scelta e direzione possibile per la coscienza, che non viene sollevata in modo infantile dal suo lavoro, ma condotta a muoversi con saggezza nelle molteplici esperienze della vita.
Per il medesimo motivo Gesù chiama a sé una comunità di discepoli e consegna loro, non a singoli, il compito missionario del discernimento evangelico, tramite un processo che diventerà fondamentale per la forma sinodale della Chiesa. Ne è testimonianza l’inizio del capitolo 10 di Luca[3]: i discepoli vengono inviati a due a due, non da soli, verso un contesto in cui è necessario prima di tutto cogliere la grande e promettente quantità della messe. Seguono poi alcune indicazioni su come muoversi nell’annuncio, con mezzi poveri e con libertà di spirito, senza protagonismi o invadenze che intacchino la libera accoglienza del vangelo. C’è poi un ritorno degli inviati, che raccontano e fanno un resoconto comunitario dell’accaduto; ma c’è bisogno di una ulteriore parola di Gesù perché ciò che succede possa essere pienamente compreso. Invio, stile evangelico, racconto e disposizione alla revisione del proprio lavoro sono i passaggi fondamentali di ogni discernimento, che è sempre relazionale, mai intimistico o magico.
Che Gesù ne sia davvero maestro lo si nota già nell’episodio della sua adolescenza, quando rimane al tempio di Gerusalemme senza ritornare nella carovana famigliare[4]. É suggestivo che proprio qui venga utilizzato il termine “sinodo” (comitiva, strada insieme): il Figlio adolescente riesce a discernere il luogo in cui deve stare in quel momento grazie alle molte voci “sinodali” della sua famiglia e della sua casa, comprese quella di Giuseppe e di sua madre, Maria. Certo, i genitori si stupiscono, ma a loro volta comprendono, mossi al discernimento, che ciò che sta accadendo è generativo: ogni vero percorso sinodale conduce a trovare una strada, un posto in cui poter dire: “qui e in questo modo ci si può occupare al meglio e insieme delle cose del Padre, dentro la quotidianità della storia”.
Dunque, è la fede stessa di Gesù a manifestarsi nella forma di un discernimento sulla vita e per tale motivo egli diviene Signore di ogni discernimento chiesto a chiunque si lasci condurre e rinnovare dal racconto evangelico. Un elemento è chiaro: soggetto di questo lavoro è sempre una comunità, perché non è possibile decidere di sé indipendentemente dal rapporto con gli altri.
Il discernimento ecclesiale
Quali criteri possiamo raccogliere a proposito di un discernimento ecclesiale veramente sinodale, secondo la forma di Cristo e del suo Spirito? I passaggi di questo processo, che deve giungere a decisioni precise, possibili e concrete, sono almeno tre: “stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano, tenere al centro la profezia del racconto evangelico custodito dall’Eucaristia e creare luoghi istituzionali di decisione feconda e di revisione comunitaria. Tenendo sullo sfondo l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus[5] possiamo tracciare meglio questi tre passi.
“Stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano vuol dire stare con pazienza e fermezza sulla strada di tutti, ascoltando dall’interno ciò che succede nel cuore di ciascuno e attorno a noi, come Gesù verso i due discepoli smarriti. Non si tratta di ascoltare per giudicare e insegnare, ma per maturare un pieno e profondo “patire insieme”. Solo dentro questo lavoro di “compassione”, che istruisce e smuove il cuore, è possibile lasciarci guidare dalle Scritture, che aprono porte inattese lungo il sentiero. La richiesta accorata dei discepoli verso lo straniero incontrato perché entri e rimanga a tavola con loro è già frutto di un discernimento che non avviene a caso, ma che è stato suscitato da un confronto con i precedenti fatti di Pasqua illuminati dalla Legge e dai Profeti, a cui Gesù fa riferimento. Il discernimento si compie però solamente quando i due discepoli ripercorrono la strada all’incontrario, incontrando il resto della comunità e gioendo con loro per il riconoscimento del Risorto. Questo ultimo passaggio è ciò che ci manca di più nella Chiesa: non basta ascoltare la vita e le Scritture in maniera sinodale, ma si tratta di vivere sinodalmente anche il processo decisionale che scaturisce da quel discernimento, in modo che non sia in mano a uno solo o a un gruppo di pochi. È necessario che, anche chi ha la responsabilità ultima nel ministero, eserciti tale autorità dentro spazi e modalità che non cancellino il percorso precedente, ma lo assumano realmente e lo rilancino in vista di una sua revisione nuovamente comunitaria.
Solo attraversando tutti questi momenti, senza saltarne nessuno, il discernimento, compito fondamentale della nostra vita, compiuto da Gesù nella sua stessa esistenza, può diventare un reale cammino ecclesiale, tramite il quale è possibile, oggi come allora, scioglierci insieme nella professione di fede: “Abbiamo visto il Signore”. E a questo punto la sinodalità troverebbe la sua efficacia come effettivo processo decisionale nello Spirito, in grado di alleggerire e innovare: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”[6].
NOTE
[1] Cfr. Mt 4, 1-11.
[2] Cfr. Mc 14, 32-42.
[3] Cfr. Lc 10, 1-20.
[4] Cfr. Lc 2, 41-50.
[5] Cfr. Lc 24, 13-35.
[6] Cfr. 1Ts 5, 21.
Fiorire in qualsiasi terreno si è piantati
La memoria di tre donne
Alessandro D’Avenia
La vita è grande, buona, attraente ed eterna. Lo scrive nel suo Diario una ragazza ebrea morta ad Auschwitz a 29 anni: Esther (Etty) Hillesum, che voglio ricordare in vista della prossima giornata della Memoria. La scrittrice Elisabetta Rasy le ha dedicato un’intensa biografia (Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza) come gesto di gratitudine per averle fatto scoprire, in momenti oscuri, che vivere è trovare la propria forma, in qualsiasi circostanza. Lo stesso accadde sette anni fa a una mia alunna, sedicenne in crisi, alla quale prestai il Diario di Etty che mi restituì con una lettera: «Se prima mi limitavo a vedere il bianco e il nero, ora le sfumature fanno parte di me. Mi è impossibile non vedere cose che mi rattristano, ma non oso più incolpare la vita. Etty è così simile a me che leggendo mi sono sentita finalmente Bene (con la maiuscola), le sue parole sono uno specchio: è stato liberatorio ammettere che il dolore c’è e che anche qualcun altro lo ha vissuto. Etty mi ha insegnato molto con la sua giovane irrequietezza, forza, fede, ma soprattutto con il suo amore inarrestabile per la vita. Questo è ciò che il libro mi ha trasmesso: la forza la possiedo anch’io, devo tirarla fuori; i tesori li ho nell’anima. La vita non è mai sbagliata, bisogna ascoltarsi, ascoltarla. Ti lancia una sfida e le devi tener testa. Ne avevo davvero bisogno».
Una scrittrice nota e con tanti libri alle spalle e un’adolescente alle prime armi con la vita trovano in Etty la loro «memoria». Perché? La mia alunna aveva ricopiato dei passi e li commentava (parola che significa raccogliere nella mente: ricordare). Dopo queste parole di Etty: «Stai cercando di rinchiudere la vita in poche formule ma non è possibile, la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata. Ma semplice potresti essere tu», annotava: «Questa frase ha dato il via alla svolta. Mi ricorderà ciò che è bene non dimenticare mai». La memoria non è una soffitta di cose in disuso, ma la facoltà di ridare forma alla vita (la giovinezza di cui parla Rasy nel suo libro) quando ci sembra sia diventata in-forme se non de-forme. Etty amava leggere il Vangelo e fece sua una frase di Cristo: «Non siate in ansia per il domani, basta a ogni giorno la sua pena». Non è un invito alla rassegnazione ma alla lotta, infatti «pena» in questo passo significa letteralmente «ferita», qualcosa che brucia e manca, che non si può ignorare e richiede cura. Etty ne traeva alcune conseguenze in un’altra pagina scelta dalla mia alunna: «Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, dobbiamo offrire loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire».
Per Etty il male può esser superato solo curando, dentro di noi, la ferita che ci ha inferto: «Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi e non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi». La «metamorfosi» (tras-formazione, trovare forma, essere in forma) che la mia alunna cercava era descritta in un altro passo ricopiato dal Diario: «Vivevo sempre come in una fase preparatoria, come se ogni cosa che facevo non fosse ancora quella “vera”, ma una preparazione a qualcosa di diverso, di grande, di vero, appunto. Ora questo sentimento è cessato. Io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena viverla ora, oggi, in questo momento». Etty consegnava a un’adolescente paralizzata il segreto della vita buona, grande, attraente ed eterna (che vuol dire sempre giovane), non sposando la retorica di un ottimismo senza fondamento, ma affrontando e superando il male. Come? Invece di tentare di fuggire decide di rimanere a fare l’assistente nel campo per rifugiati della cittadina olandese di Westerbrok, dove scrive una frase che ho fatto mia e cito a chi mi dice che non si può più credere in Dio dopo i campi di concentramento: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio».
Anche io vivo momenti di buio in cui la vita mi pare senza senso, ma con Etty ho capito che sono proprio i momenti in cui Dio si manifesta come non me lo aspetto: un Dio che ha bisogno dell’uomo, di me, per continuare a ri-creare il mondo in quella situazione specifica. Etty lo dice così: «Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te». Etty decide di difendere e curare il divino che c’è in ogni persona: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Cercava in sé le risorse per riuscirci: «Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, che non è poi nient’altro che il mio esser ricolma di te». Etty «concepisce» (fa nascere) la propria e altrui divinità come compimento della propria e altrui umanità, come riconosceva anche la mia alunna: «Sono ricca di qualcosa che per me è grande e appagante: aver Dio con me». Etty scopre così che si può: «fiorire e dar frutti in qualunque terreno si è piantati” e infatti, come racconta Rasy: «al campo, va di baracca in baracca, porta ai più sofferenti il cibo e l’acqua calda che può trovare, qualche indumento per chi ne ha più bisogno... poi cerca un cantuccio per leggere e scrivere». Etty non rinuncia a essere e fare ciò che solo lei può essere e fare in quel «campo» così arido, fosse anche solo apparecchiare la tavola. Tutto era cominciato tenendo un diario con lo scopo di: «Trovare una forma, la mia forma», lavorare dentro tanto quanto fuori. Come sarebbe utile, in tempi di diffusa incoscienza di sé, coltivare a scuola questa pratica di scrittura e non limitarsi ai temi, per scoprire che la memoria è cosa viva: com-mentare salva la memoria, ram-mentare salva l’anima, ri-membrare addirittura salva il corpo. Etty tenne il Diario fino al giorno prima di esser deportata ad Auschwitz: partendo lo affidò a un’infermiera, era il frutto che lei, aspirante scrittrice, aveva maturato nel «campo» in cui era stata «piantata» e che nutre molti in cerca «di forma». La forma della memoria: ciò che non possiamo dimenticare per avere, in qualsiasi situazione ed età, una vita grande, buona, attraente ed eterna. PS. Del Diario di Etty esistono due versioni (da Adelphi), una ridotta che consiglio per iniziare, per poi aprirsi a quella integrale, come è accaduto a me
Dio esiste ed è qui!
Divo Barsotti
Se c’è la fede, tutto nasce da lì: ecco, Dio non è più un Dio
di carta, è il Dio vivente! Lo conosci, ma lo conosci in quanto è
una Persona, non lo conosci perché sai il catechismo, non lo conosci perché conosci la teologia, lo conosci perché l’hai veduto,
perché Egli è entrato nella tua vita, perché Egli si è manifestato a
te, e perché la manifestazione di Dio alla tua anima ha voluto dire
per la tua anima un desiderio incoercibile di essere unita a Lui e,
nello stesso tempo, una grande paura per il senso della tua debo[1]lezza, per il senso della tua impotenza, della tua povertà spirituale.
Conoscenza di fede che è molto maggiore, molto più importante
di una conoscenza teologica. Un teologo può parlare della Santissima Trinità fumando una sigaretta, ed è una cosa spaventosa, se
si pensa bene, ma lo può fare perché Dio è un Dio un po’ di carta,
un Dio con il quale si ragiona facilmente: è un Dio senza potenza, che non ha alcuna forza nella tua vita interiore. Perché? Per[1]ché la fede è poca, la fede è poca! Una persona, una donna, una
semplice donna, magari analfabeta, che non conosce altro magari
che un po’ di catechismo può vivere una unione con Dio, può vivere una fede più viva, anche dei teologi. Senza dubbio santa Teresa, o santa Gemma Galgani avevano più fede del vescovo della
loro diocesi. Pensiamo santa Gemma Galgani e il vescovo di Luca del tempo. È impressionante la differenza che vi è fra un vescovo buono ma mediocre, e questa anima che è totalmente presa
dall’amore del Cristo, che non vede altro che Lui, che non pensa
altro che a Lui, che vive una vita in cui veramente viene consumata dall’amore. Certamente la fede di santa Gemma era molto più
grande della fede del suo vescovo, anche se il vescovo era vescovo e Gemma Galgani era una povera scema, come lei si firmava.
Quello che conta nella vita religiosa, dunque, è la fede perché la
fede è l’organo che ci mette in comunione con Dio. Vorrei sapere: è lo stesso guardare una fotografia della montagna o scalare la
montagna? Vi sembra la stessa cosa? Vediamo, vi sembra davvero
la stessa cosa? Non credo davvero, ebbene quelli che vivono, che
parlano anche di Dio possono essere come quelli che guardano una
fotografia. Altro è guardare la fotografia, altro è scalare la montagna, altro è vivere un contatto vero con Dio. Guardate bene che la
fede vi deve mantenere in un contatto reale con una persona vivente. Dio è, Dio esiste, Dio è qui!
D. Barsotti, Brevi meditazioni, in «Rivista di Ascetica e Mistica» (2002) 1,
pp. 16, 15, 14.
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Un calcio alla morte.. far fiorire la vita
Alessandro D’Avenia
Gianluca Vialli è stato, nella mia adolescenza, un eroe di quello strano sport contro-evoluzionistico per cui l’abilità non dipende dalla mano, che ha reso l’uomo uomo, ma da un arto molto meno preciso: il piede (pedestre è un’offesa: «è fatto con i piedi»). Nel calcio anche il gesto più bello «è fatto con i piedi», la mano è vietata (solo Maradona l’ha resa, furbescamente, tocco divino): arcaica nostalgia di una danza primordiale che incanta l’altro per trafiggerlo nel suo territorio sacro (la rete) con il «colpo» che arriva quando non lo aspetti o da chi non lo aspetti. Per questo sport pedestre il mondo impazzisce come un tempo i popoli incitavano gli eroi su un «campo» di battaglia: attacco, difesa, ali, assedio, manovra, bordata, barriera, parata... Il calcio, se funziona, è guerra sublimata (i pacifici si scatenano, gli sconosciuti si abbracciano): tribalismo in purezza. Per questo la morte di un suo «eroe» mi ha ricordato quando Ulisse, nel suo viaggio di ritorno, fa tappa tra i morti e incontra Achille, che aveva preferito morire giovane ma glorioso nella guerra di Troia piuttosto che vecchio ma ignoto a tutti. Ulisse lo elogia ma Achille risponde che preferirebbe essere l’ultimo servo in vita piuttosto che il re nell’aldilà. Il guerriero famoso per le sue gesta è in crisi: che se ne fa della gloria da morto? Ma allora: per che cosa vale la pena vivere? Chi è veramente un eroe?
Eroe originariamente significava semplicemente «uomo», ma per essere pienamente uomini o donne ci vuole la qualità che si è saldata alla parola eroe: il coraggio. Quello di rispondere di noi stessi, intervenendo nella realtà grazie a una forza interiore che ci abita (desiderio) e ci spinge a essere un «mai prima d’ora e mai più dopo». Questo rende ogni persona eroe/eroina: insostituibile. Una vita compiuta è quindi una vita che prova a rispondere a una chiamata: che cosa puoi essere e fare solo tu? Gli antichi lo chiamavano destino, ciò che il fato decide per te, io preferisco destinazione: una libera risposta a ciò che la vita offre. La chiamata di ognuno, se solo ne osservassimo lo stato cristallino, brilla già nell’infanzia. Gianluca Vialli da bambino giocava tutto il giorno a pallone nella casa di campagna a Grumello, ma non gli bastava e andò a piazzarsi, sempre e solo in attacco, sul campetto dell’oratorio di Cristo Re a Cremona. È la storia di molti bambini, ma la differenza sta nel fatto che, quella chiamata, venne presa sul serio da qualcuno: così un destino diventa destinazione. Entra in scena Franco Cistriani, professore di Italiano che si divertiva ad allenare i giovanissimi del Pizzighettone, squadra in provincia di Cremona. Quando l’insegnante-allenatore vide il ragazzino, lo arruolò subito, lo fece migliorare e lo seguì fino a che non fu notato dalla Cremonese... il resto è storia. Questa fase della vita del calciatore è, come per tutti, il momento in cui la chiamata si manifesta con due tratti essenziali: il pezzo di mondo verso cui ci chiama l’energia del desiderio (le cose in cui «amar fare» e «saper fare» coincidono) e il maestro che ci mette in condizioni di rispondere alla chiamata. La vita, con quello che ci dà, pone la domanda, la riposta siamo noi stessi, il maestro aiuta a rispondere: non risponde al posto nostro (cosa che a volte i genitori fanno) e non dà risposte a domande mai poste (cosa che a volte accade a scuola). A noi adulti capita, prima ancora di aver scoperto il pezzo di mondo che li chiama, di imporre a bambini e ragazzi occupazioni, prestazioni, standard, carriere, aspettative, che spengono l’energia speciale e specifica di ciascuno o la dirottano fuori da loro stessi, dalla loro chiamata.
Gianluca Vialli amava giocare e sapeva farlo, ma senza Franco Cistriani, che lui stesso ha definito «il mio primo maestro», questa storia non la potremmo raccontare, almeno non così. Ma non basta. Quest’uomo non solo sapeva e amava fare il suo lavoro, era altresì capace di stringere e coltivare, anche in malattia, relazioni buone (famiglia e amici). Benché i medici lo frenassero, non rinunciava a trovarsi con gli amici e a lavorare fino a che ha potuto. Amore per il nostro da fare quotidiano e relazioni buone: due elementi che definiscono una vita riuscita. Come tutti, avrà avuto difetti, fragilità, cadute, ma ciò che resta è il «senso» dato dalla vita e alla vita, «senso» vuol dire infatti sia «significato» sia «destinazione». Eraclito, filosofo antico, diceva che la disposizione a diventare ciò che siamo chiamati a essere (ethos, il carattere che in greco significa anche casa) è il divino (daimon, tradotto anche con destino) in noi: questa originaria e originale disposizione nasce con noi e chiede di compiersi, ma noi possiamo tradirla (per mancanza di conoscenza e/o accettazione di chi siamo) o essere spinti a tradirla (abbracciando illusioni di destino proposte dall’esterno). Quando invece la vita diventa la risposta alla chiamata autentica, la morte non è una sconfitta ma, come nel calcio, la fine della partita. Il tempo della partita finisce (di-partita) per tutti, ma il punto è se il fischio finale, a prescindere dal risultato, ci ha sorpresi «in azione», l’azione di rispondere come solo noi potevamo fare. In questi ultimi tempi sono morti tanti «eroi», ma è facile distinguere chi era solo «famoso» e chi invece è stato «uomo», cioè «divino»: intorno a lui/lei è fiorita la vita e non solo l’ego.
La bellezza della vita..vedere l'invisibile nel visibile
di ENZO BIANCHI
Per affrontare in profondità un discorso sulla bellezza, occorre anzitutto il coraggio di dire che la bellezza è un enigma, anche se oggi se ne parla spesso con troppa ingenuità. Dall’alba della modernità risuonano come sempre attuali le inquiete parole di Albrecht Dürer: “Che cosa sia la bellezza non lo so”, perché ogni tentativo di definirla appare inadeguato, insufficiente. La bellezza è ambigua, come tutte le cose che si manifestano quali realtà terrestri, sperimentate dagli umani. La bellezza seduce, ferisce, intimorisce, esalta, ammutolisce…
Occorre fare una distinzione preliminare: c’è una bellezza cantata dalla fede, la bellezza di Dio, il Creatore, della quale fanno esperienza quanti e quante, grazie alla dýnamis dello Spirito santo, sanno esercitare i sensi della fede; c’è d’altra parte una bellezza delle creature esperibile da ogni essere umano, nella pienezza dei suoi sensi corporei. Il credente può addirittura dare del tu alla bellezza di Dio, confessando che la bellezza non è un attributo, una proprietà, ma un soggetto, Dio stesso, secondo le note parole di Agostino: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato” (Confessioni 10,27). Così nelle sante Scritture si proclama: “Splendido sei tu e magnifico, o Dio!” (Sal 76,5), e si afferma che Dio sarà la bellezza della città santa: “Dominus erit pulchritudo tua” (Is 60,19). Ma quando il salmista e il profeta dichiarano questo, si riferiscono a una bellezza confessabile solo nella fede, perché “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18).
Più facile da decifrare è la bellezza del Re Messia, celebrato come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45,3), cantato dalla sposa del Cantico con le parole: “Tu sei bello e grazioso, o mio amato!” (Ct 1,15). Ma nella misura in cui le Scritture si applicano al Messia Gesù, questa bellezza può essere intesa come “altra”, bellezza del pastore, di colui che si prende cura del suo popolo: “Io sono il pastore buono e bello (kalós)” (Gv 10,11.14); addirittura può essere non-bellezza, quando egli si rivela come il Servo del Signore: “Lo abbiamo visto, non aveva né bellezza né splendore” (Is 53,2). La bellezza di Cristo trascende il visibile: solo l’agápe, l’amore, è in grado di narrarla e dunque di indurre a contemplarla.
Vi è d’altra parte la bellezza delle creature, quelle che Dio, dopo averle create, vide che erano “cosa bella e buona” (tob: Gen 1,4.10.12.18.21.25); tra di esse si segnala l’adam, il terrestre, creatura “molto bella” (tob me‘od: Gen 1,31). Questa bellezza si offre alla nostra contemplazione: è la bellezza del cielo (cf. Sal 8,4); è la bellezza della natura, delle epifanie cosmiche (cf. Sir 42,15-43,33), nelle quali “ogni opera di Dio supera la bellezza dell’altra: chi può stancarsi di contemplare il loro splendore?” (Sir 42,25). Questa creazione è carica di bellezza, così che il libro della Sapienza può proclamare: “Tu ami tutte le creature esistenti, non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato … Come potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza, … o Signore, amante della vita?” (Sap 11,24-26).
Ma la bellezza delle creature – come si diceva – non è priva di ambiguità e di equivoci, perché può diventare bellezza dell’idolo, falso antropologico prima che teologico, può essere una bellezza seducente che induce alla tentazione: “la donna vide che l’albero era … affascinante per gli occhi” (Gen 3,6), così come era buono (tob) e appetitoso; e David, vedendo la bellissima Betsabea dalla terrazza della sua reggia, fu sedotto fino a causare l’omicidio di suo marito pur di averla (cf. 2Sam 11). Tutti conoscono la frase di Fëdor Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo” (ma nel testo de L’idiota si tratta di una domanda!); si dimentica però che per lui la bellezza è tanto quella epifanica, divina, quanto quella idolatrica che egli dichiara bellezza di Sodoma. Dunque entrambi queste bellezze feriscono: o sono effroi, “sorprendente spavento” – come amava dire Jean-Louis Chrétien – oppure inducono all’ékstasis, ma sono bellezze differenti!
Ogni essere umano è affamato e assetato di bellezza, ma il discernimento della bellezza rivelativa di Dio e della sua azione richiede un’educazione dell’intelligenza del cuore, un cammino di discernimento mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni bellezza. Più l’aspetto sensibile attira per la sua bellezza, più l’uomo è tentato di non ascoltare la propria interiorità, per restare invece catturato dall’esteriorità. Sono note le riflessioni contenute nel capitolo 13 del libro della Sapienza e, in particolare, in quel passo che intenerisce il cuore e, nel contempo, denuncia il processo di seduzione della bellezza, la quale desta il desiderio di possedere e di consumare:
Se gli uomini, affascinati dalla bellezza delle creature, le hanno prese per dèi …
se, colpiti da stupore per esse,
non sono stati capaci di contemplare,
attraverso la loro grandezza e la loro bellezza, il loro autore,
per costoro leggero è il rimprovero,
perché si sono ingannati cercando Dio e volendolo trovare …
e perché le cose viste sono belle (Sap 13,3-7).
Ecco il dramma della bellezza: è facile proclamare che la bellezza indica, in-segna, rivela Dio, ma fare l’itinerario attraverso la bellezza per giungere alla contemplazione della bellezza divina non è facile, anzi è drammatico! Basti pensare al volto, al corpo dell’adam, maschio e femmina: più vediamo il bello, più potremmo cogliere in esso il sacramento della bellezza di Dio; ma più facilmente noi umani, come incantati, scegliamo la via idolatrica dell’adorazione della creatura, ci prostriamo a causa della sua bellezza, fino alla cosificazione del bello, al consumismo del bello privato della sua soggettività e della sua sacramentalità divina. L’uomo è immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), ma non è così facile giungere a questo riconoscimento. Non a caso Gesù – come recita un suo splendido detto non canonico – ha affermato: “Hai visto un uomo, hai visto Dio”, rivelazione che dovrebbe causare soprattutto una responsabilità del soggetto verso l’altro.
Amo molto l’interpretazione della trasfigurazione di Cristo fornita dalla spiritualità orientale cristiana. Secondo alcuni autori non fu Gesù a trasfigurarsi, ma furono gli occhi dei discepoli che conobbero un processo di trasfigurazione e così furono resi capaci di vedere in lui ciò che prima non vedevano: egli era carne fragile come loro ma, nello stesso tempo, Figlio di Dio, immagine del Padre invisibile. Sì, noi abbiamo bisogno di trasfigurazione per percepire la vera bellezza, per vedere l’invisibile nel visibile.
In pegno
Alessandro D’Avenia
L’Epifania, appena trascorsa, è la festa dei doni, in alcune tradizioni è infatti il giorno dei regali. A proposito di doni, l’anno scorso mi ha colpito il gesto di un nuovo amico che, le volte che mi ha invitato a cena, alla fine mi ha regalato una bottiglia del vino bevuto durante la serata. Ho provato una gioia, credo, simile a quella di mia nipote quando va a una festa in cui ai bambini invitati viene offerto un piccolo regalo. Quando è l’invitato a ricevere un regalo significa che la sua sola presenza (presente in italiano è il regalo) è dono, e merita di essere sottolineata. Tutto questo mi è sembrato l’avverarsi di quanto avevo letto con stupore nel Signore degli Anelli di Tolkien: nelle prime pagine, che scoraggiano tanti lettori, è descritta minuziosamente la festa di compleanno di un hobbit, popolo che ha la consuetudine di fare doni, non al festeggiato, ma a ogni invitato. Questa inversione di ruoli potrebbe illuminare la faticosa vita ordinaria che ricomincia: l’Epifania, festa dei doni, non è la fine delle feste ma il loro fine. La radice antica della parola dono indicava infatti la creazione di una energia nuova attraverso un potere quasi magico (ne rimane traccia nel nostro «dote»). Perché?
Leggendo l’Odissea si rimane colpiti dal fatto che, nel congedare chi ha ricevuto ospitalità durante un viaggio, gli si offre un dono. Questo garantiva una rete di alleanze a distanza, necessarie in un mondo in cui avere un posto dove riparare era questione di vita o di morte. Ma perché proprio un dono? Un bene può avere due valori: d’uso, soddisfa bisogni, o di scambio, procura altri beni. Se ho una mela posso mangiarla (uso) o darla per un’arancia (scambio). Il dono invece inventa un altro tipo di valore, detto di legame: un bene donato fonda relazioni o rafforza quelle esistenti (ti regalo la mela per creare un legame). Da che cosa dipende? Gli antropologi hanno scoperto che è come se l’oggetto donato ricevesse un pezzo della nostra anima, che poi cercherà di tornare indietro, ma insieme a chi ha ricevuto il dono. Ma allora che differenza c’è tra un dono e uno scambio commerciale? Non si dice forse «scambiarsi» i doni? La differenza sta nel fatto che nel dono non c’è pretesa di contraccambio.
Nel caso dei doni la restituzione (del pezzo di me che nel «frattempo» rimane presso l’altro) è libera: la possibilità del contro-dono, senza scadenza, in questo modo trasforma il tempo in legame, mentre nel commercio il debito viene subito estinto (la relazione dura quanto la compravendita). Quando un fidanzato dona un diamante, mette un pezzo d’anima nel tempo del «per sempre». Il dono infatti, se non mira a manipolare, controllare o sottomettere, determina uno squilibrio «positivo», che genera e rigenera la relazione (generoso e generare hanno la stessa radice) nel tempo. Il dono apre la possibilità di un legame, in cui però l’impegno – vi risuona il nostro «dare in pegno» - a restituire è a scelta dell’altro. Se il contraccambio è preteso il dono è falso, mira al controllo, mentre il dono autentico «vincola liberando» o «libera vincolando», come i «legami» buoni (il contrario delle «catene»). Il contraccambio è rimandato all’infinito e lo squilibrio creato non è di potere ma di amore, che non è mai essere «in pari» ma «in gioco». Donare è una formidabile risposta umana al nostro essere «a tempo», dà senso al tempo perché il senso del tempo sono le relazioni. In questo periodo abbiamo ricevuto doni, benché la festa non fosse nostra: a Natale (come il mio amico a cena, mia nipote e gli hobbit ai compleanni, gli antichi greci con l’ospitalità) sono gli invitati a ricevere doni.
A Natale si narra che Dio si fa dono per creare una possibile relazione con gli uomini, tanto che, appena nato, riceve già il contraccambio da sconosciuti (pastori e magi) e, divenuto adulto, sintetizza così la sua esistenza: «Nessuno mi toglie la vita, ma la dono da me stesso, poiché ho il potere di donarla e il potere di riprenderla di nuovo». Questa frase è la definizione di libertà più bella e coraggiosa che io conosca: il dono è il culmine della libertà. Io per esempio ho scoperto una relazione vera con Dio solo quando ho imparato a ricevere doni da lui, liberandomi di un rapporto commerciale (superstizioso): io do questo a Lui e Lui è buono con me (religione, re-ligare, ha la radice di legame, ed è l’opposto di superstizione che invece significa sottomissione). Chi dona veramente cerca una relazione senza scadenza, chi invece lo fa per sentirsi «a posto» o per mettere «a posto» l’altro, non sta donando ma esercitando potere.
Donare è il segreto di ogni relazione duratura, non essere «in pari» ci «lega», non per senso di colpa o sottomissione, ma per magnificare gratuitamente l’esistenza dell’altro che, se e quando vorrà, risponderà. Un dono autentico dice: «è bello che tu esista, non perdiamoci». Ricominciata la vita ordinaria possiamo coltivare il «potere legante» dei doni: chiederci se in ciò che facciamo c’è un po’ di dono e fare piccole sorprese alle persone amate o da amare meglio. Potremmo anche inaugurare un «salva-donaio» in cui ogni settimana mettere un foglietto con su scritto il dono più bello, alla fine dell’anno potremo così leggere una cinquantina di «presenti» (in italiano i regali sono la «presenza» del donatore, come l’appello a scuola) che ci hanno «legato» alla vita nel 2023, momenti di «grazia» (da gratis) in cui un dono ci ha risvegliato dal sonno o dalla noia.
La gratitudine è il sentimento (ri-)creativo più potente che io conosca: quando ricevo qualcosa in pegno dentro me scatta l’impegno, un’energia che mi spinge, senza costrizione, a restituire alla vita ciò che mi ha dato, a lasciare in eredità più vita di quella ricevuta. È ri-conoscente chi è stato ri-conosciuto: a scuola, per esempio, i ragazzi sono grati (riconoscenti) se sono gratificati (riconosciuti). Il salvadonaio peserà più di tutte le fatiche dell’anno, perché conterrà il tempo salvato dalle relazioni, cioè dai doni ricevuti e dati. Nella mia prima settimana del 2023 ho scritto questo momento di grazia: «Una lunga camminata nel bosco innevato con la mia amata e due cari amici, per raggiungere una baita nascosta tra le montagne, dove abbiamo condiviso il pranzo del primo dell’anno». E voi?
