"Se smarrite la fiducia, cercate i «meravigliatori», coloro che fanno miracoli e vi rigenerano perché vi fanno sentire voluti come figli, appartenenti. Chi sono? Quelli che per amore fanno e quelli che fanno per amore."
Alessandro D'Avenia
L’intera vita e l’opera di Madre Teresa offrirono testimonianza della gioia di amare, della grandezza e della dignità di ogni essere umano, del valore delle piccole cose fatte fedelmente e con amore, e dell’incomparabile valore dell’amicizia con Dio. Ma vi fu un altro aspetto eroico di questa grande donna di cui si venne a conoscenza solo dopo la sua morte. Nascosta agli occhi di tutti, nascosta persino a coloro che le stettero più vicino, la sua vita interiore fu contrassegnata dall’esperienza di una profonda, dolorosa e permanente sensazione di essere separata da Dio, addirittura rifiutata da Lui, assieme a un crescente desiderio di Lui. Chiamò la sua prova interiore: “l’oscurità”. La “dolorosa notte” della sua anima, che ebbe inizio intorno al periodo in cui aveva cominciato il suo apostolato con i poveri e perdurò tutta la vita, condusse Madre Teresa a un’unione ancora più profonda con Dio. Attraverso l’oscurità partecipò misticamente alla sete di Gesù, al suo desiderio, doloroso e ardente, di amore, e condivise la desolazione interiore dei poveri.
Santa Teresa di Calcutta
Madre Teresa di Calcutta. Il coraggio e la profezia della fragilità universale che apre il cuore dell’infinito amore di Dio
Matteo Liut
ricorrenza nascita 26 agosto e morte 5 settembre
La nostra unica vera forza è la nostra fragilità, perché è attraverso le crepe della nostra finitudine che possiamo intuire l’enormità della vita che circonda e coglierla in tutti coloro che ci stanno vicino, a partire dagli ultimi, i sofferenti, gli emarginati. E fu proprio il coraggio di fare della prorpia fragilità un messaggio universale a rendere Madre Teresa di Calcutta un’icona agli occhi di tutto il mondo, una testimone di un’umanità capace delle più grandi cose accanto ai piccoli. Dietro a quella “piccola donna”, infatti, si nascondeva la forza dirompente dell’amore di Dio di Gesù Cristo, che ha scelto di condividere in tutto e per tutto, tranne il peccato, la nostra esperienza esistenziale con tutti i suoi limiti. Agnes Gonxha Bojaxiu era nata in Macedonia nel 1910 ed era entrata nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto. A 19 anni si trovò in India dove emise i voti e cominciò a dedicarsi all’insegnamento. Nel 1946, mentre si trovava in treno, ebbe la sua “seconda chiamata”: avrebbe dovuto dare vita a una nuova congregazione che si dedicasse agli ultimi tra gli ultimi. Fu così che quella fragile donna portò tra le vie di Calcutta, con l’aiuto delle sue Missionarie della Carità, l’amore di Dio e la forza del Vangelo. Madre Teresa morì il 5 settembre 1997 ed è santa dal 2016.
De Gasperi ( ricorrenza morte 19 agosto): il suo coraggio e la sua pazienza riportati alla luce dal Presidente di Mattarella
Domenico Rosati
Dunque, l’Italia è stata una Repubblica presidenziale, sia pure solo per due settimane; e il primo Capo provvisorio dello stato non è stato Enrico De Nicola ma Alcide De Gasperi. Il quale, peraltro, non ha fatto nulla per essere ricordato in tale veste nei libri di storia, ben altri e di più ampio respiro essendo i suoi meriti davanti al paese. E tuttavia non è privo di interesse il fatto che il richiamo ad un passaggio quasi del tutto oscurato della nostra vicenda politica sia stato riportato alla luce dal Presidente della Repubblica in carica, Sergio Mattarella, e che ciò sia avvenuto in occasione della lectio svolta a Pieve Tesino, luogo natale dello statista democristiano.
Due fronti attuali
Perché la scelta di ingrandire questo fotogramma? Sarebbe già un merito se l’intenzione fosse quella di uscire dalla rete dei luoghi comuni di una letteratura degasperiana registrata sul modulo (andreottiano) del garante della continuità dello stato dopo la disgregazione del fascismo e sull’impianto (fanfaniano) del “ricostruttore” che favorisce l’avvento del vero “riformatore”.
Un discorso commemorativo è difficile da scrivere e da interpretare, perché deve contemperare il tema storico con le urgenze dell’attualità. D’altra parte, è opinione comune che «la storia è sempre contemporanea» e non è arbitrario ricercare nel testo quel che, oltre la cronaca, l’autore ha voluto comunicare.
Il tributo all’attualità politica è stato sobrio, con due riferimenti: l’Europa e le frontiere in rapporto alle migrazioni. Sul primo punto Mattarella ha scelto di marcare il carattere volontaristico delle scelte compiute nella costruzione dell’Unione. Che è frutto – ha detto – «non di banche e transazioni economiche» ma dell’azione «di uomini politici e di parlamenti lungimiranti». Per cui, «soltanto la nostra miopia nel riconoscere il bene comune» potrà distruggere l’edificio.
L’altro spunto è stato svolto con il riferimento all’accordo De Gasperi-Gruber che, nel 1946, consentì a Italia e Austria di regolare in modo stabile e lungimirante la condizione delle minoranze di lingua tedesca nella regione di confine, costituendo un modello valido per tante situazioni consimili. Era un riferimento d’obbligo dato che l’incontro si svolgeva in Trentino, ma non era obbligatoria la sottolineatura del significato della “sdrammatizzazione” della frontiera del Brennero, in un momento in cui la pressione migratoria offre esca ai cattivi pensieri di ripristino.
Le due virtù del politico
Della figura di De Gasperi, il proprium dell’intervento Mattarella ha messo a fuoco essenzialmente due caratteristiche, presentate come requisiti importanti dell’agire politico: il coraggio e la pazienza.
De Gasperi dette prova di coraggio quando, dopo il referendum del 1946, che aveva scelto la Repubblica, dovette fronteggiare, da Presidente del Consiglio, le contorsioni dell’establishment monarchico e dello stesso monarca Umberto II che contestavano, in sostanza, la validità del voto e miravano a riaprire la partita. E qui Mattarella riporta la testimonianza del ministro Bracci che assistette al colloquio decisivo tra il re e il presidente: «È quasi commovente – così si espresse – quest’uomo mite, che non ha origini repubblicane e che, da galantuomo, affronta deciso e sereno la lotta contro la corona per obbedire al popolo».
In quella circostanza de Gasperi aveva dalla sua soltanto l’esito del voto popolare stentatamente convalidato dalla Corte di Cassazione. Molti speravano (o temevano) che si sarebbe avventurato in un problematico tentativo di mediazione. Invece non ebbe esitazioni; e lo fece perché convinto che – come spiegò più tardi – «solo il popolo è l’artefice del proprio destino». Il popolo, non una dinastia fondata su un presunto diritto divino.
E questo coraggio lo confermò nella decisione, che fece adottare al Consiglio dei ministri, con cui detronizzò il re assumendo, come la legge gli consentiva, i poteri di Capo dello stato. Poteri che mantenne fino all’elezione di De Nicola, avvenuta a fine giugno. E che utilizzò, tra l’altro, per dichiarare estinto il Senato (di nomina regia) e per approvare la grande amnistia di pacificazione predisposta dal guardasigilli Togliatti.
Una storia di determinazione politica degna di figurare tra gli esempi contenuti ne I profili del coraggio di J.F. Kennedy. Una storia che sarebbe stata confermata nel 1953, dopo il mancato scatto della «legge truffa» quando – come è stato recentemente ricordato da Luigi Berlinguer – De Gasperi rifiutò il riconteggio dei voti accettando la sconfitta politica al di là di ogni certificazione numerica.
Il tema della pazienza è abbordato sempre in connessione con il trapasso dalla monarchia alla repubblica, anche qui sulla base di una testimonianza di un democristiano che chiede di affrettare i tempi e si sente rispondere che occorre evitare che… il treno si ribalti. De Gasperi non amava “i gesti gladiatori” anche se – come si è visto – sapeva decidere. Dire che «la principale virtù della democrazia è la pazienza» non era un elogio dell’inerzia o un esercizio di controllo degli impulsi, e neppure un tener conto delle «lentezze dell’uomo». Era semplicemente un «esercizio della speranza».
Il concetto è convalidato dalla bella citazione di un discorso del 1948: «Non abbiamo il diritto di disperare dell’uomo, né come individuo né come collettività; non abbiamo il diritto di disperare della storia». È il testo in cui respinge la tentazione di perseguire la giustizia sociale indipendentemente dalla libertà politica e dai tempi che essa richiede. Dove l’invito alla pazienza pare rivolto alle forze della sinistra; ma, simmetricamente, si dovrebbe ricordare che De Gasperi, sempre in nome della «pazienza democratica», si oppose all’idea di mettere fuori legge il Partito Comunista come pure gli era richiesto da diverse sponde. Nella sua visione tripolare (Mattarella la chiama “trialistica”) egli contrastava decisamente le spinte antisistema, ma non accettava di farlo al di fuori del contesto di democrazia che gli era caro.
Per quale disegno?
Elogio del coraggio, dunque, ed elogio della pazienza. A servizio di quale disegno? Anche qui Mattarella offre una citazione preziosa. Riguarda il programma dell’Assemblea Costituente ed è importante evocarla perché a De Gasperi si è spesso imputato di aver trascurato la preparazione della Carta. Dice De Gasperi che l’Assemblea «creerà nella Costituzione una repubblica di tutti, che si difende ma non perseguita, sarà equilibrata nei suoi poteri, fondata sul lavoro ma giusta verso tutte le classi sociali, riformatrice ma non sopraffattrice, rispettosa delle libertà delle persone, dei Comuni, delle Regioni». Soprattutto quel «fondata sul lavoro» merita attenzione. Fino ad ora ci si era accapigliati sulla paternità della formula dell’art. 1: se la Repubblica democratica fondata sul lavoro fosse un’idea di Fanfani o delle sinistre costituenti. Ora sappiamo che l’ispirazione veniva dal Capo dello stato, Alcide De Gasperi, nel primo e probabilmente ultimo discorso pronunciato in tale veste.
Chiosa finale. Mattarella giustamente ricorda che i governi di De Gasperi dal 1945al 1953 realizzarono importanti riforme e altre ne misero in cantiere. È esatto ma non basta. Occorrerebbe aggiungere, guardando a quel che è accaduto dopo, che la stagione degasperiana è stata la più ricca di interventi riformatori dell’intero settantennio repubblicano. Ma questo è l’argomento di un’altra narrazione.
De Gasperi: quando la fede dà forma alla politica
Cardinale Gualtiero Bassetti
Carissimi amici e amiche,
al di là di ogni retorica, sono veramente poche le occasioni in cui si riesce a coniugare «storia e futuro» in un unico evento. In questo convegno, invece, come avete ben sottolineato nel titolo, si fa giustamente riferimento a un passato e ad un futuro del Paese che possono essere riuniti simbolicamente «nei valori degasperiani». Alcide De Gasperi, infatti, non è stato soltanto un «politico di professione» che ha governato il Paese circa 70 anni fa, ma ha rappresentato una delle espressioni più alte di un popolo e di un gruppo dirigente – cristiano, democratico ed italiano – che ha ricostruito l’Italia dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e ha tracciato la strada maestra per gli anni futuri, addirittura fino ai giorni nostri.
Per chi, come il sottoscritto, è cresciuto nella Firenze di La Pira e si è abbeverato dell’umanesimo fiorentino, formandosi in quell’eccezionale impasto di spiritualità e socialità – il pane e la grazia – che per decenni la città dei Medici è stata testimone nel mondo, parlare oggi di Alcide De Gasperi assume un significato molto importante. Penso, infatti, che le diverse sensibilità spirituali, culturali e politiche che hanno caratterizzato il mondo cattolico in questi 70 anni di storia repubblicana, necessitino di essere lette sotto una nuova luce e con un nuovo angolo visuale. Le differenti vedute che animarono il dibattito tra i «professorini» della DC, la leadership politica degasperiana e quella ecclesiastica montiniana, così come le differenti prospettive politiche dei cattolici durante la Seconda repubblica, esigono oggi un autorevole approfondimento culturale e soprattutto una nuova riflessione pubblica.
Ed in questa dinamica di approfondimento culturale e di riflessione pubblica, sono assolutamente convinto che la figura di De Gasperi occupi un posto rilevantissimo. Un posto di rilievo su cui è ancora opportuno riflettere. Non solo dal punto di vista storico – ambito nel quale è stato prodotto molto nell’ultimo decennio, anche per merito della Fondazione De Gasperi – ma soprattutto in un’ottica di piena consapevolezza pubblica della sua figura. Una figura che, infatti, si caratterizza per essere, ancora oggi, un modello esemplare di impegno sociale sia per il credente impegnato in politica, che per ogni persona di buona volontà che abbia veramente a cuore il bene comune del Paese.
A mio avviso, De Gasperi è stato indubbiamente un vero italiano, un autentico cristiano e uno straordinario statista, tra i più importanti – se non il più importante – dell’Italia unita. Queste tre dimensioni, tutte fortemente intrecciate tra loro, hanno però un’unica sorgente: la cifra spirituale e culturale della sua caratura umana.
