Presentazione
Carissimi amici,
in questi primi anni del mio Mandato di Superiore generale ho avuto l’occasione di approfondire sempre più alcune tematiche che riguardano la Vita Consacrata e il carisma dei Canonici Regolari. Tanti gli articoli sul tema e altrettanto numerosi gli incontri che ho fatto con altri confratelli nella Vita religiosa, condividendo esperienze di spiritualità e formazione che mi hanno arricchito personalmente e che ho cercato talvolta di estendere anche ai miei confratelli.
Da quando, poi, ho preso a cuore in qualità di Presidente l’Associazione culturale Dom Adriano Gréa, mi sono chiesto se non fosse possibile e bello condividere alcuni di questi argomenti anche per la formazione dei nostri amici laici che desiderano avvicinarsi sempre più al nostro carisma di Canonici Regolari che come diceva il nostro Fondatore dom Gréa, non è altro che la spiritualità della Chiesa.
Per cui abbiamo pensato di “postare” sul Sito dell’Associazione alcune tematiche scelte, all’interno di una nuova Area che abbiamo intitolato “VITA CONSACRATA E I CANONICI REGOLARI IMMACOLATA CONCEZIONE”.
Spero che questo strumento di condivisione spirituale e pastorale, possa essere di utilità per tutti i lettori che avranno la pazienza di accedere e leggere alcuni passi di questi numerosi temi che cercheremo di tenere aggiornati.
Un grazie a chi cura e tiene vivo questo Sito ricco di messaggi per la formazione di tutte le “persone di buona volontà”!
Padre Rinaldo,
Presidente dell’Associazione Culturale Dom Adriano Gréa
UNIONE SUPERIORI GENERALI
ASSEMBLEA N. 103 presso FRATERNA DOMUS – SACROFANO DAL 21 AL 23 MAGGIO 2025
Testimoni di speranza
In sintonia con l’Anno Santo Giubilare sul tema della speranza, anche l’Assemblea n. 103 dell’Unione dei Superiori Generali ha proposto ai numerosi presenti (circa 110 Superiori) di riflettere e confrontarsi sulla Speranza, partendo da alcune citazioni bibliche e poi ascoltando diverse testimonianze dal vivo.
La metodologia è sempre quella proposta dal Sinodo: ascolto di una relazione, silenzio, condivisione in gruppo attorno al proprio tavolo sottolineando ciò che ognuno ha recepito sia dal relatore che dai pensieri dei confratelli, interazione con il relatore.
Il primo intervento è stato proposto dal professor Massimo Grilli, con una riflessione sul tema della speranza partendo da tre metafore bibliche, che secondo lui costituiscono un percorso di speranza che va
1) dalla presa di coscienza della situazione in cui siamo e ci troviamo (il fagotto di Ezechiele);
2) al ritorno al deserto come esperienza fondante per ricominciare un cammino di speranza,
3) fino alla percezione della speranza cristiana come una speranza che non delude perché la sofferenza e l’irrisolto non rappresentano il rantolo di un morente, ma le doglie di una partoriente.
Queste tre metafore costituiscono l’ambito di comprensione di un percorso di speranza all’interno del nostro mondo e della nostra chiesa: il fagotto, il deserto, le doglie del parto. Il percorso si è concluso con la visione della nuova Gerusalemme nell’Apocalisse (Ap 21-22). La nuova Gerusalemme sorgerà là dove l’uomo cammina nella giustizia e nella fedeltà, nella mitezza e nella verità. Dio non cancella la nostra vita, ma la glorifica così com’è.
Nel pomeriggio la riflessione è continuata con un secondo intervento della biblista Rosanna Virgili, la quale ha aperto la sua accattivante relazione con un testo poetico di Maria Letizia Del Zompo:
Voglio dirti una cosa: ce la farai, anche se ora hai il cuore spezzato.
Dentro ognuno di noi vive una luce che mai si spegne, una fonte di tenerezza che mai si arresta.
Non importa che tu le dia un nome, non vuole essere proclamata ma ascoltata.
Ti vestirà di carezze, abbraccerà la tua fragilità, sosterrà il tuo passo.
Custodiscila anche quando non hai voglia di nulla – lei coltiva paziente nell’ombra i colori che rallegreranno la tua terra dopo la pioggia.
Poi citando una espressione di papa Francesco “Tutti sperano”, ci ha coinvolto in un confronto suggestivo affermando che nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità.
Il filo rosso che ha unito la sua riflessione girava attorno ad alcune domande per noi religiosi consacrati:
• Sperare in quale direzione?
• Sperare in cosa?
• Sperare perché?
• Sperare Su chi?
• Cosa ci manca per sperare?
• Cosa abbiamo di troppo per sperare?
• Su cosa fondiamo la nostra speranza?
• Sperare per chi?
• Prendere il grido di chi?
Come risposta a queste provocazioni, per il nostro mondo religioso e missionario, è la testimonianza del Signore risorto.
In questo Anno santo, ha concluso, possiamo vivere i nostri i voti “giubilari” come fonte di luce e di speranza per un mondo violato dalla negazione degli stessi: i voti come segno di contraddizione e indicazione di una speranza per il mondo e la responsabilità dei voti come vangelo per il mondo.
Il secondo giorno di Assemblea ci ha riservato quattro testimonianze dal vivo sulla realtà sociale e politica alla luce della speranza in contesti diversi e comunque critici: dalla Etiopia, all’India, al Congo e alla realtà scolastica in Italia, con sfumature diverse ma sempre drammatiche.
Nel pomeriggio son stati proposti altri tre temi:
- “interculturalità”,
- “gestione dei beni dei nostri Istituti religiosi e la sobrietà personale"
- “formazione della “Leadership” nelle nostre varie realtà religiose.”
L’ultimo giorno l’intervento del Cardinal Mario Grech ha riportato nuovamente l’attenzione sul Sinodo e sulla nuova progettazione per un cammino da continuare fino al 2028:
- “Vita Consacrata, segno/motore di speranza in una Chiesa sinodale”.