Alessandro D’Avenia
Custodire e aumentare la vita di tutto e di tutti 2023
"Crisi permanente (Permacrisi)"
Per il dizionario britannico Collins la parola del 2022 è permacrisis (permanent crisis, crisi permanente): «Un periodo esteso di instabilità e insicurezza». Si è imposta all’attenzione mondiale in aprile quando Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, ha detto: «Alcuni dicono che viviamo in un’era di permacrisis: ci muoviamo da un’emergenza all’altra. Solo 10 anni fa abbiamo affrontato la peggiore crisi finanziaria dagli anni ’30, poi la peggiore pandemia dal 1919 e ora la più grave crisi geopolitica in Europa dalla fine della guerra fredda».
Qualche ora fa, brindando, ci siamo di sicuro augurati una parola migliore per il nuovo anno. Quale? Sembrerà paradossale ma la risposta è nascosta proprio dentro permacrisi. «Crisi» era infatti il gesto, descritto nell’Iliade, di separare e scegliere i chicchi nella spiga. La pula finiva in un fuoco (di paglia) e il grano nel pane. Crisi è quindi, non come vorrebbe Lagarde, uno stato permanente di emergenza senza sbocco e a cui siamo fatalisticamente sottoposti ma, come vuole Omero, uno stato di giudizio e impegno permanente: separare l’essenziale dal superfluo nel raccolto (dalla stessa radice di crisi vengono infatti parole come cer-nita, cer-tezza, de-creto, in/es-cre-mento...).
Insomma l’attuale stato permanente di crisi è un passaggio necessario al nascere di qualcosa di nuovo. Che cosa?
La crisi permanente è la fine di alcuni aspetti dell’epoca moderna che per sei secoli ha scandito il senso del nostro tempo: se i nostri orologi lo segnano in senso orario è perché così si muove la luce solare su una meridiana nell’emisfero nord, dove fu inventato l’orologio meccanico (se lo fosse stato in quello sud le lancette ruoterebbero al contrario). Adesso è entrato in crisi permanente ciò che in questo modello di rapporto con il mondo non funziona più:
1. Strappato alla natura ogni potere abbiamo ottenuto quello di autodistruzione: per la prima volta nella storia non abbiamo più potere sul nostro potere. Liberatosi del senso del limite della cultura precedente, da pezzetto di natura (mondo antico) o creatura (mondo medievale) l’uomo si è fatto creatore: non è sottomesso alla natura né riceve il mondo in custodia, ma lo crea con la tecnica.
2. Quest’uomo senza limiti si è paradossalmente ritrovato solo, atomo o individuo (due parole che significano indivisibile), ed ha dovuto costruire i legami sociali con il potere (politico, economico, culturale): la massa ha sostituito il popolo o la comunità.
3. La cultura, cioè l’insieme delle invenzioni per umanizzare la vita in ogni ambito, si è ispirata (la cultura nasce sempre dalla religione, cultura ha la stessa radice di culto) a una nuova fede: il progresso (il meglio è sempre da venire e da fare, più si accelera più saremo felici). Ma l’accelerazione necessaria a estrarre dalla realtà, divenuta miniera, ciò che serve al Progresso è spesso violenza (sfruttamento e inquinamento): la miniera si esaurisce, e noi con lei (la depressione è la malattia del secolo). La crisi sarà quindi permanente sino a che non trasformeremo questo tipo di rapporto con il mondo. La parola crisi ci aiuta ancora: in greco era anche il culmine di una malattia, oltre il quale o arrivava la guarigione o la fine.
La permacrisi sarà salutare solo se cambieremo lo stile di vita che ci ha fatto ammalare:
1. la tecnica è chiamata a mettersi al servizio del «naturale» contro ogni violenza trans-naturale o trans-umana;
2. la massa è chiamata a stringere relazioni autentiche, legami che non sciolgano (la liquidità di Bauman) ma coniughino l’unicità della persona con il tutto;
3. la cultura è chiamata alla cura e non all’esaurimento di ciò che è umano nell’uomo. A scuola, per esempio, la «permacrisi» c’è da anni. Abbiamo aumentato gli oggetti per rinnovare la didattica (nel culto del progresso è la tecnica che dovrebbe salvarci) ma non siamo riusciti di pari passo a far progredire i soggetti, seguendoli uno a uno per scoprire ciò in cui sono insostituibili per la comunità (la «crisi» della parola individuo potrebbe generare: insostituibile). Se il luogo fatto per umanizzare deprime insegnanti (burn out e precariato) e studenti (malessere e abbandono), va «criticato». Non si tratta di buttare tutto ma di separare paglia e grano: tecnologia a beneficio dei soggetti (servizio), relazioni generative per scoprire l’insostituibile di ciascuno (comunità), cultura per aumentare l’umano nell’uomo (cura). Esempi di conseguenze concrete: costruzione di spazi (aule) abitabili e belli, non centrati sugli oggetti (banchi o strumenti digitali) ma sui soggetti (relazioni); ricerca del vero-bello-giusto basata sulla collaborazione e non sulla competizione; continuità didattica per garantire cammini educativi personalizzati nel tempo (ogni ragazzo è speciale, cioè «specie protetta»); sostituire la paura (prestazione) con la curiosità (presenza) come leva dell’apprendimento...
Nel recente G20 a Bali, Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum, dettando la linea d’azione ai potenti del mondo, offriva come soluzione alla crisi... le cause stesse della crisi, contraddicendo i fini (sostenibilità, inclusione, transizione) con i mezzi proposti: «Se consideriamo tutte le sfide possiamo parlare di multicrisi: economica, sociale, politica, ecologica e istituzionale. Ciò che dobbiamo affrontare è una profonda ristrutturazione sistemica del nostro mondo. Il mondo avrà un aspetto differente dopo che avremo completato questo processo di transizione. Governo e imprese devono collaborare per diventare un pesce veloce, perché nel mondo di oggi non si tratta più del pesce grande che mangia il pesce piccolo, ma del pesce veloce che mangia quello lento».
Ancora una volta un’idea di rapporto con il mondo «moderna» e quindi ormai vecchia: imporre dall’alto una ristrutturazione operata da governi e imprese (cittadini non pervenuti) mangiandosi gli uni gli altri grazie alla velocità. È appena finito un secolo che ha mostrato i limiti di questa costruzione del mondo (definisco la mia identità attraverso lo scontro e lo sfruttamento dell’altro, mangiandolo): guerre nate da miti nazionalistici; malattie e danni ecologici scaturiti da esperimenti e sfruttamento senza limiti; eccidi di massa ispirati da ideologie belliche in cui la persona non conta nulla; ingiustizie sociali generate dall’accumulo di risorse nelle mani di pochi o dallo sfruttamento di categorie più fragili...
Questi frutti mortiferi mostrano ciò che manca all’emisfero in cui gli orologi segnano il tempo solo in un senso, ma che purtuttavia ha il merito di averli inventati. Il tempo ha anche un «altro senso», non mi riferisco solo alle istanze che vengono dal sud (geografico e sociale) del mondo ma a un «significato» diverso: custodire e aumentare la vita di tutto e tutti.
Tra tenebre e alba, tra attesa e speranza
Enzo Bianchi
La vita di ciascuno di noi inizia nella notte del grembo materno, dove il nostro essere si sviluppa fino al giorno in cui “viene alla luce”. Allo stesso modo la vita del mondo, secondo la Bibbia, comincia nella notte, in un abisso oscuro di tenebre profonde, il tohu wa-bohu (Gen 1,2) informe e caotico dell’oscurità. È su questa tenebra che risuona la parola: “Luce!” (Gen 1,3), e così luce fu e avvenne la separazione tra il giorno e la notte, mentre il Creatore contemplava la luce come tob, bella e buona. È questo il ritmo del cosmo, notte e giorno, tenebra e luce, nel quale anche noi umani siamo immersi.
Non potevamo evocare il giorno e la notte come metafore per descrivere ciò che viviamo, senza ricordare che questi sono innanzitutto fenomeni cosmici. Filosofie, religioni e spiritualità hanno invocato la luce in opposizione alla notte, fino a misconoscere quell’alleanza tra giorno e notte impossibile a spezzarsi: non esiste giorno senza notte né nel cosmo né nel cuore di alcun uomo o donna! Eppure in questo contrasto vi è una verità: il venire alla luce di ciascuno di noi, il venire e il vivere nel mondo è ciò che fa parte del nostro più profondo desiderio, per questo la notte viene spontaneamente associata alla tenebra, all’oscurità, al trionfo del male…
La tradizione ebraica e quella cristiana insistono: il giorno comincia subito dopo il tramonto del sole, e allo stesso modo l’anno inizia dall’oscurità, come se la luce dovesse essere partorita dopo un lungo e misterioso travaglio. È vero che oggi non viviamo più la notte come nei lunghi secoli nei quali essa era solo buio, perché non esisteva l’illuminazione, oggi onnipresente fino a essere inquinante. Tuttavia la notte è ancora pensata in opposizione al giorno, tempo in cui la vita delle nostre città quasi si ferma, anche se il ritmo della giornata e dunque il tempo del sonno si spostano sempre più in avanti.
La notte è per molti un tempo di riposo, di solitudine e di intimità, di riordino degli eventi del giorno trascorso e di preparazione all’inatteso del giorno venturo. È certamente un tempo in cui le persone che si amano conoscono l’intimità più profonda ed è anche il tempo della lettura al lume di una lampada, compagna ideale della nostra attesa notturna. Ma non possiamo dimenticare che la notte per alcuni significa anche fatica e maledizione: fatica per chi deve vegliare e lavorare per gli altri nel prendersi cura di persone malate o nel preparare il pane quotidiano; fatica nello svolgimento di servizi essenziali alla nostra convivenza; ma anche maledizione per chi nella notte conosce gli incubi, i fantasmi (nocturna phantasmata), i sensi di colpa che emergono e dominano la nostra mente; vi è poi la notte dei malati, dei sofferenti, che nella solitudine e nell’oscurità patiscono di più…
Forse è per sfidare la notte, per combatterla, che i monaci si alzano nelle ore più buie per stare tutti insieme, corpo accanto a corpo, e cantano in modo corale quelli che chiamano i “notturni”, ripetendo invocazioni e grida che vorrebbero squarciare i cieli e far sorgere la luce. Sì, come si legge nei Salmi, i monaci cercano di “svegliare l’aurora”, di accelerare il sorgere del sole per affrettare la vittoria della luce sulle tenebre. Affrontare il buio, combattere la tenebra, discernere la luce: questa è l’indispensabile arte della veglia che pochi conoscono. Sono molti quelli che non solo conoscono il tramonto ma l’attendono nel silenzio e nella pace, contemplando l’orizzonte rossastro del cielo; ma sono pochissimi quelli che praticano l’arte dell’attesa dell’alba, quindi dell’aurora e infine del sorgere del sole. È un’arte che combina insieme realtà e speranza, adesione alla vita quotidiana e fiducia nel giorno che viene, accettazione umile di ciò che siamo e tensione verso quanto vogliamo essere.
ENZO BIANCHI: "LA VITA SPIRITUALE E' ESPERIENZA DI DIO"
"Senza vita spirituale non c’è vita cristiana! Lo stesso mandato fondamentale che la Chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli è quello di introdurli a un’esperienza di Dio, a una vita in relazione con Dio. È essenziale ribadire oggi queste verità elementari perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo più che all’accesso a una relazione personale con Dio vissuta in un contesto comunitario, radicata sull’ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’Eucaristia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità. Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.
La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio, ci immette cioè nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito Santo. Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio: non gli può bastare avere idee giuste su Dio. E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cf. 2Cor 5,7: «Noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»), è qualcosa che ci sorprende e si impone, portandoci a ripetere con Giacobbe: «Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Gen 28,16), oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi... Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti » (Sal 139,5ss.).
Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto, dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe: «Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento, a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo » (Gb 23,8-9). Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare. Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita, attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare, dunque anche attraverso le “crisi”, i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.
L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti: è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene. Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione: Egli è già là! E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me», dice Gesù (Gv 14,6). Cioè l'esperienza spirituale è anche esperienza filiale. Lo Spirito Santo è la luce con cui Dio ci previene e orienta il nostro cammino verso la santificazione, cammino che è sequela del Figlio: l’esperienza spirituale diviene così null’altro che la risposta di fede, speranza e carità al Dio-Padre che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva: «Tu sei mio figlio!». Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo: questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo!
Come diceva Ireneo di Lione, lo Spirito e il Figlio sono come le due mani di Dio con cui Egli plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza, in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.
Così la vita spirituale, cioè la vita radicata nella fede del Dio-Padre creatore, mossa e orientata dallo Spirito santificatore, innestata nel Figlio redentore ci insegna ad amare come questi ha amato noi. Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo".
Alessandro D’Avenia "Farsi carne"
Il Natale ha lo stesso problema del cristianesimo: diventa una noia quando smette di dare vita. Cristianesimo è la parola che rinchiude Cristo in una dottrina, una filosofia, una morale, tanto che Agostino rispondeva a coloro che si vantavano di essere cristiani come si trattasse di un circolo o di una casta: «Non rallegratevi di essere cristiani, ma di essere Cristo». Lo stesso accade con il Natale: ridotto all’ideologia del «tutti più buoni» e alla morale di regali e brindisi, seppur accarezzati da una ventata di consumismo senza sensi di colpa, ne usciamo pesanti di cose e calorie ma poco pieni... di vita nuova. Natale è la nascita di un tale di nome Gesù, nome che significa Dio salva, ma salva che cosa, a parte qualche giorno di vacanza? Proviamo a usare questo racconto, credenti o no, come risorsa esistenziale per scoprire se ha ancora qualche potere «salvifico», cioè può dare alla nostra vita un’energia più duratura di due regali e un menù. Dio, che tutti più o meno cercano da sempre, si fa carne, si in-carna: la cosa intrigante non è di che colore ha gli occhi o quanto è alto, ma che ha la mia stessa carne e che la mia carne può diventare la sua. Ma che cosa è mai questa carne?
La carne, basar nel lessico biblico, non è quella che si compra dal macellaio né la gabbia dell’anima come diceva Platone, ma è l’uomo vivo, nella sua interezza (anima e corpo), e in generale ogni essere vivente («ogni carne in cui è alito di vita» così la Bibbia indica tutti i viventi). C’è una parentela «carnale» tra tutte le cose che hanno vita «a tempo»: limitata. Questa comunione (co-munus: dono comune) non è un ragionamento o un impegno morale, ma un fatto: la carne è dono che ho in comune con una rosa, un dalmata e un passante. Ma nell’uomo c’è un di più, un respiro in più: la carne (non solo la ciccia) si può aumentare! Infatti dell’uomo e della donna uniti si dice addirittura che diventano «una sola carne» (è la mia carne che abbraccio se ti abbraccio; è la mia carne che ferisco se ti ferisco), un nuovo soggetto talmente vivo da poter creare nuova vita. La carne è quindi la relazione più o meno intima che posso intrattenere con tutto ciò che vive per creare altra vita. Disprezzare la carne (non parlo di diete) è disprezzare la vita come legame tra tutte le cose: le filosofie, le morali, le tecniche che dis-incarnano fanno sempre violenza alla vita. La tendenza odierna a sostituire la carne, perché ci inchioda al fatto che siamo «a tempo», con proiezioni o protesi che ci fanno credere di essere illimitati, è un modo di sottrarsi al benedetto peso (pienezza) della vita. C’è dis-incarnazione in una scuola che tiene gli adolescenti dietro un banco per ore come se non avessero corpo; in un social che porta a manipolare la propria immagine per esistere un po’ di più; in un algoritmo che ci stritola in dati; nell’uso mercificato del corpo... A fine giornata, bisognosi di una carezza, di un abbraccio, di un sorriso non siamo più in grado di chiederli o di darli, perché non abbiamo più una carne se non per vergognarci dei suoi limiti, quando sono proprio i limiti a salvarci, perché la carne costringe alla relazione (il limite non è un muro ma una soglia). E allora un Dio che si in-carna è una sorpresa a cui non mi abituerò mai: la carne che unisce tutti i viventi “a tempo” è anche la carne della Vita «senza tempo», tanto che Cristo arriva a dire non solo che chi fa qualcosa a un altro la fa a lui (è la stessa carne) ma anche che chi mangia la sua carne riceve la vita eterna, adesso non domani.
Ma allora che cosa è questa carne divina? Non è una bistecca di Dio ma la sua vita, che la carne (relazione con Lui e con tutto/i) può darmi. E che vita è quella di Cristo nella carne? Una vita limitata come la mia, ma non ego-centrata e quindi in affanno a procurarsi qualche giorno in più. Il limite per lui non è una condanna ma la possibilità di aprirsi all’infinito (sempre più e per sempre) in due direzioni: Dio e gli uomini, è un dono per il dono, il limite non fa paura ma fa vita, la povertà di Betlemme non è un inno alla miseria ma all’apertura, alla relazione, alla cura (Dio ha bisogno di tutto, anche del pannolino). Incarnarsi, farsi carne, significa allora in questo racconto diventare, come e dove siamo, un dono di qualcuno per qualcun altro (io sono un regalo per il mondo!), e poter vivere ogni cosa (lavoro, divertimento, fatica, tristezza, gioia...) per amore e per amare. Cristo per 30 di 33 anni ha fatto il falegname in un paesino: facendo tavoli ha salvato il mondo tanto quanto facendo miracoli, solo un undicesimo della sua vita è straordinario (a me accade lo stesso ogni 24 ore: dieci undicesimi, 22 ore, di faticosa ordinarietà e un undicesimo, 2 ore, di sorpresa). Insomma la carne di cui sono fatto può diventare amore e l’amore diventare la carne di cui sono fatto: una vita compiuta ma mai a spese altrui (carnefice è chi usa la carne altrui per riceverne l’energia che non trova in sé). A Natale festeggiamo la pretesa di Dio di farsi carne per darci carne: lo spirito si fa materia, l’eterno si fa tempo, l’immortale si fa mortale, l’infinito si fa finito, il compiuto si fa incompiuto, l’amore si fa desiderio, la pienezza si fa mancanza, il sacro si fa profano, la libertà si fa limite, l’assoluto si fa relativo, l’incondizionato si fa legame, il divino si fa umano... E quindi viceversa: nella carne c’è già Dio, nella materia lo spirito, nel tempo l’eterno, nel mortale l’immortale, nel finito l’infinto, nell’incompiuto il compiuto, nel desiderio l’amore, nella mancanza la pienezza, nel profano il sacro, nella condizione la libertà, nel relativo l’assoluto, nel legame l’incondizionato, nell’umano il divino... Se voglio mi è possibile vivere tutto per amore e per amare, trasformare la carne del mondo in amore ricevuto e dato. La «resurrezione della carne» non sarà quindi il ritorno a lucido dei miei atomi imputriditi, ma il modo in cui esseri limitati possono diventare vivi (creativi, originali, innamorati) ogni ora di più e sempre. Ma come? Se siamo tempo fatto carne, farsi carne significa allora ricevere e dare questa carne-tempo, come Cristo: amare è ricevere tempo da Dio e dare tempo agli uomini, anche se nel mondo dell’efficienza accelerata è diventato difficilissimo (come bisogna «fermarsi a pensare», oggi dovremmo «fermarci ad amare»: a questo servono le vacanze). E vorrei non comprare regali per lenire il senso di colpa della carne-tempo che non ho saputo ricevere e dare. Vorrei fare quanto dice il poeta Pedro Salinas all’amata: «Regalo, dono, offerta?/ Simbolo puro, segno/ che voglio darmi a te./ Come vorrei essere/ quello che io ti do/ e non chi te lo dà./ Ah!, se io fossi la rosa che ti do/ che non ha ora altro futuro/ che essere con la tua rosa,/ la mia rosa,/ vissuta in te, da te./ Fino a che tu la innalzi/ di là dal suo sfiorire/ sicura, inalterabile,/ tutta al riparo ormai/ da altro amore o altra vita/ che non siano i tuoi» (La voce a te dovuta). La rosa diventa carne co-mune e per amore non sfiorisce, perché, donata e ricevuta, è sottratta alla morte. Natale è farsi (ricevere e dare) carne... e non solo carte (di credito e da regalo). Me lo e ve lo auguro.
"Dare alla luce"
Alessandro D’Avenia
Il Natale è il compleanno di tutti e ciascuno, perché ci faremmo i regali altrimenti?
L’ho capito meglio guardando un capolavoro di Raffaello in mostra al Museo diocesano di Milano per il periodo natalizio. Si tratta di un rettangolo di legno (predella) diviso in tre scene che faceva da base al dipinto collocato nella cappella degli Oddi in San Francesco a Perugia, da dove fu rubato dai Francesi a fine 1700, per poi finire a Roma nel secolo successivo. La pala lignea era stata commissionata nel 1502 al 19enne Raffaello da Alessandra Baglioni, moglie di Simone degli Oddi, per la cappella dove un giorno avrebbe voluto la sua sepoltura. L’artista, in piena fioritura, consegnò l’opera due anni dopo, dipingendo nella parte verticale la tomba vuota di Maria assunta in cielo, nella base orizzontale le tre scene del Natale: annunciazione dell’angelo (concepimento), adorazione di Magi e pastori (nascita) e presentazione al tempio (introduzione del bambino nella comunità). Lo spettatore vede quindi una giovane ragazza che dà alla luce un bambino a cui molti fanno festa. E che cosa ci sarebbe di straordinario? Raffaello mi ha risposto nella prima delle tre scene. Come?
Nella prima scena Raffaello dipinge la figura più bella di tutta la predella, quella di un ragazzo che entra di corsa nella stanza di una ragazza. Entrambi hanno l’indice alzato, segno che stanno parlando.
Al centro della scena non ci sono loro ma uno spazio vuoto, che permette di guardare, attraverso una finestra spalancata, il paesaggio retrostante nel quale si intravede un ponte che conduce verso le torri di una città incastonata tra le colline.
Di che parlano? Il messaggero (in greco angelo) le propone di diventare madre e lei chiede spiegazioni non essendo sposata. Nel mito antico quando un dio vuole una donna se la prende con la forza, qui no: dialogano. Lo spazio vuoto (innovazione di Raffaello: la tradizione pittorica voleva che al centro ci fosse un personaggio) che separa il messaggero e la ragazza è la libertà: la Vita propone, l’uomo dispone.
Davanti alla ragazza c’è un libro aperto (impossibile in una casa di pastori di uno sperduto villaggio palestinese di duemila anni fa), simbolo di ciò che permette di coltivare l’ascolto, un’immagine della «vita interiore»: la voce della vita riesce a farsi sentire solo se c’è uno spazio aperto in noi, dove non c’è si è sordi alle chiamate e la vita diventa assurda (parola che viene appunto da sordo). Perché nasca qualcosa in me e attraverso di me è necessario che io sappia ascoltare la parola nascosta nella mia esistenza.
Gli indici alzati dei due personaggi rappresentano infatti il loro dia-logo, cioè l’offerta e l’ascolto del logos, parola/ragione di vita: che ci sto a fare qui, perché sono nato? Questo dialogo tra la giovane e la Vita si apre sul mondo, rappresentato nel paesaggio e nella città fuori dalla finestra.
La ragazza è la soglia su cui Dio si ferma: il limite della sua onnipotenza è la libertà. Non vuole burattini ma con-creatori: qui il destino non è violento ma una scelta libera. Credenti o no, ognuno di noi nella sua unicità è la risposta a una chiamata a dare alla luce «qualcosa» di nome Gesù (che significa Dio salva), cioè generare liberamente e creativamente qualcosa che salva il mondo. «Salvare» significa infatti preservare dalla distruzione, rendere integro, compiuto, da un file a un naufrago: salvare è dare vita, dare alla luce.
Ma non si può generare «salvezza» senza essere fecondati, cioè ascoltare che cosa la vita chiede a me e solo a me. Nel quadro infatti Dio è dipinto proprio «alla finestra» in attesa della risposta, e solo dopo invia il suo soffio (spirito) creatore (alato come una colomba) che diventa in-spirazione. Ispirato è chi, accolta la propria vita così come è, decide di farne capolavoro.
La città sullo sfondo, su cui si annuncia l’alba, è la Perugia in cui Raffaello dipinge la tavola, perché ogni città in cui qualcuno scopre come «venire al mondo» attualizza Nazareth: che cosa posso pro-creare solo io che «salva» (lo aiuta a compiersi) il mondo?
Quando formulo l’appello al mattino mi accade proprio questo: vedo adolescenti chiamati a «salvare» (compiere) se stessi e il mondo, generando «il verbo», cioè la parola-azione che abita in ognuno di loro. Io posso solo aiutarli ad scoprirla, perché ogni uomo è una parola-azione inedita (mai data) e inaudita (mai udita) che può venire al mondo (nascere) solo liberamente: il Natale o è nascita di quel verbo presente in ogni uomo o una bianca fuga dalla realtà.
Tempo fa ho scoperto che la mia parola-azione era già nel mio nome, Alessandro, in greco protettore dell’uomo: vengo al mondo, cioè nasco ogni giorno di più, nella misura in cui provo, con i miei limiti, a custodire il destino di persone (a scuola, nelle amicizie, in amore) e di personaggi (nei libri). Così pro-creo, mi salvo (mi compio) e salvo (compio) un po’ di mondo. Il Natale resiste nei secoli perché ci ricorda che c’è un verbo, parola-azione, che vuole farsi carne in noi: Natale è quindi fare spazio, liberarsi dalle menzogne di destino, ricevere l’ispirazione autentica e portarla al mondo nella propria carne. Non c’è Natale, nascita, senza con(ce)pimento: una ragazza qualunque di duemila anni fa mi ricorda che esistere non è «venire alle luci della ribalta» ma «dare alla luce nella carne».
Raffaello mi conferma che ogni persona è luce del mondo, lui che a 12 anni aveva risposto alla sua chiamata, cambiando città, per andare a bottega dal maestro migliore (Perugino), per poi affrancarsene e compiere il suo Natale terreno a soli 37 anni, come dice provocatoriamente un personaggio nei Demoni (coloro che vogliono «salvarsi» da soli) di Dostoevskij: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno al disopra dell’affrancamento dei contadini, del nazionalismo, del socialismo, della chimica, di quasi tutto il genere umano, perché sono già il frutto, il vero frutto di tutto il genere umano! Sono una forma di bellezza già raggiunta, senza la quale io, forse, non accetterei neanche di vivere. Senza gli Inglesi l’umanità può ancora vivere, senza la Germania può vivere, senza i Russi può vivere anche troppo bene, senza la scienza può vivere, senza pane può vivere, ma senza la bellezza no, perché allora non avrà assolutamente nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! Senza la bellezza, lo sapete, voi che ridete, che non inventerete nemmeno un chiodo?».
Senza bellezza, che è vita concepita e salvata (compiuta), non c’è nulla da fare al mondo, manca l’ispirazione anche solo per un chiodo, figuriamoci per vivere. Le luci del Natale che, sin dai tempi antichi, segnalavano il rinnovato prevalere della luce sul buio nelle 24 ore del giorno, ci aiutano, una volta l’anno, credenti o no, a prendere in considerazione che ogni singola vita è fatta per venire alla luce, essere parola-azione, pro-creazione e salvezza del mondo.
Il Natale che tutti, volenti o nolenti festeggiamo, è iniziato nella stanzetta di una ragazza di un villaggio sperduto di due millenni fa. Se prendessimo la e le vite con la stessa serietà di questo racconto, quanto Natale concepiremmo ogni giorno! E poi quanta luce daremmo al mondo e quanto mondo daremmo alla luce!
Lasciare tracce
Alessandro D'Avenia
Un’amicizia cominciata con uno sgambetto. Mi trovavo nello spogliatoio del centro sportivo che frequento e un uomo vestito di tutto punto era fermo immobile, in piedi. Con uno sguardo fragile ma coraggioso, mi ha chiesto con parole non del tutto chiare: «Puoi mettere un piede davanti ai miei?». Poiché non avevo capito, me lo sono fatto ripetere. Mi sono fidato e ho fatto quanto mi chiedeva, e così è riuscito a sollevare la gamba e scavalcare l’ostacolo che gli avevo posto davanti, riuscendo a fare il passo.
Non era una burla, quel gesto era necessario a un uomo affetto da Parkinson: il cervello, per obbligare la gamba a sollevarsi, a volte ha bisogno di vedere un ostacolo. Il gesto però non mi era nuovo: quando ero bambino lo vedevo fare con mio nonno che, per il Parkinson, non camminava né parlava quasi più. Per quella malattia che lo aveva costretto sulla sedia a rotelle, non ho mai potuto fare una passeggiata con lui, sentirgli raccontare le storie dei nonni, ascoltarlo cantare e suonare come amava fare... Dopo l’episodio dello spogliatoio, tra me e l’uomo che mi aveva chiesto aiuto per fare un passo, è nata un’amicizia inattesa. Ecco perché.
Il Parkinson, diagnosticato a 45 anni, lo ha costretto dopo qualche anno a lasciare una professione fiorente e a doversi tenere attivo con la piscina. Nei nostri rapidi incontri in spogliatoio abbiamo approfondito la conoscenza e quasi subito mi ha invitato a cena.
Sono stato accolto con grande affetto dalla sua famiglia, in una cena tanto buona quanto divertente e intima: nessun ghiaccio da rompere, si era già sciolto tutto... Non c’era tempo per finzioni o maschere: la fragilità denuda e vuole subito autenticità. Mi ha presto confidato che mi aveva invitato perché, quando mi ha chiesto aiuto con quel finto sgambetto, io non avevo reagito come altri che si erano spaventati e allontanati.
Quando vado a casa di qualcuno indago sempre nella libreria e gli ho chiesto come mai avesse tante biografie di musicisti moderni. E così ho scoperto la sua passione principale e gli ho chiesto di iniziarmi ad alcuni dei suoi autori preferiti. Qualche giorno dopo mi arriva una mail che si apriva così: «“Music is your only friend, until the end” scrivevano i Doors. Forse non sarà l’unica amica ma, almeno per me, è stata sempre fondamentale. Difficile ammetterlo a uno scrittore, ma la musica per me è la forma d’arte più complessa, proprio perché, spesso, alle parole unisce il suono. Come recita il protagonista di Alta fedeltà di Nick Hornby riferendosi alla donna di cui si è innamorato: “La creazione di una compilation è una sofisticata forma d’arte che segue regole ben precise: prima di tutto si utilizza la poesia di un altro per esprimere quello che senti, ed è una faccenda delicata. Conosco i suoi gusti e so come farla felice”. Io odio la parola “compilation” e non conosco i tuoi gusti, quindi quanto segue chiamiamola raccolta o zibaldone e rispecchia cosa sento (e vivo, suono, canto...): ma accetto la sfida. Sarai tu, così come succede con i libri, a fare queste canzoni tue o meno, riascoltandole e “riscrivendole” a seconda dell’umore, della fase della vita o, più semplicemente, del momento. Cercherò di dare corpo e vita a questo elenco, non limitandomi alla mera citazione di canzone ed autore, ma aggiungendo qualcosa di personale».
E così mi sono trovato ad ascoltare delle tracce suddivise in: folgoranti, potenti, poetiche (testi che sono poesia), ricordi intensi, mitiche... A ognuna era associato un pezzo «memorabile» della sua vita: era una vera e propria autobiografia musicale. La sua lettera mi ha ricordato le parole dello psichiatra Oliver Sacks in Musicofilia, bel libro sul rapporto tra mente e musica (che poi, anche se non sembra, hanno la stessa radice etimologica): «Il primo stimolo a pensare alla musica e a scriverne mi si presentò nel 1966, quando vidi i profondi effetti che essa esercitava sui pazienti parkinsoniani che in seguito avrei descritto in Risvegli. E da allora, in molti modi la musica si è imposta di continuo alla mia attenzione, mostrandomi i suoi effetti su quasi ogni aspetto della funzione cerebrale, e della vita... Alla base di tutto questo c’è la straordinaria tenacia della memoria musicale, così che gran parte di quello che viene udito nei primi anni di vita può rimanere inciso nel cervello per il resto dell’esistenza».
(Parentesi polemica: pur essendo oggi assodato che l’educazione musicale ha effetti simili a lettura e scrittura, nella nostra scuola siamo fermi a qualche ora di flauto sulle note di una pubblicità di pasta o di fra’ Martino...).
Quell’uomo, attraverso la sua «compilation» mi regalava la «memoria» di sé, la vita memorabile, quella che non andrà mai perduta. Usiamo la parola «tracce» (tracks: sentieri in inglese) per indicare i brani musicali delle nostre «raccolte» (come quelle dei frutti), oggi playlist. Ma lo faceva già Omero che definiva i canti epici «vie, tracce» (oimai che è rimasto nella parola proemio, ciò che viene prima del canto vero e proprio), perché il narratore doveva ricordare a memoria i «pezzi» della sterminata epica orale come un jukebox narrativo. Quei racconti dovevano rendere indimenticabile ciò che l’uomo deve sapere sulla vita, se vuole salvarla e salvarsi dall’oblio e dalla morte. Lo stesso accadeva con la mia nuova amicizia, la cui rapidità è stata infatti dettata dalla necessità di dare più che di dire se stessi.