La spiritualità
La dimensione spirituale rappresenta infatti il punto di partenza, doveroso, per ogni riflessione sulla sua personalità. Come ha giustamente sottolineato giustamente Maria Romana De Gasperi, la spiritualità e la politica non furono due aspetti divergenti ma, all’opposto, «due angoli visuali diversi e complementari» che delineavano la sua complessa e ricchissima figura. La ricerca di Dio, l’anelito verso il trascendente, le domande ultime sul senso della vita, così come l’amore verso Francesca – testimoniato in moltissimi documenti – fanno parte di un’unica cornice umana, da cui non si può scindere la teoria e la prassi, l’assunzione di responsabilità verso il Paese e la faticosa esperienza di governo. Come infatti ha scritto l’ex direttore de L’Osservatore romano Giuseppe Dalla Torre nelle sue memorie, De Gasperi visse in una sorta «di doppia solitudine»: quella «di lui, cattolico che si elevava verso quel Dio al quale chiedeva tranquillità e abbandono», e quella «di lui, politico» che si prodigava nel perseguire «fin che era possibile, la giustizia e la carità tra gli uomini». La fede era dunque riposta in Dio, la politica era invece una missione laica. L’una ispirava l’altra con passione, inquietudine e soprattutto senza compromessi.
Tra le tante testimonianze di fede che si possono rintracciare nella vita pubblica e privata di De Gasperi vorrei mettere in evidenza alcuni stupendi documenti che risalgono a due momenti molto diversi della sua vita: il primo momento, quello più duro, tra il 1927 e il 1928 quando fu una vittima innocente della persecuzione del regime fascista che lo condusse addirittura nel carcere di Regina Coeli; il secondo momento, dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando si trovò a guidare l’Italia nel momento più duro per il Paese: quella della ricostruzione dopo la sconfitta e la devastazione della guerra.
Nel 1927, quando ormai il fascismo è diventato un regime dittatoriale che ha compresso ogni libertà, De Gasperi redige una lettera all’amico trentino Giovanni Ciccolini in cui scrive:
No, non sono un martire, ma forse posso concederti d’essere un confessore delle nostre idee. (…) Non chiudo nel petto un animo d’eroe né mi illumina la luce interiore di un santo; tuttavia lodato sia il Signore il quale mi fa comprendere come fosse giusto che nella disgrazia di tutti, io che ero nei primi posti, per un equo compenso, debba ora trascinarmi sulla via più lacero e più malconcio degli altri. Non c’è nessun merito ad essere i primi, quando si marcia sotto un sole trionfante. C’è forse qualche merito nel trascinarsi avanti nel fango della via, dopo la rotta.
Si intravedono in queste parole il dolore dell’uomo, l’umiltà del peccatore e la sapienza di Giobbe. Una miscela di sentimenti e di riflessioni che trovano una chiave di volta solo nella lode di Dio. Sembra quasi di sentire il salmista quando canta “il Signore è il mio pastore (…) Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome”. De Gasperi si trova a vivere nella dolorosa e umiliante condizione di chi, non solo ha perso la battaglia politica, ma ha anche perso la libertà, le amicizie e gli affetti. Nonostante tutto, però, continua ad affidarsi al Signore e cerca ancora di rintracciare dei segni di speranza lungo questa strada segnata dalla sconfitta.
Non casualmente in un’altra lettera, scritta sempre nel 1927 all’amico Ciccolini, si chiede: «Quando sarà? Nel libro della Provvidenza è forse tutta scritta la pagina della nostra generazione?». È una «dura fatica» per De Gasperi accettare l’esito funesto dell’umiliazione politica, ma ha ancora la forza di affermare con vigore che, nonostante i tanti tradimenti umani, le violenze subite e l’ipocrisia dilagante «il cristianesimo applicato alla vita pubblica vuol dire lealtà, franchezza, coraggio, sacrificio». È evidente, in queste due lettere all’amico Ciccolini, il combattimento interiore dell’uomo De Gasperi che, drammaticamente, non può sapere che la strada della persecuzione e della sua marginalizzazione umana e politica è ancora molto lunga.
Nell’agosto del 1927, inoltre, mentre si trova alla clinica Ciancarelli di Roma, scrive alla moglie Francesca una delle lettere più note e più citate del suo epistolario. In quella missiva chiarisce stupendamente la sua visione della politica – una «missione» e non un’effimera ricerca del potere – e soprattutto la sorgente spirituale di questa «missione» da cui tutto discende e prende forma. Scrive De Gasperi:
Ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola escursione, come dilettanti, ed altri che la considerano, e tale è per loro, come un accessorio di secondarissima importanza. Ma per me, fin da ragazzo è stata la mia missione. (…) Rimanendo fedele alla mia stella, dovevo percorrere quella fino in fondo. Vi sono gli uomini di preda, gli uomini del piacere, gli uomini di buona fede. Anche tu, vero, mi vuoi bene, perché sono fra questi ultimi. E allora Dio mi abbandonerà? Addio miei cari, dormite in pace nelle case romite. Io sono presente!
Parole magnifiche ed eloquenti che riprenderò alla fine del mio intervento. Mi permetto di soffermarmi, adesso, su quella domanda che si pone De Gasperi: «Dio mi abbandonerà?». La politica è senza dubbio il campo della sua missione, ma la stella da cui tutto discende non si trova su questo mondo. La risposta a questo interrogativo impellente, la troviamo in una successiva lettera alla moglie, del 18 giugno 1928, in cui si può apprezzare pienamente la sua dimensione spirituale. In uno dei momenti più duri della sua esistenza, quando la rabbia e l’orgoglio avrebbero potuto prendere il sopravvento su ogni altra espressione dell’animo umano, si assiste invece ad un’ancora più intima e profonda conversione del cuore. Scrive De Gasperi:
Dapprincipio il centro ero io e tutto il resto si trovava sulla circonferenza: Dio, la famiglia, gli amici. Poi, lentamente, faticosamente, gemendo e sospirando sotto la pressura dell’esperienza, il centro si spostò: al centro stava ora Dio ed io mi trovavo sulla periferia, col resto del mondo; un pulviscolo in un vortice inesplorabile. Mi provai allora a spiegare gli avvenimenti dal Suo punto di vista.
Queste stupende parole di De Gasperi, in cui sembrano riecheggiare persino dei termini straordinariamente in sintonia con il pontificato di Francesco, sono il compimento di un autentico cammino di conversione. Non l’odio, non il rancore e non la vendetta trovano spazio nel cuore di una persona che – è bene ricordarlo – aveva pagato la sua libertà di pensiero con la galera e l’emarginazione: ma la centralità di Dio nella sua vita.
De Gasperi con queste parole testimonia quello che significa la libertà per un cristiano. Egli è infatti autenticamente una persona libera. Così libera che pur essendo incarcerato, perseguitato e ridotto ad una nullità politica da un regime violento e illiberale, non solo rimane fedele alle sue idee, ma riesce addirittura a riscoprire la fede in una dimensione ancor più matura e intima.
«Al centro stava ora Dio – scrive De Gasperi – ed io mi trovavo sulla periferia» come «un pulviscolo in un vortice inesplorabile». Parole magnifiche che assumono un significato profondo per la difficilissima situazione di vita in cui si trova: sconfitto, umiliato e isolato, si trova a camminare lungo un sentiero strettissimo e scosceso. Eppure riesce a vincere la paura e la solitudine umana riscoprendo quella fede che gli fornisce una spiegazione alle sue sofferenze e agli avvenimenti drammatici che sta vivendo.
Questa intima dimensione spirituale che lo accompagna da sempre ma che riscopre durante le persecuzioni della dittatura fascista non lo abbandonerà più. Sarà una costante della sua vita, che tornerà ad essere presente e visibile anche nei momenti pubblici più importanti. Pur senza farsene vanto e senza venature ipocrite, De Gasperi testimonierà la sua fede senza tentennamenti e con grande umiltà.
Per esempio nel discorso che tenne al I Congresso del Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana nel 1945. In quell’occasione, dopo aver condannato i metodi «della forza» e «dell’intrigo» che da sempre inquinavano la vita politica, disse:
Quel poco di intelligenza che ho la metto al servizio della verità la quale si trova sepolta molte volte sotto strati difficilmente penetrabili, ma esiste. Io mi sento un cercatore, un uomo che va a scovare e cercare filoni della verità della quale abbiamo bisogno come dell’acqua sorgente e viva delle fonti. Non voglio essere altro.
«Io mi sento un cercatore (…) al servizio della verità (…). Non voglio essere altro». Parole che certificano una caratura morale di indiscutibile livello e che esprimono, ancora una volta, il senso profondo della sua «missione»: essere al servizio del Paese senza chiedere nulla per se stesso. A questo proposito, è doveroso citare una delle più efficaci sintesi della personalità di De Gasperi, scritta da un osservatore d’eccezione: don Luigi Sturzo. All’indomani dello storico viaggio negli Stati Uniti nel 1947, il prete di Caltagirone tratteggia una sintetica ma efficace descrizione del politico di Pieve Tesino. Scrive Sturzo:
Persona diritta, integra, senza posa, condotta rettilinea, bontà, austera complessità umana; egli, in momenti di smarrimento e di ansia, ha rappresentato la nuova Italia con le sue speranze. Quale l’avvenire dell’Italia? Hanno domandato politici ed economisti. De Gasperi non è profeta; le sue risposte sono state caute e misurate, ma la sua persona diceva più che le sue parole, perché assicurava quegli uomini di affari che l’Italia ha un leader e uno statista di senno e di equilibrio tali da poter superare crisi difficili ed evitare avventure pericolose.
In queste poche righe, don Sturzo ha sintetizzato alcuni tratti salienti della personalità degasperiana: il lato umano e spirituale di una persona «integra» e buona, assieme a quello più squisitamente politico di un «leader» e di uno «statista» che può «evitare avventure pericolose» all’Italia. Ritornano, dunque, quasi alla conclusione di questo mio intervento quelle tre caratteristiche salienti che avevo detto all’inizio della mia riflessione. Quando avevo definito De Gasperi come «un vero italiano, un autentico cristiano e uno straordinario statista, tra i più importanti – se non il più importante – dell’Italia unita».
L’eredità
La grande questione che oggi si pone dinanzi ai nostri occhi non è solo il riconoscimento degli indubbi meriti storici di De Gasperi, quanto la questione cruciale della sua eredità nel mondo attuale. Io ritengo che si tratti di un’eredità estremamente preziosa per l’Italia e l’Europa attuale. Così preziosa che necessita ancora di essere pienamente sviluppata. Mi permetto di evidenziare due suggestioni.
La prima riguarda l’identità nazionale. Ho definito De Gasperi come un «autentico italiano» e l’ho fatto perché sono ben consapevole della sua origine di «uomo di confine» e delle accuse ingiuste (di essere un austriacante) che gli sono state spesso rivolte. Egli è stato suddito dell’Impero Asburgico, parte integrante di una minoranza nazionale e ha saputo lottare per l’autonomia italiana. Ha poi conosciuto il carcere e la persecuzione del regime fascista che in nome di una visione autoritaria della nazione ha incarcerato altri italiani. E infine, nell’ultima parte della sua vita, è stato il leader di un gruppo dirigente che ha ricostruito l’Italia e che si è battuto con convinzione per costruire un’Europa unita e in pace. Da questo punto di vista, dunque, l’esperienza di De Gasperi ci viene a ricordare alcuni concetti preziosi per declinare l’identità nazionale: solidarietà, responsabilità, libertà ed Europa.
Il quadro concettuale su cui si muove De Gasperi è dunque straordinariamente attuale. Proprio oggi quando stanno sorgendo venti di guerra in Medio Oriente, quando il Mediterraneo è al centro di un conflitto silenzioso sui migranti, quando tante piccole Italie emergono nel dibattito pubblico e quando il processo europeo viene messo in discussione da troppe pulsioni particolaristiche e di chiusura verso l’esterno, ecco, in questo contesto, il messaggio di De Gasperi sull’Italia e sull’Europa è straordinariamente importante: un’Italia libera e responsabile in una nuova Europa più solidale.
La seconda suggestione riguarda la vocazione politica. Che per De Gasperi è indiscutibilmente segnata dal rapporto tra la dimensione spirituale e la dimensione politica. Un rapporto cruciale nella sua biografia. E tuttavia un rapporto laico. Senza cedere a tentazioni integriste, senza ricorrere a scorciatoie propagandistiche e senza mai strumentalizzare i simboli religiosi come amuleti identitari. De Gasperi ha il totale rispetto per la dimensione del sacro e trae la sua vocazione politica da una ispirazione spirituale che combina insieme l’esigenza di giustizia sociale con quella di carità. De Gasperi fa politica come «una missione» e con una sobrietà di cui oggi si sente una grande, grandissima, necessità in Italia, in Europa e in tutto il mondo occidentale.