La solenne celebrazione della santa messa presieduta dal Cardinale e animata da un gruppo folkloristico africano, ha concluso le nostre tre intense giornate di lavoro e fraternità.
Padre Rinaldo
TESTIMONI DI SPERANZA
Sacrofano, 21 Maggio 2025
Massimo Grilli
Vorrei proporre una riflessione sul tema della speranza partendo da tre metafore bibliche, metafore che – a mio parere – costituiscono un percorso di speranza che va 1) dalla presa di coscienza della situazione in cui siamo e ci troviamo (il fagotto di Ezechiele); 2) al ritorno al deserto come esperienza fondante per ricominciare un cammino di speranza, fino alla 3) percezione della speranza cristiana come una speranza che non delude perché la sofferenza e l’irrisolto che le sono consustanziali non rappresentano il rantolo di un morente, ma le doglie di una partoriente. Ecco dunque le tre metafore che costituiscono l’ambito di comprensione di un percorso di speranza all’interno del nostro mondo e della nostra chiesa: il fagotto, il deserto, le doglie del parto. Concluderò il percorso con la visione della nuova Gerusalemme nell’Apocalisse (Ap 21-22).
1. IL FAGOTTO DI EZECHIELE
La metafora di partenza è provocatoria e attuale perché appartiene a un profeta che vive un’esperienza analoga a quella che viviamo oggi come società e come chiesa. Nei primi versetti del capitolo dodici, il profeta Ezechiele si sente apostrofare da Dio con queste parole: «Figlio dell'uomo, tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono… Tu, figlio dell'uomo, allestisci il tuo bagaglio da deportato e, di giorno, davanti ai loro occhi, prepàrati a emigrare… Fa' alla loro presenza un'apertura nel muro ed esci di lì. Mettiti alla loro presenza il bagaglio sulle spalle ed esci nell'oscurità… perché io ho fatto di te un simbolo per gli Israeliti». Io feci come mi era stato comandato: preparai di giorno il mio bagaglio come il bagaglio d'un esiliato e sul tramonto feci un foro nel muro con le mani, uscii nell'oscurità e mi misi il bagaglio sulle spalle sotto i loro occhi. (Ez 12,1-7).
Per parlare di speranza mi sembra necessario partire da qui, perché il primo nostro dovere nel processo di maturazione personale e comunitario è quello di non mentire davanti ai fatti, di non barare: dobbiamo guardare in faccia la realtà in cui viviamo, affrontare lo scandalo di un promessa di Dio che sembra ancora fiorente nelle coreografie di piazza e negli applausi dei potenti, ma poi di fatto viene smentita nella vita di tutti i giorni dall’indifferenza e dal cinismo che ci abitano e ci assediano.
Ezechiele vive in un tempo in cui stanno per crollare alcuni punti fermi che sorreggevano la coscienza sacrale del popolo di Dio prima dell’esilio. Siamo tra il 597 e il 587 a.C: al primo passaggio della potenza babilonese, nel 597, alcuni abitanti di Gerusalemme erano già stati deportati in terra straniera e - nel decennio successivo - l’arroganza e la corruzione dei capi, l’infedeltà e la persecuzione di profeti autentici e dallo sguardo acuto, come Geremia, la religiosità di facciata… portarono al crollo delle istituzioni e delle sicurezze civili e religiose su cui si basava la fede del popolo. È il momento dell’esilio. Ezechiele vive questo passaggio: dalla sicurezza fondata sulla monarchia, sul tempio e sulla terra alla precarietà e all’incertezza del tempo esilico e post-esilico. Il popolo di Dio viene condotto fuori delle mura, protezione e baluardo contro i nemici e viene costretto a incamminarsi nell’oscurità, come il profeta aveva annunciato con un’azione simbolica espressiva e potente insieme. Una breccia nelle mura e un fagotto sulle spalle: segni profetici inconfondibili, che preparano un’epoca di disincanto e frustrazione.
L’epoca in cui noi viviamo non è ovviamente assimilabile tout-court a quella di Ezechiele, ma i sistemi valoriali che si sono incuneati già da tempo nella società e nella chiesa, le nuove tavole nichilistico-narcisistiche su cui viaggiamo, la rimozione di temi forti (come ad esempio, la solidarietà) accettati nel passato, ma rifiutati, se non sbeffeggiati nel presente… costituiscono segnali particolarmente significativi di una decadenza che ci sta investendo.
Il nostro cristianesimo, che in origine aveva assorbito e incorporato luoghi, costumi e feste pagane ri-semantizzandoli (es. il Natale, festa pagana del Sole invitto divenuta festa della nascita del Cristo, Sole che illumina la storia) oggi pare rassegnarsi a una ri-semantizzazione pagana di luoghi, costumi e feste cristiane. Sacramenti e feste sono ridotti spesso a simulacri senza contenuti cristiani (penso al Natale o alle cerimonie religiose che accompagnano matrimoni, cresime, comunioni…). La fede è spesso di facciata, come ai tempi di Geremia («non confidate in parole menzognere come: tempio del Signore, tempio del Signore…hypom! Ger 7,3-4). Forse dobbiamo riconoscere di non essere più in grado di esprimere un cristianesimo diverso da quello voluto dalla società occidentale, che è in profonda crisi. Nonostante l’attenzione mediatica ad alcuni eventi religiosi e nonostante l’ostentazione di potenza e sicurezza di estremismi identitari, le mura dell’occidente cristiano scricchiolano e la crisi non risparmia neppure la nostra personale esperienza di chiesa: le strutture religiose, congregazionali e pastorali mostrano vistose crepe, le forze in campo diminuiscono vertiginosamente e i nuovi afflussi sono ancora pochi e indecifrabili di fronte all’emorragia degli ultimi decenni.