Come Sacks sottolinea all’inizio del suo libro citando Schopenhauer: «La musica esprime la quintessenza della vita e dei suoi avvenimenti, mai essi stessi». La grande arte non descrive fatti, le cose come passano, ma fati (il destino), le cose come si compiono e restano per sempre. In fondo l’amicizia è affidare il proprio destino a un altro, che avrà a cuore (ri-corda vuol dire mette nel cuore, by heart significa sa a memoria) il tuo destino, amico è chi custodisce il tuo compimento. Anche io ho cominciato a pensare alle mie «tracce» per lui, e questa settimana potremmo farlo tutti con qualche familiare o amico: che tracce gli lascereste? Ho raccontato la vicenda a un altro amico e, mentre scrivo, ascolto «un pezzo» del suo indimenticabile dolore: «E quando verrà l’ora di partire, vecchio mio/ Scommetto che ti giochi il cielo a dadi anche con Dio/ E accetterà lo giuro, perché in cielo, dove sta/ Se non ti rassomiglia che ci fa?».
Mariangela Gualtieri: «Senza gli altri non siamo nulla»
Capita a volte di sentire una parola che, stagliandosi sul brusio quotidiano, si impone per la sua forza. Una parola capace di zittire i rumori che solitamente ci accompagnano e ci stordiscono e di mostrarci qualcosa di nuovo, o forse di antico, sicuramente profondo. «… ringraziare desidero / per l’amore, che ti fa vedere gli altri / come li vede la divinità / per il pane e il sale / per il mistero della rosa…»: è accaduto quando Jovanotti, all’ultimo festival di Sanremo, ha letto questi versi di Mariangela Gualtieri. Strano destino quello dei poeti: per anni creano i loro versi nel silenzio, poi un festival di canzoni li rende noti al grande pubblico
Si ricorda quando e perché ha sentito il bisogno di scrivere poesie per la prima volta nella sua vita?
Il bisogno di una lingua più espressiva, più parlante della lingua corrente c’è stato in me fin dalla prima infanzia. Ricordo molto bene il disagio di non avere le parole, disagio che mi ha accompagnato per tutta la vita. Ho cominciato prestissimo a scrivere poesie e poi, derisa da qualcuno, ho smesso ed ho ripreso a quarant’anni. Un esilio dalla parola durato molto a lungo, durante il quale ho abitato con passione il disegno, la pittura e lo studio ad alta voce dei poeti.
Di recente ha sottolineato l’importanza di declamare la poesia, di dirla a voce alta. Perché è così importante l’oralità quando si ha a che fare con i versi?
La grande energia della poesia si attua pienamente quando anche la sua forma sonora viene espressa, e poi quando è condivisa, in una coralità d’ascolto. Nella musica questo è chiarissimo: non ci basta leggere gli spartiti, desideriamo trasformarli in forza acustica. Allora tutti i corpi dei presenti vengono immersi in quel bagno sonoro e tutti i corpi ne godono insieme. La poesia è musica, ha tutti i poteri della musica, compresa quella gioia del corpo.
Nella poesia 9 marzo 2020 ha scritto: Adesso lo sappiamo quanto è triste / stare lontani un metro… Con la pandemia abbiamo scoperto che sono le relazioni a dare senso alla vita, che siamo parte di un tutto… Quello del noi, della comunità, è un tema ricorrente nei suoi versi…
Mi sembra la meraviglia di questo tempo: cominciare a capire che tutto ci tiene in vita, che senza gli altri, senza la cura e l’amore degli altri non ce l'avremmo fatta. Gli altri umani, certo, ma anche animali, vegetali, acqua, cielo, luce…
Siamo usciti migliori da questa dura esperienza, che ancora non è finita, come ci si augurava?
Io credo che i sensibili ne siano usciti con una consapevolezza aumentata. Credo che siano in cerca, in attesa di un possibile agire comune, per un rimedio, per una maggiore cura. Gli altri mi sembrano sempre più in balia dei violenti dettami di quella che mi piace chiamare la Signoria Attuale, fatta di slogan pubblicitari, di un immaginario sempre più violento, di subdoli dettami consumistici, di menzogne di certi politici ecc.
Oggi abbiamo molti segni della superbia dell’uomo: la guerra, il cambiamento climatico, le ingiustizie…
È vero, ma è vero anche che oggi cominciamo ad accorgerci di questa visione distorta e cominciamo a provarne orrore. Per questo io credo che stiamo vivendo un grande tempo, un grande momento. Era superbo anche pensare di essere al centro dell’universo, o figurarci un Dio ad immagine e somiglianza umana… Quando metto pezzettini di mondo sotto la lente del mio microscopio, mi pare che quello che vedo, una foglia, un’ala, una ragnatela, sia ogni volta centro dell’universo, tanto è ben fatto, tanto è geniale e prodigioso.
Ha detto che la Divina Commedia, per lei, è un manuale della felicità: perché?
La Divina Commedia racconta il viaggio che tutti dobbiamo fare e lo percorre per noi: l’attraversamento dell’inferno, quell’uscire dal dolore e tendere verso un’ascesa. E ci dà parole preziose come viatico. È il viaggio dalla paura verso il suo contrario che non è il coraggio – anche i mercenari ne hanno parecchio – bensì verso quella grande forza che muove il sole e le stelle e che Dante chiama Amor.
Spesso la poesia risulta ermetica, astrusa, inaccessibile a tante persone, che così non se ne sentono coinvolte. La sua invece, senza nulla perdere in intensità, raggiunge l’orecchio e il cuore, si fa ascoltare e capire…
Trent’anni di scrittura per il teatro, con un regista sensibile ed esigente come Cesare Ronconi, sono stati una grande lezione verso la semplificazione. O come dice Borges, verso una segreta e modesta complessità. Ho sempre nell’orecchio i suoi rimproveri, il suo richiamo ad abbandonare velleità intellettualistiche e ad essere più diretta, più frontale, e anche più dimessa.
Che rapporto c’è fra la poesia e la preghiera?
Per me la poesia è preghiera, è molto spesso sacra scrittura. C’è ascolto e c’è dialogo fra noi e le nostre profondità, fra noi e ciò che ci trascende. E la preghiera a me sembra proprio questo: ascolto plenario e frequentazione di abissi e di altezze. Cosa può fare la poesia per cambiare il mondo? Non credo che la nostra specie possa cambiare il mondo. Possiamo tutt’al più cambiare noi stessi e cercare di vivere in armonia col resto. Allora la poesia può in questo, essere una preziosissima, illuminante alleata.
"Essere di parola"
Alessandro D’Avenia
«Sei stata una delusione, non hai ascoltato un secondo, hai sempre la testa tra le nuvole». Così una madre rimprovera la figlia di 5 anni dopo una lezione sportiva. La bimba tra le lacrime risponde che glielo dice sempre ma che non è vero. La mamma allora le ripete le stesse parole in tono più alto.
Un professore formula l'appello, uno dei ragazzi risponde con un «presente» flebile. Il professore si infuria, indirizza parole sprezzanti al ragazzo e a chiunque altro cerchi di intervenire.
Queste due scene mi sono state raccontate la scorsa settimana.
Non giudico il merito di situazioni che non conosco, ma vorrei soffermarmi sull'effetto delle parole usate che è sicuramente opposto a quello che si vorrebbe ottenere (risvegliare l'interlocutore e farlo reagire).
L'uomo è un «essere di parola» sin dalle origini. Gli studi più recenti sull'Homo sapiens e sul perché sia l'unico sopravvissuto alle altre specie di Homo, ci offrono due spiegazioni, la prima, di cui ho parlato qualche settimana fa, consiste nel fatto che il Sapiens di fronte all'ignoto è propenso al rischio e all'avventura, la seconda (strettamente collegata) è il sorprendente sviluppo del pensiero simbolico e del linguaggio. Perché questo ci ha fatto sopravvivere e da questo dipende ancora oggi la nostra sopravvivenza?
I migliori paleoantropologi (Dunbar, Bickerton, Lieberman, Tattersall, Horan) sostengono che la cosiddetta «discesa della laringe», evidente nei ritrovamenti fossili, ha reso possibile alle corde vocali di modulare la voce in linguaggio articolato (poter dire qualsiasi cosa) e non solo emettere versi (codice di segnali fisso).
Questo ha consentito:
1. il «verbal grooming», toeletta verbale, cioè il Sapiens fa il grooming che è proprio di tutti i mammiferi (sono le operazioni di pulizia reciproca, soprattutto madre-figlio) con le parole;
2. il pensiero simbolico, infatti i reperti di pietre disegnate e di conchiglie forate per collane e ornamenti, mostrano la capacità di dare significato alle cose grazie a un sistema culturale aperto e non fisso come per gli animali (messaggi univoci).
I due elementi, interdipendenti e misteriosi nel loro apparire, sono stati cruciali per dare al Sapiens un vantaggio evolutivo rispetto alle altre specie di Homo estinte: oltre a essere più propenso al rischio, usava le parole per raccontare e curare.
La parola è la prima e principale tecnologia veramente umana: permette di dare/togliere senso alle cose e di curare/distruggere. L'espressione latina «verba volant scripta manent» (le parole volano, le cose scritte rimangono) significava il contrario di ciò che oggi intendiamo noi (mettere nero su bianco, carta canta...), indicava infatti che la voce può raggiungere il bersaglio, mentre lo scritto rimane inchiodato al supporto.
Omero chiamava «alate» le parole ben dette, paragonandole a frecce con le alette che ne garantiscono la traiettoria.
Le parole creano la realtà e curano i corpi. Come? Risponde Fabrizio Benedetti, medico fisiologo e neuroscienziato noto a livello mondiale per gli studi sull'effetto placebo (farmaci inerti che ottengono effetti curativi), nel bel libro La speranza è un farmaco: «Il malato spera più di ogni altro. La speranza può essere indotta dalle persone vicine così come da chi cura. Sono le parole il mezzo più importante per infondere speranza: parole di conforto, fiducia, motivazione. Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli in armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. Recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina, ma visto che nel corso dell’evoluzione sono nate prima le parole e poi i farmaci, è più corretto dire che i farmaci attivano gli stessi meccanismi delle parole.
Ma le parole possono fare anche male. Possono essere tossiche e produrre danni, così come i farmaci. Possono indurre ansia, depressione, sconforto, quindi il loro uso deve essere ponderato, per evitare che una malattia già di per sé invalidante venga aggravata da parole avventate e spropositate. Le parole possono guarire. Ma le parole possono anche uccidere. E tutto ciò avviene con effetti, meccanismi e azioni simili ai farmaci. La scienza oggi descrive così la speranza, cioè come un’entità concreta che ha il potere e la forza di modificare il cervello e l’intero organismo. Parole, speranza e farmaci inducono effetti simili con meccanismi simili».
Non è un bene il rarefarsi delle cure casalinghe del medico di base: consulti telefonici e ricette online, senza presenza e parole di cura, al corpo non bastano. Insomma il Sapiens sopravvive, ma soprattutto vive (riceve più vita) attraverso le storie e il verbal grooming: in casa, a scuola, a lavoro...
Ho visto rifiorire ragazzi ignorati o disprezzati, quando ricevono parole di speranza/cura, a partire da come si pronuncia il loro nome all'appello mattutino. Il loro cervello-corpo si trasforma perché la loro incapacità era solo una nostra povertà narrativa e verbale. Essere Sapiens è e ha un «essere di parola»: la parola gli dà vita o gliela toglie, dà alla luce o al buio.
Forse quella madre e quel professore mancano di parole generative perché non ne hanno ricevute o non ne ricevono. A noi la scelta di quali storie/parole usare, oggi stesso, per far crescere o regredire chi ci è affidato. Sostituiamo silenzi feriti o parole avvelenate con «ti amo», «sei bello/a», «sono fiero di te», parole che fanno accadere ciò che dicono, parole-farmaco che guariscono e danno il coraggio di vivere!
In una recente intervista Franco Baresi, glorioso libero del Milan, confidava che dice «ti amo» alla moglie tutti i giorni: «Non passa giorno senza che io glielo ricordi. Se un giorno mi passa di mente, quello successivo mi affretto a ricordarglielo». E il grande linguista Roland Barthes aggiungerebbe che quando qualcuno ti dice «ti amo», la risposta adeguata non è «anche io», ma «ti amo anche io» perché è il verbo a fare la differenza: solo quando la parola impegna tutto l'essere fa accadere ciò che dice. Persino l'amore.
Alessandro D’Avenia "Effetto Gige"
Compassione
Che cosa fareste se trovaste un anello capace di rendervi invisibili? È ciò che accadde al pastore Gige, che se ne servì per entrare nel palazzo regale, sedurre la regina e, con il suo aiuto, uccidere il re per poi sostituirlo. Platone si serve di questo racconto nel suo trattato di politica, la Repubblica, per chiedersi se l’uomo abbia un’etica solo per paura delle sanzioni sociali. Se posso agire senza esser visto chi divento? Si parla infatti di effetto Gige per spiegare l’aggressività o l’impostura a cui spinge l’anonimato, per esempio in rete: vedere senza essere visti dà potere o illude di averlo. È proprio il contrario di ciò che accade nel bel libro di Sylvain Tesson, La pantera delle nevi, da cui è stato tratto un altrettanto bel film, al cinema adesso. Vi si narra il tentativo del fotografo naturalista Vincent Munier, accompagnato dallo stesso Tesson, di immortalare sulle vette dell’Himalaya un animale antichissimo, bellissimo e rarissimo perché in via d’estinzione. Un mese a 5mila metri di paziente, silenzioso, faticoso ed estatico appostamento tra animali insoliti e scarsissime presenze umane, di cui Tesson fa la cronaca, arrivando alla conclusione che proprio il non poter vedere senza essere visti (gli animali li sorprendono sempre) libera dall’ansia di controllo, fa venir voglia di prendersi cura delle cose e restituisce l’incanto. Anello di Gige o macchina fotografica di Munier?
Nella stessa settimana in cui ho visto il film tratto dal libro di Tesson ho fatto l’esperienza di una immersione nel metaverso, grazie a un oculus (occhio, visore) di ultima generazione: io ero il mio occhio. In pochi anni, quando si combineranno strumenti, trasmissione dati a 5G e computer quantistici capaci di calcolare a velocità mai viste, «entreremo» in un negozio con il nostro avatar che ci riprodurrà al millesimo di centimetro e di grammo, indosseremo quello che desideriamo, per poi riceverlo a casa, su misura, poco dopo. Il metaverso ci condurrà verso la simbiosi totale con un mondo consumabile in ogni istante e senza corpi reali: la vita non sarà più «data» e quindi «ricevuta», ma «dati» e quindi «controllata». Saremo invisibili e onnipotenti consumatori, anche se il vero potere lo avrà chi gestirà la nuova architettura del reale: non è un caso l’alleanza siglata pochi giorni fa da Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) e Microsoft (Teams, Office, Windows) per accelerare i tempi di realizzazione e popolazione del metaverso. In questa occasione Zuckerberg ha detto che il ruolo di Meta «non è semplicemente quello di costruire un ecosistema, ma assicurarsi che prevalga. Gli avatar saranno centrali nell’espressione di se stessi», ci renderanno «più presenti, più produttivi, più noi». La mia proiezione digitale mi renderà più me stesso o aumenterà l’effetto Gige? La tecnologia aumenta la nostra capacità di organizzazione e controllo del mondo, ci dà potere su cose e persone, ma proprio per questo non è mai neutra: si guadagna qualcosa e qualcosa va perduto. Il mito greco, che narra la vita come tensione ed equilibrio di polarità, rese infatti sposi Afrodite e Efesto, dea della generazione e dio della tecnica. Quando la tecnica cerca di dominarla del tutto, la vita de-genera, così come la vita senza tecnica è barbarie. Prendiamo per esempio una tecnologia che diamo per scontata: la scrittura. Trasferendo la memoria in un oggetto al di fuori, l’uomo ha dimenticato ciò che, in una cultura orale, era essenziale avere sempre con sé, anzi in sé. A questo effetto negativo ne corrispose uno positivo: la mente libera dall’eccesso di memorizzazione aveva più potere creativo e di scoperta. Questo accade con ogni invenzione tecnologica. Il cambio automatico semplifica la guida ma rende meno attenti e abili nel guidare. La tecnica «aumenta» l’uomo, ma aumentare una capacità ha sempre un contro-effetto sulla vita organica, più o meno ambiguo: la lavatrice ha un lato d’ombra minimo rispetto alla polvere da sparo. Prendiamo i social: aumentano la nostra capacità di interagire rapidamente con gli altri, ma rendono il corpo superfluo. Trasmettiamo immagini, vocali, messaggi di noi stessi, ma diventiamo sempre meno capaci di trasmettere noi stessi. Anche questo ha un effetto Gige. La Società Italiana di Pediatria ha infatti appena pubblicato la sintesi di 68 ricerche condotte dal 2004 al 2022 in tutto il mondo: più tempo i ragazzi trascorrono sui social più sviluppano sintomi depressivi. Perché? Non è chiaro se sia l’uso dei social a favorire sintomi depressivi o se tendenze depressive inducano a usare di più i social (comunque sia il circolo è vizioso), ma è invece sicuro che la causa del malessere deriva dalla mancanza di interazioni nel mondo reale: la sostituzione del «faccia a faccia» con «l’interfaccia» (il nome Facebook diceva già tutto). Le grandi aziende informatiche, visto l’uso che è stato fatto delle piattaforme di interazione digitale durante la pandemia, vogliono elevare a sistema questo modo di interagire: il metaverso è infatti per Zuckerberg l’evoluzione dei suoi social in ecosistema globale (anche se gli ecosistemi in natura si danno e vanno preservati, non sono imposti, altrimenti si chiama «vita in cattività»). La tecnica non è mai neutra, non dipende solo da come la usi, perché crea oggetti che mettono di fronte alla vita in una posizione ben precisa: non possiamo essere così ingenui da considerare il cellulare un oggetto neutro, è una scelta di sguardo e quindi di rapporto con il mondo (nessuno farebbe le code la notte per accaparrarsi solo un telefono!). Il metaverso e gli oggetti annessi/connessi ci daranno il subitunque (essere subito ovunque: spazio e tempo, sinonimo di «corpo», evaporano ulteriormente) in rapporto continuo con i dati delle cose e non più con le cose (lo specchio ci dirà come stiamo, come dovremo truccarci o vestirci, che cosa dovremo mangiare e comprare...). Si parla infatti di tecnologia «ingiuntiva»: ci dice che cosa fare se non chi essere. Tutto questo ha un prezzo, non solo economico (avremo tutti un visore): il corpo materiale è rimpiazzato da uno mentale, immaginato, digitale, cioè proprio la causa dei malesseri depressivi di cui sopra (non avere corpo ci isola, siamo in «con-tatto» ma «senza tatto»). E di chi saranno «i diritti» di questo corpo-avatar? Chi ne userà i dati biometrici e comportamentali? Chi ci avrà «donato» l’avatar (dal vecchio «profilo» al «tutto tondo») e creato l’ecosistema in cui vivrà (i social sono un ambiente non un mezzo di comunicazione). Saremo quindi presto dentro un social totale con conseguenze tutte da scoprire. Il metaverso poi è l’architettura ideale dell’intelligenza artificiale: l’occhio che tutto vede senza esser visto realizzerà la mente-alveare, non conterà più il singolo con le sue scelte imprevedibili, ma l’analisi e la gestione dei comportamenti per suggerirci prodotti sempre più mirati (Gige non fa certo beneficenza). Dato che la libertà rende l’uomo fallibile e imprevedibile, l’intelligenza artificiale ci eviterà di usarla troppo, sostituendosi al nostro giudizio. Saremo più de-corporati (il corpo è ritenuto in alcuni ambienti della Silicon Valley un hardware inadeguato e obsoleto) e più de-liberati, cioè alleggeriti del peso delle scelte e indirizzati: desidera così, risolvi così, curati così, fai così... Saremo sollevati dalla paura di decidere, dal timore di sbagliare, dal peso delle nostre azioni, dall’incertezza delle conseguenze. Sempre più ebbri di vedere senza essere visti, saremo in realtà scrutati continuamente. Lo aveva intuito J.R.R.Tolkien: Sauron, creatura angelica corrotta dal potere, forgia un anello per controllare tutto e tutti, ma a poco a poco diventa lui stesso l’anello, non ha sembianze umane ma è un gigantesco occhio onnivedente e invisibile, quindi onnipotente. Lungi dal creare un fantasy per bambini, lo scrittore più letto del XX secolo, dopo gli orrori di due guerre mondiali vissute in prima persona, squarciò il velo su una cultura che chiedeva salvezza solo al potere della tecnica (potenza) e non a quello dell’amore (cura). La recente e per me deludente serie (Gli anelli del potere) ispirata ai racconti precedenti il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli, avrebbe dovuto narrare proprio questo: solo rinunciando a oggetti che dominano del tutto la vita, l’uomo esercita il vero potere, la parola e l’ascolto. Infatti solo l’alleanza tra popoli diversissimi, ma ognuno con qualcosa di unico da dare agli altri, come elfi, hobbit, nani e umani, consente di salvare cioè creare la Terra (di Mezzo). Una certa tecnologia spinge nella direzione della eliminazione di ciò che è caduco e fallibile, il corpo e la libertà, cioè la nostra capacità di «patire»: sentire la carne del mondo e degli altri come nostra, ricevere senza consumare, prendersi cura. Non abbiamo «pazienza», parola che viene dalla stessa radice di patire e di passione: senza pazienza perdiamo la passione per la vita. Nel suo libro sull’attesa della pantera Tesson scrive: «Avevo imparato che la pazienza era una virtù suprema: la più elegante, la più dimenticata. Aiutava ad amare il mondo prima di avere la pretesa di trasformarlo. Invitava a sedersi davanti al palcoscenico per godersi lo spettacolo, anche solo il fremito di una foglia. La pazienza era la reverenza dell’uomo per ciò che è dato. Quale dote permetteva di dipingere un quadro, di comporre una sonata e una poesia? La pazienza. Essa procurava sempre una ricompensa. Aspettare era una preghiera. Qualcosa stava arrivando. E se non arrivava niente, voleva dire che non avevamo saputo guardare». Senza pazienza si è spossessati di se stessi, si è in balia del potere che crediamo di avere o che altri hanno su di noi. Presto esulteremo per l’uso dei visori nella didattica, e sarà un ausilio straordinario per immergersi virtualmente nella Roma antica o nell’apparato circolatorio. Spero che nel frattempo troveremo anche il modo di aumentare la capacità di ricevere ogni cosa del mondo come parte di noi stessi, guardandoci negli occhi, facendo una carezza, dicendo una parola, lasciando essere le cose e le persone, con pazienza, cioè con passione. Compassione.
"Santi e Morti, insieme, ci chiedono questo: ne vale la pena?"
Alessandro D’Avenia
Le feste creano una fessura nel tempo uniforme degli orologi (kronos) perché entri l’eternità, cioè il tempo che non trascorre ma resta come memoria sempre viva: la chiacchierata con un amico senza la paura di piangere, l’inautunnarsi degli alberi in una passeggiata in montagna, il sorriso di una ragazza malata per delle parole a lei rivolte. Il quotidiano nella sua ripetitività cronologica ha bisogno di essere salvato da «eventi» che lo rendono reale, eventi che sin dalle origini dell’uomo erano realizzati da riti, durante i quali si cercava di toccare l’origine di tutte le cose attingendo alla vita degli dei che le avevano fatte. L’uomo ha un bisogno fisico di ricevere ciò che dà energia al suo essere e il sacro è sempre stata la via d’accesso. Cambiano le forme, ma noi votiamo la nostra esistenza sempre e comunque a qualcosa che riteniamo capace di liberarci dalla morte e che rendiamo sacro: carriera, figli, successo, piacere, Dio...
Il tempo degli orologi, dalle clessidre ai cronografi, dice che moriremo, e così, lottando con lancette (l’uso di un’arma come metafora del tempo mi ha sempre colpito) o granelli (polvere sei e polvere tornerai), andiamo a caccia di una sospensione che percepiamo sacra, perché sacro è tutto ciò che è sottratto e ci sottrae alla morte. Domani è la festa-memoria dei Santi e dopodomani, non a caso, quella dei Morti. Santi e Morti, cielo e terra, e noi in mezzo a chiederci: quale è il mio destino? L’eterna vita o l’eterno nulla?
Quel che resta della risposta è Halloween, un brivido di horror e zucche, anche se la parola, come sempre, dice molto di più: contrazione dell’espressione «all hallows’eve»: vigilia/notte di tutti i Santi. Hallow è l’antico verbo inglese per santificare, da cui holy (santo) ed health (salute): la nostra salute dipende dalla nostra santità (santo vuol dire in origine intoccabile, inviolabile, perché appartenente al divino), perché ciò che è santo non muore, è nel tempo ma non gli è soggetto.
Morti e Santi sono associati perché sono i due punti di vista sulla morte: il tempo e l’eterno. Tutti sappiamo nella nostra carne che il primo (e ogni) lutto è un evento indimenticabile, il primo vero incontro con quello che Freud, sulla scia di Schopenhauer, chiamava l’impensabile, la morte, proprio perché, non potendo essere controllata e quindi razionalizzata, agisce su di noi più di qualunque altra realtà. Infatti noi ci muoviamo ogni giorno per esorcizzare la morte, inventando modi di vincerla, cioè di farci santi, in base a ciò che pensiamo possa darci eternità: tutti stratagemmi di sospensione del tempo. Eppure non tutte le forme di santità danno la salute, anzi alcune ce la tolgono. Il divino Achille scelse di morire giovane ma glorioso in guerra (l’eroe è il santo), Budda abbandona il potere e muore a ogni desiderio umano (il monaco è il santo), Socrate si lascia imporre il suicidio pur di non commettere un’ingiustizia (il giusto è il santo), Cristo si dona agli uomini e li perdona, affidandosi al Padre, sebbene sia innocente (l’amante è il santo).
E noi? I santi oggi sono gli sportivi (Ibra è un dio), le star (Monroe era la divina), gli inventori (Jobs era divino nelle sue apparizioni), i manager (Elon Musk è un profeta)...
Non c’è nessuno che non abbia, anche solo implicitamente, una strategia contro la (propria) morte, e la cultura (l’insieme delle invenzioni umane per vivere) non è altro che la risposta creativa dell’uomo a questo abisso. Qualche anno fa il medico americano Raymond Moody ha cominciato a raccogliere le testimonianze di pazienti che hanno vissuto le cosiddette esperienze di pre-morte. Mi servo di queste testimonianze come fenomeni psichici, cioè come simboli che la psiche usa quando si trova in quella condizione che nella tradizione del buddismo tibetano viene chiamata «bardo», uno stato intermedio tra la vita e la morte. Le testimonianze hanno in comune delle costanti, oltre a quella di tornare in vita per poterle raccontare. I sospesi tra morte e vita vedono ciò che accade al loro corpo esanime, guardandolo da fuori, e contemporaneamente camminano in un tunnel oscuro con una luce in fondo. Prima di raggiungere questa uscita incontrano un essere luminoso di fronte al quale giudicano la propria vita. Questo essere non suscita nessun senso di colpa, ma permette di guardare se stessi in uno specchio d’amore e di verità.
Il sospeso si sente porre una domanda (o la pone a se stesso perché non è fatta di parole): ne è valsa la pena?
Gli ambiti di verifica della risposta sono due: il conoscere e l’amare, cioè se la vita sia stata un cammino di sapienza (conoscenza di sé e del mondo) e un cammino di fecondità (amore di sé e degli altri). Poi a questa persona viene data la possibilità di riprendere il cammino, diventando protagonisti della vita rimanente. La totalità di loro dice che, tornati, si sono liberati dell’ansia di cammini falsi, per dedicarsi solo a ciò che finalmente gli si era chiarito: sono esperienze di verità (la morte è la verità ultima su chi siamo) attraverso cui si abbraccia il cammino della santità (ciò che vince la morte). Sapienza e Amore sono le risposte al “ne è valsa la pena?”, cioè la fatica che il vivere comporta è riscattata da una pienezza di senso che noi sperimentiamo quando «conosciamo» e «amiamo», che poi sono i due lati di uno stesso gesto vitale.
1. Un conoscere che non è «informarsi» ma entrare in relazione con il mondo e con gli altri in modo generativo. Conoscere nel lessico ebraico significa unirsi, Adamo conosce Eva e genera un figlio, Maria visitata dall’angelo risponde: non conosco uomo. Oggi riduciamo il conoscere all’acquisizione di informazioni (i dati sostituiscono la vita) o alla pratica scientifica (l’esperimento sostituisce l’esperienza, ciò che riesco e posso fare è vero), quindi al dominare la cosa conosciuta che smette di essere soggetto con cui entro in contatto e viene ridotto a oggetto. Il conoscere di cui parlo è invece un co-nascere: nascere insieme di due soggetti in un soggetto nuovo: generato. Come quando leggiamo un libro che spacca il ghiaccio del cuore e ci genera a vita nuova, come quando Dante incontra Beatrice e comincia la Vita Nuova...
2. L’amare delle esperienze pre-morte è altrettanto concreto: una delle testimonianze riguarda un uomo che dice alla presenza luminosa che non può lasciare sua moglie da sola con il figlio adottato che è appena entrato in adolescenza. Il suo destino è chiaro e tutto il resto è funzionale a questo. Nel 2017 George Saunders ha scritto un romanzo intitolato Lincoln nel Bardo, in cui descrive lo strazio del Presidente degli Stati Uniti per la perdita del figlio piccolo, Willie, a causa di una malattia. Egli si ribella al lutto tanto da «trattenere» il figlio nel Bardo, la condizione incerta tra vita e morte, aggirandosi nel cimitero di Georgetown. Lincoln vorrebbe «altro tempo» per amare suo figlio. Il vale la pena nell’ambito dell’amare è prendersi cura di ciò che abbiamo accanto come occasione che ci è data nel tempo per essere santi, cioè vivere una vita piena di senso: amare fa crescere noi e chi ci è affidato. Il tornare nel tempo degli orologi vale la pena solo se quel tempo è riempito da queste due dimensioni: conoscere e amare.
Per questo motivo posso dire che, se da un lato ho una gran paura di morire (le sofferenze che la morte può comportare), non ho paura della morte, perché alla domanda «ne è valsa la pena?», in questo preciso istante posso rispondere: sì. Nei limiti dei miei limiti non ho mai rinunciato a pormi domande scomode e a cercare risposte, a lottare contro la pigrizia mentale e fisica con una creatività innamorata, a provare ad amare chi ho accanto anche se non ci riesco, ma sperimento che non smettere di provare è già santità. L’altro giorno mia nipote, quasi cinquenne, tutta soddisfatta dopo aver portato a termine un compito impegnativo ha detto a mia sorella: «Tutto è difficile, prima di diventare facile». Può sembrare scontato, ma in realtà è un trattato sulla santità. Infatti alla domanda: «In che senso?», lei ha risposto: «Ci provi, ci provi, ci provi e alla fine ci riesci», cioè «alla fine» è valsa la pena di vivere, che non è certo morire, ma diventare sempre-vivi, cioè santi, nel tempo scandito dai nostri orologi.
Santi e Morti, insieme, ci chiedono questo: ne vale la pena?
Abbracciare destinazioni..
Alessandro D’Avenia
"I poster in camera"
L’immaginazione è il motore del destino. A differenza degli animali per noi il destino non è iscritto nella necessità dell’istinto ma è una possibilità da scrivere creativamente. L’uomo è l’essere del possibile che infatti, sin da bambino, imita i modelli che gli vengono proposti. Come faccio a diventare ciò che sono se non so chi sono? Attraverso le immagini che mi offre il mondo. Per questo amiamo le storie, perché mostrano destini possibili, ipotesi narrative sulla vita (e la morte) che ci aspetta.
A Sparta l’immaginario dominante produceva soldati, ad Atene filosofi, poeti, politici e soldati. E noi che immaginario offriamo ai più affamati di possibilità, cioè bambini e adolescenti? Nel 2008 nella ricerca Eurispes su «che cosa vuoi fare da grande?», la maggioranza dei ragazzini rispondeva il calciatore, delle ragazzine la star dello spettacolo (la sovraesposizione mediatica di queste figure plasma l’immaginario). Anche io ricordo che, adolescente a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90, volevo diventare come Bono degli U2.