Mai come oggi si avverte l’esigenza di questo slancio missionario, di questa carità politica, di questo autentico anelito verso il bene comune che è la condizione più importante affinché un semplice politico diventi poi un vero statista al servizio della propria comunità. L’Europa e l’Italia hanno urgente bisogno di un nuovo patto sociale tra tutti quegli uomini e quelle donne di buona volontà che hanno il coraggio, la passione, il talento e il desiderio autentico di costruire nuovi percorsi di impegno sociale e politico per il futuro del Paese e del Continente. L’ho detto più volte e lo ripeto ancora oggi: c’è un’Italia da ricucire per superare le divisioni ideologiche e territoriali; e per trovare una cura alle ingiustizie sociali verso i giovani, i disoccupati e le famiglie.
Cari amici e care amiche, e mi avvio alla conclusione, c’è un cammino ancora tutto da percorrere e una storia ancora tutta da scrivere. Anche se a volte abbiamo la sensazione di camminare in una valle oscura, non bisogna mai perdere la speranza. Ciò che è più importante, come scrisse De Gasperi, è che tutti gli «uomini di buona fede» distinguendosi da «gli uomini di preda» e da «gli uomini del piacere» si incamminino verso il futuro rimanendo fedeli «alla propria stella». Una stella il cui fulcro è contrassegnato, indiscutibilmente, dal valore incalpestabile della dignità umana, che va difeso sempre in ogni momento della vita.
"Cerca il bene dell'altro, e troverai anche il tuo bene!"
Padre Dehon
Dehon e il discernimento politico
Antonio Teixeira
"Nonostante il peccato, gli insuccessi e l'ingiustizia, la redenzione è possibile, è offerta e già presente"
Padre Dehon
Il 12 agosto 1925 moriva a Bruxelles p. Leone Giovanni Dehon, prete francese e fondatore della Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (dehoniani). Per farne memoria, la Congregazione ha organizzato una serie di eventi tra Saint Quentin (Francia), dove Dehon ha operato come vicario parrocchiale e ha fondato il suo istituto religioso, e Bruxelles, dove ha vissuto dopo l’espulsione dei religiosi da parte del Governo francese (1903) ed è morto. Per l’occasione, la Commissione teologica europea dei dehoniani ha tenuto un seminario di studio sulla eredità del pensiero e della azione sociale di padre Dehon a Clairefontaine, in Belgio. Il testo che riprendiamo di seguito è stato presentato durante i lavori di questo seminario.
La riflessione che propongo riguarda il modo in cui padre Leone Giovanni Dehon concepiva e accettava la Repubblica come forma di governo desiderata e scelta dal popolo francese. Il nostro fondatore faceva parte di un vasto gruppo di cristiani francesi che accettavano la Repubblica. Essere repubblicani e cristiani rappresentava a quel tempo una novità piuttosto difficile da comprendere, soprattutto se si considera che i massoni avevano svolto un ruolo importante nella fondazione della Repubblica. Vale la pena notare che all’assemblea massonica del 1865, Jérôme Bonaparte, fratello minore dell’imperatore Napoleone e maresciallo di Francia dal 1850, fu riconosciuto Gran Maestro della Loggia del Grande Oriente. Questo riconoscimento fu possibile perché il requisito di credere in Dio per l’adesione alla Loggia era stato eliminato dalla costituzione massonica.
Il ruolo dei massoni era attivo. L’ambiguità che circondava la Repubblica fece sì che la sua accettazione da parte dei cristiani non fosse né uniforme né omogenea. Il fenomeno dei cristiani che sostenevano la Repubblica coincise con la loro preoccupazione sociale per i lavoratori delle fabbriche, che vivevano in condizioni di diffuso impoverimento e degrado morale. Emersero così tre tendenze tra i cristiani sul modo di intendere la Repubblica.
Il primo approccio sottolineava il ruolo chiave dei datori di lavoro nella promozione del benessere dei lavoratori. Era essenziale proteggere i valori della famiglia, la libertà, la religione e i principi morali da qualsiasi minaccia. In questo contesto, il clero svolgeva un ruolo significativo come custode e precettore dei buoni costumi cristiani. La morale e la dottrina cristiana garantivano l’esistenza di una società sana.
La seconda tendenza era incentrata sul protagonismo dei lavoratori. I circoli di Reims, forse ispirati dalle pratiche socialiste, enfatizzavano la figura del lavoratore salariato come artefice e gestore del proprio benessere. I lavoratori non volevano che il loro destino dipendesse dalla misera beneficenza del datore di lavoro, ma dalla giustizia sociale per tutti. All’interno di questa tendenza, nel 1896 fu creato il Partito Democratico Cristiano.
La terza tendenza era costituita da coloro che cercavano di costruire ponti di dialogo tra le due posizioni precedenti.
Questo è, in linea di massima, il contesto del posizionamento cristiano nella Repubblica francese. Oltre alla diversità e al conflitto occasionale tra i cristiani repubblicani, esisteva anche un gruppo significativo di cristiani che desideravano un ritorno all’Ancien Régime.
È in questo contesto che Dehon riflette e discerne il suo ruolo di cristiano nel nuovo contesto politico e sociale francese. Certamente, una variabile da considerare nel discernimento del Fondatore dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù è il pontificato di Leone XIII. Il pontefice invitava i cristiani ad aprire nuove strade in una nuova società caratterizzata dallo sviluppo industriale, da nuovi fenomeni demografici urbani e da nuovi costumi culturali. A mio avviso, questo è proprio ciò che ha realizzato il nostro fondatore.
Dehon seguì infatti le linee guida di Leone XIII, ma non come semplice portavoce, bensì come pensatore che sviluppò le proprie idee e convinzioni personali, diventando un mediatore che sapeva dialogare con amici e avversari. Non a caso durante il Congresso di Lione, Dehon fu eletto come uno dei rappresentanti del clero nel Consiglio del Partito Democratico Cristiano.
Non credo si possa dire che Dehon è stato un innovatore politico; ma senza dubbio è stato un abile e prudente stratega .
Apprendistato repubblicano
I cambiamenti nei sistemi politici delle nazioni sono come uragani, capaci di distruggere in poco tempo ciò che aveva richiesto anni per essere costruito. Alcuni cambiamenti sono difficili da accettare a causa della complessità dell’interpretazioni e così Dehon dovette imparare a vivere nella Repubblica.
Il suo interesse e la sua azione politica non erano capricciosi, ma nascevano dalle circostanze e dall’esigenza evangelica di influenzare positivamente il regime repubblicano [1] .
La sua analisi della situazione lo portò a comprendere che l’autorità e la credibilità della Chiesa dipendevano da una profonda comprensione del dinamismo della Repubblica e dalla ricerca e creazione di spazi che consentissero ai cristiani di influenzare le decisioni politiche. Considerava la politica come un’opportunità per fare del bene, non solo come una piattaforma per proteggere gli interessi ecclesiali.
Non è infatti un caso che incoraggiasse i cattolici a non concentrarsi su sé stessi, ma ad ampliare la loro visione per abbracciare tutta la società: «Quando un giorno i cattolici francesi prenderanno la decisione di creare un blocco parlamentare, dovranno familiarizzarsi con l’idea che questo gruppo non potrà limitarsi a fare politica religiosa, ma dovrà essere molto attivo in tutti i settori della vita pubblica, se vorrà difendere con successo gli interessi legittimi della Chiesa. Questo partito dovrà avere un programma politico e in particolare un programma sociale concreto… Aiutati che il cielo ti aiuterà!» [2].
Una visione matura della politica
Considerare Dehon semplicemente come un repubblicano acritico, o come un repubblicano di convenienza che obbediva ciecamente alle direttive di papa Leone XIII, significa non prendere sul serio le scelte politiche del fondatore. Gli scritti di Dehon rivelano un processo in cui il fondatore acquisì acume politico e prudenza.
Egli non cercava di imporre i propri criteri, ma lavorava per raggiungere un equilibrio armonioso delle forze e mantenere il dialogo con pensatori di tutte le tendenze.
Non sorprende che Dehon, in qualità di organizzatore del Congresso di Lione del 1896, non abbia né squalificato né preso le distanze da padre Naudet, e abbia mantenuto un atteggiamento rispettoso nei confronti di Leclercq, entrambi appartenenti agli ambienti di Reims. Allo stesso modo, ha mantenuto un dialogo con figure ecclesiastiche, politici e intellettuali di varie tendenze e leader sindacali. Apprezzava allo stesso modo La Tour du Pin, Albert de Mun, padre Naudet e il politico Étienne Lamy.
Chi conosce queste figure sa che avevano convinzioni diverse e opinioni politiche divergenti. Sebbene all’inizio del suo discernimento politico padre Dehon credesse che la democrazia cristiana dovesse essere integrata nelle strutture ecclesiastiche e governata dalla dottrina della Chiesa, gradualmente arrivò ad accettare e riconoscere la saggezza di negoziare con coloro che non condividevano le sue convinzioni iniziali.
Inizialmente considerava la democrazia cristiana come un quadro che sosteneva il rispetto della famiglia, della moralità e della Chiesa. È comprensibile che nelle sue prime opinioni politiche padre Dehon fosse più simpatizzante di Le Mun o La Tour du Pin e più scettico nei confronti di Lamy o Naudet.
Con la maturazione politica, Dehon iniziò a dialogare con nuovi interlocutori che non sempre erano in linea con i suoi ideali originali. Pur cercando costantemente di proteggere il ruolo della fede nella società, la sua comprensione di tale ruolo si evolse da un’attenzione all’apologetica ecclesiale a una fonte di ispirazione socio-politica. La dottrina passò dall’essere un contenuto da preservare a tutti i costi a uno strumento che facilitava il dialogo con la comunità più ampia, anche con chi aveva opinioni opposte, contribuendo in ultima analisi al bene comune. Gradualmente, padre Dehon passò da una visione sacralizzata della società a una visione politica e conciliatoria.
Parallelamente all’evoluzione del suo discernimento politico, maturarono anche le sue convinzioni teologiche. Dehon passò da una visione teologica caratterizzata dalla devozione al Sacro Cuore di Gesù, carica di affettività e intrisa di discorso morale, alla comprensione della devozione dal punto di vista della grazia.
Non è un caso che in Couronnes d’amour, padre Dehon ripensi la sua interpretazione della riparazione e della devozione alla luce dell’eredità spirituale di Santa Teresa del Bambino Gesù [3]. L’impegno sociale, il discernimento politico e l’interpretazione teologica sono aspetti che, in Dehon, vanno di pari passo.
La democrazia cristiana come spazio di sintesi
L’impegno sociale della Chiesa in tutte le sue forme – dai circoli vincenziani di Ozanam alla Gioventù Cattolica di Marc Sangnier – ha avuto un ruolo importante nel discernimento di Dehon. Le corporazioni, i congressi nazionali e regionali, le cooperative, i circoli operai, i circoli di studio, i sindacati, le organizzazioni dei datori di lavoro e le pubblicazioni costituivano una modalità democratica di partecipazione che aiutava i cristiani a integrarsi nella Repubblica con proposte, progetti e riflessioni serie.
La democrazia cristiana divenne un grande movimento che articolava le diverse convinzioni politiche dei cristiani di varie classi sociali. Dehon raggiunse un equilibrio tra le diverse visioni politiche, sociali ed economiche dei vari movimenti sociali. Il suo ruolo di fondatore della congregazione, padre generale, canonico, confidente di Leone XIII e i suoi rapporti di amicizia con influenti uomini d’affari e lavoratori dell’epoca lo resero una figura importante di riferimento, mediazione e influenza.
Ha consigliato e si è lasciato consigliare
In questa sezione esaminerò uno degli interlocutori di Dehon. Quello che cerco fare qui è tracciare il discernimento di Dehon in campo politico attraverso una corrispondenza specifica: le lettere scritte sul caso Étienne Lamy.
Il Dehon delle conferenze e dei libri, che trasmetteva convinzioni che dovevano servire da base per il discernimento, è diverso dal Dehon della corrispondenza: colui che discerne deve prendere decisioni, deve usare la sua influenza e capisce che non tutto funziona secondo un manuale. Nelle sue lettere appare un uomo che accoglie e difende chi la pensa diversamente in vista del bene superiore.
Il caso Étienne Lamy
Il 29 gennaio 1899, Étienne Lamy [4] scriveva a padre Dehon esprimendo il suo sconcerto per il cambiamento politico dei Padri Assunzionisti, che avevano deciso di tornare a sostenere L’Union de la France Chrétienne [5]. Ciò che più lo turbava era che La Croix, un giornale appartenente alla federazione che dalla fine del 1897 riuniva sette movimenti cattolici per coordinare gli sforzi politici sotto un’unica bandiera cattolica, appoggiava questo cambiamento.
Lamy attribuì questa sorprendente svolta a padre Picard, che da tempo si considerava il legittimo portavoce dei desideri di Leone XIII [6]. L’atteggiamento di Picard derivava dalla sconfitta dei candidati cristiani alle elezioni legislative del 1898. La disillusione era così profonda che i lavoratori cristiani militanti criticarono duramente la Federazione dei Movimenti Cattolici.
Il 14 gennaio 1898, Payan, un operaio cattolico, comunicò a Delevanne, responsabile dell’orientamento politico del movimento della Democrazia Cristiana, la sua delusione per il fallimento elettorale e li accusò di non aver tenuto conto del movimento operaio nell’organizzazione delle proposte politiche elettorali: «A noi, che siamo l’unica forza, non si propone di allearci con nuove forze sacrificando alcune idee per nulla, per alcuni politici» [7].