La metafora più consona a descrivere questo cambiamento è forse quella che troviamo a conclusione del romanzo Il nome della rosa, di Umberto Eco, che viene alla luce negli anni 80. Il frate Guglielmo e il novizio Adso, dopo intrighi di diverso genere, sospetti e omicidi, stanno finalmente per arrivare a scoprire il mistero che si nasconde nel monastero dove vivono da qualche tempo, quando improvvisamente il vecchio monaco Jorge provoca un incendio che nessuno riuscirà a domare e che inghiottirà nel fuoco l'intera abbazia. Adso e il suo maestro partono dal monastero in mezzo a un cumulo di macerie… Il monastero, simbolo della verità ultima metastorica e metafisica, immagine della solidità culturale e teologica, si sgretola (disiecta membra). In quegli stessi anni in cui viene alla luce il romanzo di Umberto Eco, il filosofo francese Jean Francois Lyotard (1925-1998), in un suo studio su La condizione postmoderna (1979), descrive l’epoca attuale come un tempo caratterizzato dal venir meno di principi metafisici, ideologici, religiosi che avevano segnato l’epoca moderna. Viene meno la fiducia nelle istituzioni e nei sistemi di pensiero dal sapere certo e incontrastato, nelle leggi dogmatiche, immutabili che governano stati e chiesa. Zygmunt Bauman, per descrivere la situazione filosofico-culturale in cui stiamo vivendo, ha coniato un’espressione che ha avuto fortuna nel campo scientifico: Liquid Society, una metafora che presenta il nostro mondo insicuro, frammentato e fluttuante.
Ed ecco allora la domanda: possiamo ancora coltivare la speranza in questo orizzonte nebuloso e oscuro che si proietta sul nostro futuro? Possiamo riempire di attese nuove la Promessa di Dio, sempre presente, ma continuamente smentita dai fatti? Nei due punti che seguono provo a individuare alcuni orientamenti che mi sembrano emergere dalla parola di Dio: sono due connotati della speranza così come viene descritta dalla Bibbia e, allo stesso tempo, sono sentieri su cui incamminarsi come comunità ecclesiali per diventare in mezzo a questo nostro mondo testimoni di speranza.
2. RITORNO AL DESERTO
Il ritorno al deserto è uno dei costitutivi fondamentali per continuare ad avere speranza. Fare memoria del deserto ci riporta ai momenti originari della storia di salvezza e alla ragione del nostro esserci, come dimostrano i luoghi biblici, dove gli inizi sono sempre contrassegnati dall’esperienza del deserto: “Mosé stava pascolando il gregge di Jetro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb” (Es 3,1); «Ricòrdati (Israele) di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto» (Deut. 8,2); “In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea…”.(Mt 3, 1-4); “Subito dopo lo Spirito condusse Gesù nel deserto e vi rimase per quaranta giorni”.(Mc 1, 12); “Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava”; “Gli Apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo deserto, e riposatevi un po' » ((Mc 6,30-31). I padri del deserto raccontano come una volta abba Arsenio, assalito dai demoni, gridasse: «O Dio, non abbandonarmi! Non ho fatto niente di buono davanti a te, ma nella tua bontà concedimi di ricominciare». Concedimi di ricominciare è la preghiera dell’uomo che sa cogliere nei suoi spazi e nei suoi tempi, lo spazio e il tempo di Dio.
Ad Ezechiele viene comandato di preparare un fagotto. Cosa mettere dentro non viene detto, ma Israele s’incammina verso un nuovo inizio, costituito dall’esilio, soltanto con un fagotto. Il nostro primo dovere è ritornare alle radici, a ciò che costituisce l’essenza della nostra fede. In linguaggio biblico si parlerebbe metaforicamente di ritorno al deserto, all’essenzialità del deserto.
L’Occidente ebraico-cristiano vive da molti anni in quello stato di vita che Paul Ricoeur ha descritto con un’espressione densa e provocante. Nel nostro vissuto, diceva Ricoeur, siamo arrivati a un punto in cui alla «bulimia dei mezzi» corrisponde «l‘atrofia dei fini». Si tratta di un mondo disegnato con il compasso dei costruttori e, allora, il ritorno al deserto significa anzitutto ritorno all’essenziale liberandosi degli idoli. Nella Bibbia il grande nemico di Dio sono gli idoli: la Bibbia non conosce la contrapposizione credente - ateo, ma l‘altra credente – idolatra, con i credenti nel continuo rischio di ridiventare idolatri. Forse è scontato insistere ancora su quanto sto per dire, ma il sistema idolatrico costruito come tentazione perenne è ben visibile nelle tre «S» che scandiscono lo «status» ideale dell’uomo contemporaneo: soldi, successo e sesso (possesso). Intendo dire che ciò che conta oggi non è l’uso del denaro, ma i soldi come scopo della vita, in funzione della crescita patrimoniale intesa come valore vitale prioritario; conta non una sessualità come orientamento umano positivo, ma come ambito di possesso, intriso spesso di maschilismo tossico; conta non il successo, come efficacia di relazioni amiche, ma il successo come costruzione asimmetrica e gerarchica, funzionale al proprio potere.
In una lezione sull’ecclesiologia del Vaticano II, tenuta nel 2001 nella diocesi di Aversa, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il card. J. Ratzinger, affermava: “… la prima parola della chiesa è Cristo e non se stessa; essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione è rivolta a Lui… […] Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, sarebbe superflua…La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è «crisi di Dio»; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c’è bisogno della chiesa” (L’osservatore romano, 17-18 Settembre 2001, 5-6).