I poster che avevamo in camera erano le nostre ipotesi di destino e anche le fragilità che dovevamo affrontare. Con il tempo ho capito che quell’immagine era solo un miraggio, così l’ho sostituita, a poco a poco, con altre rispondenti alla mia vera chiamata. Nuove immagini hanno ispirato il mio destino: il professore di lettere del liceo, quello dell’Attimo fuggente, il giovane Tolkien che con i suoi amici e le storie voleva cambiare il mondo... L’educazione dell’immaginazione e la sua continua messa a punto diventa destino. In che modo? Le immagini diventano modelli che si strutturano in ideali che spingono all’emulazione.
Di anno in anno chiedo ai miei alunni, in un questionario, di riempire la casella: «vorrei essere come...». Se all’inizio delle superiori ci sono irraggiungibili star, a poco a poco compaiono nonni, scienziati, personaggi storici, «me stesso» o la casella rimane vuota (buon segno di ricerca). Se c’è una crescita, l’immaginario, da infantile desiderio dell’impossibile, esser tutto, matura in una più realistica conoscenza di sé (limiti, attitudini, passioni) che sceglie nuove immagini. Queste immagini-faro (la meta) si nutrono di più quotidiane immagini-segnale (la rotta) che incontriamo lungo il viaggio della vita. Di queste abbiamo bisogno per non perderci nelle mille sollecitazioni iconiche della vita quotidiana, ma richiedono attenzione come chiunque vada per mare.
Farò quattro esempi di immagini-segnale che ho incontrato negli ultimi giorni. 1. In una bellissima mostra milanese di 100 fotografie di Elliott Erwitt mi ha ipnotizzato una foto scattata a Pittsburgh nel 1950, in cui un bambino ride felice puntandosi alla tempia una pistola giocattolo. Perché proprio quella? In una sola immagine Erwitt mostra la contraddittoria storia dell’Occidente, così impegnato a risolvere i problemi che crea da non aver il tempo di occuparsi delle cose fondamentali. E infatti siamo tutt’ora invischiati nel nostro impossibile rapporto con l’atomica (Kubrick nel 1964 aveva intitolato la sua commedia: Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba). In quel bambino ho visto l’immagine di ciò che non voglio diventare: uno che crede di divertirsi, mentre in realtà è sottomesso e distrutto dalle cose che usa. Mi sono chiesto quali pistole giocattolo mi sto puntando alla tempia e ho trovato alcune risposte.
2. Qualche giorno fa, in un momento di preghiera a occhi chiusi in cui non riuscivo a dire nulla se non «mi manchi», mi si è presentata, per qualche istante, un’immagine: una farfalla sbatteva le ali rapidamente lanciando i suoi colori attorno. Il greco antico per dire farfalla usa la stessa parola dell’anima (psyché), come in Amore e Psiche stanti di Canova, all’Ermitage di San Pietroburgo, in cui la seconda offre una farfalla (se stessa) al primo. Quell’immagine mi confermava il percorso di trasformazione in direzione di una rinnovata libertà e creatività nell’amore.
3. Fra qualche giorno terrò un incontro sull’importanza della lettura. Dovevo scegliere un testo per condurre un esercizio di lettura dal vivo, e ho scelto una fiaba a me cara: L’amore delle tre melagrane, raccolta da Italo Calvino nelle Fiabe italiane, altresì nota come Bianca come il latte, rossa come il sangue. Ha nutrito il mio immaginario da quando ho 11 anni (ce la fece leggere il professore di italiano Aldo Viola che ricordo sempre con gratitudine) per poi diventare il centro del mio primo romanzo. Mentre riflettevo su ciò che avrei detto, qualche giorno fa una simpatica vicina di casa mi ha regalato delle melagrane (ne aveva ricevute un bel sacco da un parente). Me ne ha donate proprio tre, che ho messo in bella vista nella mia cucina. Era la conferma dell’immagine che porto dentro di me. La melagrana è simbolo di abbondanza per i suoi arilli, i succosi e dissetanti grani rossi, sorprendenti se si pensa che l’albero cresce in zone con pochissima acqua. Nella cultura ebraica rappresenta infatti il cuore, e gli arilli sono 613, quanti i precetti della Legge, immagine dell’alleanza tra Dio e l’uomo. In ambito cristiano, come nella splendida Madonna della melagrana di Botticelli agli Uffizi, il frutto indica la passione di Cristo che ama l’uomo fino a donare la vita. Per questo la melagrana è diventato segno di buon augurio tra Natale e Capodanno. Le tre melagrane mi ricordano che posso dare frutti succosi anche quando mi sembra di avere in e fuori di me un terreno arido, se coltivo il mio rapporto con l’Amore Creatore divento creatore anche io, nel mio piccolo.
4. Mi stavo godendo una passeggiata dai primi colori autunnali in un parco ricco di alberi provenienti da tutto il mondo, quando la mia amata mi ha fatto notare un grande albero con delle curiose radici che escono dal terreno in verticale come canne di un organo. Così ho fatto conoscenza del Cipresso calvo o delle paludi che, per procurarsi ossigeno nei terreni acquitrinosi, produce dei veri e propri «boccagli»: qualsiasi altro albero «annega». Anche questa immagine ha cominciato a lavorare dentro di me, confermando la rotta: quando sono sott’acqua c’è sempre una via per respirare. E così mi sono chiesto quali «radici verticali» devo produrre e proteggere nei momenti «paludosi».
Riuscire a trattenere le immagini che contengono pezzi del puzzle del nostro destino non è facile oggi perché, nella continua fruizione telematica, subiamo una tempesta di immagini mai vista nella storia umana: l’Homo Sapiens è diventato Videns (vede tutto ma non presta attenzione a niente, è un iper-vedente cieco, che presto userà infatti l’Oculus del metaverso).
L’intasamento dell’immaginario non è senza conseguenze, provoca infatti la crisi dell’immaginazione: la capacità logica è indebolita (l’eccesso di immagini genera confusione e limita il pensiero astratto) e la nostra creatività è dispersa tra infinite rotte possibili. Il consumismo ha bisogno di generare continuamente immagini desiderabili per darci destini a portata di portafogli, ma il consumismo non è la causa ma la conseguenza di un io senza destino (nichilismo e individualismo) che, per farsi e darsi forza, si aggrappa ai coriandoli di futuro più seducenti.
Oggi per trovare e conservare immagini di destino capaci di guidarci in porto dobbiamo praticare un certo digiuno immaginativo e il silenzio dell’attenzione. Solo così riusciamo a ricevere immagini che ci fanno entrare in risonanza, ci risvegliano, perché sono richiami del futuro che è già dentro di noi, ma che ha bisogno di darsi un volto. Sono immagini che vanno coltivate, approfondite, interrogate... appendendole, come poster, alle pareti dell’anima. Ognuno di noi ha una costellazione di immagini guida, che lo voglia o no. Ma la rotta va impostata seguendo le stelle giuste, altrimenti sarà un dis-astro (la stella contro), questa operazione richiede qualche minuto di meditazione silenziosa ogni giorno. Quali sono le nostre? Solo così potremo abbracciare destini che diventano destinazioni e non naufragi.
Egli si rivolge a me
Don Divo Barsotti, Dal libro “La via del ritorno” (capitolo “la Parola di Dio)
“Nulla è più indifferente all'uomo: la pioggia che cade è il dono che il Signore ti fa, il sole sorge oggi per te, per te fino dall' eternità Egli ha preparato la fragile bellezza del fiore che cogli. Oh! era giusto quello che faceva andare in estasi S. Maria Maddalena de' Pazzi quando aspirando il profumo di un fiore esclamava: «Fino dall' eternità il Signore ha pensato a quest'ora, quando io avrei ricevuto questo fiore dalle sue mani per aspirarne il profumo».
Sì, l'uomo, qualunque cosa faccia, dovunque egli viva, si trova davanti al volto di Dio. Sta a lui scoprirlo e ascoltare attraverso ogni cosa la parola di Dio. Egli è qui, Egli si rivolge a me, mi dice il suo amore, mi manifesta la sua volontà, mi annuncia le sue promesse, si rivolge a me per donarmi il suo amore.
Non soltanto ogni cosa ci parla di Dio, dice Dio, ma attraverso ogni cosa è Lui stesso che parla. Non soltanto la creazione ha come un riflesso della bellezza divina. Ogni cosa è veramente lo strumento di un'azione personale di Dio verso di te, il mezzo onde Egli si comunica personalmente.
Dio ha un volto ed è Padre. Si rivolge a te per comandarti, ti invita a sé, ti guida, ti minaccia, ti dice il suo amore. Tu sei davanti a Dio, come nel cielo. Ora tu lo vedi attraverso dei segni, domani faccia a faccia, ma Lui solo in definitiva è davanti a te, non le cose, non gli uomini. Gli uomini, le cose, tutto è occasione onde l'anima viva questo rapporto, e la vita di fatto tutta si raccoglie e si riassume e tutto termina in questa comunione dell'anima con Lui. Non un Dio che è l'immenso, l'infinito, di cui poteva parlare Leopardi, ma un Dio che è Padre, un Dio che ha un nome e un volto; che è una persona, e si rivela al tuo cuore e vuole stringere un patto con te: si chiama Gesù. Non una pura rivelazione di bellezza. Sì, la creazione rivela anche la bellezza di Dio. Più ancora Egli ti parla attraverso la creazione medesima e stringe con te un'alleanza, sicché, anche attraverso la visione dell' alba, il rompere del vento e l'odore della terra è veramente una comunione personale con Dio quella cui il Signore ti chiama.
Quando si dispiega davanti a te la meraviglia delle cose, quando ascolti il passare del vento, odi il rotolare del tuono, vedi il balenare dei fulmini, ne intravedi la veste.
E Dio stringe con te un' alleanza, vive questa sua alleanza con te; un' alleanza che si esprime precisamente ora in una minaccia, ora in un invito carezzevole, ora in un dono di tenerezza, ora in un castigo; ma è Dio, sempre Dio, Dio solo che vive con l'uomo. In ogni istante Dio esce dalla sua solitudine per venire incontro a te e in ogni istante lo incontri; tutta la vita non è che questo rinnovarsi di un incontro con Lui.
Tu sei chiamato a un appuntamento sempre nuovo: te lo dona in chiesa, al mercato, su in cima ai monti e sulla spiaggia del mare; te lo dona in mezzo agli uomini, nella tua solitudine: in ogni luogo è sempre Lui che ti chiama ed è Lui ugualmente che attende.
O il sacramento del momento presente! Che ogni momento sia per te il momento di un incontro divino, sia per te il momento che realizza una tua comunione con Dio.
Dio ti parla. È certo che questa parola non è ancora il silenzio di una vita mistica pura, di una vita cristiana perfetta. Allora la parola di Dio è il silenzio. Tu avrai oltrepassato le cose e il tempo e te medesimo e in Lui sempre sarai come sommerso. Tu non vivrai più allora nell'economia del segno, ma nella verità oltre ogni segno. Dio ti parlerà «05 ad 05» (lI ep.) 12) come dice S. Giovanni, e tu vivrai nel silenzio. Segno è la parola dell'uomo e segno è il profumo del fiore e la bellezza del cielo, ma allora Dio non ti parlerà attraverso dei segni e tu affonderai nella tenebra, affonderai in un silenzio puro, incontaminato, Immenso.
Allora sarà così: ma oggi l'anima deve imparare ad ascoltare Dio attraverso le cose, a vedere Dio attraverso ogni segno! Ogni cosa lo nasconde ma anche lo rivela. Devi ascoltarlo attraverso gli avvenimenti della vita, attraverso ogni creatura dell'universo. La creazione e la storia sono il mezzo più ordinario di una comunione con Dio, perché più universale. È vero che la comunione con Dio si realizza nel modo più intimo e perfetto nel sacramento eucaristico, ma più universale è questa comunione che l'uomo può vivere con Dio attraverso tutte le cose, attraverso gli avvenimenti tutti della giornata! È una comunione continua, ininterrotta, quella che vivi, una comunione universale ed è propria di ogni uomo, dovunque egli viva.”
Don Divo Barsotti
La preghiera è ascolto
Enzo Bianchi
"Si prega per chiedere, intercedere, ringraziare Ma innanzitutto la preghiera è ascolto. Rendere udibile l’invocazione che abbiamo dentro. È farsi concavi «per cogliere i segni della Presenza, che ci parla nella natura, nelle persone che incontriamo, in quelle che non possiamo più vedere e sappiamo già in un luogo che raggiungeremo. Tutto questo è chiedere, con la formula dello Shemà Israel: “Parla Signore, il tuo servo ti ascolta”. Pregare non è dare fiato alla propria voce, ma spalancare l’ascolto alla voce dell’altro. Disporsi alla sorpresa dell’Incontro.
Ecco a cosa servono i salmi. A curvare l’anima al silenzio. «A chiedere che in noi parli lo Spirito, l’unica vera invocazione verbale che abbia senso. Ma occorre saper coltivare pause in ritmi oggi troppo concitati. La fretta è la malattia più diffusa in chi arriva fin qui.Eppure dire “non ho tempo per pregare” è fare professione di idolatria». Perché anche il tempo, come il resto, non ci appartiene. Ci è dato.
Pregare è poi chiedere. Con tenacia. Incessantemente, senza stancarsi, come dice san Paolo. A patto che chiedere non sia invocare il miracolo. Perché oggi oscilliamo tra la richiesta di un segno ad ogni costo e la sfiducia che la richiesta possa essere esaudita. Siamo divisi tra pretendere tutto e attendersi nulla». All’origine di questo pendolo tra illusione e disincanto è una fede oggi cucita sempre più “su misura”, individualistica: un po’ di meditazione orientale, di yoga, perfino un pizzico di islam. Ne esce un vestito che calza in modo maldestro.
«Succede perché si fatica a confrontarsi con quello che a volte scambiamo per silenzio di Dio, ma è solo la nostra stanchezza. Anche quella può e deve essere offerta. Certe sere, dopo ore sature di impegni, accade anche a me, nella mia cella in mezzo al bosco, di non avere altro da dire: accoglimi così, con la mia stanchezza».
L'ATTESA DI UN ABBRACCIO
Ci sono due salmi che aiutano il priore in questo «farsi piccolo, con lo spirito del Pubblicano che sa di avere solo il proprio limite da offrire». Sono il 16 («Sulle tue vie tieni saldi i miei passi/ e i miei piedi non vacilleranno…») che è «l’attesa di un abbraccio». E il salmo 71 («Non respingermi nel tempo della vecchiaia/ non abbandonarmi quando declinano le mie forze...»), «la testimonianza di un vecchio fedele che alla fine dei giorni si affida al Signore». Come accade a certi monaci, divenuti preghiera nel proprio corpo. «Mesi fa, a Gerusalemme, ne ho contemplato uno per ore. Mi è tornato in mente quanto san Bonaventura diceva di Francesco d’Assisi: “Alla fine della sua esistenza era diventato lui stesso preghiera”. Quel monaco mi ha illuminato, era orazione fatta carne. La massima intimità con Dio. Prima di incontrarlo».
I salmi come ascolto, richiesta, respiro dei giorni. «Non tutti, lo so, possono pregare tre volte al giorno», conclude il priore, «ma basta un pensiero al mattino per offrire al Signore la giornata che ci è regalata. E uno alla sera per ringraziarlo di quanto vissuto». Ed è già un dargli del tu.
Enzo Bianchi "Impegnarsi in una vita interiore per un senso di responsabilità"
L'emergenza dovuta alla pandemia che ha ristretto il campo della nostra osservazione, la preoccupazione per la guerra ai confini dell'Europa - una guerra tra Russia e Occidente, come si è subito rivelata - , le difficoltà dovute alla recessione economica che stiamo attraversando ci hanno impedito di leggere ciò che stiamo vivendo nel quotidiano a livello individuale e sociale. Ma se si cerca di farne una lettura formulandone un giudizio ci rendiamo subito conto che l'involgarimento del gusto, l'imbarbarimento dei modi, la mediocrità e la rozzezza (quest'ultima chiamata da Robert Musil "prassi della stupidità") pervadono ogni ambiente della nostra società. Il clima in cui viviamo è ormai per molti di noi un'insostenibile pesantezza, perché deteriora e compromette la qualità della vita personale e collettiva, l'"io" e il "noi". A questo appiattimento acritico su modelli spesso importati, a una cultura segnata da competitività, aggressività, negazione del diverso, sembra non sia possibile reagire efficacemente in campo educativo, per cui l'involgarimento è dilagante.
Sappiamo elencare le crisi che stiamo attraversando, ma forse alla radice di molte di queste dovremmo riconoscerne una: la crisi del senso di responsabilità. Essere responsabili significa tenere costantemente presente il volto dell'altro, degli altri, perché il volto sempre si volge a me con una domanda, un'attesa, la richiesta implicita di una risposta che è la prima forma di responsabilità.
Ma per arrivare a possedere il senso di responsabilità occorre resistere all'esproprio dell'interiorità, tentata dalla dominante colonizzazione della cultura di massa, sempre più tecnicizzata. Senza una vita interiore in cui possano sorgere le domande chi mai potrà tentare vie di libertà? Anche l'educazione come potrebbe avvenire in modo fecondo senza la formazione dello spirito o della vita interiore?
Troppo scarsa è l'attenzione che si dedica alla preparazione alla vita, alla formazione del carattere, all'esercizio del pensare e del discernere, e va anche denunciato come sia mancata una trasmissione da parte di quelli che dovevano essere "trasfusori di memoria". Abbiamo avuto invece dei rottamatori che ci hanno lasciato solo rovine, e ora il panorama si presenta desertificato.
È soprattutto nella vita della polis che si mostra il senso di responsabilità che impedisce il regnare della demissione. Sì, la demissione di fatto non può essere chiamata con altro nome che con quello di "stupidità". Scrive Dietrich Bonhoeffer nelle lettere dal carcere: "Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità ci si può opporre con la forza... ma contro la stupidità non abbiamo difese ... in determinate circostanze gli uomini vengono resi stupidi, o si lasciano rendere tali. Il potere di alcuni richiede la stupidità degli altri".
Parole che dicono l'urgenza di opporre resistenza, di impegnarsi in una vita interiore, per essere dotati del senso di responsabilità.
"Ritratto d'autore: Cristo"
Alessandro D’Avenia
Un’irrequieta bambina delle elementari che si placava solo nell’ora di disegno era ancora intenta sul foglio quando il tempo della consegna, disegnare la persona più cara, era ormai scaduto. Mentre tutti i bambini avevano già finito, la bambina continuava il suo lavoro ignorando i richiami della maestra. Alla domanda indispettita: «Ma chi stai ritraendo?», rispose: «Dio». Alla maestra che ribatté con ironia: «Ma Dio nessuno l’ha mai visto!», la bambina disse: «Se mi lascia finire, fra poco lo vedrà». L’episodio scolastico mi è tornato in mente quando ho accettato di comporre uno dei ritratti d’autore dedicati al proprio mito. Io ne ho solo uno: Cristo. E l’unico modo che ho per farne il ritratto è provare a raccontare il rapporto con lui, e non perché sia rilevante, ma perché il suo volto si mostra solo in modo relazionale: lo vedi nella misura in cui rispondi al suo sguardo.
Nietzsche, Marx e Freud hanno mostrato che la religione è spesso l’illusione di un mondo oltre il mondo per rendere accettabile la durezza del vivere costringendo la ragione allo stato infantile.
Eppure, da bambino, del divino mi affascinò il contrario. In chiesa vidi l’immagine di un uomo che ne aiuta un altro schiacciato da una trave: si trattava di un contadino di Cirene che sorregge un condannato alla crocifissione, Cristo. Quell’immagine non mi consolava, mi guardava e sfidava. Era il contrario di un tranquillante: Cristo non mi ha protetto dalla vita, mi ci ha spinto dentro o contro.
Per un certo tempo anche io ho vissuto il rapporto con Dio secondo il meccanismo al cuore del sacro in ogni tempo: il sacrificio, cioè io rinuncio a qualcosa per Dio, così lo controllo e mi protegge.
Cristo invece dice: «Misericordia io voglio e non sacrificio»(Mt 9), ponendo fine al rapporto commerciale e sacrificale con Dio (se fai il bravo e ti sacrifichi per lui, Dio ti ama) e inaugurandone uno gratuito (Dio già ti ama, non vuole niente se non che tu lo sappia e lo sperimenti). Cristo è stato ucciso perché metteva in crisi il sistema sacrificale e di potere degli uomini, per restituire all’uomo l’energia creativa e libera dell’amore al posto di quella distruttiva e ripetitiva del potere: non domino dunque sono (qualcuno), fonte di ogni violenza e frustrazione, ma sono amato dunque (vado bene come) sono, fonte di ogni creatività e crescita. Per questo un giorno ho compreso il paradosso di Dostoevskij: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». In una situazione molto dolorosa in cui «la verità» e Cristo si separavano, seguendo Cristo, ho scoperto che quella che ritenevo verità era solo una mia ideologia utile a sentirmi sicuro o migliore, gonfiava il mio ego e copriva la mia mancanza di amore.
Per questo non amo il binomio credente/praticante che riduce la fede da relazione a prestazione. È come chiedere a un innamorato: credi alla tua amata? E la frequenti? O ami o non ami, non è un hobby ma la vita intera: più sei innamorato più diventi attivo, creativo, attento. E si vede, non devi dirlo. Essere amati e amare (cioè ri-crearsi e ri-creare il mondo, ogni giorno, con l’inventiva e l’energia che l’amore ha e dà) è l’unico modo che ho trovato per godermi la vita. Cristo, se è Dio fatto uomo, non è la favola che spinge a puntare sull’aldilà, ma una sfida lanciata all’aldiquà.
Cristiano non significa buono, serioso, angelico, perfetto, ma imperfetto, sveglio, inquieto, innamorato, creativo, combattivo, di buon umore, nei limiti dei propri limiti che diventano bellezza, come il ruscello che feconda i campi correndo negli argini e cantando quando trova un ostacolo.
Come accadde al Cireneo che vidi da bambino non solo mi sento dire: «Dammi una mano, guardati intorno, non scappare, moltiplica la vita in e attorno a te», ma nascono in me energie che vincono la mia pigrizia, indifferenza ed egoismo. E soprattutto la noia. Per me Cristo è adrenalina non oppio, vita che sveglia la vita: inferno, purgatorio e paradiso non sono posti in cui andrò, ma posti in cui sono già in base a quanto amore (vita) ricevo e do. E nessuno come Cristo — e coloro che me ne hanno mostrato il volto, dai miei genitori a don Pino Puglisi (professore di religione della mia scuola, ucciso dalla mafia all’inizio del mio quarto anno di liceo) — mi ha fatto scoprire l’eros della e per la vita. Da Cristo ho imparato la distinzione tra essere vivente ed essere vivo. Mi trovo bene con uno che «salva» il mondo, spendendo trenta di trentatré anni a fare il falegname in un paesino sperduto. Per essere pienamente me stesso non conta che parte io reciti nel teatro del mondo, ma se vivo tutto per amore e per amare. Non è un modo per farmi piacere la vita — ne scorgo e soffro i limiti con il dolore che la passione per la bellezza comporta — ma per non voltarmi dall’altra parte.
Anche in croce Cristo non smette di amare, la sua «passione» è eros per l’uomo e per Dio. E anche io voglio vivere sempre di e con «passione», libero dall’illusione che la felicità consista nel proteggersi dal male e dal dolore, quando è invece vivere tutto, anche il dolore e il male, per e con amore. Così sto a poco a poco imparando a sostituire la domanda «perché mi accade questo?» con «che ci faccio con questo che mi accade?», perché al momento della morte vorrei poter dire: «nulla è andato sprecato». Non so com’è che tutto ciò avvenga, succede grazie alla relazione quotidiana con lui, che più che una presenza è una mancanza: la mia preghiera preferita è «mi manchi». Ma proprio la mancanza mi rende vivo, come testimonia nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea morta nel lager che, ribaltando la prospettiva del «dato questo orrore non si può credere in Dio», scriveva nel 1942: «L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio… E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te». E così si impegna a renderlo presente agli altri in quell’inferno, non usando il male come alibi per fare altro male o per disperarsi, ma per superarlo con un bene, anche minuscolo. Infatti nella stessa pagina Etty annota: «Adesso apparecchio la tavola». Dove qualcuno apparecchia per amore c’è Cristo, cioè Dio che s’incarna in chi glielo permette vivendo con «passione» ogni situazione.
Risolvendo in anticipo il paradosso di Dostoevskij, Cristo ha detto di essere lui stesso la verità, e non perché lo riducessimo a religione, libro o regole, ma perché in lui verità e vita sono la stessa cosa. In che modo? Nel vivere tutto come relazione, che per Lui è la relazione d’amore con il Padre e con gli uomini: egli è sempre generato dal Padre come figlio e uomo, cioè è sempre ri-generato, persino quando muore. Anche io, attraverso i vissuti quotidiani della relazione (gesti, i sacramenti; dialogo, parole e silenzi della preghiera; e amici, la vera chiesa), vengo sempre ri-generatocome figlio e uomo, cioè come uno che riceve, in ogni istante, quello di cui ha bisogno per vivere per amore e per amare, anche quando sono schiacciato dai miei limiti, paure, ferite, fallimenti… Così resto libero perché non mi identifico in qualcosa che rappresento, che ho o so fare (o che non ho e non so fare), o che mi capita, perché so a chi appartengo e chi sono: non devo affermare me stesso, perché sono già «affermato» dall’amore. Devo solo imparare ad amarmi e amare nella misura in cui sono amato.
Per Freud, Marx o Nietzsche forse sono un illuso, ma io Cristo me lo tengo stretto, come Dostoevskij. Non mi serve a farmi piacere la vita, ma a fare della vita un piacere, come quella donna che, in una nazione asiatica dove i cattolici sono un migliaio, si è presentata dal sacerdote chiedendogli il battesimo. Lui, stupito perché la donna non sapeva nulla della fede, le ha chiesto come mai, e lei ha risposto mostrandogli un crocifisso: «Perché con lui mi trovo bene». Nel tempo ho scoperto che mentre si cerca di fare il ritratto al Dio invisibile, come la bambina del disegno, si dà il meglio di sé, perché Dio non è il fine dei nostri desideri ma l’origine, e quindi, in verità, è Lui che fa il ritratto a noi, solo che usa i colori che noi preferiamo. Così il suo ritratto si rivela essere anche il mio e il nostro, come nel sorprendente Autoritratto che Albrecht Dürer dipinse nel 1500 identificandosi con Cristo o come il monaco e pittore Epifanio che, non riuscendo a trovare un modello adatto per dipingerne il volto, decise di prendere il tratto più vero di ogni persona che incontrava: il sorriso di un bambino, la tristezza di una prostituta, la malinconia di un mendicante, la gioia di un’innamorata, il dolore di una madre in lutto, la forza di un contadino… Come posso quindi ritrarre Cristo? Con la poesia che Raymond Carver, scrittore americano morto di tumore a 50 anni, ha voluto fosse incisa sulla sua lapide, poesia che lui stesso aveva scritto: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra».
Cercasi vita eterna
Alessandro D’Avenia
«Dio promette la vita eterna. Noi la recapitiamo a domicilio». Così recita il volantino pubblicitario di una droga, il Chew-Z, che arriva sul mercato interplanetario in uno dei romanzi più spaesanti di Philip K.Dick, Le tre stigmate di Palmer Eldritch (1964), che, secondo lo scrittore Emanuele Carrère, ha segretamente ispirato film come The Truman Show e Matrix. Nel romanzo di Dick gli uomini abitano in tutto il sistema solare, la Terra è diventata quasi invivibile per il caldo ma, per sopportare la terribile vita su altri pianeti come Marte, i coloni terresti si procurano dei plastici con le miniature di un uomo e una donna bellissimi. Quando si assume il Can-D, una vecchia droga allucinogena, si entra nella vita perfetta di questi personaggi alla Barbie e Ken. Per questo gli uomini impegnano tutti i loro risparmi per comprare sempre più scenari e accessori del plastico e fuggire dall’insopportabile vita ordinaria, anche se tornati alla realtà, essendo rimasto tutto come prima, non si vede l’ora di assumere un’altra dose. Ma Palmer Eldritch, magnate del sistema solare, scopre una nuova droga prodigiosa, il Chew-Z, che, a differenza del Can-D, consente di entrare non in un plastico ma in un livello di realtà precluso alla coscienza e di cui Dick era indagatore: dietro al mondo c’è un altro mondo che noi non vediamo accontentandoci di una messa in scena dentro la quale recitiamo una parte. Ma che cosa c’è dietro la scenografia? Una vita eterna? E in che consiste?
Dall’ossessione per questo livello invisibile di realtà nascono i racconti che hanno ispirato film e serie come Blade runner, Minority report, The man in the high castle, Philip K.Dick’s Electric dreams... Per Dick quella che chiamiamo realtà è cartapesta che nasconde il reale vero e proprio. Il Chew-Z, la nuova droga che nel romanzo consente di accedere a questo livello del reale, non permette semplicemente di fuggire in un altro mondo come le droghe tradizionali, ma di riformulare (almeno in modo immaginario) il vissuto a proprio piacimento, modificando passato e presente, come in un sogno a occhi aperti. Con questa libertà assoluta (anche se solo immaginata) la vita eterna a domicilio è possibile. Ma che cosa è la vita eterna di cui noi uomini, credenti o no, abbiamo bisogno in quanto esseri che sanno di dover morire? Al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare, «eterna», anche nel linguaggio biblico, non indica innanzitutto la vita dopo la morte ma quella che vince la morte già adesso, è la vita «come dovrebbe essere» e che noi intuiamo nei nostri desideri: una vita in cui l’amore è per sempre, le condizioni di lavoro sono giuste, la politica lotta per il bene comune, un bambino non soffre...
La vita eterna è quella vita traboccante di senso di cui facciamo esperienza in alcuni istanti indimenticabili che infatti chiamiamo di salvezza, come l’innamoramento. La vita eterna non è la proiezione dei desideri in un cielo irraggiungibile, oppio religioso necessario per farsi piacere l’esistenza, ma è il desiderio innestato nel cuore che misteriosamente sa come dovrebbero andare le cose e si sente chiamato a realizzarle. Palmer Eldritch, genio del male, promette proprio questa vita eterna con l’assunzione di una droga, ma c’è un prezzo molto alto da pagare per avere la sua vita eterna sintetica: si cade sotto il suo dominio. Da un lato abbiamo la fuga in vite che non sono la nostra, come permette di fare il Can-D, la vecchia droga che proietta nelle vite di plastica, il tipo di fuga proposto dalla pubblicità, che manipola il nostro desiderio di infinito scambiandolo con la somma senza fine di piccoli finiti acquistabili. Dall’altro lato abbiamo il Chew-Z, la nuova potentissima droga di Eldricht, che permette di modificare il proprio passato e presente, soggiornando in una vita immaginaria a forma dei nostri desideri e senza cadute, fallimenti o ferite. Assomiglia a ciò che ci accade con Internet, dove costruiamo sogni a occhi aperti in un’infinta bolla cognitiva ed emotiva fuori dallo spazio e dal tempo. Ma così, pur di avere almeno un’ipotesi di eterno, regaliamo i nostri dati ai grandi gestori che, profilandoci indirizzano le nostre scelte future: preferiamo diventare risorse da esaurire piuttosto che lottare per essere protagonisti di una vita eterna reale e non digitale. Perdere la libertà è un prezzo che paghiamo volentieri, perché essere liberi ci costringe a fare scelte e a portarne il peso: le masse permettono così le piccole e grandi dittature. Ma mentre la pubblicità offre prodotti che rimandano alla realtà (per essere felice devo possederli), la rete, che presto avrà la forma del metaverso (i nostri profili saranno viventi ma nel mondo plasmato dal dio Algoritmo, con conseguenze ben descritte da Eric Sadin in Critica della ragione artificiale soprattutto in termini di perdita di libertà e quindi di creatività e di gioia di vivere), ci offrirà una felicità senza bisogno di realtà o addirittura contro la realtà, come confessa il protagonista del romanzo di Dick: assunta la droga della vita eterna «non puoi sgusciarne fuori. Anche se pensi di essertene liberato, ci sei ancora invischiato. È un accesso a senso unico e io ci sono ancora dentro».