Lamy, a differenza di padre Picard, non aveva sfruttato la fiducia che il papa aveva riposto in lui. La sua azione discreta contrastava con la pretesa arrogante di Picard e della stessa La Croix, che, sventolando la bandiera di Leone XIII, serravano i ranghi attorno a un regime chiuso al dialogo. Lamy era un politico di carriera, repubblicano e cattolico. La sua presenza nell’opera sociale e nella collaborazione politica all’interno della democrazia cristiana era ben accolta negli ambienti politici francesi.
La manovra politica degli Assunzionisti mirava a rimuovere Lamy. La proposta di Picard rappresentava una battuta d’arresto politica e un errore strategico nella leadership politica della Democrazia Cristiana [8]. Sebbene Dehon non condividesse pienamente le convinzioni di Lamy, non si lasciò influenzare dai pregiudizi e cercò l’opportunità politica del momento.
Il 10 febbraio 1899, dopo aver ricevuto due lettere da Lamy, Dehon scrisse al cardinale Rampolla avvertendolo del pericolo di perdere Lamy. Secondo questa corrispondenza, Lemire, Lorin e i principali politici del partito cattolico francese ritenevano «assolutamente necessario mantenere M. [Étienne] Lamy alla guida dell’organizzazione cattolica. Perderlo significa tornare all’antica Unione conservatrice che ci ha perseguitato per vent’anni. Se in Francia si venisse a sapere che M. [Étienne] Lamy non è più il capo della federazione, tutti concluderebbero che il papa ha cambiato politica, che rinuncia alla sincera adesione al regime costituzionale e che cede a coloro che sognano una prossima restaurazione monarchica» [9] La lettera mostra un Dehon che ascolta, valuta le conseguenze e prende decisioni.
Dallo scambio epistolare di Dehon sul caso Lamy emerge un carattere prudente, che non fa pendere la bilancia verso l’Ancien Régime, che vede con favore la vicinanza alla Repubblica e accetta la presenza di politici repubblicani nel Partito Democratico Cristiano.
Dehon ascolta Lamy, ascolta i membri del partito e infine consiglia il cardinale Rampolla. La sua prudenza ci permette di tracciare i tratti di un Dehon sensibile, cristiano e pratico. Come cristiano, non si limitava a difendere le dottrine, ma si preoccupava di discernere il momento politico e sociale alla luce della fede.
Dehon cercava il consenso e proponeva ciò che avrebbe giovato a tutti e avrebbe portato ad accordi tra i legislatori. Il suo atteggiamento politico non era quello di rivaleggiare o opporsi agli avversari, ma di cercare soluzioni.
È illuminante leggere la lettera che scrisse a Paul Six il 26 novembre 1894 riguardo alla partecipazione dei lavoratori ai profitti industriali [10]. In questa lettera, padre Dehon sottolineava come questa idea fosse accolta con favore dai democratici cristiani, dai socialisti e persino dai conservatori come il conte di Hausonville [11]. Il fatto che la proposta cristiana godesse di un così ampio consenso rifletteva una politica di ispirazione cristiana in grado di influenzare sia i datori di lavoro che i lavoratori cristiani e non cristiani [12] .
C’è molto da dire su padre Dehon. Lo scopo di questo breve studio non era quello di affrontare un aspetto specifico della sua personalità, ma di individuare alcune riflessioni e discernimenti in cui è possibile delineare le caratteristiche delle scelte politiche del nostro fondatore.
[1] «Sì, ha fatto tutto. Ha chiesto ai cattolici di sacrificare i loro affetti e le loro preferenze per unirsi sul terreno costituzionale accettando il governo della Repubblica. Lo ha fatto perché era suo dovere accettare il governo costituito; era nel loro interesse entrare nella Repubblica per migliorarne la legislazione» (https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/ART/REV/ART-REV-1901-0100-8031085?ch=0).
[2] https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/ART/REV/ART-REV-1903-0500-8031118?ch=0
[3] Ciò non significa che Dehon dimentichi Santa Margherita Maria Alacoque, ma semplicemente che la legge dal punto di vista della grazia piuttosto che dell’affetto.
[4] Étienne Lamy era un importante politico francese che incarnava il complesso rapporto tra repubblicanesimo e cristianesimo nella Francia della fine del XIX secolo. Dopo la creazione del Partito Democratico Cristiano nel 1896 e la sua successiva riorganizzazione al Congresso di Lione dello stesso anno, Lamy emerse come figura chiave nell’organizzazione politica cattolica. In preparazione alle elezioni legislative del 1897, fu nominato presidente di una coalizione federata che riuniva varie associazioni cattoliche per coordinare i loro sforzi in vista delle campagne legislative del 1898. Questa federazione rappresentò un significativo tentativo di unità politica cattolica, che comprendeva movimenti diversi con approcci diversi all’impegno sociale e politico. La coalizione includeva il movimento della Democrazia Cristiana, l’Unione Nazionale di Padre Garnier, l’ACJF (Association catholique de la jeunesse française) e l’influente giornale cattolico La Croix. Questa ampia alleanza rifletteva la crescente consapevolezza tra i cattolici francesi che un’efficace partecipazione politica nella Terza Repubblica richiedeva un’azione coordinata tra diverse tendenze e classi sociali. La nomina di Lamy alla guida di questa federazione dimostrò la sua posizione unica di mediatore tra le diverse correnti politiche cattoliche. In quanto repubblicano convinto e cattolico praticante, rappresentava la possibilità di conciliare il governo democratico con i valori cristiani, una sintesi che molti dei suoi contemporanei trovavano difficile da realizzare (Cf. Histoire de la Démocratie Chrétienne 61/333).
[5] Gruppo cattolico fondato nel 1892 dall’arcivescovo cardinale di Parigi con l’unico scopo di difendere il cattolicesimo.
[6] Cf. https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/COR/COR-LC1-1899-0129-0006001?ch=2
[7] Histoire de la Démocratie Chrétienne 62/333
[8] Nella sua seconda lettera a padre Dehon, datata 6 febbraio 1899, Lamy descrive in modo più dettagliato la difficile situazione che sta affrontando: «Et pour mon compte je suis résolu à ne pas continuer en ce cas l’épreuve, parce que je ne veux avoir aucune responsabilité dans les résultats. M. Harmel est sous l’influence des pères. La preuve est que, sur leur appel, il a tenté de faire désavouer les délégués des « Démocrates chrétiens » qui dans la fédération sont d’accord avec moi. (…) Se questa politica sembra dover essere, dopo tanti fallimenti, tentata nuovamente, non resta che lasciare ai padri la direzione che hanno ripreso» (https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/COR/COR-LC1-1899-0206-0006002?ch=2).
[9] https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/COR/COR-1LD-1899-0210-0093909?ch=1
[10] https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/COR/COR-1LD-1894-1126-0030102?ch=1
[11] “M. le comte d’Haussonville, un retrogrado, che in questi giorni rimproverava allo stesso tempo i socialisti e i democratici cattolici, ammetteva che forse c’è qualcosa da aspettarsi dalla partecipazione ai profitti” (https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/COR/COR-1LD-1894-1126-0030102?ch=1).
[12] “Questa idea della partecipazione dei lavoratori alla prosperità dell’officina si sta facendo strada anche al di fuori del mondo padronale cristiano, sotto l’ispirazione di un sentimento naturale di equità e solidarietà. Nel suo libro sul Familistère di Guise, Bernardot fornisce un elenco degli stabilimenti industriali e commerciali in cui esiste la partecipazione del personale agli utili, sia in Francia che all’estero. Ne cita 321, di cui 116 in Francia” (https://www.dehondocsoriginals.org/pubblicati/ART/REV/ART-REV-1894-1100-8031014?ch=0).
Le ultime parole di san Massimiliano Maria Kolbe, «Ave Maria», annunciano una verità che nessun cristiano dovrebbe dimenticare: Dio si è offerto al mondo e ha vinto la morte invitandoci a vivere la nostra esistenza come un unico grande dono. E le nostre ferite, i nostri momenti bui, le sofferenze, sono spazi dove Dio sceglie di stare assieme a noi: ecco la radice della speranza.
San Massimiliano M. Kolbe, sacerdote dell'Ordine dei Frati Minori Conventuali e martire
ricorrenza morte 14 agosto
I primi anni di vita
Massimiliano Kolbe nasce il 7 gennaio 1894 a Zduńska-Wola, in una regione polacca controllata dalla Russia. Il padre, un tessitore, e la madre, una levatrice, sono ferventi cristiani: nel Battesimo scelgono per lui il nome di Raimondo. Frequenta la scuola dei francescani a Leopoli. Nel 1910 entra nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali assumendo il nome di Massimiliano. Inviato prima a Cracovia e poi a Roma, qui resta sei anni, laureandosi in filosofia all’Università Gregoriana e in teologia al Collegio Serafico. Viene ordinato sacerdote il 28 aprile 1918.
La Milizia dell'Immacolata
A Roma, mentre gioca a palla in aperta campagna, comincia a perdere sangue dalla bocca: è tubercolosi. La malattia l’accompagnerà per tutta la vita. Fonda con il permesso dei superiori la “Milizia dell’Immacolata”, associazione religiosa per la conversione di tutti gli uomini per mezzo di Maria. Ritornato in Polonia, a Cracovia, pur essendo laureato a pieni voti, a causa della malferma salute non può insegnare né predicare, non potendo parlare a lungo. Sempre col permesso dei superiori, si dedica alla promozione della “Milizia dell’Immacolata”, raccogliendo numerose adesioni fra i religiosi del suo Ordine, professori e studenti dell’Università, professionisti e contadini.
Il successo della rivista "Il Cavaliere dell'Immacolata"
Durante il Natale del 1921, padre Kolbe fonda a Cracovia un giornale di poche pagine, “Il Cavaliere dell’Immacolata”, per diffondere lo spirito della “Milizia”. Trasferito a Grodno, a 600 chilometri da Cracovia, crea una piccola tipografia per la stampa del giornale, con vecchi macchinari: con questa iniziativa riesce ad attirare molti giovani, desiderosi di condividere uno stile di vita francescano ispirato a Maria. Il giornale si diffonde sempre di più. A Varsavia, grazie alla donazione di un terreno da parte del conte Lubecki, fonda “Niepokalanów”, la ‘Città di Maria’. Il centro si sviluppa rapidamente: dalle prime capanne si passa a edifici veri e propri, la vecchia stampatrice viene sostituita dalle nuove tecniche di composizione e stampa. Il “Cavaliere dell’Immacolata” raggiunge in breve una tiratura di milioni di copie, mentre vengono creati altri sette periodici.
La Città di Maria in Polonia e in Giappone
Con l’ardente desiderio di espandere il suo Movimento mariano oltre i confini polacchi, Kolbe si reca in Giappone, dove fonda la “Città di Maria” a Nagasaki. Qui, dopo l’esplosione della prima bomba atomica, avrebbero trovato rifugio gli orfani di Nagasaki. Collabora con ebrei, protestanti e buddisti, certo che Dio sparge semi di verità in ogni religione. Apre una Casa anche ad Ernakulam, sulla costa occidentale dell’India. Per curare la tubercolosi, torna in Polonia a Niepokalanów.
Niepokalanów, rifugio per profughi ed ebrei
Dopo l’invasione della Polonia, il 1° settembre 1939, i nazisti ordinano lo scioglimento di Niepokalanów. Ai religiosi costretti a lasciare il centro, padre Kolbe raccomanda una sola cosa: “Non dimenticate l’amore”. Restano circa 40 frati, che trasformano la cittadina in un luogo di accoglienza per feriti, ammalati e profughi. Il 19 settembre 1939, i tedeschi prelevano padre Kolbe e gli altri frati, portandoli in un campo di concentramento, da dove vengono inaspettatamente liberati l’8 dicembre. ritornati a Niepokalanów, riprendono la loro attività di assistenza per circa 3500 rifugiati, di cui 1500 ebrei. Dopo qualche mese, però, i rifugiati vengono cacciati o catturati e lo stesso Kolbe, dopo il rifiuto di prendere la cittadinanza tedesca per salvarsi, è imprigionato il 17 febbraio 1941 insieme a quattro frati. Dopo aver subito maltrattamenti dalle guardie del carcere, è costretto a indossare un abito civile, perché il saio francescano “disturbava” i nazisti. Il 28 maggio viene trasferito nel campo di sterminio ad Auschwitz. Con il numero 16670, viene messo insieme agli ebrei perché sacerdote e addetto ai lavori più duri, come il trasporto dei cadaveri al crematorio.
La vita ad Auschwitz e la testimonianza nel bunker
La sua dignità di sacerdote incoraggia gli altri prigionieri. Un testimone ricorda: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine di luglio è trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri sono addetti alla mietitura nei campi. Uno di loro riesce a fuggire: per questo dieci prigionieri vennero destinati dai nazisti al bunker della morte. Padre Kolbe si offre in cambio di uno dei “prescelti”, un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. La disperazione dei condannati viene trasformata nella preghiera comune guidata da padre Kolbe. Dopo 14 giorni rimangono in vita solo in quattro, fra cui padre Massimiliano. Allora le guardie decidono di abbreviare la loro agonia con una iniezione di acido fenico. Padre Kolbe porge il braccio, dicendo “Ave Maria”: sono le sue ultime parole. E’ il 14 agosto 1941.