La comprensione che l’uomo ha oggi di sé è spesso legata alla prestazione e alla riuscita. L’uomo contemporaneo deve ormai continuamente giustificarsi, non più davanti al tribunale di Dio, come al tempo di Paolo, ma davanti al tribunale della società, del posto di lavoro, dell’ambiente circostante. E ci si può giustificare solo mediante il rendimento. Questa è oggi la vera maledizione della legge: si è qualcuno solo in virtù delle proprie prestazioni personali, ci si può affermare solo documentando la propria efficienza. L’idolatria di un «io» diventato ipertrofico è il vero problema dell’essere umano e del credente e il ritorno al deserto ha come scopo di far passare un popolo idolatra (e sempre tentato dall’idolatria) alla fede autentica. Nel deserto l’uomo impara a conoscere la sua nuda condizione di uomo, perché nel deserto non si semina e non si raccoglie, non si coltivano campi e non si accumulano tesori. In questa condizione di essenzialità estrema, l’uomo impara soprattutto a riconoscere di non essere Dio, impara a misurare la speranza non sul compasso dei desideri di chi è sazio e soddisfatto, ma su quello dei bisogni fondamentali. Perché è diverso chiedersi cosa sia la speranza da parte di persone che vivono in un sistema di garanzie che tutelano interessi come i nostri, e chiedersi, invece, cosa sia la speranza in uno status umano e sociale dove essa ha come contenuto il pane da mangiare, l’acqua da bere, la casa dove dormire…
È per questo che in ebraico midbar / deserto evoca dabar / la parola: il deserto è il luogo in cui la parola divina trova spazio, dove gli esseri umani guariscono dalle loro morbosità borghesi.
Il deserto ci porta su nuove vie che fanno emergere le fratture che sono dentro il nostro sistema iniquo perché annunciare il Regno di Dio ha senso soltanto quando poniamo fiducia non nell’onnipotenza delle nostre mani e/o nelle cantilene consolatorie al Dio onnipotente ripetute nelle nostre chiese, ma nella solidarietà con chi i deserti della vita li vive davvero in prima persona: gli esseri umani calpestati nella dignità, cacciati ai margini da un sistema costruito dal compasso dei costruttori, secondo le leggi dei più forti.
Forse è qui una delle ragioni del nostro esilio, per cui dobbiamo riconoscere con il profeta Isaia: … Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli… Ecco, guarda… le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion, Gerusalemme una desolazione. Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte. Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai fino all'estremo? (Is 64,4-11).
Quando anche noi abbiamo il coraggio di riconoscere tutto questo, i nostri deserti possono allora convertirsi in strade di speranza. L’antico adagio - che percorreva anche la cultura greca, ma che ci viene richiamato soprattutto da autori cristiani colti e sensibili, come ad esempio l’autore della lettera agli Ebrei - si esprime così: pathein – mathein / soffrire (significa) imparare… Forse questo adagio è in grado di guarirci, se ci aiuta ad andare alla radice dei nostri problemi, senza fermarci solo in una superficie di comodo. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì afferma appunto Ebr 5,8 quasi a dire che si diventa figli di Dio quando sappiamo riconoscere la verità di Dio nei nostri deserti. “Ci hai messi alla prova, ci hai passati nel crogiuolo come l’argento!” afferma il salmista (Sal 66,10) e Proverbi aggiunge “il Signore corregge quelli che ama come il padre i figli più cari” (Pr 3,12). La prova porta l’uomo a interrogarsi sul senso della vita, a porsi la domanda su che cosa sia veramente vitale, che cosa faccia vivere l’uomo! Nel deserto, dunque, JHWH insegna, corregge. L’importanza della lezione che ci proviene dai nostri deserti sociali ed ecclesiali consiste nel ricordarci che solo Dio è Dio e che l’uomo non può adorare gli idoli falsi e bugiardi, che promettono molto, ma conducono poi su una via di menzogna. Il deserto insegna che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Nel deserto JHWH apre una strada di speranza. Arrivo così a un’ulteriore connotazione della speranza biblica che parte dalla presa di coscienza della situazione in cui ci troviamo, passa attraverso la spogliazione del deserto e arriva alla fecondità del limite e del terreno arido.
3. LE DOGLIE DELLA PARTORIENTE
La metafora dei gemiti della partoriente mi sembra, infatti, la strada maestra per descrivere la speranza cristiana che non nega e non nasconde il limite e la croce, ma lo assume, facendolo germogliare.
Per illustrare questo aspetto, lasciatemi partire da una osservazione lessicale. Limes in latino è una linea trasversale tracciata generalmente su un terreno per indicare il limite di un determinato campo e, dunque, il confine che limita un lotto da un altro. Correlato a questo concetto ne abbiamo un altro, espresso in latino da un sostantivo neutro di terza declinazione limen liminis che significa soglia, uscio… qualcosa che mette in comunicazione due luoghi, due territori, ecc. e implica un attraversamento, un passaggio… Potremmo dire che la soglia è sia confine sia passaggio: delimita uno spazio, un luogo, ma nello stesso tempo apre verso nuovi orizzonti. Il limite, visto in prospettiva dinamica, sta ad indicare sì una mancanza, un difetto, una negazione… ma annuncia anche possibilità inaspettate, dischiude opportunità, costituisce una soglia, un passaggio… un varco verso nuove mète e nuovi orizzonti. In fondo anche l’uscita di Ezechiele e del suo popolo verso Babilonia significò incontro con un’altra cultura e un altro popolo, una nuova riflessione sull’essere di Dio e sulla sua Presenza: non più nel tempio, ormai distrutto, ma nel tempo, nel sabato, ad esempio… L’esilio significò una nuova teologia, un nuovo modo di pensare Dio.