Chi di noi saprebbe e potrebbe rinunciare alla rete e ai social oggi? La nostra vita, essendo noi esseri in cerca di senso (ci concepiamo come storie che hanno un destinazione), si costruisce sempre attorno all’idea che abbiamo della vita eterna: Dick non solo aveva visto che la vita eterna dei suoi contemporanei era manipolata dalla pubblicità, ma aveva anche pre-visto che nel futuro la vita eterna sarebbe stata nelle mani degli inventori di una forma di controllo più dolce e pervasiva, sostitutiva del reale. Il capitalismo della sorveglianza, come lo ha definito Shoshana Zuboff nel libro omonimo, ci trasforma in risorsa da cui trarre dati manipolando abilmente proprio il nostro desiderio di vita eterna: il metaverso ne sarà la realizzazione compiuta. Per quel che mi è dato vedere le nuove promesse di vita eterna riguardano infatti l’eliminazione definitiva del corpo (avatar nel metaverso e cyborg nell’universo), così da raggiungere la vittoria sulla natura e sul tempo, cioè quelle due cose che ancora ci costringono a morire. Nel romanzo di Dick infatti le tre stigmate di Palmer Eldritch menzionate nel titolo sono i segni che compaiono sul corpo di chi entra nel suo mondo parallelo: la propria mano, i propri occhi e la propria bocca diventano robotici, cioè l’azione, lo sguardo e la parola non sono più umani, si diventa sì felici, ma dis-umanamente. Noi non possiamo vivere senza vita eterna, ma spesso la costruiamo sul potere, la scorciatoia di chi è convinto che sia il controllo, e non l’amore, a conferirci un’identità e una presa talmente forti sulla vita da vincere anche la morte: assomigliamo a falene che continuano a bruciarsi le ali alla luce che le attrae o a uccelli che sbattono contro vetri che non sono il cielo ma lo riflettono. Chi ha la tecnica per vendere l’eterno sarà sempre il padrone del mondo e offrirà il suo oppio ai popoli, ma noi saremo liberi e felici solo quando costruiremo la vita eterna sull’amore. Un amico in attesa di un figlio, di fronte alle mie paure di mettere al mondo un figlio in questo mondo, mi diceva con serenità: «L’essere di questo bambino si giocherà sempre e solo su una cosa, quanto sarà amato e quanto amerà, il resto è di superficie». Ha ragione: io divento eterno, oggi, di lunedì, solo quanto e quando amo e sono amato, questo è «il reale della realtà», che non richiede dipendenze e fughe immaginarie, ma solo tanto coraggio e tanto corpo. Io per esempio non saprei che farmene di una vita eterna che non abbia la tenerezza dell’abbraccio della donna che amo, i volti degli studenti che ho seguito per anni, la chiacchierata con un amico, la bellezza di un panorama in montagna o di un cielo stellato in mezzo al mare come quelli che ho goduto questa estate, la felicità di mia nipote quando la faccio volare in aria, la musica di Beethoven o una pagina di Omero... La vita eterna a domicilio non è il dono di una droga del controllo, ma luoghi in cui il senso della vita trabocca perché sono pieni d’amore, da ricevere e da dare. Sta a noi scegliere dove e quali sono questi luoghi e contribuire a costruirli: ne va della nostra vita (eterna).
Un cuore danzante
di Alessandro D’Avenia
«Ho 23 anni e mi sento morto. Sto realizzando i miei progetti di studio e di lavoro, gli amici non mi mancano, ma sono sempre insoddisfatto. In questi ultimi mesi, in particolare, sento il mio cuore arido, di ghiaccio. Non c’è più amore nella mia vita: come rompere questa corazza per venire incontro alla vita e scoprire la mia vocazione?». Così mi scriveva un ragazzo qualche tempo fa. La metafora del ghiaccio mi ha ricordato i versi letti recentemente con i miei alunni: quando Dante arriva al fondo dell’inferno, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, non ci sono fuoco e fiamme, ma una distesa gelata in cui i dannati sono incastrati. Il ghiaccio è generato dalle immense ali di Lucifero che con il loro movimento gelano l’acqua del fiume Cocito in cui sono immersi i peggiori peccatori, tra i quali ricorderete il conte Ugolino. Dante sa che all’opposto dell’amore, a cui attribuisce sempre il verbo muovere, non c’è l’odio ma il controllo e la paralisi: dove l’amore è assente non c’è iniziativa e creatività. Questa condizione di gelo infernale tocca molti ragazzi e non solo: cuori gelati dal disamore, menti irrigidite dalla paura, corpi assiderati dalla solitudine. Come perdiamo l’amore e quindi la capacità di andare incontro alla vita per scoprire la nostra vocazione?
Una cultura che mostra allo sfinimento che il mondo fa schifo (malattie, guerre, violenza...) e di pari passo impedisce la possibilità di cambiarlo è una cultura del controllo e della paralisi. Gli esiti, soprattutto sui giovani, sono due: ripiegarsi sul proprio malessere vivendo nel tentativo di lenirlo oppure partecipare alla distruzione, rivolgendola contro se stessi o contro gli altri. Ne ho avuto evidenza l’altro giorno, quando ho accompagnato mia nipote a una lezione di skateboard in un parco frequentato da giovani. Ho ascoltato uno di loro che, tra un’acrobazia e l’altra, diceva: «Io fumo tante canne, ma quando sento di diventare dipendente smetto perché non trovo più sollievo, poi però dopo un po’ ricomincio perché ne ho bisogno. Ma divento di nuovo dipendente e così ricomincia il giro: ci sta, per sopportare tutto...». Un dolore «anestetizzato» non trova esito creativo, come accade ad alcuni dei dannati danteschi che, con la testa rovesciata indietro, piangono lacrime che si cristallizzano nelle orbite oculari in una visiera di ghiaccio che impedisce alle successive di uscire, moltiplicando la sofferenza. Vedo sparire ciò che caratterizza l’uomo e soprattutto i giovani: la capacità creativa, cioè slancio e impegno per cambiare il mondo, inventando il nuovo, proprio perché ciò che si ha attorno non piace, non basta, fa soffrire. Nel giovane skater il dolore non si trasforma in lotta o almeno in domanda inquieta come per il giovane della lettera. Eppure proprio quel dolore, se non venisse disattivato, diventerebbe essenziale per trovare la vocazione o, come si dice in giapponese, l’ikigai (far coincidere ciò che sai fare, ciò che ami fare, il condividerlo a beneficio degli altri e guadagnarsi da vivere con questo, insomma «il motore della vita»). Le crisi di destini sono crisi educative: famiglia e scuola servono proprio a far fiorire l’ikigai di ciascuno. Il report «Impossibile 2022» per i diritti dei minori, appena presentato a Roma da Save the children, ha evidenziato che in Italia alla povertà materiale (1,3 milioni di bambini in povertà assoluta) si associa quella educativa: il 51% dei ragazzi di 15 anni non comprende il significato di un testo e non sa sviluppare un ragionamento. Non sono cose che capitano per caso: in Italia la spesa welfare per i minori è solo il 2% (la media europea è il doppio), e siamo l’ultimo Paese dell’Ue per spesa pubblica totale a favore dell’istruzione (l’Europa ci piace solo per certe scelte e infatti la spesa per la Difesa è perfettamente nella media europea). L’Istat ha rilevato nel recente Rapporto sul Benessere che nel nostro Paese un giovane su quattro tra 15 e 29 anni non studia né lavora, primato negativo in Ue, inoltre gli Italiani di 30-34 anni in possesso di un titolo di studio terziario (università e corsi post-diploma) sono il 27% contro il 41% dei coetanei europei. Un Paese con un impegno (welfare e istruzione) insufficiente per i minori va in bancarotta di vocazioni. La situazione è peggiorata ulteriormente, nell’ultimo periodo, per quella che è stata definita «implosione cognitiva» dei ragazzi, frutto della combinazione di: confinamento, dad, uso dei social, ore di sonno perdute e diminuzione dei rapporti con i pari. Quando la vita viene paralizzata e non incoraggiata, il gelo cala su cuori e teste. Si ha l’illusione della libertà perché si possono scegliere mille cose online e nel metaverso, mentre l’universo interiore è congelato. Il contrario del ghiaccio è il calore delle relazioni che fanno da grembo al nostro sé autentico, a qualsiasi età. La fame di nascere è più radicale della paura di morire, ma se quest’ultima prevale il problema è culturale: interiorizziamo a tal punto la morte che la preferiamo alla vita, ci sentiamo in colpa di vivere e diventiamo incapaci di movimento. Ci vuole una ribellione prima di tutto interiore che parta proprio dal dolore per trasformarlo in azione, come bisognava fare a scuola alla ripresa dal periodo di dad (invece durante le lezioni siamo ancora, a fine maggio, seppur distanziati e con finestre aperte, con le mascherine, non necessarie nei locali e nelle discoteche frequentate dagli stessi ragazzi). Occorre mettere in discussione: una politica incapace di prendersi cura dei cittadini nei luoghi che ne sono la manifestazione più evidente (ospedali e scuole); una televisione ridotta a un’arena di identità che si definiscono attraverso lo scontro (dal reality al talk show passando per il talent); una scuola che non aiuta a prendersi cura di sé e del mondo, non basando la maturazione sulla vocazione che fiorisce ma sulla quantificazione del sapere e quindi sulla competizione; la parte dei social che spinge a costruire l’identità a partire dall’invidia. Il ghiaccio che abbiamo nel cuore è l’esito infernale di una cultura del controllo e non delle relazioni buone, da cui può emergere l’ikigai di ciascuno. A tal proposito mi ha colpito il fenomeno definito «Great Resignation» accaduto in Lombardia nel 2021: il 10% dei lavoratori a tempo indeterminato (419.754 su 4,4 milioni di occupati) si è dimesso per cercare un maggiore equilibrio vita-lavoro e la metà di loro hanno meno di 35 anni. Non è abbandono del lavoro ma spostamento verso uno nuovo dove ci sono motivazioni e condizioni migliori. Il panorama può sembrare cupo ma ci sono già buone notizie, si sta dimostrando insostenibile la cultura del controllo, illusione moderna che pretende di realizzare la vita, individuale e sociale, attraverso il dominio (dell’anima, dell’altro, della natura). Urge invece incoraggiare una cultura della libertà attraverso le relazioni buone in cui l’espressione «sono libero» non sarà più sinonimo di «sono single», ma di «sono impegnato», proprio perché amando ed essendo amati il sé autentico trova la sua strada tra le mille menzogne e illusioni che promettono felicità al prezzo del controllo. In fondo nella lettera del ragazzo è già implicita la risposta nella sequenza: dolore, amore, coraggio, vocazione, per questo gli dico: accetta la tua crisi, entra nel tuo dolore, rispettalo e amalo come inizio di guarigione. Poi cerca maestri, amici, amori veri: riduci al minimo le relazioni essenziali e liberati di tutte quelle (fisiche e digitali) di controllo, a poco a poco, scoprendo la meraviglia che sei, troverai il coraggio di andare incontro alla vita anche se è dura, anzi scoprirai che proprio la sua resistenza è la materia prima della tua vocazione... E magari, invece di accendere la tv, tu che ancora hai la fortuna di comprendere un testo, leggi un libro che può dirti cose come quelle che da poco ha scritto un mio caro amico su Enea: «Nella storia di Enea la motivazione nasce soprattutto da un’esperienza d’amore, da un’esperienza relazionale. È proprio pensando alla moglie, al padre, al figlio, alle persone che ama, che Enea reagisce. In un tempo come il nostro, dominato dall’individualismo, non siamo più abituati a leggere la vita a partire dalle relazioni. E molto spesso vogliamo cercare solo dentro di noi, nella solitudine del nostro io, la motivazione per reagire, per poter fare la scelta giusta. Solo e soltanto quando la nostra vita entra in contatto con un amore diverso dal nostro io, lì scatta quella responsabilità che ci fa fare delle scelte che normalmente non faremmo. E se la prima cosa da fare è reagire, noi reagiamo sempre per amore di qualcuno» (Luigi Maria Epicoco, La scelta di Enea). Lo conferma Dante che, più si avvicina all’Amor che move il Sole e l’altre stelle, più vedrà uno scenario opposto a quello della paralisi glaciale: danza e coralità aumentano passo dopo passo(l’amore muove e com-muove, muove altri insieme). Sicuramente nel poeta agisce l’immagine della «pericoresi», termine greco che descriveva una bellissima danza circolare e che la teologia scelse per indicare la relazione tra le persone della Trinità in cui «il noi» è più della somma dei singoli e trabocca coinvolgendo gli uomini in grado pari all’amore che vogliono ricevere e dare, come accade in una coppia che dà la vita. L’opposto del cuore di ghiaccio è un cuore danzante: quando smettiamo di danzare, individualmente e socialmente, è perché abbiamo preferito il Controllo, che ci toglie la fatica di diventare noi stessi, all’Amore che invece liberi ci rende veramente, perché ci dà il coraggio di diventare noi stessi, costi quel che costi
Il giardino segreto
Alessandro D'Avenia
Nei dialoghi che ho con i lettori non manca mai la domanda sulle abitudini di scrittura: luoghi, tempi, trucchi... La curiosità riguarda in realtà quella cosa di cui, chi lavora di «ispirazione» è testimone: l’esistenza della vita spirituale, da cui dipende poi la vita quotidiana. Non sappiamo dove sia questo luogo di cui chiediamo «la posizione» a coloro che ci sono stati, perché è in quest’eden, che spesso crediamo perduto o inventato, che si trova la felicità: è lì che la vita è sempre piena di pace anche nei momenti difficili, come il mare calmo pochi metri sotto una superficie in tempesta. Proviamo allora a riconquistare l’aggettivo «spirituale» — oggi ridotto a sinonimo di «immaginario», «lontano dalla vita», «strano», «senza corpo» — partendo proprio dalla parola «ispirazione».Ispirato è qualcuno che fa con sorprendente naturalezza qualcosa. «In-spirato» è «chi ha ricevuto un soffio», la parola spirito viene infatti da «spiro» (soffio). La vita è quindi «in-spirata» quando qualcosa «soffia dentro», dove «dentro» è lo spazio in cui ciò accade: la vita interiore. Vita spirituale (soffio) e vita interiore (spazio) sono necessarie a ricevere e dare vita, cioè a essere vivi e non semplicemente viventi. Per i Greci l’ispirazione era infatti dono divino accolto da chi lo invoca e da donare agli altri: Omero nel primo verso dell’Odissea chiede alla Musa letteralmente di «dirgli dentro» quello che lui canterà poi agli uomini. E noi come facciamo a essere in-spirati, a ricevere questo soffio?Anche nella tradizione giudaico-cristiana compare da subito il soffio. La Genesi sin dal secondo versetto dice che «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Lo spirito in ebraico è ruah, soffio, e le acque non indicano il mare, non ancora creato, ma il caos. Il verbo «aleggiare» nel testo significa in realtà «covare»: lo spirito di Dio, che è Amore, porta il caos della storia alla forma, come una chioccia. Quello stesso «soffio» che spinge tutto a compimento, cioè alla piena bellezza di ogni cosa, viene «in-spirato» da Dio dentro un pugno di terra: Adamo (letteralmente il Terroso) diventa vivo come «corpo in-spirato», che è chiamato a ricevere «supplementi» di «soffio» per diventare sempre più vivo proprio custodendo e lavorando il giardino, l’eden, che gli viene affidato.Che cosa ti ispira di più? Chiediamo a chi deve fare anche una semplice scelta in un menù. L’ispirazione è quindi la relazione tra un soffio che viene da fuori (spirito) e lo spazio di accoglienza (interiorità), come il vento con una vela: chiunque sia stato in barca a vela conosce la bellezza silenziosa di questa spinta che si traduce in movimento sulle acque. La persona ispirata, qualsiasi cosa faccia (da una torta a una poesia), si muove luminosa, agile, bella. Questo vogliamo anche noi: bellezza, luce, agilità nell’azione, in sintesi quella allegriache ha la stessa radice di alacre (veloce, desto), il contrario della pesantezza e lentezza di chi non è ispirato: nave che non si muove.Quindi quando si domanda all’artista: «come fai?», gli si chiede come ricevere il soffio e come custodirlo. Se non c’è vita spirituale (soffio) e interiore (vela) non c’è in-spirazione: tutta la nostra vita smette di essere originale, cioè origine del nuovo, e si ferma. Come tessere questa vela in cui il mondo ci in-spira: «soffia dentro»? Creando situazioni/occasioni “interiori” cioè di ricezione attiva: lettura, preghiera, silenzio, ascolto, natura, arte, dialogo amicale o amoroso... tutte ciò che, non consumabile nel momento in cui lo si riceve, riempie quella che lo scrittore Milan Kundera chiama «memoria poetica». Ma questo non è possibile se riceviamo solo non-cose che si spacciano per cose, informazioni e non presenze, fantasmi e non corpi.Per guarire da questa «assenza» delle cose che porta alla disperazione, il filosofo coreano Byung-Chul Han, professore a Berlino, si è messo a coltivare un giardino e ne ha tratto un libro prezioso: Elogio della terra. In una recente intervista al Corriere ha detto: «È dipeso dalla digitalizzazione il fatto che io, sette anni fa, abbia provato un forte bisogno di essere vicino alla terra. Con la digitalizzazione non abitiamo più il cielo e la terra, bensì Google Earth e il Cloud. Così decisi di allestire un giardino. A quel tempo lavoravo ogni giorno, non di rado fino allo sfinimento. Il giardino mi ha restituito la realtà. Contiene molto più mondo dello schermo. Lo chiamai Bi-Won (“giardino segreto” in coreano). Volevo che fiorisse anche in inverno. Così vi ho piantato soprattutto fiori invernali. Da questi anni di lavoro che mi hanno riempito di gioia ho imparato soprattutto che in giardino non si prova quella depressione il cui sintomo principale è la povertà di mondo. Il giardino è assai ricco di mondo. Io credo che la pandemia che ci costringe davanti allo schermo ci allontani ancora di più dal mondo, alienandoci. È proprio l’esperienza della presenza a darci il mondo. La digitalizzazione conduce invece a una povertà di presenza e quindi di mondo, fino ad arrivare a non percepirlo più se non le sue informazioni. La digitalizzazione ci sottrae l’esperienza della presenza, portatrice di gioia. Il giardino è un antidoto all’informatizzazione del mondo».Per questo sorrido amaramente quando sento chi vuole riempire le aule scolastiche, anche dei più piccoli, di tablet invece che di piante, di ore di coding anziché di giardinaggio, di non-cose anziché di cose. A tal proposito il filosofo continua raccontando del suo recente viaggio in Italia: «A Roma sono stato molto felice. Amo le chiese cattoliche. Ho fatto dei giri in bicicletta visitandone a centinaia. In tal modo ho scoperto una chiesa meravigliosa (San Bernardo alle Terme) che mi ha donato un’esperienza di presenza, così rara al giorno d’oggi. Questa chiesa è davvero piccola. Quando si entra ci si trova subito sotto una cupola decorata con forme ottagonali e quadrate che diventano sempre più impercettibili verso la cima, tanto che dal punto di vista ottico la cupola comunica un senso di risucchio verso l’alto. Attorno al vertice della cupola, che reca l’immagine della colomba dorata, sono disposte delle finestre attraverso cui irrompe la luce. La colomba dorata si libra nel cielo. Tutto questo va a comporre un interlocutore sublime munito di un vortice verticale che mi ha letteralmente sollevato. Mi sono librato verso l’alto, e ho compreso cos’è lo Spirito Santo. Non è altro che l’Altro. Non conosciamo più l’Altro. Lo smartphone fa sì che trasformiamo l’Altro in qualcosa di consumabile, convertendo il tu in un oggetto. Mediante la digitalizzazione del mondo scompaiono anche le cose. Questa cupola mi ha regalato un’esperienza gioiosa, un’esperienza di presenza nel bel mezzo di un ambiente sacro».
L’esperienza di presenza, fonte di ogni ispirazione, è proprio ciò che stiamo perdendo e con essa la gioia. Quest’uomo trova lo «spirito» in un giardino, viene in-spirato dal soffitto di una piccola chiesa, incontra un «tu non consumabile»: la sua «memoria poetica» viene così riempita dalla «presenza», spirito e corpo diventano tutt’uno come in amore. Nella tradizione cristiana infatti lo Spirito con la maiuscola è l’Amore in persona, soffio che cova il caos della storia, di ogni storia, fino al suo compimento di bellezza nel giardino: l’Amore muove Omero e muove il mare, scriveva il poeta russo Mandel’štam.
Il giardino è l’incontro tra spazio interiore aperto e attivo (curare i semi, pedalare, visitare le chiese...) e l’esperienza di presenza delle cose (fiore, città, chiesa): l’amore ci raggiunge e riempie solo così, solo in questi incontri con la vita. Le non cose, informazioni e immagini, di cui ci riempiamo ogni giorno si depositano come polvere che a poco a poco appanna gli occhi e inceppa il cuore, invece nella memoria poetica penetrano e restano solo le cose presenti cioè «amanti» e «amate». Dobbiamo recuperare, lo dobbiamo alle nuove generazioni, questo incontro con la realtà per liberare la vita «spirituale», che non significa «immaginaria» «disincarnata» «bizzarra» ma il contrario: piena presenza di noi a noi stessi e al mondo, cioè gioia.
Noi non ricorderemo le «non-cose» del meta-verso, cioè quelle che portano altrove da noi, ma «le cose» dell’uni-verso, cioè quelle che dalla loro varietà portano all’amore. Le non-cose ci portano lontani da noi: non c’è soffio ma bonaccia piena di miraggi, come quella che avvolge la nave di Ulisse prima dell’arrivo delle Sirene. Invece il soffio che in-spira mette in moto.Spegniamo lo schermo almeno un poco e dedichiamoci a un «giardino segreto» nella forma che ci è più consona: che cosa ci permette di fare esperienza della presenza? L’eden non è perduto ma a portata di vita quotidiana, e i responsabili della nostra in-spirazione siamo noi: io mi metto davanti alla pagina bianca non perché sono ispirato ma proprio perché l’ispirazione accada, quel bianco è spazio di accoglienza, il contrario di ciò che si dice della pagina bianca, è aperta non vuota. L’ispirazione è la sorella minore del lavoro quotidiano. Voi che cosa curerete oggi? Dov’è il vostro giardino segreto?
Non ti disunire
Alessandro D'Avenia
«Non ti disunire!» urla più volte il regista Antonio Capuano a Fabio Schisa, adolescente protagonista del film «La mano di Dio» di Paolo Sorrentino, candidato all’Oscar. Fabietto, così lo chiamano, intrattiene una chiacchierata notturna con l’artista a cui ha confidato di voler fare cinema, ma non capisce il reiterato comando e chiede spiegazioni. Sul far dell’alba, di fronte al mare, arriva la risposta: per raccontare bisogna essere onesti con il proprio dolore, la sola cosa che abbiamo da dire. La scena mi ha commosso e mi sono trovato ad analizzare la composizione spirituale delle mie lacrime.
Vi ho trovato il dramma che viviamo ogni giorno: la nostra dis-integrazione interiore e, sua diretta conseguenza, la dis-unione esteriore. Siamo soggetti frantumati individualmente e socialmente, i cui pezzi (in-dividuo vuol dire ciò che non può essere più diviso) raramente riescono a unificarsi attorno a qualcosa che dia senso e gusto alla vita.
La testa, il cuore, il corpo lottano tra loro per avere la meglio e ciò che uno di loro ottiene non va bene per l’altro: amiamo persone che ci fanno del male, mangiamo o smettiamo di mangiare per un vuoto incolmabile, ci abbandoniamo a dipendenze consolanti ma distruttive, non capiamo il senso del dolore anche se ci assedia... La nostra vita è un campo di battaglia in cui siamo noi a fare la guerra a noi stessi, per poi riversare la nostra dis-integrazione sul mondo e sugli altri, rendendoli ora colpevoli ora vittime.
Tutto questo dimostra che noi, per essere felici, dobbiamo essere «uniti», in noi e con gli altri. Ma come fare? Come può essere proprio il dolore, che ci rende mancanti, fragili e incompleti a darci unità?
Martedì 12 febbraio 1952, 70 anni fa l’altro ieri, usciva in quattro mila copie Il visconte dimezzato del quasi trentenne Italo Calvino. Il primo di una trilogia (gli altri due sono Il barone rampante del ’57 e Il cavaliere inesistente del ’59) che Calvino intitolerà I nostri antenati, delineando un percorso (parole dell’autore) «sul come realizzarsi esseri umani: nel Cavaliere inesistente la conquista dell’essere, nel Visconte dimezzato l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una completezza non individualistica: tre gradi d’approccio alla libertà... un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me».
E così Medardo, giovane conte di Terralba, in una guerra contro i Turchi, nel XVIII secolo, viene spezzato in due da una palla di cannone, le due metà, curate, sopravvivono nel Gramo e nel Buono. Calvino non narra la mescolanza di male e bene caratteristica dell’uomo, ma la sua faticosa ricerca di completezza. Una guerra interiore ci spezza, ci rende impossibile essere noi stessi e rapportarci alla realtà in modo sano. Da un lato c’è la bestia, il Gramo, che tutto taglia, gli altri e il mondo, dall’altro c’è l’angelo, il Buono, che tutto aggiusta, gli altri e il mondo. Entrambi impongono alla realtà il loro modo di essere «mutilato»: il Gramo vuole rendere tutti cattivi, il Buono vuole rendere tutti buoni, nell’uno e nell’altro caso ignorando l’altro così com’è, nella sua realtà e libertà.
Due ritratti delle nostre vite «schizzate» (dal greco tagliate, come in schizofrenico), polarizzate da manicheismi ideologici e moralistici, simili al tifo tribale da stadio: destra e sinistra, vax e no vax, atei e credenti... Semplificazioni che torturano la complessità delle persone per infilarle in taglie «dimezzate», con cui «sistemiamo» il mondo, dividendolo in buoni e cattivi, puri e impuri, perché questo ci fa sentire forti, ma nasconde l’incapacità di ascoltare l’altro con la sua storia, cosa che richiede tempo, assenza di pregiudizi e di condanne preventive.
Il punto di arrivo di questo atteggiamento non può che essere quello di partenza: la guerra fra i dimezzati. Infatti le due metà di Medardo, dopo aver esasperato Terralba con i loro eccessi, finiscono a duello. Entrambi si feriscono mortalmente sul lato «tagliato», riaprendo le ferite, ma proprio questo consente a un dottore di ricucire le due parti: Medardo si salva e scopre che l’unica cosa che avevano in comune le sue metà è l’amore. Sia il Gramo sia il Buono si erano infatti innamorati di Pamela: l’amore è energia unificante, che accetta (accoglie) e non accetta (taglia). L’unità, in noi stessi e con gli altri, viene dall’amare e dal lasciarsi amare. L’uomo non è né solo bestia né solo angelo, né solo spirito né solo carne, ma spirito incarnato, e l’amore ha il potere di unire lo spirito e la carne in modo sempre più completo, cosa che si manifesta con un profondo e stabile senso di pace, segnalato dal dilagare di app che aiutano a rilassarci, meditare, dormire.
Ma non basta mai, perché il problema è più profondo. Un bambino piccolo, dopo aver rotto un vaso, non va forse a gettarsi proprio tra le braccia del padre o della madre? Vuole sapere se a essere andato in frantumi è un oggetto o lui stesso. E solo l’amore può dargli la risposta: tu resti intero anche se hai fatto questo. Il bambino non si identifica più con il suo errore, ma con l’abbraccio che gli è dato.
Il Medardo diviso di Calvino è antenato del Fabio di Sorrentino, ma la nuda e inguaribile verità del suo dolore, necessaria al ragazzo per «non disunirsi» e poter raccontare storie, a mio parere non basta. Il dolore, che ci spezza e divide, è proprio l’occasione con cui la vita ci porta all’amore e porta l’amore a noi, perché solo l’amore può suturare le nostre ferite. Ogni mancanza, caduta, dolore, cioè ogni divisione interiore, ci ricordano che siamo incompleti, conducendoci sull’abisso in cui scopriamo se la nostra vita è appesa al nulla o all’amore, o almeno alla speranza di viverlo. Questa vertigine fa così paura che invece di affacciarci, fuggiamo o restiamo a distanza, continuando a cercare colpevoli, dentro e fuori di noi, per la nostra incompletezza. Lo confessa il narratore del romanzo, il nipote di Medardo, quando lo zio è ritornato intero: «Io invece‚ in mezzo a tanto fervore d’interezza‚ mi sentivo sempre più triste e manchevole. Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane».
Non credo sia questione di età, l’incompletezza è propria del nostro essere uomini: uno si crede incompleto perché lo è. E la felicità comincia da questa mutilazione, altrimenti non avremmo bisogno di amare e lasciarci amare.
«Non ti disunire» per me significa «non aver paura di amare». Uno si crede incompleto ed è soltanto uomo.
Vita eterna
di Alessandro D'Avenia
Achille Lauro, auto-battezzandosi sul palco di Sanremo in apertura del festival della canzone italiana, ha voluto rappresentare la sua rinascita, ribadendo, attraverso lo scimmiottamento del rito, che siamo fatti non per morire ma per rinascere, cioè per una vita eterna.
Ma che cosa è la vita eterna?
I Greci dicevano vita in due modi: zoé, la vita come mero essere viventi, e bíos, la vita che trova la sua realizzazione nella città, attraverso l'azione etica e politica. Anche Achille, l'eroe omerico, riceve una specie di battesimo: alla nascita viene infatti immerso nell'acqua del fiume degli Inferi, lo Stige, per essere reso invulnerabile, ma il tallone da cui la madre lo tiene sospeso resta asciutto. È un'immagine potente dell'aspirazione dell'uomo all'immortalità: la morte è il nostro tallone d'Achille.
Il cristianesimo assume, modifica e amplia questo orizzonte. Anche nel vangelo di Giovanni Cristo distingue il semplice essere in vita, ma con la parola psychè (il soffio vitale che finisce con la morte) e l'essere vivi, cioè avere in sé una vita che non muore mai, zoé: usa il termine che i Greci usavano per la vita naturale, ma lo trasforma. Dice che egli è venuto a rischiare «la propria vita» naturale (psychè) perché gli uomini «abbiano la vita (zoé) in sovrabbondanza» (Gv 10), cioè vita che non si esaurisce mai. La parola è infatti da lui unita in altri passi del vangelo all'aggettivo «eterna» (zoé aiónios), che non è la vita dopo la morte, altrimenti eterna non sarebbe perché comincerebbe per l'appunto dopo l'evento mortale. E allora che cosa è questa vita eterna?
La vita eterna di cui parla Cristo non è né la vita che hanno tutti gli esseri viventi (psychè), né la vita di impegno per ottenere la virtù e la conoscenza dei famosi versi dell'Ulisse dantesco (bíos), ma è la vita stessa di Dio che viene data all'uomo (zoé aiónios). La vita eterna non comincia dopo la morte ma c'è sempre, quel «per sempre» che invochiamo quando facciamo rara esperienza dell'eterno nella vita «di sempre», per esempio quando siamo innamorati.
Ma come può l'uomo ricevere costantemente questa vita eterna e non solo in momentanei bagliori? Secondo il cristianesimo proprio con il rito del battesimo (dal greco: immersione) in cui l'acqua è segno di ciò che avviene al battezzato: muore e rinasce.
Nel battesimo l'uomo della vita solo naturale muore, si lascia la morte alle spalle, e rinasce con la vita di Cristo, la vita eterna, non nel senso che non morirà (anche Cristo è morto), ma che, come è accaduto al Figlio di Dio, la morte non avrà mai l'ultima parola.
Il battezzato è «vivo» perché partecipa alla vita di Dio: tutti gli eventi di morte sono per lui episodi «di passaggio», cioè di parto, di rinascita. Il battesimo inaugura questa possibilità di rinascere sempre, ma è compito del credente renderla sempre più cosciente e attiva, realizzandola nella sua storia in modo unico e originale.
Quando Achille Lauro si auto-battezza, sulle note d'una Domenica profana, imita il rito ma al tempo stesso lo nega, perché il battesimo si riceve da altri, come la vita. Nel rito non sono io che dico «Io, Alessandro, mi battezzo» ma qualcuno dice «Alessandro, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito».
Il mio nome viene pronunciato nell'Amore, che vuole preservare dalla morte l'amato. Chi non lo farebbe per la persona amata se potesse? La frase del battesimo è come sentirsi dire: «tu non devi mai morire».
Ecco, Cristo pretende di farlo a me.
Ci riesce?
Per quel che ne so posso dire di sì ed è la cosa di cui sono più grato alla vita.
Sono stato battezzato pochi giorni dopo la nascita, come se mi avessero aperto un conto in banca a credito illimitato, ma crescendo ho dovuto decidere liberamente se rinnovare il conto (Confermazione e Riconciliazione sono il rinnovamento maturo del battesimo). L'essere messo di fronte all'esito della vita naturale senza mezzi termini, mi ha protetto dall'illusione che la morte non esista e da quella di poter rendere invulnerabile, con le mie forze, la mia vita naturale. Ricevere la «vita eterna» mi spinge a mettere tutte le mie energie per amare la vita naturale, non come fine ma come occasione per far accadere quella eterna, in me e attorno a me, nel rapporto con il mondo e con gli altri.