Nadia Toffa e la fede: così imparò a vivere per saper morire
Maurizio Patriciello
ricorrenza morte 13 agosto
«Voglio imparare. Il tempo stringe e io debbo imparare. Imparare a vivere per saper poi morire». Nella vita non sempre ci rendiamo conto dell’importanza del dover imparare a vivere. Si vive e basta. Un fatto scontato, istintivo, naturale. E questo è grande errore. Sono passati pochi giorni dalla morte di Nadia Toffa, la giornalista e conduttrice tv bresciana, che ha scosso l’Italia. In tanti ci siamo chiesti il perché. Qualcuno, grossolanamente, ha liquidato la faccenda parlando di una sorta di reazione emotiva. Le emozioni hanno la loro importanza, non c’è dubbio, ma da sole dicono ben poco.
La parabola di Nadia Toffa – discendente secondo una logica solo umana; ascendente secondo la logica di Dio – inizia da lontano, da quando per le prime volte la vedemmo affacciarsi sullo schermo. Una ragazza bella, slanciata, cocciuta, intraprendente. Schietta, brava, coraggiosa. I più giovani si specchiavano in lei, magari con un pizzico di benevola invidia. I più anziani la consideravano alla stregua di una figlia da proteggere. Una giovane destinata al successo, Nadia. Simpatica, brava, coinvolgente. Sarebbe arrivata lontano. Una mattina, come un fulmine a ciel sereno, in un albergo di Trieste, perse i sensi. Sarebbe stata lei stessa, mesi dopo, a confessare di avere il cancro. I telespettatori rimasero sconcertati.
Cancro, parrucca, chemio, sono parole da esorcizzare, lei invece ne parlava con serenità. Era finta, calcolata, per chissà quali scopi quella serenità, o faceva sul serio quella giovane giornalista? No, Nadia, non stava barando, non era capace di barare. In lei si specchiarono migliaia di ammalati di cancro, i loro parenti, i loro amici. E ancora una volta, Nadia accettò di diventare la portavoce dei malati. Un popolo al quale non sempre i cosiddetti sani assicurano la giusta comprensione e i diritti cui hanno diritto.
Nadia capì che le veniva chiesto molto perché molto le era stato dato. Accolse come una sorta di "vocazione" il male che l’affliggeva e dal quale fece di tutto per guarire. Intanto, però, da quel male si lasciava ammaestrare. Nulla doveva andare perduto. Dalla sofferenza imparava. E le giornate, quando il dolore le dava tregua, le sembrarono più lunghe, le sere più dolci, il cielo più azzurro, gli amici più cari. Imparò che tutto viene da Dio. E gridò al mondo la sua fede. «Dio non è cattivo, credetemi, Dio non è cattivo». Nadia, inchiodata in un letto di dolore, stava evangelizzando il dolore.
Con Dio iniziò a dialogare e litigare, come sapeva fare lei, cocciuta, ma mai cattiva. E comprese che la preghiera, da noi cristiani tante volte trascurata quando la vita ci sorride, era un "abbraccio". L’abbraccio caldo e rassicurante di Dio alla sua creatura. E volle comunicare ai fratelli in umanità la scoperta fatta. Imparava a vivere, Nadia. O, meglio, andava perfezionando la lezione iniziata tanti anni prima. Imparò ad amare la vita anche nei giorni del dolore. Capì che la Nadia di un tempo andava sfiorendo, non sarebbe tornata più. Ma non ne fece un dramma.
Con lei ho avuto un rapporto limpido, onesto, discreto, che si è andato intensificando negli ultimi mesi. «Continuo la chemio e non mollo. Sorrido e accetto tutto quello che Dio ha disegnato per me. Porto nostro Signore nel cuore e vedremo cosa deciderà per me. Porgo la mia anima vicino al suo immenso cuore. Grazie di esistere, padre. Le voglio bene».
Per gli auguri di Natale, le scrissi: «Nasconditi, Nadia sempre cara, come un uccellino, nelle fenditure della Roccia. La tempesta, il freddo, la neve, il gelo, le raffiche di vento, nulla potranno contro la Roccia che ti ripara. Lasciati cullare come un bambino sul seno della mamma. Non opporre resistenza. Dio è più grande del nostro povero cuore. Ti ama. Sei sua. Gli appartieni. Ti brama. In questa certezza, riposa». Poche ore dopo, la brillante giornalista, chiamandomi per la prima volta col solo nome di battesimo, rispondeva: «Grazie, Maurizio. Mi metterò al riparo tra le sue braccia. Io non ho paura per me ma per la mia cara mamma».
Papa Paolo VI, bresciano come lei, ci disse che «il mondo, oggi, non ha bisogno di maestri ma di testimoni». Nadia Toffa lo è stata. Per questo l’Italia intera ha pianto la sua morte e continua a volerle bene.
Margherita Rebuffoni: «Con la sua fede Nadia mi ha dato la forza di dirle addio»
La mamma di Nadia Toffa, la giornalista e conduttrice de Le Iene morta di cancro, apre il suo cuore: «In certi momenti sento solo il peso della croce. Ma vado avanti perché mia figlia mi ha detto: “Ama la vita, è un dono prezioso di Dio”»
Il silenzio. Prima nella stanza e poi, come una voragine, nel cuore. Il lutto si presenta così: ci zittisce. Ci spoglia. Talvolta ci arriva perfino a strappare la carne di dosso. Ne sanno qualcosa quei genitori che, come Margherita Rebuffoni Toffa, hanno visto morire prematuramente i propri figli. Il dolore è talmente acuto, folle e viscerale che l’eco della sofferenza si imprime nei loro sguardi, accompagnandoli per il resto dell’esistenza. «Chiunque perde un figlio è un genitore mutilato», conferma Margherita. Di quella mutilazione è dffcile parlare. Probabilmente non dovremmo nemmeno farlo, ma a insistere è lei stessa: una madre che non edulcora nemmeno un centesimo del suo dolore. Una madre che ammette come «a volte la solitudine diventa disperazione» e che non si capacita del «destino infame» toccato in sorte alla figlia. Ma che sa che, da qualche parte, c’è un senso più grande: nemmeno il dolore più cocente può travolgere quel dono meraviglioso che è la vita...
Il suo è un vero e proprio atto di fede…
«La vita è dura: non lo nego. Ho perso mia sorella Marilena quando aveva solo 21 anni, mia figlia Nadia è morta a 40 anni, mio marito ha avuto un aneurisma celebrale e mio padre è stato per circa sei anni sulla sedia a rotelle. La vita sa essere molto dura, ma va accettata: ognuno ha il proprio percorso. Io ho avuto la fortuna immensa di avere la fede, che mi ha aiutato e mi aiuta moltissimo». È sufficiente per resistere? «Ci sono dei momenti, anche molto lunghi, dove senti solo il peso della croce che ti porti addosso: non c’è altro che quel peso. Nient’altro. Bisogna però continuare a credere che la luce arriverà. Magari sarà piccola, ma arriverà e ti aiuterà ad andare avanti. Ai genitori che sono mutilati come me, consiglio di farsi aiutare, di pregare tanto, di cercare di trasformare questo dolore enorme in bene e di invocare la protezione proprio dei nostri cari che sono nell’Aldilà».
Anche Nadia condivideva la sua stessa fede?
«È sempre stata credente. Da bambina frequentava la parrocchia e ha studiato dalle Canossiane di Vitorchiano. Già prima che si ammalasse parlavamo spesso del senso della vita, del Paradiso, di Dio. La fede è un grandissimo dono ed è stata fondamentale durante la sua malattia. Nadia si confrontava molto con don Maurizio Patriciello: lui ha celebrato il suo funerale e siamo ancora in contatto. Inoltre ricordo che, quando i dolori si facevano così forti da mozzarle il fiato, mi diceva: “Mamma, aiutami a far scendere Gesù nel cuore e a far scendere nel cuore la zia Marilena che è il mio angelo custode”. Così, pregavamo insieme e piano piano il dolore passava. Magari la preghiera l’aiutava semplicemente a rilassarsi, sta di fatto che il dolore andava via».
La fede è sicuramente un sostegno, ma non toglie il dolore della perdita: crede che si possa, in qualche modo, arrivare preparati alla morte o è un mistero che bisogna semplicemente guardare?
«Non si arriva mai preparati. A un certo punto, però, capisci che devi lasciare andare la persona amata. Nell’ultimo periodo Nadia era molto peggiorata: purtroppo aveva avuto una nuova recidiva e non potevano più operarla (aveva già subito 5 operazioni, ndr). Le settimane passavano e io la vedevo cambiare: era sempre più stanca e sofferente. Un giorno mi resi conto che Nadia stava lottando perché non voleva lasciarmi nel dolore più atroce che esista al mondo (perché perdere un figlio è un dolore atroce!). Non so come io abbia fatto, né da dove mi sia arrivata la forza: è un momento di comunione profondissima tra madre e figlia, impossibile da descrivere. So solo che la vedevo stare male, spiritualmente ancora prima che fisicamente, e così le ho detto: “Non ti preoccupare, vola via”. E l’ho lasciata andare».
Nadia è sempre stata combattiva e ha accettato la malattia. Ma lei? L’ha accettata?
«È durissima, lo ripeto: è durissima. Però Nadia mi ha preparata a questo momento, “costringendomi” piano piano ad accettarlo: negli ultimi due anni mi continuava a ripetere di pensare alla Madonna, di affidarmi a lei che, così giovane, aveva provato il dolore più grande al mondo, ossia vedere suo Figlio crocifisso. “Mamma, quando non ci sarò più, tu devi continuare a fare quello che hai sempre fatto e amare la vita perché è un dono immenso di Dio”, aggiungeva sempre. “Non sprecare nemmeno un minuto di quello che ti è dato da vivere! Ricordati che sarò sempre lì vicina a proteggerti”. Si parlava di questo: lei per consolare me e io per aiutare lei…».
Da qui è nata dunque l’idea della Fondazione?
«Sì, volevo rendere concreto il desiderio di Nadia di aiutare l’istituto neurologico Besta di Milano, dove è stata curata dal dottor Finocchiaro. Nadia mi ha anche lasciato tantissimi scritti, poesie, appunti, dipinti: insieme alla casa editrice Chiarelettere stiamo valutando cosa pubblicare, oltre al libro Non fate i bravi».
Secondo lei qual è insegnamento più bello lasciato da sua figlia?
«La raccomandazione che abbiamo scelto come titolo del libro: Non fate i bravi. Nadia me lo diceva spesso: è troppo semplice fare i bravi, stare nel proprio piccolo, non pensare male di nessuno, fare piccole offerte. Non fare i bravi vuole invece dire metterci la faccia, litigare per le proprie idee, anche a muso duro. Solo così possiamo aiutare gli altri: se non facciamo i bravi».
Chi è. La Iena dei reportage coraggiosi
Nadia Toffa era nata a Brescia nel 1979. Giornalista e conduttrice della trasmissione Le Iene, con i suoi reportage aveva attirato l’attenzione dell’opinione pubblica su gravi problemi quali la ludopatia, lo smaltimento illegale di rifiuti in Campania da parte della camorra e l’alto tasso di tumori nella “Terra dei fuochi”. L’anno scorso il cancro ha messo fine alla sua vita: si è spenta il 13 agosto 2019, dopo una lunga terapia e cinque operazioni. La sua è stata una battaglia lunga e coraggiosa, che ha raccontato sui social e nel libro Fiorire d’inverno – La mia storia (Mondadori). Recentemente è uscito un suo libro postumo: Non fate i bravi (Chiarelettere).
Ha fondato Emergency, Gino Strada, è stato sempre dalla parte delle vittime dei conflitti
ricorrenza morte 13 agosto
Nello Scavo
Se n’è andato mentre la Storia gli dava ragione. “Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi”. Gino Strada
Era quel tipo d’uomo, impastato di quella tempra che i potenti mal sopportano, che puoi far parlare solo con parole sue. Chi lo conosceva sapeva d’imbattersi prima o poi in un della sue riflessioni asciutte, dirette e taglienti, disperate eppure mai scoraggianti, come gli strumenti da chirurgo che gli hanno permesso di salvare vite in Oriente come in Africa, nel Mediterraneo come a Milano contro il Covid. Quegli stessi ferri da sala operatoria che gli hanno fornito un metodo per guardarsi intorno. “Come medico - diceva -, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla. Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente”.
L’1 dicembre 2015 concesse ad “Avvenire” un testo. Non un testamento, a rileggerlo oggi, ma un “mandato” per quelli di buona volontà. Scriveva: “Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette 'mine giocattolo', piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita”.
Ma era quando il fondatore di Emergency provava a spiegare il perché di quei conflitti, che la sua figura diventava scomoda. “Dobbiamo convincere milioni di persone - scriveva ancora - del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità”.
A lungo accanto a lui c’è stata Teresa Sarti, la moglie che sapeva dare forma e struttura alle appassionate intuizioni di Gino. Se n’è andata nel 2009, per colpa di un tumore. Una guerra nella guerra che hanno combattuto insieme senza arretrare di un solo anelito nel loro impegno.