Intendo dire: la crisi che attraversiamo ci obbliga a rileggere Dio in modo diverso da come lo abbiamo percepito sinora, a comprendere in modo nuovo l’evangelizzazione di questo mondo, di questa storia. All’esperienza del limite appartiene un dato ineludibile: che tutti siamo stati dati e siamo stati dati come appartenenti a questo popolo, a questa chiesa, a questo tempo. Questo però ci impone anche un compito: abbiamo il dovere di non fuggire dal nostro destino, da quello che siamo, fantasticando ad esempio un tempo trascorso, un’età dell’oro che non è più… oppure una fuga in avanti, un mondo futuro, un aldilà astorico e disincarnato. La speranza cristiana matura nell’esperienza del limite che costituisce la storia umana e gli esseri che la vivono. Voglio dire, che questo limite non è assimilabile al rantolo di un morente, ma alle doglie e ai gemiti di una partoriente.
b) I gemiti costituiscono la parola chiave anche del secondo testo neotestamentario, che prendo da Rm 8,18-30. Qui Paolo parla di tre gemiti: quello della creazione, dell’uomo e dello Spirito. Il lemma caratteristico qui è stenazô / stenagmos: sospirare e gemere verso una salvezza definitiva che comunque già adesso s’impone nelle ristrettezze del presente. Della creazione si menzionano i gemiti di un’attesa trepidante con un vocabolo suggestivo apo-kara-dokia che indica un allungamento della testa dal basso verso l’alto, per osservare e ricevere la liberazione. In maniera analoga, l’essere umano che geme anche lui aspettando la piena realizzazione di ciò che già possiede, ma solo come dono parziale e anticipato. Certo, le primizie sono pegno e garanzia del dono futuro definitivo (cf. 1Cor 15,20; Rm11,16), ma lo stato attuale è quello del gemito e dell’attesa…Un’attesa sostenuta e interpretata dal terzo gemito, quello dello Spirito che si fa solidale con il gemito dell’uomo e viene in aiuto al nostro limite (Paolo parla di ἀσθενείᾳ: 8,26) diventandone davanti al Padre l’interprete (v. 27). Questo discorso del gemito è imparentato a quello della partoriente e sottolinea il paradosso della speranza cristiana che anela a un compimento, dando senso a ciò che è ancora irrisolto, che non ha ancora raggiunto il traguardo e, dunque, è poco comprensibile.
c) E finalmente il terzo e ultimo testo, preso da Giac 5,7-8, presenta la speranza non come terra di evasione, ma di responsabilità della terra e di tutto ciò che, nell’al-di-qua, è segnato dalla deficienza e dall’incompiutezza. Si tratta di una parenesi a dei cristiani stanchi e sfiduciati, consapevoli che il tempo dell’ attesa tra il «già» della morte-risurrezione di Gesù e il «non ancora» della parusia è un tempo testato, segnato dalla prova. Nei vv. 7-8 di questo piccolo brano, abbiamo la suggestiva metafora del contadino, il geôrgos (gê+ergon: colui che lavora la terra), molto appropriata se si tiene conto del terreno sassoso della Palestina, dove la lotta dell’agricoltore contro il deserto che avanza e carpisce la speranza, è una lotta quotidiana. La parola chiave di questo piccolo brano è mακροθυμia che letteralmente definisce una persona dal sentire grande, dal respiro ampio (makro-thymeô): una persona che, segnata dalla debolezza e dall’impotenza da una parte e dall’attesa dall’altra3, tiene fermo il suo cuore nella hypomonê / perseveranza4. Il verbo hypo-menô e il sostantivo hypomonê delineano qualcuno/a che rimane nell’attesa pur vivendo sotto (hypo-) il peso di una realtà imprevedibile e implacabile. Il cuore della metafora è nel limite che il contadino avverte nel suo operare, sapendo bene di attendere ciò che, di per sé, potrebbe anche non venire o comunque tardare. L’agricoltore aspetta e rispetta i tempi della terra: le stagioni della semina, dei frutti e della raccolta… nella consapevolezza che la vita germoglia nel buio della terra, là dove l’occhio umano non è in grado di penetrare. La decadenza della speranza porta l’essere umano a non misurarsi più con la fatica e la passione del costruire: ci si abbandona al fruibile immediato, al “tutto e subito”, al calcolo e all’interesse, alla consumazione immediata, senza attesa. “Non ho tempo” è il leit-motiv della situazione disperata, indizio di un malessere profondo: quello di un uomo e di una chiesa segnati dall’accelerazione, dalla frammentazione, da un limite che distrugge rendendo l’essere umano un proskairos / (l’uomo) di un momento (cf. Mc17) (?) che non ha radici, incapace di durata, di perseveranza… Giacomo esorta una comunità cristiana stanca e in crisi ad avere la stessa forza vitale del geôrgos. Un’attesa dolorosa ma che, di fatto, la hypomonê dei profeti dimostra credibile.
Ricorda il seminatore di Mc 4,26-29 che – dopo aver seminato – continua la sua vita di notte e di giorno (Cf. verbo e sostantivo al v. 11).
CONCLUSIONE
Vorrei concludere il discorso sulla speranza con la visione della Gerusalemme celeste, presentata in Apoc. 21-22, tappa obbligata a conclusione del nostro cammino biblico. La visione della Gerusalemme che scende dal cielo è un testo importante, non solo a motivo del fatto che la descrizione della scena occupa due capitoli (Ap. 21 e 22) e non solo per il fatto che Gerusalemme viene menzionata nella Bibbia più di 800 volte a sottolinearne l’importanza, ma soprattutto perché siamo alla conclusione del libro e dell’intera Bibbia cristiana. Come se l’autore volesse mostrarci la mèta del nostro viaggio e volesse inocularci che la speranza non delude (cf. Rm 5,5) anche in una storia travagliata e contraddittoria come la nostra.