Come me ne accorgo? Me la godo sempre, anche quando c'è poco da ridere, anche quando ho gli occhi pieni di lacrime. Da un lato non perdo mai la speranza, la fiducia e l'amore per la vita, anche quando faccio esperienza, in me e accanto a me, della morte: dolore, paura, rabbia, delusione, disincanto, smarrimento, stanchezza... mi accompagnano ma non sono mai solo e disperato nell'attraversare questi deserti provvisori.
Dall'altro guarisco a poco a poco dalla radice di ogni infelicità, l'individualismo, quella pretesa di poter essere felice da solo, con le mie forze e a prescindere dagli altri se non contro di loro.
Non sono ossessionato dalla sicurezza, ma spinto a rischiare la vita: per esempio voglio bene ai miei studenti non solo per motivi etici o professionali, ma perché attingo a un'energia non mia, quella di chi ama (sente la vita altrui come la cosa più preziosa) perché si sente sempre amato (sente la propria vita come la più preziosa: questo significa amare il prossimo come se stessi, cioè come si è amati).
Il battesimo è per me adrenalina erotica che rende la mia vita sempre attiva e creativa anche nei momenti di buio: se perdo tutto non perdo niente, perché ho già tutto. Non posso per questo dimenticare «La bacinella battesimale» il secondo capitolo di quel capolavoro che è la Montagna incantata di Thomas Mann, un romanzo che nel 1924 fa il punto su tutta la storia dell'Occidente. La bacinella è simbolo della vita che unisce il protagonista, Hans Castorp, ai suoi antenati: ospita infatti l'acqua per i battesimi della famiglia da più di un secolo. In quell'oggetto Hans vede lo scorrere del tempo che divora tutte le vite, ma anche la sua sconfitta che è sconfitta della morte: «una sensazione dalla quale aveva desiderato di essere nuovamente colpito: per amore di essa aveva tenuto a farsi mostrare l’oggetto ereditario, fisso e ad un tempo in moto».
Quella bacinella, in apertura di un libro che il narratore stesso definisce un «romanzo del tempo», cioè che ha il tempo come protagonista (o antagonista), è la chiave dell'intera storia: noi, tempo fatto carne, non siamo in cerca dell'immortalità ma della vita eterna.
Da Achille ad Achille.
Una goccia di mistero
Alessandro D’Avenia
Al mattino di venerdì 28 gennaio del 1972, 50 anni fa fra quattro giorni, nella stanza 201 della clinica Madonnina di Milano, dove era ricoverato da dicembre per un tumore, un uomo di 66 anni sente che la fine è vicina e chiede alla moglie di fargli la barba: «Voglio che la morte mi trovi in ordine». Il suo nome è Dino Buzzati, a cui sono legato da quando, sedicenne, lessi «Una goccia», racconto pubblicato per la prima volta il 25 gennaio del 1945 su questo giornale per cui lavorava, e inserito nei Sessanta racconti, l’antologia da lui stesso curata e con cui nel 1958 vinse il premio Strega. Mi colpì a tal punto che lessi d’un fiato gli altri racconti di quel libro che avevamo a casa. Comincia così: «Una goccia d’acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso a letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic, si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpendicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravità. Questa no: piano piano si innalza lungo la tromba delle scale». Leggendo riconoscevo tutte le mie domande sul mistero, a cui Buzzati dava cittadinanza in me. Ma che cosa è il mistero?
Nel mondo antico i misteri (dal greco stare a bocca chiusa) erano riti iniziatici nei quali si entrava in contatto con il divino.
Con il cristianesimo vennero infatti chiamati misteri i sacramenti, per indicare come i cristiani entrano in contatto con Cristo, che è il mistero per eccellenza: l’unione di divino e umano nella stessa persona. Nel ‘900 il filosofo Gabriel Marcel ha chiarito la distinzione tra problema e mistero: il primo è ciò che non ha ancora soluzione, ma, se pur a fatica, sarà risolto, come i problemi matematici o pratici; il secondo è un orizzonte di verità, non possiamo risolverlo una volta per tutte, ma approfondirlo dà senso alla vita perché fa crescere l’anima che vogliamo avere, come di fronte al mistero del dolore o della morte.
La rimozione del mistero o la sua riduzione a problema, tipico dell’ebbrezza tecnologica (la morte sarà sconfitta, il dolore eliminato...) in realtà ci rende infantili. L’uomo maturo invece risolve problemi e rimane di fronte al mistero senza scappare. Così fece Buzzati, come scrisse il poeta e amico Eugenio Montale nel suo necrologio: «Tutta la realtà, la vita stessa, gli oggetti erano per lui segnali dell’altrove, erano una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi. E Dino poteva tranquillamente ostinarsi a bussare. E così fu per lunghi anni». Con la scrittura e la pittura l’autore bellunese continuava ad ascoltare il mistero, come fanno le anime semplici, proprio come accade con la goccia: «Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a segnalarla. Bensì una servetta del primo piano, piccola ignorante creatura. Se ne accorse a ora tarda, quando tutti erano già andati a dormire. Corse a svegliare la padrona. “Signora! C’è una goccia, signora, una goccia che vien su per le scale!”. “Che cosa?” chiese l’altra sbalordita. “Una goccia che sale i gradini!” ripetè la servetta. “Va’, va’” imprecò la padrona “Sei matta? Torna a letto! Hai bevuto, vergognosa!”».
Anche oggi, chi segnala e indaga il mistero, cioè tiene viva la domanda su Dio, sul destino, sul senso della vita, viene spesso preso per ingenuo, ubriaco o pazzo. Buzzati non rinunciò a questa indagine sino all’ultimo istante della sua vita, come il protagonista della sua opera più bella, Il deserto dei Tartari (1945), a torto ritenuta tragica da chi vuole ignorare il «misterioso» sorriso finale del protagonista. Infatti di quel libro Buzzati diceva: «È il libro della mia vita, perché quando stavo scrivendo capivo che avrei dovuto scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della mia morte».
All’inizio del mio percorso di insegnante di liceo raccolsi degli studenti, con i quali, un pomeriggio a settimana, leggevamo ad alta voce, nel teatro della scuola, dei racconti, senza interrogazioni. Lessi loro «La goccia». Furono così presi che decidemmo di metterlo in scena. Il pubblico ammutoliva come le persone del racconto che «di giorno» si fingono immuni da certe domande: «Al mattino del resto chi prende più questa storia sul serio? Al sole del mattino l’uomo è forte, è un leone, anche se poche ore prima sbigottiva... Che strana vita. E non poter far reclami, né tentare rimedi, né trovare una spiegazione che sciolga gli animi. Ma che cosa sarebbe poi questa goccia: — domandano con buona fede — un topo forse? Un rospetto uscito dalle cantine? No davvero. E allora — insistono — sarebbe un’allegoria? Si vorrebbe simboleggiare la morte? o qualche pericolo? e gli anni che passano? Niente affatto, signori: è semplicemente una goccia, solo che viene su per le scale. O più sottilmente si intende raffigurare i sogni? Le terre lontane dove si presume la felicità? Qualcosa di poetico? No, assolutamente. Oppure i posti più lontani ancora, al confine del mondo, ai quali mai giungeremo? Ma no, vi dico, non è uno scherzo, non ci sono doppi sensi, trattasi ahimè proprio di una goccia d’acqua che di notte viene su per le scale. Tic tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura».
Grazie a Buzzati ho imparato a non aver paura di aver paura, perché quando la fuggiamo perdiamo i suoi doni «misteriosi». Chi non ha paura della morte, del dolore, della solitudine, degli eventi inattesi... cioè di tutte «le gocce che salgono» nelle nostre notti interiori? Ma solo affrontando la paura si trova il coraggio, come ha fatto Buzzati, fino al pomeriggio di quello stesso giorno in cui aveva chiesto alla moglie di sbarbarlo: morì baciando un crocifisso, benché non si dicesse credente.
Ma chi è credente se non chi, aderendo alla realtà, continua a bussare alla porta del mistero sino all’ultimo istante?
Stato di grazia
Alessandro D'Avenia
Ho dedicato un’ora intera al primo appello del nuovo anno, chiedendo a ciascuno dei ragazzi la parola-guida per il 2022. La parola ci precede: l’abbiamo dentro e ci guida, ma solo se la nominiamo con precisione, perché faccia accadere ciò che segnala, altrimenti la vita possibile, in essa custodita, muore. Così il primo appello dell’anno è diventato un elenco di «sinonimi» dei loro nomi: Ricerca, Speciale, Coltivare, Scoperte, Aggiornamenti, Focalizzazioni, Armonia, Rinascita, Esplorazione, Emergere, Ritrovamento, Fruttuoso, Mongolfiera, Potenziamento, Diverso, Esperienza, Cambiamento... Parole che tradiscono quel «desiderio» di cui parlavo la settimana scorsa e che oggi vorrei approfondire.
Come fare a scoprire ed educare questo principio di animazione che ci abita e ci rende capaci di moltiplicare la vita in modo inedito e gioioso? Il desiderio autentico è una fonte celata in noi, da cui scaturiscono ogni pensiero, parola e azione nuovi e creativi, ma è spesso sepolto sotto i detriti di falsi desideri indotti dalla cultura dominante e dalle ferite che abbiamo, ma è solo l’acqua di questa fonte che ci porta alla terra promessa a ciascuno di noi. Il desiderio autentico lo si riconosce infatti perché è libero, originale, audace, fecondo, non mortifica mai la vita ed è capace di abbracciare fatica e impegno come materia del suo realizzarsi: chi vi attinge trasforma l’aridità di un campo in giardino. Il desiderio autentico ci porta a prendere posizione in favore di qualcosa per cui siamo disposti a dare (la) vita, un pezzetto di mondo per cui ci scopriamo insostituibili: è unicità realizzata, fatta carne. Ma come scoprire questa fonte per potervi attingervi costantemente?
Risponde alla domanda un personaggio che ho amato nel bel libro di W. Somerset Maugham, «Il velo dipinto», dicendo a Kitty, l’infelice protagonista: «Ricordati che compiere il proprio dovere non è nulla, e che non si acquista più merito, a compierlo, di quanto se ne acquisti a lavarsi le mani. La sola cosa che conti è l’amore del dovere; quando amore e dovere saranno tutt’uno in te, allora sarai in stato di grazia e godrai di una felicità che supera ogni comprensione».
Lo stato di grazia è la coincidenza di amore e dovere: quando si agisce per amore e per amare. Quando io studio, spiego, scrivo, anche se mi costa fatica, sono in stato di grazia, e quella fatica si trasforma in luce, come fa la dinamo di una bicicletta, perché su tutto prevale il sentimento di una vita piena di senso. Non mancano i momenti in cui sembra invece prevalere un dovere disgraziato (senza grazia), quelli in cui mi pare di fare le cose solo perché vanno fatte: la spesa, le faccende di casa, le riunioni... ma poi cerco il modo di portare l’acqua del desiderio anche in questi «campi», così da trasformarli in stati di grazia (faccio la spesa immaginando che cosa creerò e per chi, pulisco mentre ascolto un audiolibro, partecipo a una riunione provando a cercare soluzioni che alleggeriscano le fatiche altrui).
Siamo pronti a tutto se ci liberiamo dai desideri che crediamo nostri — li abbiamo interiorizzati a tal punto da crederli tali — e se ci mettiamo al servizio del desiderio autentico. I desideri falsi portano infatti in stato di «disgrazia», come dice perfettamente Mariangela Gualtieri in questi versi di «Quando non morivo»: «Questo giorno che ho perso
e che non ha fruttato
se non una mestizia, il puntiglio
del suo modesto mucchio
di faccende.
Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto».
Un giorno senza vero desiderio è vuoto.
Perché il fare sia pieno di grazia, la sua fonte (il desiderio) va liberata dal disamore e incanalata verso la terra che spetta a noi curare. Il desiderio autentico fa fiorire la nostra terra-vita, i desideri falsi invece la rendono sterile. L’educazione serve a liberare e far scorrere il desiderio autentico. Perché ciò accada, come suggerisce Massimo Recalcati, l’educatore è chiamato a: essere lui per primo testimone del desiderio autentico; far sentire il bambino/adolescente desiderato; costruire argini (l’esperienza dei limiti e dei no) perché il desiderio zampillante del bambino/adolescente non si blocchi o disperda (se repressa, l’energia dei portatori sani di desiderio diventa inevitabilmente distruttiva o autodistruttiva) ma si indirizzi al suo «campo»; non mettere chiuse (paura, mancanza di fiducia, aspettative soffocanti, controllo, sensi di colpa, indifferenza...) che fanno stagnare la pura acqua di fonte che la terra assetata aspetta da ciascuno dei nuovi.
Quest’acqua trasforma la terra in un giardino, quell’eden che troppo spesso crediamo di aver perduto, quando invece è solo da fare.
Invito a cena con Dostoevskij
di
Alessandro D’Avenia
Era un torrido pomeriggio di luglio del 1992 quando lo incontrai la prima volta. Avevo 15 anni e mi aggiravo per casa in cerca di qualcosa da fare. Neanche la televisione poteva lenire la mia noia, e così mi aggrappai a ciò che negli anni ‘90 era ancora un salva-gioia: i libri. Stavo percorrendo con lo sguardo il dorso dei volumi che avevamo in casa, quando in lettere d’oro su cartone blu vidi: «Delitto e castigo». Aprii la prima pagina, un’edizione ingiallita di inizio secolo e fittamente stampata che ho ancora, e lessi: «All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K». La coincidenza con il luglio torrido, la curiosità per il giovane (perché era indeciso?) e le iniziali per indicare luoghi da non svelare, mi portarono a sedermi - le parole avevano già avuto la meglio sul corpo - e a leggere di un ragazzo di nome Raskòl’nikov che si appresta a commettere un omicidio. In pochi istanti ero stato catapultato da un certo Dostoevskij, l’11 novembre ricorrono i 200 anni della sua nascita, in una trama sinistramente coinvolgente. Così inizia la mia storia con lui, come raccontavo qualche sera fa a degli amici che mi avevano invitato a cena proprio per parlare di Dostoevskij. Ma perché volevano rovinarsi la squisita cena a quel modo e perché proprio lui mi catturò a 15 anni (divoravo libri fantasy e fumetti, non certo mattoni russi)? Perché certi autori ci prendono per mano e ci accompagnano per tutta la vita?
Amiamo gli artisti che ci svelano la ricerca che noi stessi, a nostra insaputa, stiamo facendo. Ogni opera d’arte è il tentativo dell’autore di darsi una forma dando una forma a qualcosa. Il nostro vivere non va verso la morte ma verso una nascita sempre più piena, siamo esseri incompiuti e chiamati a nascere ogni giorno di più, per questo non possiamo fare a meno della bellezza, l’ostetrica della vita rinnovata. Alcune opere ci fanno nascere di più, perché l’autore si è (ri-)creato, (ri)creando, nel modo di cui abbiamo bisogno proprio noi. Per questo non ho più lasciato Dostoevskij, perché il suo sguardo sulle cose era quello di cui avevo e ho sempre bisogno: la passione per l’uomo e quella per Dio. Lo scrittore russo non esclude mai il divino dalla realtà, nella quale il divino si mostra a chi ha occhi attenti: Dio si manifesta nel quotidiano solo a chi lì lo cerca. Inoltre nei suoi romanzi la presenza delle domande che chiamo «irrispondibili» mi faceva sentire preso sul serio nelle mie inquietudini, perché è proprio l’inquietudine (il gioioso dramma della libertà che mi porta a rileggere spesso la Leggenda del grande inquisitore contenuta nei Fratelli Karamazov) ciò che rende l’uomo un uomo: che ci devo fare con questa vita? Mi affascinava che in me ci fossero così tante cose e che qualcuno mi aiutasse a vederle e abitarle, senza dover fuggire o sentirmi strano: io volevo vivere all’altezza di quelle domande, anche se irrisolvibili, a costo di tenerle vive sino all’ultimo istante, perché quel domandare è già pregare, ricevere, trovare. E poi amavo i suoi personaggi, così imprevedibili e contraddittori: liberi. Anche io ero corpo, cuore, ragione, desideri... e non riuscivo a mettere insieme «tutte queste cose», ma per la prima volta qualcuno mi raccontava che l’uomo è questa complessità, una complessità che non potrà mai armonizzare se non grazie a una presa di posizione radicale. Come la esprime padre Zosima nei Karamazov: «Amate l’uomo anche nel suo peccato, giacché proprio questo è l’amore divino e la forma suprema dell’amore sulla terra. Amate l’intera creazione come ciascun granello di sabbia. Amate ogni fogliolina, ogni raggio divino. Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa. Se amerete ogni cosa, in ogni cosa coglierete il mistero di Dio. E una volta che lo avrete colto, lo comprenderete ogni giorno di più. Arriverete, finalmente, ad amare tutto il mondo di un amore totale». Questo è il mio inno di libertà.
Grazie a Dostoevskij so che la libertà è il mio compito, posso dare alla vita la forma dell’amore o quella del potere, moltiplicarla o dominarla, come fanno i suoi personaggi in base a quel che scelgono: o Dio (ricevere vita per darla agli altri) o l’orgoglio (darsi la vita togliendola agli altri). Ogni pagina mi dice chi sono: voglio amare ed essere amato, infinitamente, ma non so come fare o non ci riesco, eppure, non rinunciando a questo desiderio impossibile, trovo l’Amore e l’amore dove non cercavo o dove non sospettavo che fosse, come vidi accadere, quindicenne, all’assassino e alla prostituta di Delitto e castigo: «Li aveva risuscitati l’amore, il cuore dell’uno racchiudeva infinite fonti di vita per il cuore dell’altro». Mi fa sperare. Ha 200 anni, ma è più vivo di me.
L’arte di ritrovarsi
di Alessandro D'Avenia
Beyhan Mutlu, 50 anni, passa un’allegra serata di festa nella cittadina di Inegöl in Turchia, quando torna in strada è ubriaco e si dilegua nel bosco vicino. Non vedendolo tornare i familiari avvertono la polizia che comincia a cercarlo. Si uniscono diversi volontari per battere la selva dove l’uomo s’è smarrito. Dopo averlo chiamato per ore, finalmente dalle tenebre una voce: «Sono qui!». Proviene dal gruppo di cercatori. Beyhan, in preda alla sbornia, s’era arruolato tra i volontari per cercare... se stesso.
Questo recente fatto di cronaca rappresenta per me il percorso di ogni vita umana. Ci si smarrisce in una selva oscura, in preda a ciò che per Dante è un sonno, cioè la dimenticanza di sé in cui scivoliamo se, imprigionati da routine, infelicità o menzogna, viviamo «a nostra insaputa»: storditi, anestetizzati, spenti.
Ma noi veniamo alla luce solo quando ci cerchiamo e siamo cercati: Dante, perso nelle tenebre, inseguendo la luce trova infatti Virgilio, che è già lì, mandato da Beatrice, per guidarlo in un cammino di rinascita (nell’ultimo canto del poema, alla fine del viaggio, si paragona a un bambino che beve il latte dalla mammella materna).
Per ritrovarsi bisogna lasciarsi trovare, che non è rimanere inerti ma muoversi in profondità (verso sé) e ulteriorità (verso l’altro). E come si fa? L’essere umano non nasce una volta per tutte, come gli animali, autosufficienti, grazie all’istinto, già poco dopo il parto.
l’altro). E come si fa? L’essere umano non nasce una volta per tutte, come gli animali, autosufficienti, grazie all’istinto, già poco dopo il parto.
Noi ci mettiamo tutta la vita a nascere, perché siamo esseri incompiuti: non abbiamo l’istinto ma il desiderio, non la necessità ma la libertà. Siamo per questo chiamati a «rinascere», che non è nascere di nuovo ma farlo sempre più intensamente (il ri- non indica qui l’iterazione dell’azione, come in ritentare, ma la sua intensità, come in risvegliarsi).
Per rinascere non si deve quindi rientrare nel grembo, ma farsi grembo, cioè accettare la vita che ci è capitata e darla alla luce ogni giorno un po’ di più. Dante dice «mi ritrovai per una selva oscura»: mi piace interpretarlo non solo come l’esserci finito quasi senza saper come, ma anche come l’aver «ritrovato» se stesso grazie alla selva.
Ma che cosa vuol dire «perdere» e «ritrovare» se stessi? Perché usiamo una metafora adatta soprattutto agli oggetti? Cerchiamo di descrivere l’indescrivibile, ciò di cui non abbiamo ricordi ma una memoria incisa nella carne: il parto. Quando abbiamo perso la protezione del grembo, ci siamo sentiti perduti. Perdersi è abbandonare una calda sicurezza che alla lunga ci soffocherebbe: infatti sentiamo di dover venire alla luce, una vita più vera spinge forte in noi, anche se il passaggio è angoscioso (aggettivo che viene appunto dal latino angustus, stretto).
Chi deve venire alla luce deve «perdersi», uscendo dalla strettoia, e «ritrovarsi», nascendo un po’ di più: è «più nato», viene di nuovo al mondo, nel senso che va verso la realtà in modo nuovo e felice. Ma perché tutto questo accada, a differenza del primo parto, dobbiamo sceglierlo. Siamo tempo incarnato e ciò che decidiamo di fare nel tempo genera in e fuori di noi più o meno vita: ri-nascere o dis-nascere.
L’uomo non è reattivo come gli altri animali, immersi in un continuo presente, ma attivo: scegliendo e agendo, modella il tempo e quindi se stesso, cioè si dà forma. Michelangelo levava il superfluo dal marmo per arrivare all’essenziale, e nell’arte di vivere siamo sia lo scultore sia il marmo: ri-nascere è andare verso l’opera d’arte di sé. Ma la pietra per ricevere una «forma» deve essere «fragile» (da frangibile, che si può spezzare) e lo scultore coraggioso, e questo ha un prezzo: fragilità e mancanza di forma provocano angoscia. Così a volte preferiamo restare informi, senza libertà, pur di non sentire la paura di non essere abbastanza: il conformismo si nutre di questa paura, ci toglie la sana inquietudine della nascita. Ma evitando i dolori di parto della scelta, rinunciamo a venire alla luce e al mondo, a una vita più vera, «più nata».
Vedo ragazzi «nati poco», perché non scelgono, come se decidere significasse solo perdere marmo, e non liberarsi come cercano di fare i Prigioni michelangioleschi. Agostino scrive: «Chi ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te», per lui la libertà umana è limite persino per Dio. Chi non sceglie, come un bambino che non sa rinunciare a nulla, non si salva, non rinasce. Lo stallo della libertà è mancanza d’azione: alleniamo i ragazzi a «esercitare» la libertà o scegliamo per loro? Che cosa gli affidiamo perché ne siano creativamente responsabili? Solo facendoli scegliere provochiamo l’incontro con se stessi in cui, nonostante il dolore, provano gioia a partorirsi, scolpendo il blocco informe e nascendo un po’ più opera d’arte, come l’uomo ritrovato nel bosco, perché «cercato» e «cercante» al tempo stesso: «Sono qui» significa infatti «Sono vivo, sono rinato».
Dove sono i tuoi occhi
Alessandro D'Avenia
Più di duecento occhi di bambini puntati su di me aspettavano che rivelassi loro come si scrive una storia, quaderno e penna impugnati come armi. Dovevo tenere una lezione alle quinte elementari della scuola dove insegno, in occasione del concorso di narrativa che coinvolge tutte le classi, dalle elementari alle superiori. Come innescare il desiderio di scrivere un racconto sulle «radici», tema di quest’anno? Ogni scrittura comincia dalla meraviglia, per provocare la quale serve fare quelli che chiamo «esercizi di rispetto». Rispetto viene dal latino re-spicere: guardare più volte (avere ri-guardo), con attenzione; il contrario è dispetto, da de-spicere, guardare dall’alto in basso, disprezzare. Lo sguardo non è mai neutro: o «rispetta» o «dispetta». Nel primo caso genera «in-contro», la vita personale viene arricchita da ciò che accoglie, lo sguardo diventa l’interruttore che accende le cose che così si e ci illuminano. Nel secondo caso c’è solo «scontro», urto fugace di vite: sia le cose sia noi rimaniamo al buio, indifferenti. Ho invitato i bambini al silenzio, condizione del rispetto (niente può «venire alla luce» senza avere prima un grembo), per ri-cordare (mettere nel cuore) tutte le radici che conoscevano, e poi descriverle con precisione, perché, come scrive Dostoevskij: «La realtà ha una profondità tale che non si trova neanche in Shakespeare, basterebbe avere gli occhi e la forza di penetrare fino in fondo l’avvenimento». Occhi e profondità: sguardo e coraggio di andare «fino in fondo».
Nei bambini, ancorati alla vita-tutta-intera, gli occhi sono ancora capaci di rispetto e quindi di illuminare le cose perché «avvengano» (vengano a noi): «le radici sono una rete», «alcune si mangiano», «puzzano», «non si vedono», «sono forti», «si fanno strada sempre», «danno vita»… Per ogni «scoperta» ipotizzavamo una storia ispirata al «punto di vista» di ogni bambino. Adesso l’immaginazione, attivata dall’incontro con la realtà, doveva portare a termine la ricerca, con la scrittura: la meraviglia ha due momenti, uno di ricezione, concepisce, e uno di azione, partorisce. Oggi però incontrare cose e persone è difficile, non tocchiamo più direttamente la stoffa della natura o la carne delle persone; il silenzio, il corpo, i cinque sensi sono quasi spariti. Percepiamo l’ambiente, da amb-ire: andare intorno, senza andarci, ma attraverso uno schermo che (lo dice la parola) ci protegge dalle cose e dalle persone che contattiamo. La ricerca «We are social 2019» ha rilevato che in Italia passiamo 6 ore al giorno in rete, 2 sui social, 3 con la tv (broadcast, streaming, on-demand). La nostra vista, e quindi la nostra vita, è dispersa, come urla Nada in una recente canzone (ed efficace video): «Dove sono i tuoi occhi?». La riconquista degli occhi smarriti è sfida educativa prioritaria per noi adulti e, solo dopo, per bambini e ragazzi.
48. Dove sono i tuoi occhi?
Ma che cosa comporta «rispettare», avere occhi, per qualcosa? Suscitare la vita che ha da donare. Non basta imbattersi (letteralmente «scontrarsi») in qualcosa o qualcuno, anonimo meccanismo di azione e reazione. Per incontrare occorre invece accogliere volontariamente cose e persone, lasciarsi sedurre dalle loro particolarità; perché ci sia incontro, bisogna impegnare la propria libertà e il proprio tempo, cioè quell’attenzione che il poeta Paul Celan definiva «la preghiera spontanea dell’anima» e, senza la quale, smettiamo, prima, di meravigliarci, e poi, di amare. Sì, di amare. Incontrare qualcosa o qualcuno infatti spinge a prendere posizione nei suoi confronti: una volta percepita la vita unica che ha dentro, non possiamo rimanere in-differenti (chi appunto non coglie le differenze). Prendere posizione è l’inizio dell’amore per l’altro, ci sentiamo «toccati» dal suo valore e il nostro cuore «si apre». Questo non è garantito con ciò che è dietro uno schermo: non è incontro, ma una preparazione («virtuale» non vuol dire falso o irreale, ma potenziale), che può portare a un incontro vero e proprio. L’incontro avviene solo nello spazio-tempo del rispetto: siamo, qui e ora, un tu e un io e io non mi aspetto nulla da quella cosa o persona, ma ne amo la semplice presenza. In rete non cerchiamo l’altro da noi, ma l’altro per noi, per divertirci e rilassarci; l’incontro invece è cogliere l’unicità corposa della presenza, proprio perché non ci aspettiamo nulla, come accade ai poeti: si allontanano da sé per ritrovarsi nello stupore per l’altro. Non impongono se stessi ma servono la vita che tutti diamo per scontata, la guardano da amanti ed essa corrisponde: dalle creature del Cantico di Francesco alla Ginestra di Leopardi. Dimenticano se stessi e si ritrovano accresciuti dalla vita a cui si sono aperti. Il rispetto è sguardo poetico, non possiede ma riceve, fa un passo indietro per avere più orizzonte: Cézanne si faceva bastare una mela per svelare il mondo intero. Vivere è l’arte di riceversi da quel che incontriamo, mettendo in gioco la nostra vita, il contrario del giocare con la vita altrui, cercando nello «specchio-schermo» la nostra immagine proiettata su tutte le superfici che contattiamo.
I nemici dell’incontro sono quindi Abitudine, Indifferenza, Pienezza di sé, Pregiudizio, Comodità, che spengono la vista e quindi la vita. Senza cambio di centro di gravità, che è il rispetto, non incontriamo nulla. Entriamo in «connessione» con milioni di cose, ma di nessuna «sentiamo» la vita: tocchiamo (lo schermo è touch) senza essere toccati, e la nostra vita interiore, apparentemente gravida, è soltanto gonfia. Una cultura senza «rispetto» è fatta di anonimi in lotta fra loro per farsi un nome più grande. L’incontro invece ci permette di ricevere quel nome: «Quando tu mi hai scelto/- fu l’amore che scelse -/sono emerso dal grande anonimato/di tutti, del nulla», come scrive Pedro Salinas. Dare il nome è entrare in relazione con le cose e amarle: dirle bene è bene-dirle, dirle male è male-dirle, come sanno bene i poeti, e tutti coloro che non scappano dalla realtà.
Ne ho avuto conferma recentemente da un 14enne milanese. La sua classe è andata in viaggio in Sicilia e, avendo letto il mio Ciò che inferno non è, una delle tappe sarebbe stata nel problematico quartiere palermitano di Brancaccio. Erano preparati a non ridurla a una «visita» ma una «vista», cambio di sguardo. Così è stato durante «l’incontro» con i bambini del quartiere, tanto che il ragazzo ha voluto raccontare a un insegnate che cosa gli era accaduto fissandone uno: «Gli occhi mi si sono fermati su quell’anima: l’espressione sicura lo faceva sembrare più grande di me, ma lo sguardo non osava incrociare il mio, aveva timore. Nonostante l’espressione adulta, provava vergogna nel guardarmi negli occhi. Nelle pupille non riuscivo a vedere i sogni di un bambino. Io e lui due persone uguali, ma una fortunata e l’altra non abbastanza. Mi è passato per la testa il pensiero di lui che partiva con i miei compagni al posto mio ed io rimanevo lì a Brancaccio. Il suo ricordo andrà sparendo dai miei pensieri presi da inutili cose? Ho visto il fiore che cresce nella pietra, la luce che si fa strada nel silenzio, la vita che i bambini cercano. Ho capito che l’uomo può essere crudele privando qualcuno della vita, ma anche buono salvando la vita di qualcuno dedicando la propria». È la descrizione di un incontro che lascerà il segno nella memoria perché, quando si affronta la realtà si esce dall’in-differenza, si cresce e si diventa vivi. L’incontro è un cambio di sguardo in cui l’io diventa tu e il tu io: i legami tra le cose e le persone, prima nascosti, diventano evidenti, e in quanto legami «sentiti» ci impegnano, se vogliamo, a difendere e accrescere la vita accolta. L’indifferenza dei ragazzi per lo studio (o altro) riflette il mancato «incontro» con autori e scoperte, incontro che accade solo se siamo noi adulti i primi testimoni dell’accrescimento di vita ricevuto da quegli autori e quelle scoperte. La vita si contagia con la vita, non bastano i programmi e le regole. Solo chi sente la vita ne scopre le incrollabili radici d’amore, e vuole proteggerle e coltivarle in sé e negli altri. È un esercizio che imparo nel fare con calma l’appello mattutino: incontro o mi scontro con i volti? (Confesso però che se non ricevessi su di me questo sguardo, da Dio, familiari e amici, non potrei mai accordarlo ad altri).
Per liberare l’ego dalla prigione del «dispetto» e del «disamore», il letto da rifare oggi è proporsi almeno un «esercizio di rispetto» al giorno, fissando l’attenzione su una «vita» (anche la nostra) che abbiamo sotto gli occhi per incontrarla, fino a sentire il peso luminoso della sua unicità per poi difenderla e accrescerla. Basta chiedere a chi abbiamo vicino ogni giorno quale sia la sua gioia o il suo dolore più grande; prendersi cura di una pianta; chiedere «come stai» e ascoltare la risposta senza interrompere; leggere una poesia; pregare; camminare senza cellulare e senza meta se non tutto ciò che incontriamo; toccare la corteccia di un albero; osservare un volto durante una chiacchierata, tenendo spento il telefono… Rispetto: fare un passo indietro, prestare attenzione, nel silenzio aprirsi, per ricevere la presenza corposa di cose e persone, senza scappare per paura di lasciarsi ferire. Potrebbe allora accadere un incontro. Persino un amore. Dove sono i tuoi occhi?