Mentre le agenzie rilanciavano la notizia del lutto Cecilia, la loro unica figlia, raccoglieva a bordo 85 desaparecidos del Mediterraneo. E’ in mare con la nave di soccorso “Resq” che offre l’ultimo appiglio ai dimenticati di guerre e soprusi che, come in Afghanistan, non ci vedono estranei. Come se la notizia delle morte non fosse riuscita a interrompere la concretezza di una vocazione familiare che dal 1994 a oggi ha messo radici in 19 Paesi curando oltre 11 milioni di persone. “Se l'uomo non butterà fuori dalla storia la guerra - ripeteva Gino Strada -, sarà la guerra che butterà fuori dalla storia l'uomo".
Gino medico eccellente perché uomo eccellente
Guido Oldani
Gino Strada e io per qualche anno ci siamo visti ogni giorno. Eravamo, ufficialmente, quelli che si definivano studenti lavoratori. Studiavamo con grande passione l’anatomia, fino alla maniacalità, con il nostro insuperabile maestro Sergio Milanesi. Sapevamo di avere due strade diverse ma, forse, analoga muscolatura per il pugilato della vita. Lui mirava a diventare chirurgo di guerra, deciso com’era ad avversarla e a salvare gli uomini che, in qualche modo volenti o nolenti, ci finivano dentro. Io desideravo conoscere nei dettagli il corpo umano, per capire un po’ di più della mente che dà la parola poetica e può cambiare il mondo, togliendolo dai suoi provincialismi abituali. Gino, come me era un ex sessantottino, sposato con Teresa, dai bellissimi capelli rossi, aveva già una bimba, che lo avrebbe seguito.
L’erede di Schweitzer, lasciatemelo chiamare così, aveva avuto contrasti, ad esempio con il professor Staudacher, che lo citò in giudizio, credo per interruzione di pubblico servizio. Divennero grandi amici. Succede spesso fra galantuomini che si affrontano. Ogni notte che a chirurgia d’urgenza al Policlinico di Milano, arrivavano feriti dai disastri stradali o malavitosi, sapevano di poter telefonare a Gino Strada che sarebbe corso dalla sua Sesto San Giovanni, allora conosciuta come 'Stalingrado d’Italia', per via dell’altissima presenza di operai comunisti e che era, però anche la città del pensatore aclista Giovanni Bianchi. Gino tentava nuove vie di aggressione operatoria anche lavorando in condizioni inventive di chirurgia sperimentale. Ho in mente inoltre quando affrontò il viaggio in macchina con qualcuno, per andare al funerale di un esponente delle rivolte iugoslave, e mentre viaggiava, studiava in vista di un esame universitario imminente.
Quando mi è capitato di vederlo intervistare in televisione, mi sembrava sempre che il giornalista di turno si rapportasse a lui come un cammello a un orso bianco del Polo Nord. Il suo gesto tipico, mentre parlava nelle pubbliche assemblee o a lezione, era di far ruotare, come le lancette di un orologio impazzito, una catenella che inanellava le chiavi del suo mazzo personale. Era alto, vigoroso e di bell’aspetto, con un ciuffo di lato al quale ometteva di dare pubblicità con qualche gesto calcolato. Poi ci perdiamo di vista, lui crea il percorso di Emergency e va a soccorrere e portare salute là dove è troppo rischioso e i topi scappano. La mano chirurgica di Gino salva le vite a prescindere dalle appartenenze politiche o religiose: salva chiunque e ovunque, Italia compresa. Su una figura come la sua sarebbe facile la retorica o addirittura l’impostura. Alcuni teologi parlerebbero di stile cristiano. La sua fatica umanitaria è culminata in un infarto, dal quale lo ha salvato il blitz di un elicottero.
L’ho incontrato al funerale della moglie Teresa: ci siamo abbracciati e compresi per le nostre diverse strade. Poi qualche attore non ha saputo resistere alla tentazione di farsi notare con un inutile sproloquio. Il suo viso televisivo si era progressivamente segnato ed era incominciato qualche doloroso tic alla bocca, non certo alla bussola del pensiero. Il suo nome è tornato all’evidenza alle ultime elezioni per il presidente della Repubblica e, poi, per la scelta del Commissario anti-Covid in una della situazioni più delicate. Naturalmente non se ne è fatto nulla. Gli uomini eccellenti servono giusto per poterli citare da lontano e poi si torna a sfrucugliare nelle tarantelle dei compromessi. Gino ha realizzato la solidarietà tra i continenti, lontano da ogni trionfo nella propria regionalità.
Mostraci il tuo volto. La vita nuova di Chiara Corbella continua nel volto degli altri
ricorrenza 13 giugno
Roberto I. Zanini
A dieci anni dalla morte la serva di Dio continua a tonificare la fede di tanti che si rivolgono al suo esempio. I genitori: «Ha saputo trasmettere il senso sorridente della sofferenza trasfigurata»
Entri al cimitero del Verano, a Roma, domandi della tomba di Chiara e tutti te la sanno indicare. Dal giorno della sua morte, 10 anni fa, non solo è di gran lunga la più visitata, ma è anche la più adornata e colorata di oggetti, di rosari ed ex voto, fotografie, lettere e bigliettini in un flusso costante di devozione e d’amore. Quella tomba offre la percezione della vita che non muore. In qualche modo sorride ai suoi visitatori con la stessa capacità rigeneratrice del sorriso di Chiara, del volto di Chiara. Qualunque giorno tu vada troverai certamente giovani donne che chiedono la grazia di un figlio, che ringraziano per averlo avuto. Lì dove riposano le spoglie di questa grande donna dei nostri giorni la vita sorge sempre nuova. Poche persone ricevono come lei così tanta corrispondenza. Poche riescono, come lei, a rispondere con tanta sensibile e amorosa assiduità. «Sul sito ufficiale di Chiara ogni giorno arrivano messaggi e lettere di riconoscenza "per grazia ricevuta". Qualcuno in Brasile ha fatto un sito social a lei dedicato e ci sono decine di migliaia di follower. Accanto alla sua tomba una grande cassetta postale accoglie le paure, le confidenze, i bigliettini, le lettere, i disegni, le fotografie che le persone desiderano condividere con lei. Scrivono come a un’amica perché lei allarga i cuori, li accoglie nel suo. Tante volte ho parlato con queste persone delle ragioni di tanta speranza... Molti sono giovani religiosi e religiose che sottolineano l’importanza di Chiara per la loro vocazione. Questo è davvero il Volto di Dio. Il volto sorridente della sofferenza trasformata, trasfigurata come solo Dio sa fare».
A parlare sono i genitori di Chiara Corbella, Maria Anselma e Roberto, seduti l’uno accanto all’altra nel giardino della loro casa romana, quella in cui Chiara è cresciuta insieme a Elisa, la sorella maggiore e che ancora ospita la nonna, 101 anni, a cui era particolarmente legata: «Anche negli ultimi giorni di vita, la prima domanda alla mattina era: "la nonna come sta"». A guardare i volti così sorridenti e voltivi di questa mamma e questo papà, seppure di tanto in tanto velati dalla naturale commozione che segue il flusso dei ricordi, si intuisce quanto possa essere stata straordinaria l’esperienza con quella figlia traboccante di gioia pur nelle aspre esperienze della sua giovane vita.
Anselma. «Le ultime settimane a pensarle ora sono state incredibili. C’era un’atmosfera positiva, quasi di allegria. Capisco che possa sembrare strano. Uno sconosciuto che ci fosse venuto a trovare sapendo di tanta tragica sofferenza avrebbe potuto tranquillamente pensare di essere entrato in una casa di matti. Si scherzava e si rideva insieme e lei partecipava alla scherzo».
Roberto. «Oggi le persone che ci incontrano ci ringraziano, ci dicono "voi non sapete quanto Chiara ci sia vicina". Perché da quando è morta Chiara non è più semplicemente "nostra figlia", Chiara è di tutti e noi siamo diventati: "I genitori di Chiara". Qualche settimana fa mi ha chiamato un amico che vive a Dublino per dirmi che una sua nipote, novizia delle suore di Madre Teresa, gli aveva parlato di due novizie a Roma che avrebbero preso i voti a giorni e avevano scelto di chiamarsi Chiara in onore di mia figlia. Sono andato alla cerimonia: una Chiara Luz e l’altra Chiara Amata... avevano un bel sorriso...
Dicevate della straordinarietà di quelle ultime settimane.
Anselma. Subito prima di Pasqua 2012 i dottori ci avevano comunicato che il tumore, manifestatosi l’anno precedente, si era diffuso e non c’era più speranza. Dopo Pasqua ci siamo trasferiti nella casa di campagna, vicino a Roma. Gli amici di Chiara venivano a visitarla e una volta a settimana si trovavano tutti insieme per il rosario. Ogni volta si aggiungeva qualcuno e dopo il rosario si stava insieme, si condivideva come in una grande festa.
Effettivamente quando nelle fotografie o nei filmati si incontra il volto sorridente di Chiara in quegli ultimi mesi è davvero difficile privarsene, non desiderare di vederlo ancora.
Anselma. Era allegra, positiva. Non si lamentava. Non era mai rassegnata. Se mi vedeva triste diceva: «Non ti preoccupare mamma... vuol dire che è la cosa migliore per me e per tutti quelli che ci stanno vicino». Era convinta che Dio voleva per lei e per noi la cosa migliore. A un certo punto ha capito chiaramente il senso di tanta sofferenza, si è sentita chiamata a essere parte dell’opera redentrice di Gesù.
E voi? non è facile per dei genitori?
Roberto. Cosa posso dire... Io mi ritengo fortunato. Anche qui si sono invertite le parti: non siamo stati noi ad accompagnarla, ma lei ci ha accompagnato fino in fondo. Ci ha detto a tutti, uno per uno: «Vi voglio bene. State sereni». Sì, se n’è andata ma ci ha fatto vivere e capire che era per qualcosa di più grande, che valeva la pena. Per il suo funerale ha chiesto a Enrico (il marito Enrico Petrillo, ndr) di comprare una piantina da donare a coloro che sarebbero venuti. Lui ne ha comprate a centinaia e tutte sono state accolte dai presenti come vita che continua.
Anselma. Lei è associata un po’ alla lavanda. Per il matrimonio ne aveva fatti tanti mazzetti da regalare. A ogni messa per l’anniversario della morte, che quest’anno faremo ad Assisi, mettiamo centinaia di piantine di lavanda intorno all’altare e poi le distribuiamo ai presenti.
Perché ad Assisi?
Era molto legata ad Assisi, ai francescani di Santa Maria degli Angeli. Lì si è rafforzato il legame con Enrico, lì vive il direttore spirituale. E poi la postulazione passa dalla diocesi di Roma nelle mani dei frati Minori francescani.
Torniamo alle piantine del funerale...
Roberto. Sì, amava molto la vita. Ha dato la vita per la vita. E poi aveva particolare attenzione per la bellezza, per la famiglia, per la serenità delle relazioni umane. Fin da bambina non tollerava che avessimo discussioni. Quando capitava, come in ogni coppia, lei arrivava e ci congiungeva fisicamente, pretendeva che ci dessimo un bacio. Era molto attenta al prossimo, desiderava sanare, anche prevenire, ogni discordia.
Anselma. Era tutta per gli altri. Notava ogni sfumatura sui volti delle persone. Si accorgeva della minima sofferenza. A scuola, ma anche quando seguiva la preghiera dei più piccoli nella comunità del Rinnovamento che frequentavamo, aveva molte attenzioni per i figli di genitori in crisi. Aveva maturato capacità di ascolto, di pazienza misericordiosa. Gli amici si appoggiavano a lei. Non imponeva punti di vista, ma era coerente nella fede e nella vita. Sempre accogliente. Questo ne faceva un riferimento anche al liceo Visconti.
E a casa?
Roberto. Una sua caratteristica era la naturalezza. Mai nulla in lei era ostentato. Amava scherzare e ci divertivamo con le battute, i giochi di parole. Si interessava a tutto quello che succedeva intorno a lei e nel mondo. Era un’ottima interlocutrice, pacata, eppure determinata.
Anselma. Era concreta, con i piedi per terra, ma con lo sguardo rivolto al cielo.
Aveva un particolare dialogo con Dio?
Anselma. Era nella sua indole. E a me sembrava naturale: in fondo con lei e con Elisa abbiamo sempre frequentato lo stesso gruppo di preghiera, facevamo ritiri, pellegrinaggi, andavamo a Medjugorje. Abbiamo cercato di fare una strada di fede. Lei non saltava mai la preghiera personale. Faceva preghiera del cuore. E la Madonna per lei era una mamma, ne ascoltava gli insegnamenti che le salivano dal cuore. Poi appuntava ogni ispirazione, la arricchiva con dei disegni... Era il suo modo per mettere Dio al primo posto e il resto della giornata veniva di conseguenza, nella normalità.
Roberto. Sì, in famiglia l’unico fuori linea ero io. Vivevo queste cose di riflesso, ma tutto era normale, vissuto con semplicità. Per Chiara il Signore era un amico, si rivolgeva a lui in romanaccio.
Medjiugorje era un riferimento...