Diciamo subito che questa visione di una città che scende dal cielo potrebbe farci sognare eventi inverosimili e potrebbe confonderci inoculando dentro di noi una spiritualità dell’evasione: la felicità è altrove, nell’aldilà, in un futuro remoto che non ci appartiene perché le nostre città, la Gerusalemme terrestre, è invece colma di odio e nefandezze. Aspettiamone dunque una nuova. L’Apocalisse non ci permette questa spiritualità dell’evasione. Per capire il testo dobbiamo rileggere le vicende di Gerusalemme nella Bibbia ebraico-cristiana, dove troviamo almeno due città. Lo dice, in qualche modo, anche la strana forma duale del nome ebraico Jerushalaim. La forma -aim è un plurale / duale, quasi a sottolineare che ci sono appunto almeno due città. E infatti, nella tradizione ebraica e cristiana si parla da un lato di Gerusalemme come città santa, eletta, città che Dio ha scelto come sua dimora e di un’altra Gerusalemme che uccide i profeti e lapida gli inviati di Dio (Mt 23,37-39). Dunque, cos’è questa Gerusalemme che scende dal cielo? Lo dice la voce che viene dal trono (21,3) e proclama la vittoria sulla morte. Si tratta del mistero presente nella risurrezione di Cristo: è la risurrezione che scende dal cielo, perché la risurrezione può essere solo opera di Dio e non dell’essere umano, incapace di vincere la morte. Nella prima scena dell’Apocalisse, il Cristo risorto viene presentato come «il Primo e l’Ultimo…», Colui che possiede «le chiavi della morte e degli inferi» (1,17-18). Giovanni tiene a precisare che siamo nel giorno del Signore e dunque nel giorno che segna la vittoria sulla morte. La parola dell’Apocalisse dunque, sin dal primo capitolo, annuncia e ci dice che il giorno del Signore ci è dato perché sappiamo discernere nella quotidianità della storia, nell’ordine storico del mondo, negli inferni della nostra vita, un altro ordine, un kairos: quello del Risorto, perché è Lui che ha le chiavi della morte e degli inferi! Lui può entrare persino negli inferni costruiti dalle mani dell’uomo. Una bella preghiera della chiesa bizantina dice che Dio è venuto a cercare Adamo sulla terra, ma non lo ha trovato sulla terra, e allora è disceso agli inferi: «Il creatore di Adamo ha visitato Adamo negli inferi; è sceso e lo ha chiamato…, lui che l’aveva già chiamato tra gli alberi del paradiso: “Adamo dove sei?” gli aveva detto nel giardino (cfr. Gen 3,9). Quella stessa voce che lo aveva chiamato tra gli alberi, è discesa per chiamarlo tra i morti… Adamo era fuggito davanti a lui come un ladro; ma quando è entrato negli inferi lo ha illuminato…».
Tutto questo ha il suo riscontro nella Gerusalemme celeste che scende dal cielo. E significa che Dio non crea un’altra città al posto di quella malvagia che esiste sulla terra. La risurrezione è la trasfigurazione di questa città, di questo uomo, di questo mondo, perché Dio è fedele alla terra che ha creato, all’uomo che ha impastato. Questo significa che Dio strappa dalla morte la Gerusalemme terrestre: le nostre città… impigliate nelle crisi, annegate nelle colpe, che percorrono sentieri di tenebra… sono strappate alla morte, grazie alla risurrezione di Cristo che ha vinto la morte.
Tutto questo significa imparare a capire e a credere che Dio non è “altrove”, ma “altrimenti”, nel senso che il cristiano non fugge in un altro luogo, non si rifugia in un “altrove”, in una terra dove non esiste malvagità e peccato: non ci è permesso evadere in un “altro mondo” quando vivere in questo diventa difficile. Il cristianesimo non parla di una “Gerusalemme celeste”, per farci spiccare il volo quando la Gerusalemme terrestre diventa invivibile. Parlando del mondo che verrà (cf. Mt 22,23-33; ecc.), o di cieli nuovi e terra nuova (Is 65,17; 66,22; Ap 20; ecc.) i testi biblici del Primo e del Nuovo Testamento non intendono affatto mettere in dubbio l’incrollabile fedeltà di Dio a questa prima e unica creazione. Dio ha amato questa terra e non si pente. Dio ha scelto “questo” essere umano e non lo abbandona. L’“altro mondo” non è che la trasfigurazione del primo, del nostro, quello in cui viviamo.
La nuova Gerusalemme sorgerà là dove l’uomo cammina nella giustizia e nella fedeltà, nella mitezza e nella verità. Dio non cancella la nostra vita, ma la glorifica così com’è. Una tradizione rabbinica racconta che di fronte alla distruzione del tempio di Gerusalemme e davanti al lamento dei fedeli che non possedevano più il luogo dove venivano espiati i peccati di Israele, Rabbi Johanan ben Zakkai disse: «Figlio mio… noi abbiamo uno strumento di espiazione più efficace ancora: … sono le opere di misericordia, come sta scritto: misericordia io voglio e non sacrificio (Os 6,6)». Ecco, dunque, il motivo per cui nella Gerusalemme celeste non ci sarà più il tempio fatto da mani d’uomo: perché la Presenza di Dio sarà visibile in coloro che custodiscono la hesed, la Parola di un amore misericordioso, perché la vera luce che illumina la notte sono le opere di misericordia dei credenti. Allora la profezia sulla nuova Gerusalemme dove non ci sarà più né lutto, né pianto, né dolore né morte perché le cose di prima sono passate (Ap. 21) sarà per tutti noi una speranza, ma anche un compito.
Lasciatemi chiudere, allora, con una poesia di Rainer M. Rilke il quale, in termini laici e toccanti, riassume quello che ho tentato di esprimere in termini di fede:
Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore
e ... cerca di amare le domande,
che sono simili a stanze chiuse a chiave
e a libri scritti in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
perchè non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta.
[Testo non rivisto dall’autore]
Materiale di riflessione, buona lettura!
Omaggio a Papa Francesco!
Cogliendo l’occasione della triste “dipartita” di papa Francesco che il Signore ha chiamato a sé dopo 12 anni di pontificato, vorremmo iniziare la pubblicazione con alcuni messaggi che in questi anni il papa ha offerto alla nostra Congregazione e Confederazione di CRSA e anche attraverso incontri vissuti attraverso la USG (Unione dei Superiori Generali).
Dopo la prima intensa esperienza vissuta con la sua visita pastorale alla parrocchia di San Giulio il 7 aprile 2019, quando la parrocchia era ancora affidata alla nostra Congregazione, riportiamo il messaggio che ci ha rivolto il 13 gennaio 2013 nell'udienza privata alla presenza del Consiglio Primaziale della Confederazione CRSA. Poi in altre due occasioni ha incontrato i Superiori generali degli Istituti maschili e anche femminili. Infine significativo anche l’incontro con la Delegazione della Val d’Aosta e la Congregazione dei Canonici Regolari del Gran San Bernardo, in occasione del centenario della proclamazione di San Bernardo “Patrono della Val d’Aosta e degli alpinisti”.