Algofobia
La Verità fatta carne
Alessandro D'Avenia
«Caro Alessandro, non ci conosciamo. Ho 19 anni e ho letto il suo ultimo libro: L’Appello. Mi ha aiutato a riflettere perché, come Omero Romeo, ho una malattia genetica che col tempo mi renderà cieco. Non si sa tra quanto, ma si sa che quasi sicuramente quello sarà il decorso. In Omero mi sono ritrovato: nella disperazione dell’essere cieco, nello stupido pensiero di essere un “peso” per gli altri, ma anche nella forza con cui va avanti, e per amore va oltre il suo limite, io perlomeno ci sto provando. Sono stato provocato rispetto al modo in cui sto “combattendo/reagendo” alla malattia, di fatto non ci stavo davanti e non facevo niente per preservare la vista. Volevo ringraziarla perché penso che se non fosse stato per lei non avrei cominciato un cammino per accogliere questa mia caratteristica, o almeno ci sarei stato molto più tempo».
Queste righe di (lo chiamerò) Andrea, ricevute qualche giorno fa, mi confermano quanto annotò lo scrittore C.S.Lewis nel suo libro più sofferto e bello, scaturito dal dolore per la morte della moglie: «Avevo pensato di poter descrivere uno stato, di fare una mappa del dolore. Invece ho scoperto che il dolore non è uno stato, ma un processo. Non gli serve una mappa ma una storia. Ogni giorno c’è qualche novità da registrare... come una lunga valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio del tutto nuovo» (Diario di un dolore).
In una cultura che rimuove il senso del dolore, questa è una sfida educativamente urgente, perché la sofferenza più grande è la nostra resistenza alla sofferenza stessa, che da «estranea» può invece diventare prima «messaggera», poi «levatrice» e infine «noi stessi».
Se è vero che il pensiero nasce dallo stupore, è altrettanto vero che scaturisce anche dal dolore, uno smarrimento che, come la meraviglia, obbliga a fermarsi e rispondere al suo appello (Andrea dice «provocato» e «starci davanti»).
Eppure il dolore oggi sembra privo di senso, come mostra lo spaesamento interiore causato dalla pandemia. Per questo il filosofo Byung-Chul Han, in La società senza dolore, definisce la nostra cultura «algofobica»: terrorizzata dal dolore, fino alla paralisi. Se il concetto di vita si riduce all’ambito biologico e quindi medico, vita coincide con la salute e dolore con il male. Ma il dolore, da una piccola ferita a un lutto, è invece ciò che fa fare «esperienza della vita», impariamo a «sentirla» e «curarla»: quando soffriamo, infatti, scopriamo non solo di avere ma di essere un corpo. Medicina e tecnica promettono l’estinzione del dolore, ma ciò implica anche una certa estinzione dell’esperienza: nella mia vita sono stati i momenti di sofferenza, mia e altrui, a rivelarmi chi sono e in cosa credo.
Lungi da me il «dolorismo»: i dolori, al plurale, che si possono eliminare o lenire vanno eliminati o leniti, ma «il dolore», al singolare, è condizione dell’esser mortali e cammino per diventare se stessi. Trattare il dolore solo come difetto di una macchina biologica fa perdere la capacità di trasformarlo in risorsa.
Per poterla «sfruttare» (far sì che dia frutto) serve però ampliarne il significato oltre il biologico/medico (malattia) e restituirlo all’esistenza integrale (vita): questo gli dà senso, non lo rende scandaloso ma raccontabile, lo trasforma — dice Lewis — in storia. Ma può essere «accolto» come seme e «raccolto» come frutto solo se entra nel solco interiore, diventa carne nostra.
Il dolore è vita che vuole guarire, non sofferenza insensata: come la perla è la cicatrice della ferita inferta all’ostrica da un predatore, il dolore è una verità che chiede attenzione e cura. Quando un bambino si ferisce, il genitore accarezza la parte dolente e gli racconta una storia. Il dolore invoca legami e parole: non è solo «da contare», come abbiamo fatto nella pandemia con i dati dei contagi, bensì «da raccontare», cioè fonte di senso e azione. Il racconto di una cecità feconda ha permesso a un ragazzo di 19 anni, che probabilmente diverrà cieco, di accogliere una verità rimossa per paura e mancanza di prospettiva.
Quella scomoda verità forse potrà farsi carne, cioè vita, e lui non sentirsi un peso, ma avere (un) peso. Il dolore, suggerisce Han, è l’ostetrica del nuovo, fa ri-nascere, cioè fa nascere fino in fondo la nostra unicità: è levatrice di originalità. Non possiamo privare i ragazzi — non a caso definiti «la generazione fiocco di neve» per come li iper-proteggiamo da cadute, lutti e fragilità — né del dolore né del codice simbolico per aprirsi alla sofferenza come cammino verso il nuovo e verso l’altro, altrimenti li consegniamo alla paralisi della paura e dell’indifferenza.
Noi per primi siamo chiamati a dare un significato alla sofferenza: che senso ha e ha avuto per me? Chi mi fatto diventare? Che capacità di amare mi ha dato? Non voglio dare loro analgesici esistenziali, ma una verità fatta carne.
Respiro,canto,vivo!
La vita è una Commedia
Alessandro D’Avenia
Vi manca il respiro? Vi sentite in esilio? Leggete Dante ad alta voce. Nella mia scuola ideale la Commedia si legge integralmente ogni anno. È il regalo che vorrei fare a Dante per i 700 anni (martedì) dalla sua «presunta» morte, lui che è più vivo di me tanto da poter dire che non sono io a leggere lui ma lui a leggere me, perché dopo sette secoli continua a dirmi che il cuore dell’uomo è inferno, purgatorio e paradiso, che poi significa che all’inferno, in purgatorio o in paradiso non ci si va, ma ci si è. Chi non ascolta Dante ha meno occasione di esser felice, perché, come lui stesso scrive della Commedia: «Il fine generale dell’opera è distogliere coloro che vivono in questa vita da uno stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità». In «questa» vita, dice. Ecco allora la mia proposta. Un anno scolastico (ma vale anche per chi a scuola non va) dura 200 giorni, i canti sono 100. Basta leggerne uno ogni due giorni alla prima ora, qualunque sia l’insegnante coinvolto (in media un canto è lungo 140 versi e richiede 10 minuti di lettura ad alta voce): 10 minuti ogni due giorni per ascoltare Dante (15 ore). Non vi preoccupate delle note a pie’ di pagina ma di quelle musicali: Dante ha scritto «canti» che ci guariscono dai nostri «disincanti». La poesia prima di essere capita va respirata, perché tocca, come la musica, l’emisfero del cervello che accoglie le emozioni che permettono alla mente di accendersi e svilupparsi mentre apprende: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra», scriveva Agostino, anticipando di secoli le scoperte della neuroscienza.
La Commedia va ascoltata prima che capita, come il Requiem di Mozart o Yesterday: li viviamo prima di capire le parole, perché dicono una verità carnale, che abbraccia (comprendere in latino significava abbracciare) tutto l’essere, non solo la mente. I nostri bisnonni sapevano a memoria la Commedia anche se analfabeti: la comprendevano anche senza note a pie’ di pagina. Se ne lasciavano impregnare (comprendere significava anche rimanere incinta) come da una musica che dava senso a caos e fatica. Perché? È scritta in endecasillabi, il verso cardine della poesia italiana grazie ai suoi accenti musicali. Nel mezzo del cammin di nostra vita: tutti lo sanno a memoria (potere del ritmo). L’endecasillabo ha reso l’italiano una lingua elegante con una vocazione al canto e alla musica (come la precisione del tedesco ha per vocazione la filosofia). Dobbiamo restituire all’endecasillabo il suo potere magico, la capacità di «reincantare» il quotidiano. E di endecasillabi è piena la vita di tutti i giorni: dai proverbi («Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare») ai divieti («È vietato parlare al conducente») passando per i titoli di giornale («Che cosa abbiamo perso con la Dad?»). Questo dna musicale dà a noi italiani la respirazione giusta, perché l’endecasillabo asseconda perfettamente il ritmo naturale della respirazione (come fosse una forma di meditazione). Provate a leggere con calma (e magari imparare a memoria) i versi di Dante, anche senza capirli, ma seguendone il ritmo: non proverete affaticamento, anzi a poco a poco vi rilasserete. Sono i benefici di una respirazione accurata, liberata dalle tensioni continue della prosa quotidiana, come avviene in una preghiera. Se leggete Dante così, dopo qualche canto, anche se ancora non «capite», dentro di voi «comprendete»: «accadono» suoni, parole, pensieri, sentimenti... come avviene con la musica che Dante stesso, nel Paradiso, definisce un «rapimento» che precede il capire le parole: «E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/ s’accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno». Vi sentirete rapiti e pacificati, anche se non sapete ancora chi è Manfredi o che cosa rappresenta la lupa. Queste domande le soddisferete dopo (per questo con Franco Nembrini e Gabriele Dell’Otto abbiamo da poco pubblicato una Commedia che mira a far «vivere» Dante).
Leggere la Commedia a voce alta (o ascoltarla: io lo faccio andando in giro) è un esercizio di gioia per l’ospitalità che la nostra lingua madre ha da offrire. Dante, che era disperato, scelse di mettere il volgare in musica, perché tutti, con lui, trovassimo casa in una lingua in cui poteva (vorrei fosse ancora possibile) inventare verbi come «intuarsi» per indicare l’unione con l’amata. Ingiustamente esiliato cominciò a scrivere i suoi «canti» dopo aver perso tutto: famiglia, averi, città e dignità... Dovette elemosinare riparo, e intanto «cantava» per ritrovare il respiro e la pace. Era un morto in vita ma, in 100 canti, riebbe la vita in vita (e dopo anche in morte). E lo fa anche in noi: ci apre una via al paradiso proprio quando siamo smarriti. Respirate, cantate - ripete - la vita è una Commedia.
Fedeltà
Carlo Molari
Essere fedeli è un esercizio di fede continuato nel tempo.
Fedele è colui che è costante nella dedizione e nell'amore, che mantiene la parola data, che trasmette senza deformazioni i doni ricevuti, che segue anche nei momenti difficili gli ideali ritenuti autentici.
Tutti siamo pronti a fare propositi, ad assumere impegni, ad enunciare promesse. Ma raramente siamo costanti nella loro attuazione. Perché troppo spesso le ragioni reali delle nostre scelte non corrispondono ai valori che pensiamo o diciamo di seguire.
Esaminiamo un esempio concreto. L'impegno che una persona assume nel matrimonio è di volere il bene del coniuge e dei figli, di farli crescere con la propria dedizione.
Molto spesso però le ragioni vere della promessa sono diverse: o l'attrattiva fisica e quindi il piacere, o la volontà di sistemarsi e quindi il proprio interesse, o la fuga da casa e quindi la propria libertà, o la ricchezza, e quindi il proprio benessere, o altro ancora.
Quando l'oggetto reale della scelta matrimoniale non coincide con il bene altrui l'infedeltà all'impegno preso prima o poi si manifesta. Essa in realtà caratterizza fin dall'inizio il rapporto ma resta mascherata finché non è messa alla prova.
Lo stesso può dirsi di tutti gli impegni umani: di lavoro, di amicizia, di famiglia, di sport, di appartenenza a una comunità civile. Tutti richiedono fedeltà non solo nei comportamenti, ma pure nelle ragioni che li ispirano.
La ricchezza di una comunità si regge sul grado di fedeltà che vi circola, oltreché sull'autenticità degli ideali proclamati.
È urgente che siano sempre più numerosi coloro che per fedeltà alla vita sappiano piegare il loro egoismo, vincere i loro istinti di possesso esclusivo, creare nuovi modelli di condivisione e di solidarietà.
Se vogliamo che la vita si sviluppi proviamoci tutti, amici, a essere oggi fedeli agli ideali in cuí crediamo: nelle piccole cose, nelle scelte di ogni momento.
La fedeltà non si misura dalla eccezionalità degli atti che compiamo, ma dalla adesione totale alle ragioni che li ispirano. Essa può essere incondizionata anche in un minimo gesto di amore.
Una giornata degna dell'uomo è sempre scandita da gesti di fedeltà.
Fede
Carlo Molari
Non c'è uomo, infatti, che non abbia una fede, se riesce a vivere.
Per fede si intende quel complesso di ideali che ispirano le nostre scelte e orientano tutta l'esistenza.
Ognuno di noi per vivere deve necessariamente formulare progetti, percorrere cammini ignoti, rinnovare impegni. Ma per farlo è necessario che si riferisca a valori accolti senza riserve, che abbracci ideali non ancora pienamente verificati, che eserciti una fede.
E ciò avviene inizialmente sempre sotto l'influsso di testimoni: dei genitori, degli amici, dell'ambiente sociale.
Ma per tutti deve giungere il momento in cui le scelte, compiute per testimonianza di altri, diventano soggettive, coinvolgono cioè senza riserve la persona intera e ne orientano l'esistenza.
Finché ciò non avviene, la vita si svolgerà tra entusiasmi ed incertezze, risposte e rifiuti, speranze e delusioni.
Senza ideali personalmente accolti la vita è frammentaria e inquieta, si svolge in balia degli eventi e dell'ambiente.
Ci sono due tipi diversi di fede: quello ateo e quello religioso.
La fede religiosa si differenzia per il fatto che il complesso dei valori abbracciati sono creduti presenti e pienamente realizzati in Dio.
La fede atea invece si esercita verso valori creduti al futuro. Si crede a una società da realizzare, a un programma che porterà felicità o ricchezza, a un avvenire migliore che rende sopportabile un penoso presente.
La differenza è molto rilevante ma praticamente non ha spesso incidenza perché, anche se molti sono convinti che Dio esista, sono pochi quelli che vivono la fede in Dio, cioè che prendono le loro decisioni nella 'propria vita perché si fidano di Lui, che vogliono il Bene anche quando non c'è nessun'altra ragione di amare se non il fatto che confidano in un Bene già presente e a disposizione dell'uomo. E così ricercano la Verità, si impegnano per la Giustizia, credono nella Vita.
Proviamo oggi a compiere anche un solo gesto per fede, abbandonandoci senza riserve al Bene che ci sollecita ad amare, alla Verità che vuole esprimersi attraverso noi, alla Vita che vuole tradursi in forme nuove. Forse inizieremo un nuovo modo di esistere. E soprattutto scopriremo che cosa significhi aver fede in Dio.
Amicizia
Carlo Molari
L'amicizia è una di quelle parole che ciascuno usa secondo la propria esperienza. Ma come di tutte le cose preziose, anche dell'amicizia circolano molti falsi, spesso inconsapevoli.
Prima di essere un rapporto, l'amicizia è un atteggiamento interiore, è un modo di essere persone, è una maniera di incontrare altri. Quando, crescendo, una persona avverte l'esigenza di allargare i suoi rapporti, porta dentro di sé una sete profonda dí possesso, una cronica insufficienza vitale. Sicché i primi rapporti che stabilisce sono caratterizzati da una tipica esigenza di disporre degli altri a proprio favore. Non sa ancora dire: io ti voglio bene, ma solamente: io ti voglio.
La differenza non è secondaria, anzi è molto profonda. Chi dice « io ti voglio » o « tu sei mio », dichiara una volontà di possesso distante dall'amicizia come la brezza dell'alba nelle montagne lo è dall'asfissiante caldo dei tropici. Solamente chi sa dire realmente « io ti voglio bene », cioè voglio per te un bene che ancora non possiedi, ed è disposto a offrire il suo tempo, le sue conoscenze, il suo impegno, la sua vita perché possa acquisirlo, solamente costui sa percorrere i sentieri dell'amicizia.
L'amore nasce come forza obbligata e come stato di necessità. Solo quando fiorisce come scelta gratuita e capacità di offerta, solo quando si traduce in gesti di delicata attenzione, di premurosa cura, di rispetto generoso, acquisisce i tratti dell'amicizia.
L'amicizia è la perfezione dei rapporti amorosi, è la gratuità delle relazioni, la disponibilità integrale alla presenza altrui.
Anche fra due coniugi, come fra genitori e figli, o fra compagni di lavoro, il rapporto, in qualsiasi modo sia nato, finché non fiorisce in amicizia, è carente e facilmente si consuma. La ricchezza umana di una società si misura dal grado di amicizia che caratterizza i rapporti medi delle persone. Una comunità guidata dall'interesse, o dall'arrivismo non è sana e prima o poi viene dilaniata dalla violenza che ha coltivato nel suo seno.
Proviamo oggi, amici, a rivedere i rapporti che viviamo. Non diamo per scontato nessun amore che proviamo. Esso esige di fiorire in forme di amicizia. Programmiamo un gesto gratuito che abbia come unica ragione il Bene che diciamo di volere agli altri.
Questa sera ci ritroveremo tra le mani in modo insospettato il dono che abbiamo fatto.
Tenerezza
Carlo Molari
Non solo la vita individuale acquista caratteristiche diverse secondo la maturazione raggiunta, ma anche l'umanità intera, i popoli hanno stili diversi di esistenza secondo la ricchezza umana acquisita.
In altri millenni, ad esempio, la forza fisica era considerata una qualità superiore e le arti marziali erano le più stimate in molte società. Ci sono voluti millenni per comprendere che queste concezioni riflettevano situazioni ancora infantili di esistenza, immaturità psicologica, inconsistenza interiore.
Allo stesso modo le forme di associazione e di convivenza nelle diverse società hanno assunto forme varie secondo la progressiva maturazione personale.
Le organizzazioni mafiose o la contrapposizione radicale di clan o di gruppi sociali riflettono ancora modalità di esistenza del passato, caratterizzate dalla violenza e dall'incapacità di rispetto altrui.
Una virtù segna oggi il discriminante della maturazione storica dell'umanità: è la tenerezza. Disprezzata in altri tempi, oggi assume una funzione fondamentale nella impostazione dei rapporti e nello sviluppo della comunità. Per questo le forme di crudeltà nei confronti dei fanciulli o il disprezzo dei più deboli oggi suscitano reazioni sempre più ampie.
Non sono certo scomparse le forme di crudeltà, perché ogni uomo comincia da capo il suo cammino e non sempre raggiunge le forme acquisite dal progresso storico. Ogni generazione che nasce ha un cammino più lungo da percorrere prima di assestarsi come generazione adulta nel suo tempo. Vi saranno sempre quindi uomini immaturi o gruppi che assumono ancora atteggiamenti tipici di altri secoli o di fasi più remote di esistenza umana.
Anche oggi vi sono persone che, quando entrano in un ambiente, lo devastano con la loro presenza. Schiacciano i più deboli, offendono i più forti, disprezzano chi ha qualità che essi non possiedono. Ma non sono certo questi gli uomini che fanno la storia anche se riempiono la cronaca dei nostri giornali.
La forma attuale di esistenza è caratterizzata dalla capacità di tenerezza.
È la delicatezza del contatto, è il rispetto nell'incontro, è la sensibilità per la crescita altrui. È l'accettazione dei limiti e dei difetti, è il riserbo di fronte al mistero degli altri, è l'attenzione per la sua sofferenza.
Proviamoci oggi a rivedere i nostri comportamenti. Chiediamoci quale gesto delicato di tenerezza possiamo compiere. Solo piccoli gesti quotidiani possono alla lunga modificare un ambiente.
Esperienza di Dio
Carlo Molari
Il novanta per cento delle conoscenze che oggi noi abbiamo sono diverse da quelle dei nostri antenati, e la stragrande maggioranza di esse sono acquisizioni di questo ultimo secolo. In un sessantennio l'umanità ha accumulato più conoscenze che in tutta la sua storia precedente. Ciò evidentemente ha influito anche sul modo di pensare a Dio e di interpretare la sua azione nel mondo.
Nei secoli scorsi si pensava a Dio come a un architetto dell'universo che interveniva nello sviluppo della creazione, modificava gli eventi, aggiungeva energia vitale, correggeva gli errori degli uomini. Tale modo di pensare è apparso infantile e contraddittorio. Come creatore Dio non opera allo stesso modo delle creature che « intervengono » accanto alle altre per dare forza o sostenere nelle difficoltà. Come creatore Dio opera all'interno della realtà, non fa le cose ma fa che le cose si facciano. È oggi convinzione comune che per pensare rettamente a Dio non si debba mai ricorrere a interventi superiori per spiegare eventi che accadono nell'universo. Questi hanno sempre una causa adeguata nella creazione.
Per l'uomo la scoperta di Dio non avviene nel frastuono di eventi straordinari, ma nella trasparenza della sua interiorità. Solo attraverso questa esperienza anche gli eventi della storia manifestano significati reconditi e i fenomeni della creazione diventano luminosi.
Solo quando giunge al liminare del suo spirito l'uomo coglie la forza di vita che gli perviene, l'amore che lo avvolge, la verità che lo chiama. Voglio portare una semplice analogia: che cosa sa il feto nel seno della madre dell'amore che lo anima e della forza che gli perviene? Eppure qualcuno lo sostiene e un'amore gli comunica energia.
Amici, la nostra vita non ha in se stessa la ragione di ciò che è. Noi non sappiamo esattamente in che cosa essa consista, ma quando viviamo con fedeltà e accogliamo senza riserve le sue tensioni, percepiamo che la vita è fondata. Così come quando incontriamo qualcuno che ha colto il segreto della vita e lo incarna, avvertiamo che essa non è un gioco delle circostanze, ma il fiorire di un amore.
I diversi nomi con cui gli uomini nella lunga storia hanno espresso questa esperienza sono relativi. L'essenziale è la certezza della sua presenza.
Trascendenza
dell'uomo
Carlo Molari
Ho esaminato nei giorni scorsi due componenti fondamentali dell'esperienza umana che ogni religione cerca di interpretare: la condizione di creatura e la chiamata alla morte.
Oggi vorrei continuare questa analisi con l'esame di un'altra componente dell'esperienza religiosa. Essa potrebbe essere descritta così: nessuna situazione, nessuna persona, nessuna cosa risponde interamente alla tensione di vita che ogni uomo porta con sé.
Spesso ci siamo illusi (credo che prima o poi tutti lo abbiamo fatto), ci siamo illusi, dicevo, che raggiunta una situazione, realizzato un progetto, terminata un'impresa i nostri desideri si sarebbero definitivamente acquietati. Invece ciò che prima poteva sembrare definitivo, poco alla volta è apparso provvisorio e insufficiente. Il nostro cuore è diventato più grande delle persone incontrate, le nostre speranze più esigenti delle promesse realizzate. Noi siamo apparsi sempre emergenti da tutte le situazioni nelle quali ci siamo venuti a trovare.
Ma perché questo accade? È una malattia mortale dell'uomo che, prima o poi, verrà cancellato dalla faccia della terra « come sull'orlo del mare un volto di sabbia » (M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 414), o è l'indicazione di una speranza non realizzata?
È una pazzia ingenita che esploderà con il fragore di bombe micidiali? O è l'espressione di una chiamata a una grandezza senza misura? L'amore dell'uomo è suscitato dai beni che incontra ó da un Bene che non ha riscontri? La ricerca della verità è stimolata dalle piccole scoperte di ogni giorno o da una voce profonda che ripete echi di eternità? L'esigenza di giustizia è tutta racchiusa nei precari progetti della sua storia o è riflesso di un progetto che la storia non può contenere ma solamente prefigurare? La morte dell'uomo è il compimento di un cammino concluso o l'annuncio di una promessa da realizzare?
Attorno a queste domande si gioca il valore delle scelte quotidiane. La risposta non può venire dal cielo ma dal profondo della storia. Noi avvertiamo una chiamata a essere più grandi di quello che siamo in ogni tappa della nostra vita.
Prendere coscienza di questo fatto è la condizione per non sbagliare mira, per non assolutizzare quello che è precario, per non erigere idoli sugli altari delle nostre strade.
Anche oggi saremo tentati di farlo e ad ognuno sarà concesso di crescere come persona se risponderà alle piccole richieste della vita. Non tradiamola.
Fondamento esistenza
Carlo Molari
Nei giorni scorsi ho esaminato alcuni elementi dell'esperienza religiosa, come accoglienza gioiosa della condizione dell'uomo: dipendente in tutto, chiamato alla morte come al suo compimento, mai soddisfatto di ciò che la vita gli offre. Terminavo con un interrogativo che ci porta al cuore del mistero dell'uomo: qual è la ragione della sua continua tensione? È una malattia mortale da eliminare al più presto o è la faticosa risposta a una chiamata sensata? È una forma di pazzia inguaribile o la conseguenza di una grandezza non ancora raggiunta? L'uomo risponde a una chiamata o affannosamente arranca per un cammino che non ha traccia e non avrà mai traguardo? In una parola, l'esistenza dell'uomo ha un fondamento o è sospesa nel vuoto?
La risposta a queste domande nasce dal profondo della storia umana e può scaturire dall'esperienza di ogni persona.
Nasce dall'esperienza perché non bastano le parole a farla scoprire. Viene dalla storia perché nessun uomo basta a se stesso: egli deve avere riferimenti sicuri già consolidati dalla verifica di generazioni.
Solo quando, attraverso gesti di un amore non interessato, si aprono orizzonti nuovi all'esistenza, si capisce senza ombra di dubbio che il Bene fonda la nostra vita. Solo quando fidandoci della Giustizia compiamo le nostre scelte con rigorosa onestà siamo in grado di cogliere il senso del nostro cammino. Solo quando abbandonandoci alla verità, superiamo compromessi ed evitiamo inganni, sperimentiamo con evidenza che la nostra ricerca ha una ragione reale.
Che la vita umana sia fondata, abbia cioè una ragione, non lo si può dimostrare argomentando ma lo si può scoprire nella profondità della propria esperienza intrapresa per l'influenza di una tradizione storica e lo si può mostrare agli altri nelle scoperte vitali compiute.
Non ci sono alternative praticabili.
Il valore di una religione sta appunto nella ricchezza della tradizione che può richiamare, nella validità delle esperienze che può offrire. Ogni rito religioso richiama figure di testimoni e invita a una verifica vitale.
Ma ogni situazione quotidiana può consentire questa scoperta: è sufficiente avere riferimenti ideali chiari per viverla intensamente cogliendo a piene mani ciò che essa offre.
È possibile anche oggi amici fare un'esperienza religiosa, scoprire cioè che la vita ha un solido fondamento. Che non siamo sospesi nel vuoto, ma siamo avvolti d'amore
I segni dei tempi
Carlo Molari
In questi ultimi decenni è stata usata, anche In settori laici, una formula che ha avuto una larga diffusione nell'ambito ecclesiale dopo il Concilio Vaticano II: i segni dei tempi.
Ne vorrei parlare per completare` le riflessioni di questi giorni sulla formazione della coscienza.
Disse Gesù un giorno: « Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: viene la pioggia e così accade. E quando soffia lo scirocco dite: ci sarà caldo e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? » (Lc 12, 54-57).
Gesù intendeva sottolineare la necessità di avere criteri interiori di valutazione morale, e di non dipendere solamente dalla tradizione o dal passato.
I segni dei tempi sono appunto le indicazioni che sorgono dalla storia per le nostre decisioni.
Cercare i segni dei tempi non significa andare alla ricerca di eventi miracolosi ma individuare nei fatti che accadono richieste di umanità, valori che si impongono, urgenze che sollecitano invenzioni, tensioni profonde di vita. È necessaria una particolare lucidità interiore per leggere i segni dei tempi. Non si devono confondere le mode passeggere con indicazioni di vita, le proposte dell'egoismo collettivo o di gruppo con urgenze di crescita umana, i camuffamenti del male con le richieste della giustizia.
Ma soprattutto ci vogliono uomini e gruppi che saggino sulla propria pelle il valore di intuizioni profetiche, i suggerimenti a volte informi degli eventi. La luce non basta per conoscere il cammino; sono necessari uomini coraggiosi che lo vadano tracciando a fatica lungo la storia.
L'impegno di tutti deve essere quello di puntare gli occhi là dove questi uomini, o questi gruppi, forse nella solitudine e nell'emarginazione, stanno delineando modelli nuovi di convivenza, di solidarietà, di giustizia sociale, di dialogo tra culture diverse.
L'umanità non può presumere di sapere già completamente quello che serve alla sua salvezza. Ci sono indicazioni che emergono con chiarezza solo per chi sa guardare senza pregiudizi culturali o esclusione di persone.
Guardiamoci attorno, oggi, amici, ed esercitiamoci in questo sguardo attento alle persone e alle cose per non lasciare cadere nessuno dei molti insegnamenti che la natura e la storia continuano a elargirci.
Criteri per la coscienza
Carlo Molari
Spesso ci illudiamo di operare bene solo perché agiamo con coscienza tranquilla. Il pittore francese Guglielmo Chevalier (detto Gavarni, 1804-1866) diceva che avrebbe fatto un ottimo affare a comprare le coscienze per quel che valgono e a rivenderle per quel che credono di valere. Succede spesso che noi sopravvalutiamo i nostri giudizi morali e riteniamo che le nostre azioni siano buone solo perché siamo convinti che siano tali.
Non si dice del resto che la coscienza è la voce dl Dio in noi? Come può la voce di Dio essere errata?
In realtà, la coscienza può essere chiamata voce di Dio solo se riflette con fedeltà le leggi della natura, se è in armonia con la creazione, se rispetta le esigenze della crescita personale. Altrimenti esprime le abitudini acquisite, i giudizi dell'ambiente, le convinzioni che favoriscono gli interessi personali.
Non dobbiamo pensare che le reazioni interiori possano essere immesse in noi da Dio senza la mediazione delle esperienze o della storia. Non possiamo ascoltare la parola di Dio se non nei suoi echi creati, nei riflessi cioè degli uomini che vivono con fedeltà.
I fattori principali per la formazione della coscienza sono: la tradizione o la legge, il presente o il dialogo, la riflessione o la preghiera.
Nessuna generazione comincia da capo la sua avventura. Ma usufruisce delle acquisizioni dei millenni precedenti, di quel tesoro di esperienze e di convinzioni che costituiscono la cultura dei popoli.
Anche la legge esprime prevalentemente il passato e le sue acquisizioni. Difficilmente, soprattutto oggi in cui i processi sociali sono così veloci, le leggi riescono ad adeguarsi immediatamente alle esigenze della società che cresce.
Di qui la necessità di riferirsi al presente, di individuarne i problemi e di rispondere adeguatamente alle sue sollecitazioni. Il mezzo per farlo è la lettura dei segni dei tempi, il consiglio degli esperti, il confronto con gli altri, il dialogo.
Infine è necessario imparare a utilizzare le esperienze fatte, riflettere e accumulare sapienza anche attraverso gli errori commessi da noi o dagli altri.
La formazione della coscienza è un processo lungo. Costituisce una componente fondamentale della maturità umana. Essenziale è acquisire un metodo per imparare con sollecitudine a formulare giudizi equilibrati e giusti.
La formazione della coscienza
Carlo Molari
Straordinaria facoltà dell'uomo è la coscienza.
Con questo termine indichiamo la capacità di giudicare il bene e il male della nostra vita. Prima di ogni nostra azione tutti ci poniamo il problema se ciò che intendiamo fare è bene o è male per noi.
Così ogni volta che compiamo il bene avvertiamo un senso di compiacimento; al contrario, quando ci accorgiamo di aver fatto il male avvertiamo un senso di disagio o di rimorso.
Molti pensano che qualsiasi azione compiuta con coscienza tranquilla e che non suscita rimorsi, sia buona.
Non è esatto.
Non sempre seguendo la propria coscienza si fa del bene. Perché la coscienza non è infallibile. Non parlo ora della responsabilità morale che dipende sempre e solo dal giudizio precedente della coscienza, ma del bene e del male reale. Occorre distinguere in merito tra peccato e male. Il peccato, in senso stretto è un male compiuto coscientemente e deliberatamente (con piena avvertenza e deliberato consenso, dicevano le formule del catechismo della nostra infanzia).
Il male che possiamo compiere ha un ambito molto più esteso del peccato (dell'ambito cioè della coscienza).
Se uno beve veleno credendo che sia un elisir di lunga vita muore anche se si era illuso di vivere meglio. Non commetterà peccato di suicidio, ma il male resta.
Se i genitori credono di amare i figli di amore gratuito od oblativo (come sarebbe necessario per farli crescere armonicamente) e invece sono possessivi, i figli subiscono conseguenze notevoli per la loro crescita. I genitori possono riparare non dicendo che credevano di amare, ma solo cominciando ad amare in modo nuovo.
Così noi possiamo farci del male anche senza saperlo. Anzi abitualmente ce ne facciamo tutti i giorni. Quante volte ci accorgiamo di avere compiuto scelte sbagliate: nei rapporti, nell'alimentazione, nel modo di lavorare, nell'esercizio della sessualità, nell'accoglienza di ideali inadeguati! Il politico francese Talleyrand (1754-1838), agli amici che lo venivano a trovare malato diceva: « La salute è come la coscienza, tiene conto severo di tutto ». La ragione di questa impietosa legge della vita è molto semplice: noi diventiamo ciò che facciamo. La vita ci restituisce ciò che introduciamo con i nostri affetti, le nostre esperienze, le nostre decisioni.