Roberto. Ci è andata più volte. Aveva 19 anni quando a Medjugorje ha conosciuto Enrico. È sempre stata bella ma sembrava disinteressata alle relazioni affettive. Vedendola molto coinvolta, ho provato a dire: «È il primo, Chiara, non ti preoccupare troppo» e lei mi ha detto: «Guarda che questo me lo sposo». Tutti e due andavano ad Assisi dove facevano corsi vocazionali. Hanno cominciato a frequentare don Fabio Rosini. Sono diventati amici di un frate di Santa Maria degli Angeli. Un giorno ci hanno invitati a cena e ci hanno comunicato data e ora del matrimonio in una chiesa di Assisi. Era il 2008.
Poi i due figli con malformazioni congenite e subito morti. Nel 2011 arriva il concepimento del terzo.
Anselma. Finalmente andava tutto bene. Poi si manifesta quella che sembrava un’afta alla lingua. Al quarto mese di gravidanza la situazione è esplosa. A tutti i costi lei vuole proteggere il bambino così la operano in anestesia locale: tolgono un pezzo della lingua, poi niente morfina. La notte è durissima, i dolori lancinanti. Una vera notte oscura. La assalgono i dubbi: «Se Dio ci fosse non mi tratterebbe in questo modo, non mi lascerebbe in questo stato». La fede e la speranza tornano limpide alla mattina quando arriva Enrico e insieme fanno le Lodi.
Viene in mente santa Bakhita che sul letto di morte, alle consorelle che chiedevano se si sentisse sul Calvario, rispondeva: «No, sul Tabor».
Anselma. Eppure la sofferenza è stata tanta. Dopo l’operazione c’era la necessità di fare subito dopo un intervento di pulizia dei linfonodi del collo che però non si poteva fare in anestesia locale. E lei trattava con i medici per far passare il tempo. Il giorno del parto trova nella stanza una mamma che aveva perso il bambino e la consola. Dopo quattro giorni la operano. Il cancro si era già diffuso. Tutta l’estate fa chemio e radio. Non riusciva a deglutire e viene alimentata con un sondino. A Natale 2011 si pensava che il peggio fosse passato.
Eppure quello che più si ricorda di Chiara è ciò che accade dopo. A cominciare dalla foto del suo volto sorridente con la benda sull’occhio.
Anselma. È stata fatta a Medjugorje, ad aprile 2012, quando la malattia aveva già intaccato l’occhio.
Ci è voluta andare dopo che ha saputo che le restava poco tempo?
Roberto. Lo desiderava tanto. Voleva portare noi e i suoi amici. All’inizio si pensa a quaranta persone. Io mi sono sempre occupato di turismo e attivo i miei contatti per organizzare. Intanto aumenta il numero di chi vuole venire. Alla fine riempiamo un aereo da 160 posti e a tanti dobbiamo dire di no. Siamo partiti il 17 aprile con un tempo pessimo e lei la sera prima stava malissimo, non stava in piedi.
Anselma. Quella sera gli dicevo: «Non andare. Come fai? La Madonna ti ascolta anche da casa...». «Non ti preoccupare mamma - fu la sua risposta - quello che il Signore vuole che io faccia me lo lascia fare». Il giorno dopo a Medjugorje, in un incontro con tutto il gruppo, seduta accanto a Enrico parla per due ore rispondendo alle domande sorridente e spigliatissima, la battuta pronta. Lì viene scattata quella fotografia. Alla mattina seguente sale anche lei a piedi al luogo delle apparizioni con un sole splendido. Tornati giù il tempo è pessimo e il giorno dopo uguale. Al rientro a Roma non reggeva più il dolore e ha dovuto cominciare la morfina.
Fede incrollabile e spontaneità...
Anselma. Era davvero spontanea in tutto. Salda in Dio e spontanea, felicemente spontanea. Un giorno Gigi (Gigi De Palo) le organizza un incontro col cardinale vicario Vallini. Lei stava già male. Abituata a jeans e maglietta, spigliata come sempre mi chiede: «Come ci si veste per incontrare un cardinale?». Ma quel giorno è il cardinale a incontrare Chiara. Si appartano. Parlano a lungo. In occasione del funerale, Vallini quasi non può fare a meno di sottolineare: «Abbiamo una nuova Gianna Beretta Molla». Lei era così. È così. La guardi a arriva al cuore. Io la chiamo la freccia di Dio perché arriva senza intermediazioni.
Chiara Corbella, “sorella che intercede presso Dio”: primo passo verso la beatificazione
Nella Basilica di San Giovanni in Laterano si è chiusa l’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù, la fama di santità della giovane mamma romana, scomparsa nel 2012 a 28 anni per un tumore apparso quando aspettava il figlio Francesco.
Gli occhi di Chiara Corbella si rivedono in quelli scuri di Francesco in prima fila con il papà Enrico, i nonni Roberto e Maria Anselma, la zia Elisa ed i suoi cugini. Ha 13 anni, il guizzo dell’adolescenza, un viso che ispira dolcezza e ha la gentilezza, non scontata a quell’età, di dispensare sorrisi a chi gli si avvicina per parlargli di Chiara, scomparsa nel 2012 a 28 anni per un tumore alla lingua. Allora Francesco cresceva nel suo grembo e lei decise di curarsi tutelando quella vita nascente che, già nelle precedenti gravidanze di Maria Grazia Letizia e di Davide Giovanni, aveva protetto scegliendo di accoglierle pur essendo “imperfette” agli occhi del mondo ma comunque doni preziosi di Dio.
Nella Basilica di San Giovanni in Laterano Francesco ha assistito insieme a molti amici, a persone arrivate dalla Sicilia, alcune di nazionalità polacca, alla chiusura dell’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù, la fama di santità e dei segni della Serva di Dio Chiara Corbella. I sigilli apposti con la ceralacca sulle carte dell’inchiesta, avviata il 21 settembre 2018, sanciscono un ulteriore passaggio verso la sua beatificazione. I documenti giungeranno in Vaticano per l’esame del Dicastero delle Cause dei Santi.
“I fedeli avvertono che Chiara è l’amica di Dio, testimone eloquente della fede, compagna di viaggio nell’itinerario della vita, una sorella che intercede presso Dio per tante necessità. Questo sensus fidei non è altro che una manifestazione dello Spirito Santo che agisce nel cuore di ogni battezzato”, ha detto monsignor Baldassare Reina, vicegerente della diocesi di Roma, illustrando la fama di santità di Chiara Corbella, “figlia della Chiesa di Roma”, e sottolineando le tante testimonianze di fede e di grazie giunte. Ha ricordato poi la frase dell’Apocalisse che nel 2007 cambiò il cammino di Chiara: “Quando egli (ndr. Dio) apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre”. È l’inizio del suo abbandono, del suo lasciarsi plasmare. “Se leggiamo la vita di Chiara con una logica umana – ha spiegato monsignor Reina - sarebbe assimilabile ad una tragedia, sostenuta invece dalla fede e dall’amore sponsale l’esperienza della sofferenza si muta in Chiara in esperienza di vita eterna, dai toni decisamente pasquali. La sua malattia accettata in obbedienza alla volontà di Dio diventa condizione possibile per andare in Paradiso. È la vittoria definitiva che smaschera l’inganno della morte”.
Chiara, l’albero sotto cui ripararsi
A prendere la parola durante la cerimonia anche fra Francesco Piloni, provinciale dei Frati Minori di Assisi, che ha ricordato Enrico e Chiara quando erano giovani fidanzati in cammino verso il matrimonio e quando, soprattutto Chiara, scoprì che “il contrario dell’amore è il possesso”. Una frase che lei stessa ha scritto in una lettera al piccolo Francesco in occasione del suo primo compleanno. Da allora “la Serva di Dio – ha aggiunto fra Piloni - ha iniziato a germogliare, diventando un grande albero dove molti di noi trovano riparo e consolazione”. Il marito Enrico Petrillo, nel suo intervento, ha voluto invece ringraziare i presenti “per tutto l’amore donato": "Avete amato Chiara e avete amato me. La bellezza di Chiara è che lei ci ha rivelato una caratteristica di Dio, Dio è un Dio felice anche nella morte e un Dio dolce”.
Le risate di Chiara
“C’è tanta felicità, è una cosa inaspettata – spiega il papà Roberto Corbella - e sono convinto che Chiara si starà facendo tante risate dall’altra parte. Vedere una figlia che fa felici tante persone ci fa accettare meglio il fatto di non averla con noi”. Per Roberto i 12 anni passati dalla morte di Chiara non sono un tempo di mancanza, “non è che non c’è più, in situazioni come questa c’è ancora, la rivediamo in tante testimonianze, in tanti giovani che ci dicono che Chiara gli ha cambiato la vita”. Nel cuore di un papà una figlia futura beata resta “la bimba che avevo sulle ginocchia, una ragazza molto solare che amava la vita in tutte le sue forme, si batteva per la pace, non sopportava se io e mia moglie discutevamo. E poi amava tutti gli animali che lei e la sorella ci portavano a casa. Ci hanno portato uno zoo praticamente, voleva curarli tutti”.
Un ricordo di Pepe Mujica a due mesi dalla morte
Francesco Bottacin religioso dehoniano, è stato a lungo missionario in Uruguay
(Montevideo, 20 maggio 1935 − Montevideo, 13 maggio 2025),
«Pepe» (come comunemente veniva chiamato) è stato un vero promotore di democrazia popolare, sostanziale, dove tutti i cittadini erano chiamati a riflettere sui grandi temi di fondo e su quelli all’ordine del giorno. I 10 anni che lo hanno visto al Governo (prima come ministro dell’Agricoltura e poi come Presidente della Repubblica), dal 2005 al 2014, sono stati un periodo di vera educazione politica grazie soprattutto alla sua vicinanza alla gente e ai suoi discorsi, con un linguaggio accessibile ai piú, uniti alle scelte del Frente Amplio (alla cui estrema sinistra c’era il suo Movimiento de Participación Popular, erede del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros): scelte che se non vedevano il Paese in accordo suscitavano però discussioni animate non solo nelle sedi istituzionali, ma anche nelle strade, nei circoli nelle chiese.
Le opzioni fondamentali
Era di dominio pubblico che la sua origine (e quella di sua moglie, Lucia Topolansky) era tra i guerriglieri Tupamaros di Raúl Sendic, un gruppo sorto negli anni Sessanta da una marcia in difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero che da Artigas arrivò a Montevideo e che si caratterizzò soprattutto per azioni dimostrative non violente (la marcia appunto, l’occupazione della Città di Pando…).
Un gruppo comunque armato, con le sue vittime, le cui azioni hanno portato al carcere (e alla tortura) molti dei suoi membri tra cui lo stesso Mujica (che in carcere aveva trascorso più di 10 anni), ma che ha saputo evolvere, dopo la fine della dittatura nel 1984, in un movimento politico le cui istanze sono state sempre a favore dei lavoratori, dei poveri, dei senza casa che vivevano nelle baraccopoli (gli «asentamientos»).
Mujica era fedele e carismatico interprete del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros e molte delle sue opzioni erano in realtà quelle del Movimento. Una su tutte: la proposta di legge, all’inizio di ogni legislatura, che ciascun parlamentare avesse uno stipendio corrispondente a quello di un operaio specializzato e, dal momento che la proposta non veniva mai approvata, la conseguente autotassazione per donare l’eccedente in favore di un fondo per la costruzione di case negli asentamientos.
Riconciliazione
José Mujica: un uomo che ha pagato per le sue scelte con il carcere, con uno stipendio normale, con una vita sobria o povera, rimedio secondo lui anche contro la violenza dei malviventi, che poco gli potevano rubare; non ha abbandonato la sua cascina in campagna alle porte di Montevideo neppure quando era Presidente, continuando a coltivare fiori con sua moglie.
«Io e Lucia», diceva, «abbiamo una piccola casa, che mettiamo a posto in 10 minuti alla mattina, così poi ci dedichiamo alle cose piú importanti e che più ci piacciono: la coltivazione dei fiori, la lettura…». E, al di là delle politiche contingenti, questo consigliava ai giovani e ai meno giovani: aprire la mente con la lettura, non perdere il vincolo con la terra da cui veniamo, vivere del proprio lavoro anche manuale. Solo così ci si può avvicinare a una progettualità politica che ricerchi il bene di tutti a iniziare dai più bisognosi.
Un tema ha però segnato particolarmente la sua traiettoria politica dopo la fine della dittatura: la riconciliazione. Il Paese era diviso tra coloro che avevano appoggiato l’esercito e coloro che ne avevano subito le violenze; lui stesso e sua moglie erano stati in carcere come la gran parte dei membri del loro Movimento. La riconciliazione e la giustizia erano un’urgenza per tutti i Governi che si sono succeduti.
Mujica ha contribuito alla riconciliazione con le parole, ma soprattutto con i gesti. Sono rimasti nella memoria collettiva le sue parole di richiesta di perdono la sera dell’elezione a Presidente verso coloro che avesse potuto offendere nella campagna elettorale; la trepidazione (nel ricordo di sua moglie Lucia, Presidente del Senato) mentre passava in rassegna l’Esercito, tra i cui alti gradi ancora erano presenti coloro che lo avevano imprigionato; la risoluzione rapidissima della crisi diplomatica causata dalle sue offensive parole, a microfoni non spenti, verso la Presidente Argentina Cristina Fernández de Kirchner e il suo defunto marito.