Padre Rinaldo
Il nostro annuncio comincia oggi dove viviamo!
ALCUNI PENSIERI E IMPRESSIONI
a cura di padre Rinaldo
Sono rientrato da poche ore dalla Messa esequiale per papa Francesco in piazza san Pietro, alla presenza di una folla immensa di fedeli, sacerdoti, vescovi, cardinali e autorità civili e religiose di tutto il mondo! Impressionante la piazza gremita alla massima capienza fino a tutta via della Conciliazione, per non parlare dei Maxischermo e collegamenti radio-televisivi in mondovisione.
Eppure si è vissuta la celebrazione in un clima di profondo raccoglimento ed emozione; si potrebbe dire che lì era rappresentata tutta l’umanità nelle sue più svariate sfaccettature culturali, religiose, politiche e sociali.
Nonostante la celebrazione fosse nella lingua ufficiale della Chiesa che è il latino, salvo qualche altro testo e preghiere in diverse lingue, si è comunque potuta percepire una religiosa partecipazione di ascolto e devozione.
Quello che mi ha maggiormente colpito a livello emotivo e umano, è stata la consapevolezza di essere alla presenza fisica di numerosi potenti della terra, che in un certo senso questa presenza sembra stridere con la figura e la testimonianza che ha dato papa Francesco: da un lato i potenti che se fossero tutti davvero di buona volontà per il bene dell’umanità intera potrebbero risolvere gli innumerevoli problemi e miserie che abitano il nostro pianeta; dall’altra la vita di un papa che non si è mai stancato di invitare e richiamare i valori della pace, dell’uguaglianza, della giustizia, in difesa degli ultimi e dei più poveri. Saranno state parole al vento oppure qualche goccia di bontà e riconciliazione, soprattutto stamattina, sarà caduta nel cuore di questi potenti? Riascoltando e rileggendo l’omelia del Cardinal Giambattista Re nel suo ripercorrere la vita, i viaggi e i numerosi messaggi lanciati da papa Francesco, mi hanno colpito due aspetti o pensieri che se diventassero realtà potrebbero cambiare davvero il mondo: il continuo invito alla pace e alla cessazione della guerra che purtroppo, anche se “a pezzi”, è ancora presente in tante parti del mondo, e la guerra, ha sempre sostenuto papa Francesco, non è altro che distruzione e morte di persone innocenti e di strutture umanitarie che poi bisogna nuovamente ricostruire, senza parlare dei traumi emotivi e psicologici che abitano il cuore di chi vive in queste situazioni di odio, paura e violenza! L’altro aspetto è il richiamo alla “gioia e misericordia” che il papa nei suoi discorsi e nei suoi scritti ha continuamente sollecitato per migliorare ogni giorno i nostri rapporti umani e religiosi. Sono parole che percorrono tutto il vangelo e la storia sacra del popolo eletto, parabola della storia di ogni persona che ogni giorno si trova immersa in questa “valle di lacrime”.
Personalmente di questo papa che ho avuto l’occasione di incontrare più volte in udienze ed eventi speciali, mi è rimasta impressa la sua capacità di rapportarsi con le persone, con i gruppi, con le varie realtà della Chiesa e nel campo civile, la semplicità del suo linguaggio, fatto spesso di immagini comprensibili anche alle persone più semplici, instancabile nel richiamare alcuni valori fondamentali della vita cristiana, umana, sociale e nella difesa del nostro pianeta, chiamato “casa comune”! Non voglio ripetere ciò che altri personaggi hanno già scritto ed evidenziato meglio di me, ma questi sono solo alcuni spunti che mi sono nati nel cuore in memoria di questo papa che sicuramente lascerà un segno positivo e costruttivo in seno alla Chiesa e all’umanità.
In tutto questo clima che apparentemente sembra negativo per via di queste situazioni allarmanti, non deve venir meno la speranza, tema e messaggio lanciato da papa Francesco in questo Anno Santo per ridare fiducia e serenità a chi ha creduto al suo ministero e alla sua testimonianza di apostolo del Vangelo.
Come religioso, e lui stesso il papa proveniva da una comunità religiosa di Gesuiti, mi restano in cuore le sue parole riportate nella “Lettera ai Consacrati” del 2014, invitandoci a “svegliare il mondo” con la nostra vita fraterna, di preghiera e di dono al Signore, in un atteggiamento di servizio e non di potere sia all’interno della Chiesa che della società.
Non posso che concludere con un suo pensiero toccante per la conversione del cuore di ognuno di noi: “Non abbiate paura di sognare in grande! Non dobbiamo attendere di essere perfetti e di aver fatto un lungo cammino dietro a Gesù per testimoniarlo; il nostro annuncio comincia oggi, lì dove viviamo”.
Francesco, un padre che ci ha introdotti alla gioia del Vangelo
Al momento di congedarci da Papa Francesco prendiamo coscienza di ciò che egli ha rappresentato
per noi tutti, in particolare per noi superiori generali e per tutta la vita consacrata.
In questi dodici anni del suo pontificato la cosa più evidente è che Francesco ci è stato compagno di
cammino. Con noi ha camminato, con noi ha dialogato, su una strada veramente sinodale, per aiutarci a capire meglio noi stessi, la nostra vocazione e missione nella Chiesa e per il mondo.
Papa Francesco era un religioso, un Gesuita. Ci capiva a partire dalla sua propria esperienza di vita
consacrata, ma anche di vita di superiore, di pastore nella vita religiosa. Ci capiva da uomo che ha
fatto esperienza, certamente anche sofferta, di quanto possa essere arduo condurre un gregge di fratelli e sorelle che desiderano rispondere a una chiamata a seguire Cristo da vicino per andare al largo con Lui.