Di qui l'importanza di una retta coscienza, la necessità di una sua formazione attenta.
Libertà
Carlo Molari
Molti pensano che la libertà consista nel fare ciò che si vuole. Credono di essere liberi solo per il fatto che decidono diversamente dagli altri, anzi contrapponendosi ai genitori, o ai figli o al coniuge o al superiore.
E non si accorgono che quando si comportano così, se hanno autonomia da qualche persona, non l'hanno nei confronti della propria storia, delle abitudini acquisite nell'infanzia, delle reazioni emotive indotte dagli altri, in una parola dai propri istinti. Quella che chiamano autonomia, di fatto è un'altra forma di dipendenza a volte molto più grave di quella che vogliono evitare.
L'uomo non nasce libero, e non lo diventa solo perché cresce di statura o acquisisce capacità tecniche. Lo diventa solamente quando prende dominio pieno di tutti i propri movimenti e dinamismi interiori.
Molte delle nostre reazioni, dei nostri giudizi, delle nostre simpatie, delle nostre decisioni operative sono risultato di meccanismi che non controlliamo pienamente.
Oggi è molto più urgente di altri tempi diventare liberi, ed anche il grado di libertà oggi necessario è molto più elevato che in altri secoli. Chi non perviene al pieno controllo di sé facilmente è travolto dalle numerose sollecitazioni di chi specula sulla debolezza degli altri per imporre i propri disegni di guadagno o di potere. Si pensi, ad esempio, ai sotterfugi degli spacciatori di droga per coinvolgere un numero sempre più grande di giovani nel grande circolo della morte. Si pensi al mercato della pornografia che specula appunto sulla arrendevolezza dei più deboli cioè dei meno liberi per allargare i propri profitti. Anche le dinamiche della violenza e i mercati delle armi vanno alla ricerca di persone non pervenute al dominio pieno delle proprie reazioni, per sollecitare possibilità di rivincite o di dominio illusorio.
Più aumenta la potenza dei mezzi tecnici e della scienza più libertà è richiesta all'uomo, e ai popoli.
Ma non ci si può illudere di rendere liberi gli uomini solo per mezzo di leggi o di decreti. La legge suppone la libertà ma non la crea.
Solo gli uomini che sanno amare diffondono libertà nel mondo. La libertà, infatti, in ultima analisi è la capacità di amare gratuitamente, di volere il bene solo perché è Bene.
«Dio vi ha chiamati alla libertà - scriveva san Paolo - ma non servitevi della libertà per i vostri comodi. Anzi lasciatevi guidare dall'amore e fatevi servi gli uni degli altri » (Gal 5, 13). Lasciamoci guidare dall'amore, amici, avremo contribuito alla crescita di persone libere attorno a noi. Ce n'è molto bisogno.
La difficoltà del perdono
Camminare verso..
Carlo Molari
Spesso si dice che perdonare sia un atto di debolezza e di viltà.
In realtà perdonare è molto più impegnativo, difficile e coraggioso che reagire istintivamente alle offese ricevute. Richiede molta più forza interiore.
Per questo solo pochi riescono a perdonare veramente e sempre.
Altri osservano che la dignità personale è un bene supremo da difendere contro ogni accusa e da proteggere diligentemente contro ogni sopruso.
A parte gli equivoci numerosi che soggiacciono al senso della propria dignità, che spesso viene confusa con il diritto di imporsi agli altri, con i giudizi di superiorità nei loro confronti, di fatto il perdono non solo non contrasta con la dignità di una persona, ma ne è la garanzia più sicura.
Altri sono disposti a perdonare solo quando chi ha sbagliato si pente e chiede perdono. Chi si pente non ha più bisogno di essere perdonato. È già stato salvato dal suo male. Il rapporto che si stabilisce con chi si pente è di solidarietà per aiutarlo a compiere il cammino che ha intrapreso.
Anche il castigo può far ravvedere chi ha sbagliato solo se è accompagnato da un'offerta di vita, da un atteggiamento di amore e di misericordia.
Un'altra difficoltà che spesso viene sollevata riguarda il perdono per conto di altri. In realtà ciascuno perdona sempre per conto proprio, per quel tanto cioè per cui è coinvolto nell'evento accaduto. Una madre che perdona l'offensore di suo figlio non perdona per conto del figlio ma in quanto madre di colui che è stato offeso, e così gli amici o i successori di chi ha subito violenza, perdonano in quanto anch'essi ne sono stati vittime.
Quando perciò un omicida non viene perdonato dai parenti dell'ucciso non può essere addotta la scusa che chi è morto non può perdonare. Noi non siamo chiamati a perdonare per chi è morto, ma per noi che siamo vivi e che possiamo offrire energia vitale a chi, accanto a noi, partecipa della stessa nostra avventura e ha bisogno di essere aiutato per uscire dal suo male.
È difficile certo perdonare, soprattutto quando l'offesa ha toccato gli affetti più profondi e le fibre più intime di una persona. Ma proprio perché il male è grande è necessario che un grande bene venga messo in moto. Il perdono risiede a quei livelli profondi dove si sviluppa la vita che vale realmente.
Proviamoci anche noi, oggi, e forse scopriremo una gioia nuova.
Saper perdonare
Carlo Molari
A mano a mano che l'unificazione dell'umanità procede, è sempre più necessario che gli uomini imparino a perdonarsi, che smettano cioè quegli atteggiamenti di rappresaglia o di rivalsa che sono tipici dello stile infantile, e che fino ad oggi hanno caratterizzato anche i rapporti tra i popoli.
Diversi equivoci sono in circolazione a proposito del perdono. Vorrei chiarirne qualcuno. In primo luogo perdonare non significa scusare o trovare attenuanti all'azione di un altro. Chi ha scuse valide non deve essere perdonato. Il perdono riguarda proprio chi ha sbagliato coscientemente.
Inoltre perdonare non significa dimenticare gli errori di un altro o non aver più la voglia di reagire nei suoi confronti. Il perdono che nasce dalla dimenticanza o dalla stanchezza è un ripiego.
Perdonare, non è un premio al pentimento del delinquente. Il perdono che viene dato solo a chi si pente è ancora molto condizionato e imperfetto.
Il perdono non è una legge che vale solo per il rapporto tra gli individui. Anche i popoli, anche i gruppi sociali, anche le famiglie devono essere capaci di perdonarsi.
Questi equivoci dipendono dall'idea poco chiara che si ha del perdono.
Il perdono è un atto di misericordia, è cioè un atto di amore gratuito, una offerta di vita che consente a chi ha sbagliato di cominciare a cambiare.
Il perdono perciò deve essere offerto a tutti coloro che sono malvagi perché non lo siano più nel futuro.
Il peccatore infatti non è in grado di uscire da solo dal suo male. Solo l'amore gratuito di chi gli sta accanto può permettergli di cambiare vita.
Il perdono non si oppone quindi alle misure di sicurezza per impedire a chi ha compiuto un male grave di ripeterlo nuovamente. Ma si oppone alla volontà vendicativa che spesso accompagna queste decisioni. È desiderio di conversione non volontà di riparazione.
Oggi lo stile del perdono non è ancora molto diffuso. Perdonare non è diventato ancora una caratteristica della comunità umana. È uno di quei salti qualitativi dello spirito che oggi condizionano il cammino del progresso umano.
Per questo è urgente che chi sa perdonare eserciti continuamente la sua capacità e diventi testimone di perdono in tutte le circostanze. Quando uno stile di vita, infatti, è introdotto dalla testimonianza continua di un gruppo, esso può dilagare nella società intera.
Chi sa perdonare perciò deve essere cosciente della responsabilità che ha di diffondere questo stile di vita.
Animo quindi amici, e se oggi ce ne è offerta l'occasione, proviamo a scoprire quale forza sprigioni il vero perdono.
Camminare verso..
Inventare la pace
Carlo Molari
Non è esatto dire che gli uomini sono stati sempre gli stessi, che hanno avuto sempre le medesime reazioni e si sono comportati sempre allo stesso modo. Analizzando attentamente la storia, è possibile individuare nell'umanità numerose mutazioni spirituali accadute nei lunghi millenni della sua esistenza.
Gli uomini nuovi di cui parlavo ieri non sono i tecnici, gli scienziati, gli specialisti delle diverse branche del sapere, sono invece quelli che sperimentano e introducono nuove forme di umanità.
Li potete trovare ovunque, ma spesso nel loro tempo sono degli emarginati, vivono in solitudine, la loro presenza è avvertita quando viene meno: sono i cosiddetti uomini di frontiera. Ogni generazione ne deve esprimere qualcuno perché l'umanità possa procedere. Gli uomini nuovi della nostra generazione sono i costruttori di pace. Il processo di unificazione della umanità, che si è accelerato da alcuni decenni, esige con urgenza la loro moltiplicazione. Non si tratta soltanto di ottenere la distruzione degli armamenti, ma di avere un altro atteggiamento, di parlare un altro linguaggio, di incontrare le persone in modo diverso, di reagire con sensibilità nuova. Insomma di essere una persona con caratteristiche inedite.
È chiaro che l'uomo di pace non nasce improvvisamente. È il risultato di un lungo processo spirituale che coinvolge molte persone. Anche quelli che non lo possono diventare più perché sono stati educati diversamente e procedono con meccanismi di reazione ormai immutabili, anche costoro possono contribuire alla nascita dell'uomo di pace.
Questa è l'impresa più urgente della nostra generazione. Ed è importante chiedersi come realizzarla praticamente.
In primo luogo è essenziale considerare la pace come un traguardo necessario e come il compito più importante affidatoci dalla storia. In altri tempi si considerava la violenza come un male minore, insopprimibile e si giunse perfino a sacralizzarla, giudicando in certe circostanze i risultati della lotta come l'espressione di un giudizio divino. Oggi si è compresa l'assurdità di una simile impostazione.
In secondo luogo ci si deve impegnare ad attuare piccoli cambiamenti quotidiani. Reagire in modo diverso alle offese, per esempio, correggere con animo pacato e con delicata attenzione, incontrare in modo più sereno e aperto i propri colleghi, imparare a perdonare e così via.
Infine è necessario diffondere l'ideale della pace, diventarne apostoli. Le occasioni possono essere numerose ogni giorno, nelle discussioni fra amici, nei dialoghi a tempo perduto sulle spiagge o sui sentieri di montagna. Non lasciate mai passare giorno senza aver detto o fatto qualcosa a favore della pace universale. Il mondo è pronto. C'è un lungo cammino da compiere, è vero, ma il traguardo è già alla nostra portata.
Camminare verso..
Gli uomini nuovi
Carlo Molari
In questi ultimi decenni si sono create le premesse per radicali innovazioni nell'organizzazione della convivenza umana. Strumenti di comunicazione prima impensabili stanno unificando i problemi dell'umanità. Mezzi tecnici straordinari consentono oggi il coordinamento di tutti i complessi sviluppi della vita sociale. Le conoscenze e la tecnica permettono di risolvere definitivamente mali ancestrali che nel passato hanno decimato generazioni. La terra sta diventando per la prima volta nella sua storia un unico villaggio nel quale gli uomini potrebbero vivere in una forma e con una serenità mai fino ad ora rese possibili.
Eppure molti ostacoli sembrano ancora opporsi alla realizzazione di questo programma che è già alla portata dell'uomo.
Gli strumenti tecnici consentono ad alcuni di sfruttare altri in modo molto più profondo e oppressivo che nei secoli scorsi. Le forze a disposizione dell'inganno e dell'ingiustizia sono molto più subdole che in altri tempi. Anche se gli uomini non sono peggiori di ieri, possono oggi compiere disastri di portata molto maggiore.
Pensiamo solamente alla produzione delle armi. Fino ad ora l'umanità aveva potuto sopportare questa cattiva abitudine senza danni eccessivi. Solo da qualche secolo l'infantile tendenza di aggredire il nemico aveva acquistato caratteri preoccupanti. Ora però la parabola è alla fine. O l'umanità esce dalla fase infantile dell'aggressione armata o non può più attendersi un futuro.
Perché il male degli armamenti non sta solo nella distruzione che essi possono produrre, ma prima ancora e, per il momento, molto di più, nella dispersione assurda di immense ricchezze senza rilevante utilità pratica.
Il fatto è che gli uomini hanno camminato troppo in fretta e non hanno cambiato progressivamente il loro cuore e le loro abitudini. È urgente che cresca una diversa generazione di persone, che introducano un nuovo stile di vita e che riescano ad affrontare in modo nuovo questi gravi problemi.
Perché cresca questa nuova stirpe umana tutti debbono dare il loro contributo. Gli adulti che non possono più cambiare radicalmente, hanno però la possibilità di annunciare gli ideali che avvertono realizzabili e di creare quel clima spirituale che consenta la crescita delle nuove generazioni. E i giovani, che hanno ancora la capacità di nuove forme vitali, possono introdurre quelle modificazioni dello spirito che, una volta acquisite, nessuno potrà più annullare.
La giornata che cominciamo sia serena per tutti, amici, e possa registrare numerosi contributi per la crescita di quegli uomini nuovi che faranno il futuro dell'umanità.
La preghiera comune a ogni uomo
Carlo Molari
Vorrei confutare un luogo comune: non è vero che solo i credenti debbano pregare. Ogni uomo che voglia vivere intensamente deve avere momenti di raccoglimento, di interiorità, di concentrazione, di sguardo profondo. Questo è appunto quella che in termini religiosi viene chiamata preghiera.
Credo di avvertire la difficoltà di molti ad accettare quello che sto dicendo. La ragione pensq stia nella nozione infantile di preghiera che molti si trascinano dietro anche nell'età adulta. La maggioranza pensa che la preghiera sia un modo per far cambiare parere a Dio o per fargli sapere quali siano i nostri desideri o le nostre speranze. Gesù diceva: « Il Padre vostro conosce le vostre necessità » (Mt 6, 8).
Allora cosa è la preghiera?
È il modo per mantenere i canali aperti con la Vita, con il Bene, con la Verità, in una parola per non rifiutare nulla del dono che ogni giorno Dio continua a farci. Qualsiasi interpretazione si dia della vita e della sua fonte, certo è che ognuno di noi deve ogni giorno aprirsi al suo dono ed entrare in rapporto profondo con le sue sorgenti. Chiunque si illuda di essere autosufficiente e non si eserciti all'accoglienza dei doni vitali che gli vengono continuamente fatti, costui prima o poi si isterilisce. Così chi non si esercita a rinnovare continuamente la propria offerta perde progressivamente l'atteggiamento di accoglienza. Gesù, che ha scoperto e vissuto in modo esemplare questa legge fondamentale dell'esistenza diceva: « Chi vuol conservare la vita per sé la perde, solamente chi la dona, la ritrova» (cfr. Mt 10, 39; Mc 8, 34-35; Lc 9, 23-24; 17, 33).
La preghiera è appunto l'esercizio quotidiano per non rifiutare nulla di ciò che la vita quel giorno è disposta a offrirci. E nello stesso tempo è l'allenamento a donare la propria presenza a tutti coloro che attorno a noi ne avranno bisogno.
Vorrei portare un semplice esempio: se mettete un foglio di carta al sole, si riscalda, ma nulla più. Se, invece, tra il sole e la carta ponete una lente che concentri i raggi solari su un punto solo, allora la carta comincia a bruciare. La lente non aggiunge certo energia al sole. Ma permette di utilizzarla al massimo. Così fa la preghiera di ogni nostro giorno: ci consente di valorizzare pienamente il dono quotidiano di Dio.
Auguro a tutti di fare in questo giorno una esperienza, anche se breve, di interiorità profonda. Attingerete energie nuove per la vostra vita.
Uomini nuovi
Carlo Molari
In questi ultimi decenni si sono create le premesse per radicali innovazioni nell'organizzazione della convivenza umana. Strumenti di comunicazione prima impensabili stanno unificando i problemi dell'umanità. Mezzi tecnici straordinari consentono oggi il coordinamento di tutti i complessi sviluppi della vita sociale. Le conoscenze e la tecnica permettono di risolvere definitivamente mali ancestrali che nel passato hanno decimato generazioni. La terra sta diventando per la prima volta nella sua storia un unico villaggio nel quale gli uomini potrebbero vivere in una forma e con una serenità mai fino ad ora rese possibili.
Eppure molti ostacoli sembrano ancora opporsi alla realizzazione di questo programma che è già alla portata dell'uomo.
Gli strumenti tecnici consentono ad alcuni di sfruttare altri in modo molto più profondo e oppressivo che nei secoli scorsi. Le forze a disposizione dell'inganno e dell'ingiustizia sono molto più subdole che in altri tempi. Anche se gli uomini non sono peggiori di ieri, possono oggi compiere disastri di portata molto maggiore.
Pensiamo solamente alla produzione delle armi. Fino ad ora l'umanità aveva potuto sopportare questa cattiva abitudine senza danni eccessivi. Solo da qualche secolo l'infantile tendenza di aggredire il nemico aveva acquistato caratteri preoccupanti. Ora però la parabola è alla fine. O l'umanità esce dalla fase infantile dell'aggressione armata o non può più attendersi un futuro.
Perché il male degli armamenti non sta solo nella distruzione che essi possono produrre, ma prima ancora e, per il momento, molto di più, nella dispersione assurda di immense ricchezze senza rilevante utilità pratica.
Il fatto è che gli uomini hanno camminato troppo in fretta e non hanno cambiato progressivamente il loro cuore e le loro abitudini. È urgente che cresca una diversa generazione di persone, che introducano un nuovo stile di vita e che riescano ad affrontare in modo nuovo questi gravi problemi.
Perché cresca questa nuova stirpe umana tutti debbono dare il loro contributo. Gli adulti che non possono più cambiare radicalmente, hanno però la possibilità di annunciare gli ideali che avvertono realizzabili e di creare quel clima spirituale che consenta la crescita delle nuove generazioni. E i giovani, che hanno ancora la capacità di nuove forme vitali, possono introdurre quelle modificazioni dello spirito che, una volta acquisite, nessuno potrà più annullare.
La giornata che cominciamo sia serena per tutti, amici, e possa registrare numerosi contributi per la crescita di quegli uomini nuovi che faranno il futuro dell'umanità.
Vita piena
La prima urgenza di ogni uomo è vivere pienamente la propria giornata.
La condizione assoluta, per poterlo fare è l'interiorità: la presenza a se stessi, la trasparenza della persona, la lucidità degli ideali perseguiti, il possesso pieno delle proprie capacità. È capitato a molti, credo, di essersi trovati in circostanze nelle quali sono riusciti a compiere imprese di cui non immaginavano mai di essere capaci.
Al contrario, in altre situazioni è stato sufficiente un cambiamento di umore, una incomprensione, un imprevisto a renderli inerti, a gettarli in uno stato di depressione.
Facilmente in queste circostanze tendiamo a cercarne le ragioni negli altri. E troviamo sempre dei motivi sufficienti per accusare qualcuno vicino a noi o il destino o il tempo o la salute.
In realtà, anche quando esistono queste motivazioni, le ragioni vere del nostro malessere sono sempre anche in noi.
Se è vero che dagli altri ci viene l'energia vitale è anche vero che essa non opera in noi finché non la facciamo nostra.
Quando ciò avviene riusciamo a vivere diversamente.
Succede così che, ad esempio, ammalati riescono a comunicare forza di vita a chi è sano, drogati riescono ad accogliere l'aiuto degli altri in modo imprevisto, emarginati scoprono offerte di amicizia che prima trascuravano. Giorni fa leggevo la lettera di un giovane fiorentino, 17 anni nel '74 quando scriveva: « Prima mi drogavo, i miei occhi non vedevano più la bellissima luce del sole, perché la droga mi dava il senso del buio, il mio umile corpo era tutto punzecchiato di piccoli fori, io mi ero ridotto un piccolo mostriciattolo. Poi una luce misteriosa ... ».
Cosa era avvenuto? Aveva per caso letto alcune lettere di una ragazza, Benedetta Bianchi Porro, morta a 25 anni ormai ridotta un rudere umano da un male crudele: cieca, sorda, insensibile, staccata dal mondo.
È morta da 20 anni e molti continuano a trovare nei suoi scritti la forza per intraprendere nuovi cammini. Come il ragazzo fiorentino che si drogava.
Non so che cosa sia ora di lui, perché l'avventura della vita richiede lunghi percorsi e a volte tortuosi. Ma certo è che un giorno una luce è entrata nella sua esistenza martoriata perché lontano, dieci anni prima, una ragazza sofferente aveva saputo amare.
A questi livelli l'esistenza che vale si svolge. La vita piena non è possibile se non si raggiungono le profondità dove scaturiscono le sue polle originarie. Quando vi si è giunti si comunica vita anche se si è inchiodati in una croce a gridare un dolore senza fine. Anche se si è emarginati in una solitudine tragica. Si può comunicare forza al mondo intero e offrire speranze a una moltitudine immensa che cerca ancora ragioni di vita.
A tutti noi, amici, oggi è possibile scendere più in profondità e offrire nuove energie vitali a chi incontriamo. Proviamoci e la pace di Dio sia con noi
Il valore di ciò che l'uomo fa
Carlo Molari
La valutazione che ciascuno dà delle proprie azioni non è sempre confortante. Non sembra che ci sia molta gente pienamente soddisfatta di ciò che fa. E quando lo è le ragioni della sua felicità non sono tali da resistere al tempo e all'usura delle abitudini.
Ci sono molte persone che continuano il loro lavoro solo perché alla fine del mese o della settimana ricevono lo stipendio.
Altri si attendono da ciò che fanno la stima dei colleghi, il riconoscimento della società, il successo.
Altri ancora si impegnano per giungere al potere, per essere in grado, cioè, di dominare nel proprio ambiente.
Altri riescono ad andare avanti solo perché si aggrappano a gioie future che lungamente assaporano nell'anticipazione: come la vittoria della squadra del cuore, l'incontro con una persona cara, la riuscita di un progetto.
Poi avviene che quando ciò che ciascuno attendeva si realizza, i desideri si allargano, le speranze riprendono a galoppare, e un'altra meta si affaccia all'orizzonte come ragione del proprio impegno. Il denaro non basta mai, il potere non è completo, la stima degli altri è limitata, la gioia passata suscita nostalgie e rincorre nuove illusioni.
Eppure qualche tempo prima avresti detto che ottenuto quel posto, raggiunto quel traguardo, avuto quel riconoscimento ti saresti definitivamente acquietato.
Quale conclusione trarre? È inutile sperare? È senza senso impegnarsi? È vano desiderare? Niente affatto.
È necessario piuttosto individuare bene che cosa attendersi dal proprio lavoro, quali sono i beni da sperare, che senso ha quello che facciamo ogni giorno.
Alcuni pensano alla vita futura come ragione del proprio impegno quotidiano. Altri pensano al bene che fanno agli altri, alla gioia che procurano.
Ma questi motivi, pur se validi, non sono sufficienti e soprattutto non sono quelli immediati. Se il nostro lavoro ha un significato, esso deve apparire concretamente nella nostra esistenza e tradursi in stati d'animo, in ricchezza interiore, in modalità nuove di vita. L'uomo vale non per quello che fa ma per quello che diventa attraverso ciò che fa. Ed è questo che egli è in grado di comunicare, ciò che è diventato come persona. Non sono i risultati a rendere grande l'azione dell'uomo ma la crescita personale che essa realizza, la ricchezza di umanità che sviluppa.
Ovunque e sempre ci può essere concesso di crescere come persone autentiche. Raggiunta la maturità nessuno ci può più impedire di vivere pienamente tutte le nostre giornate. Questa è la forza di ogni uomo ed è la sua dignità.
Solitudine disperata
Carlo Molari
Vi sono tante solitudini, che pesano come una maledizione. Non possiamo dimenticarle. Vi sono, è vero, persone rimaste sole che sono state rese capaci di riempire la solitudine di molti. Esse esprimono la ricchezza umana di una comunità o della famiglia in cui sono cresciute. Ma vi sono altre persone che non hanno ricevuto la medesima possibilità e che devono essere aiutate con vicinanza premurosa e con attenzione delicata.
Altra è la solitudine di chi la può scegliere come orizzonte del proprio spirito, altra è la solitudine degli abbandonati e degli emarginati.
Il problema della solitudine, di chi non può star solo, non può essere risolto dalle persone che la soffrono, ma dagli altri. Da coloro cioè, che possono costruire ambienti di incontro, dí amicizia, di scambio mutuo di doni.
Ogni comunità ben ordinata sa creare forme di condivisione, sa inventare modelli di comunione. Soprattutto quando il progresso crea nella convivenza sociale situazioni inedite di fronte alle quali tutti si trovano disarmati.
La vita infatti non può porre problemi senza suscitarne in qualche spirito fedele la soluzione. La difficoltà sta nel fatto che quando questa viene trovata appare irrealizzabile a molti perché urta contro atteggiamenti comuni e contrasta con le abitudini acquisite.
È innegabile: lo sviluppo attuale della convivenza umana, crea forme sempre più diffuse di solitudine gravosa, soprattutto per gli anziani, gli ammalati e i carcerati. Ed è consolante vedere il fiorire straordinario di iniziative, alcun veramente rilevanti, sorte per risolvere questi problemi, o almeno per alleviare i mali che ne conseguono.
Credo che la nostra società stia dando prova della sua capacità creativa. Se ancora ci è dato sperare oggi in un futuro migliore è proprio perché molti sono in grado di dedicare la propria vita a coloro che si trovano in difficoltà. Certamente anche alcuni di voi, oggi, avranno la possibilità dí colmare un vuoto nella vita di qualcuno.
Non lasciate cadere l'opportunità. La speranza che portate si intreccia in un processo di solidarietà molto più ampio, un processo che sta modificando lentamente la sensibilità comune e la natura stessa dei rapporti sociali, nonostante le resistenze e le paure di molti.
C'è un nuovo stile di vita che sta sorgendo da qualche parte. E tutti possiamo contribuire a renderlo più stabile e a contagiarne il nostro ambiente.
Solitudine piena
Carlo Molari
Alcuni si chiedono: come considerare la pratica dell'eremitaggio, che fin dall'antichità ha accompagnato la storia del cristianesimo e che ha avuto, e ha tuttora forme molto note in altre religioni? Anzi da alcuni la sua diffusione viene presentata come una delle soluzioni per i molti problemi della nostra convulsa società. In primo luogo occorre distinguere bene la vita eremitica dalle diverse forme di vita claustrale. Queste ultime, infatti, si fondano su intrecci di rapporti personali e costituiscono, o dovrebbero costituire comunità di vita intensa. La forma eremitica di vita religiosa, invece, è molto più rara e spesso è solo transitoria. In ogni caso essa suppone una ricchezza interiore già acquisita, una maturità di affetti, una capacità di offerta totale che, sole, possono rendere fruttuose prolungate esperienze di silenzio.
In altre parole, solamente chi è stato molto amato ed ha accolto senza riserve i doni che gli sono stati fatti, è in grado di godere periodi di solitudine. Solamente chi ha interiorizzato molte persone ed ha riempito il vuoto che caratterizza l'inizio di ogni esistenza, può affrontare il deserto senza traumi. Si potrebbe dire che solamente chi ha già imparato a morire è capace di vivere con diletto e con frutti positivi la solitudine. Perché in realtà non è solo: il mondo che lo ha costruito l'accompagna, e tutte le esperienze che egli fa rievocano presenze e suscitano vicinanze che continuano ad arricchire la sua esistenza.
Per questo le forme di vita religiosa che contemplano la possibilità di esperienze eremitiche pongono condizioni molto rigorose per con sentirne l'avvio.
Ciò evidentemente vale per i lunghi periodi, perché forme brevi di solitudine o di silenzio intenso sono consigliabili a tutti. Essi servono alla concentrazione dello spirito, alla purificazione della memoria, al riequilibrio degli affetti. Ci sono delle imprese umane, delle intuizioni luminose, delle avventure dello spirito che possono maturare solo nel silenzio di prolungate solitudini.
Ma la solitudine è fruttuosa solo quando è animata da una moltitudine di presenze e da una quantità di affetti. Altrimenti diventa espressione della aridità del proprio spirito e infrut, tuoso ripiegamento su se stessi.
Provate, amici, a vivere oggi momenti di solitudine profonda, e troverete nuove sorgenti per la vostra gioia.
Accogliere vita
Non possiamo crescere da soli, ma abbiamo bisogno di accogliere ogni giorno le offerte di vita che ci vengono fatte. Diverse difficoltà possono nascere da questa affermazione.
Potrebbe sembrare, ed è questa la prima, che i rapporti personali, una volta stabiliti operino automaticamente la crescita di una persona. In realtà non è così. Non ogni buon genitore, ad es., fa crescere i figli in modo armonico e completo, né ogni educatore trasmette i suoi ideali autentici agli alunni. Non ogni coniuge è sempre per l'altro stimolo reale di vita, né ogni amico è arricchimento di esistenza.
Abitualmente viene addotta come ragione di questo fatto l'insufficienza degli educatori, l'egoismo dei genitori, la possessività degli amici, l'infedeltà dei coniugi. Molte volte queste accuse sono giuste, ma non sempre. Vorrei riflettere questa mattina su un male più generale che coinvolge tutti e che potremmo chiamare: la superficialità dei nostri rapporti, la pigrizia della nostra crescita, le resistenze che poniamo alla presenza degli altri. Può diventare lo stile di tutta una società, il clima abituale di intere generazioni.
La natura non insegna ad amare che in modo rudimentale; quel tanto che basta per sopravvivere. Spesso poi vi sono cambiamenti culturali che rendono più difficili i rapporti e richiedono perciò nuovi stili di vita. Così si capisce come sia possibile che anche oggi, dopo le numerose invenzioni di amore che la storia umana ha registrato, si trovino generazioni, o gruppi di persone che stabiliscono rapporti molto superficiali. La maggioranza di noi passa accanto agli altri senza incontrare veramente nessuno o molto pochi. E non sempre per cattiva volontà, ma perché non hanno mai avuto occasione di imparare ad entrare nella vita degli altri con delicatezza e meraviglia.
Gesù un giorno disse che solo assumendo l'atteggiamento dei bambini si può entrare nel regno. I bambini sono appunto coloro che spalancano gli occhi di fronte ad ogni novità, che puntano l'attenzione totale quando un oggetto di interesse li colpisce, che si affidano senza riserve quando incontrano chi suscita la loro fiducia.
Spesso non entriamo nel regno della vita perché crediamo di conoscere già le persone che ci sono vicine, abbiamo perduto la fecondità della meraviglia e non siamo sufficientemente pazienti per seguire le tappe della crescita di una persona. Fissiamo per sempre gli altri nei nostri schemi e li inquadriamo definitivamente nelle cornici delle nostre prime impressioni. Proviamo oggi ad accogliere la presenza di coloro che incontreremo come una nuova possibilità. Forse faremo un passo avanti nella loro comprensione e la giornata sarà più feconda.
Non possiamo crescere da soli
Carlo Molari
Non possiamo crescere da soli, abbiamo bisogno di accogliere ogni giorno le offerte di vita che ci vengono fatte. Diverse difficoltà possono nascere da questa affermazione.
Potrebbe sembrare, ed è questa la prima, che i rapporti personali, una volta stabiliti operino automaticamente la crescita di una persona. In realtà non è così. Non ogni buon genitore, ad es., fa crescere i figli in modo armonico e completo, né ogni educatore trasmette i suoi ideali autentici agli alunni. Non ogni coniuge è sempre per l'altro stimolo reale di vita, né ogni amico è arricchimento di esistenza.
Abitualmente viene addotta come ragione di questo fatto l'insufficienza degli educatori, l'egoismo dei genitori, la possessività degli amici, l'infedeltà dei coniugi. Molte volte queste accuse sono giuste, ma non sempre. Vorrei riflettere questa mattina su un male più generale che coinvolge tutti e che potremmo chiamare: la superficialità dei nostri rapporti, la pigrizia della nostra crescita, le resistenze che poniamo alla presenza degli altri. Può diventare lo stile di tutta una società, il clima abituale di intere generazioni.
La natura non insegna ad amare che in modo rudimentale; quel tanto che basta per sopravvivere. Spesso poi vi sono cambiamenti culturali che rendono più difficili i rapporti e richiedono perciò nuovi stili di vita. Così si capisce come sia possibile che anche oggi, dopo le numerose invenzioni di amore che la storia umana ha registrato, si trovino generazioni, o gruppi di persone che stabiliscono rapporti molto s