Fin dall’inizio del pontificato Papa Francesco ha offerto all’USG ampie e frequenti possibilità di
incontro. Ci convocava regolarmente per una mattinata in cui dialogava con noi, ascoltava le nostre
domande, ci rispondeva a braccio, con molta confidenza. Per questo voleva che l’incontro fosse solo
fra di noi, senza la stampa, senza altri ufficiali della Santa Sede. Voleva che ci sentissimo liberi, lui
per primo, di dirci quello che avevamo sul cuore. In questi dialoghi, in fondo, ci aiutava a prendere
coscienza di quello che desiderava trasmettere a tutto il popolo di Dio associandoci alla sua passione
per la missione della Chiesa.
Forse uno dei concetti più illuminanti sul metodo pastorale di Papa Francesco è ciò che scrisse
in Evangelii gaudium: che è più importante iniziare processi di vita che conquistare spazi di
potere (cf. EG 223). Questa convinzione può illuminare ora la nostra memoria, triste e grata ad un
tempo, in questi giorni di congedo da lui. È importante farlo per capire su quale cammino ci lascia
Papa Francesco, in quale processo di vita ci ha aiutati ad entrare, in quale direzione ci ha aiutato a
fare i nostri primi passi. È un po’ come quando i discepoli di Emmaus hanno visto sparire Gesù, dopo
che Lui li aveva accompagnati per un grande tratto di strada, dialogando con loro e amandoli fino a
far ardere il loro cuore di desiderio di stare sempre con Lui. I due discepoli hanno capito che Gesù li
aveva accompagnati per indicare loro un cammino, una strada da percorre, sulla quale correre, una
strada che dalla sua parola e dal pane spezzato della sua vita donata desse a tutta la loro esistenza una direzione lieta di testimonianza e di comunione. I discepoli di Emmaus si rimettono in cammino
perché da quel compagno hanno ricevuto una direzione da seguire con tutta la loro vita e anche
un’energia nuova per percorrerla.
Per questo è importante ora meditare sui processi di vita che Papa Francesco ha iniziato con noi nella Chiesa. Non è importante che questi processi siano giunti al loro compimento. Un processo di vita in fondo non si conclude mai, ma ha la positività di donare al nostro cammino un senso, una direzione, l’energia per seguirlo.
Papa Francesco con noi, specialmente nella vita consacrata, ha iniziato processi di conversione. Ci ha offerto linee chiare sui punti nei quali siamo chiamati a convertirci sempre di nuovo al Vangelo. Ci ha introdotti così a processi di umile riconoscimento delle nostre mancanze e fragilità, di ciò che nel nostro procedere, nella nostra storia, nel comportamento dei membri delle nostre comunità, in
particolare di chi ha un ruolo di responsabilità, non è ancora fedele a Cristo, alla sua verità, alla sua
misericordia.
Francesco ha iniziato così con noi processi di nuova coscienza della nostra missione. Una missione
fatta di accoglienza, di incontro, di messa in gioco della nostra persona, delle nostre comunità con
l’uomo, con il povero che spesso non vediamo, perché sta ai margini della strada o sta dietro le nostre porte chiuse, e che chiede silenziosamente di entrare nel cammino della nostra vita e vocazione.
Papa Francesco non era preoccupato che avessimo tante vocazioni, ma che noi tutti rispondiamo alla vocazione di camminare insieme e con i poveri, perché la nostra vocazione sono i fratelli, le sorelle, con cui vivere una fraternità, una comunione sempre più grande dei recinti dei nostri Ordini, delle nostre comunità, delle nostre missioni prestabilite.
Tutto questo fa sì che Francesco ha iniziato con noi anche un processo di rinnovamento della mistica, di un camminare con Cristo presente, innamorati di Lui; processi in cui la vita consacrata, come tutta la vita cristiana, si rinnova dentro un’amicizia con Gesù, sempre più intima e dilatata. Certamente, la sua ultima Enciclica, Dilexit nos, sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù, si rivela essere per noi come il testamento ultimo di un padre desideroso che i suoi figli vivano in pienezza lasciandosi amare e amando senza limiti. Un testamento che è testimonianza, che è trasmissione dal cuore del padre al cuore dei figli, di un’eredità che non è materiale: è un amore da vivere, un amore da amare.
Se accogliamo e viviamo l’eredità di questi processi di vita iniziati con lui, che abbiamo la responsabilità di portare avanti, cioè di trasmettere a nostra volta, certamente il frutto del cammino
con Papa Francesco sarà una vitalità nuova della nostra vocazione, che non dipende dalle forze, dal
numero, dalle capacità, ma è un dono della grazia dello Spirito Santo.
L’eredità del Santo Padre Francesco non ci renderà protagonisti dei giochi di potere, oggi sempre più
dominanti il mondo e insensibili ai veri bisogni dell’umanità e dei popoli; ci renderà protagonisti del
Regno sempre nuovo di Cristo la cui legge è il Vangelo dell’amore.
Ci possiamo congedare allora da Papa Francesco con una gioia rinnovata di vivere il Vangelo – Evangelii gaudium –, certi che in questi processi di vita nuova il nostro padre e fratello continuerà
ad accompagnarci con il suo grande cuore e la sua ardente preghiera.
P. Arturo Sosa
Presidente USG
VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN GIULIO PAPA Domenica, 7 aprile 2019
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DEL CONSIGLIO PRIMAZIALE DELLA CONFEDERAZIONE DEI CANONICI REGOLARI DI SANT'AGOSTINO Venerdì, 13 gennaio 2023
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA DELL'UNIONE DEI SUPERIORI GENERALI (U.S.G.) Aula del Sinodo Sabato, 26 novembre 2022
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLE DELEGAZIONI DELLA DIOCESI DI AOSTA E DELLA CONGREGAZIONE DEI CANONICI DEL GRAN SAN BERNARDO Sala Clementina Lunedì, 11 novembre 2024
La parola chiave del lettore:
Siete occhi che guardano e che sognano!
Continuate a sognare, a inquietarvi, a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità universale.
Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio!
Papa Francesco