Quando fu eletto papa Francesco non si recò a Roma per la Messa Inaugurale del Pontificato, perché dichiaratamente non credente: volle vi andasse Astori, suo vice, perché cattolico; e quando dovette affrontare la legge sull’interruzione della gravidanza (che il suo predecessore Tabaré-Vásquez non volle firmare, perché medico) espresse il desiderio, non realizzabile, che si potesse arrivare a una conclusione senza offendere nessuno.
Il riposo del presidente povero
«Anche il guerriero ha diritto al suo riposo». Già a inizio anno l'ex presidente dell'Uruguay, José "Pepe" Mujica, morto questa notte all'età di 89 anni a Montevideo, aveva salutato la vita pubblica. «Il mio tempo è finito», aveva detto il 10 gennaio, rendendo pubblica la sua malattia - cancro all'esofago, che ha descritto con schiettezza - mentre chiedeva di «non rilasciare più interviste» ma di poter salutare affettuosamente i suoi connazionale. Verrà ricordato come il «presidente povero, e amico dei poveri» al quale neppure il potere ha tolto la capacità di sognare. L'ultimo sospiro di "Pepe" è stato annunciato su X dal suo delfino, il presidente uruguaiano Yamandú Orsi, che ha scritto: «Ci mancherai molto, caro vecchio. Grazie per tutto ciò che ci hai dato e per l'amore donato al tuo popolo».
Nato il 20 maggio 1935, Mujica ha militato nel Movimento di liberazione nazionale "Tupamaros" ed è stato detenuto per in quattro occasione, trascorrendo almeno 15 anni di prigionia. La sua ultima detenzione è avvenuta tra il 1972 e 1985, venendo preso in ostaggio dalla dittatura militare che governò il Paese nello stesso periodo. Con il ritorno della democrazia è stato parlamentare e ministro dell'Agricoltura e infine presidente della Repubblica oriental dell'Uruguay dal 2010 al 2015. Durante il suo governo è stato definito «il capo di Stato più umile del mondo» dalla testata londinese Bbc a causa del suo stile di vita semplice e della donazione del 90% del suo stipendio mensile, 12mila dollari, a poveri, Ong e piccoli imprenditori.
Ora l'America Latina piange un uomo entrato in politica per predicare con l'esempio. Lo stesso papa Francesco lo aveva definito un «esempio per la politica latinoamericana e del mondo» descrivendolo come «un politico di razza», tra quelli che sono a rischio estinzione. Fino a domani il suo "Paisito", piccolo Paese, come lo chiamava lui stesso, potrà dargli un ultimo saluto. Gli sarà dedicato un corteo funebre che partirà dal Palazzo di governo ("Torre Ejecutiva") facendo tappa in diversi punti di Montevideo, che ricordano alcuni passaggi della sua vita: dalla sede del "Frente Amplio", passando per il Movimento di Partecipazione popolare e il Palazzo legislativo.
In ricordo del Prof Giovanni Scambia a 5 mesi dalla sua morte.
La sua passione educativa, la sua eredità
Monsignor Claudio Giuliodori
Un ritratto vivo e toccante del grande medico specialista in ginecologia oncologica di levatura mondiale, protagonista clinico e scientifico del Policlinico Gemelli, nell'omelia alle sue esequie.
Quello che proponiamo è il testo dell’omelia pronunciata dal vescovo Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica, sabato 22 febbraio durante le esequie nella chiesa centrale dell'Università Cattolica di Roma del professor Giovanni Scambia, ordinario di Ginecologia e Ostetricia all’Università Cattolica e direttore scientifico della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, a capo della Unità operativa complessa di Ginecologia oncologica, ma soprattutto figura di medico e di uomo di levatura eccezionale, come attestato dalle innumerevoli testimonianze nei giorni successivi alla sua repentina scomparsa. Al termine del testo, monsignor Giuliodori cita parole indimenticabili di Scambia, già affidate a un video realizzato dall’Università Cattolica pochi mesi prima.
Caro Giovanni,
mi permetto di rivolgermi a te come ho sempre fatto in questi anni in modo semplice e diretto, profittando di quella familiarità e amicizia che hai saputo offrire a tutti coloro che ti hanno conosciuto. E sono davvero tanti! Lo abbiamo visto anche in queste giornate, dal flusso ininterrotto di persone, autorità e semplici pazienti, che sono corse a darti l’ultimo saluto. Tutti profondamente addolorati, ma soprattutto grati e riconoscenti per aver potuto godere della tua presenza, dai familiari al mondo accademico, dai ricercatori al personale sanitario e amministrativo, dagli studenti ai pazienti che hai curato, soprattutto le tante donne affette da patologie oncologiche che hai seguito con grande competenza scientifica e premurosa sensibilità umana.
Vorremmo non essere qui per darti l’estremo saluto. Siamo tutti sconvolti e increduli per la rapidità con cui un male, da te ben conosciuto e tante volte curato, ti ha rubato alla vita e sottratto al nostro affetto. Una vita, la tua, davvero straordinaria che tutti abbiamo ammirato per quanto hai saputo realizzare e di cui siamo grati a te e al Signore.
Ti ringraziamo, in primo luogo, per l’instancabile e appassionata ricerca scientifica che ha caratterizzato i tuoi studi e il tuo impegno accademico e che ti ha visto raggiungere i più alti riconoscimenti internazionali fino a contribuire in modo determinante a trasformare anche il Policlinico Gemelli in uno dei più importanti Istituti di Ricerca a livello nazionale di cui sei stato dinamico e illuminato direttore. Una ricerca però mai finalizzata a se stessa, ma sempre orientata ad offrire le migliore e più innovative cure ai pazienti che hanno potuto trovare in te, e nella squadra che hai saputo creare, un riferimento sicuro per affrontare malattie e situazioni considerate fino a poco tempo fa inguaribili.
Così il secondo elemento che abbiamo potuto ammirare nella tua vita professionale, e di cui ti ringraziamo, è stata l’instancabile dedizione alle pazienti che sempre più numerose si sono rivolte a te e a questa istituzione sanitaria per trovare risposte alle loro complesse problematiche. Non ti sei mai sottratto alle urgenze e alle richieste, lavorando giorno e notte, e facendo tua le paure e le aspettative delle pazienti che confidavano nelle tua capacità di trovare soluzioni e di dare risposte, anche nei casi più difficili. Ogni caso una sfida a cui non ti sei mai sottratto, sviluppando una medicina personalizzata quanto mai mirata ed efficace. Il tuo prenderti cura di tutti e di ciascuno, nella ricerca delle soluzioni più innovative e appropriate, ha fatto nascere tante reti solidali che si sono tradotte anche in molteplici e straordinarie iniziative di fundraising e di sensibilizzazione culturale. “Note di Luce”, il tradizionale evento da te programmato per lunedì prossimo al all’Auditorium Parco della Musica, non è stata annullato perché questo è certamente il tuo desiderio.
Infine, ma non perché sia stato l’ultimo dei tuoi interessi ma piuttosto, penso di poter dire, il primo e più importante, la dedizione alla formazione degli studenti, degli specializzandi e dei ricercatori. In una parola la passione educativa che ha fatto fiorire attorno a te una scuola formidabile di giovani e di professionisti capaci di fare tesoro della tua sapienza e di seguirti riconoscendo in te un vero maestro di scienza e di vita. Ci lasci mentre è in corso a Roma Esgo un Congresso Mondiale sulla ginecologia oncologica con miglia di medici provenienti da tutto il mondo di cui tu e la tua scuola siete protagonisti indiscussi a livello internazionale.
Guardando a queste tue caratteristiche, richiamate in modo essenziale e certamente incompleto - chiunque dei presenti potrebbe aggiungere molto altro e in modo certamente migliore - ho immaginato quale Parola della Scrittura ti avesse ispirato e meglio potesse interpretare la tua sensibilità spirituale, dimensione non ostentata o appariscente, ma profondamente radicata in te e nel tuo animo inquieto sempre sinceramente alla ricerca della verità.
Dal libro della Sapienza ho tratto un brano che certamente avresti apprezzato e in cui probabilmente ti saresti riconosciuto perché - abbiamo letto -: «La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano». Ma soprattutto penso che la tua vita sia stata illuminata e plasmata da queste parole dell’autore sacro: principio della sapienza è «il desiderio di istruzione, l’anelito per l’istruzione è amore, l’amore per lei è osservanza delle sue leggi, il rispetto delle leggi è garanzia di incorruttibilità e l’incorruttibilità rende vicini a Dio».
E ora sei vicino a Dio e puoi presentarti a lui con tutto il bagaglio di sapienza che hai saputo coltivare in questi anni della tua vita terrena, certamente troppo brevi per noi, ma assolutamente preziosi davanti a Dio perché hai servito Lui nel volto di ogni malato. Come Buon samaritano ti sei preso cura, con sapienza e intelligenza, di tanti fratelli e sorelle provati dalla malattia.
Nella tua opera si è come incarnata la pagina del Vangelo di Marco che ho voluto riproporre perché seguendo la tua vocazione ti sei fatto interprete, con la tua peculiarità e originalità, di Gesù stesso vero medico dell’anima e del corpo. Tu non hai mai speculato sulle speranze o sulla disperazione delle persone malate, ma hai sempre saputo dare risposte concrete ed efficaci. Quante donne hanno cercato rifugio e conforto sotto il mantello della tua alta professionalità e hanno trovato speranza grazie al tuo sguardo scientifico e alla tua perizia chirurgica? Gesù si è servito anche di te per dire a tante donne ancora oggi; «Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Il Signore ora ti attende in Cielo e certamente saprà ricompensarti per tutto il bene fatto. Ma oltre al Signore penso che ad attenderti ci saranno anche i nostri fondatori. Padre Agostino Gemelli che riconoscerà in te un interprete geniale del “sogno della vita sua”, e cioè di aver una Facoltà di Medicina e chirurgia dove scienza e fede si incontrano ai più alti livelli. Di questo incontro, fecondo e generativo, sei stato un interprete unico e straordinario, di cui tutti siamo ammirati e orgogliosi. Ma ad accoglierti ci sarà anche la Beata Armida Barelli, perché nel tuo cuore abbiamo tutti potuto vedere e sperimentare un riflesso di quel Sacro Cuore di fronte al quale la “grande anima” dell’Ateneo amava dire: «È impossibile? Allora si farà. Sacro Cuore mi fidi di te!». Oso pensare che anche tu la mattina presto quando ti fermavi a pregare nella cappella al terzo piano non mancavi di provocare il Signore affinché ti donasse coraggio e lungimiranza per trovare nuove e più efficaci cure per le tue pazienti o per spingere il Policlinico verso nuove e inedite sfide nel campo sanitario e della ricerca scientifica.
Ti salutiamo con un grande, immenso abbraccio da parte della tua famiglia e della grande famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Policlinico Gemelli. Ci lasci una formidabile eredità che speriamo di saper custodire e sviluppare. La tua passione e la tua opera l’hai sintetizzata a novembre nel bellissimo video in cui alla fine, e ora lo comprendiamo, ci consegnavi anche il tuo testamento che non possiamo non riascoltare ancora una volta dalla tua voce:
«C’è un ultimo messaggio che voglio lasciare ai giovani che dovranno costruire il futuro della nostra scuola e della nostra clinica, ed è quello di meravigliarsi dei progressi e delle conquiste, così come mi meraviglio ancora io oggi di dove siamo arrivati.
Quando iniziai non avrei mai pensato di poter dire ad una donna con un tumore che dopo la guarigione avrebbe potuto avere un bambino, o che l’intelligenza artificiale potesse essere utile a fornire modelli predittivi di risposta alle cure, eppure oggi è così.
Per chi scriverà la nostra storia il mio augurio è di attraversare ancora tante scoperte e tante vittorie, magari con una squadra meravigliosa come la nostra, fatta di talento, passione, capacità di stare insieme, di prendersi cura delle donne, e per questo ringrazio tutti, le nostre ostetriche, gli infermieri e tutto il personale paramedico, i neonatologi, i radiologi e radioterapisti, gli anestesisti, gli psicologi, gli anatomopatologi, gli studenti e gli specializzandi, e il personale che si prende cura del reparto, e tutti coloro che migliorano il nostro lavoro e tracciano la strada verso un domani, che voglio davvero immaginare luminoso ed emozionante, per tutti noi e per tutti voi».
Grazie Giovanni. Il Signore ti dia pace.
San Giuseppe Moscati, medico di Napoli
ricorrenza della nascita 25 luglio
Giuseppe Moscati, che da Santo gode di una grande devozione a Napoli, in realtà è nato a Benevento nel 1880 e aveva addirittura origini avellinesi. Figlio e nipote di magistrati, la sua vita professionale sembrava segnata, ma nessuno aveva fatto i conti con la sua grande fede che lo ha portato ben presto su una strada diversa…
“Il mio posto è accanto agli ammalati!”
Nel 1892, quando Giuseppe è un adolescente, suo fratello si fa molto male cadendo da cavallo e come conseguenza dell’incidente inizia a soffrire di epilessia. Sarà stato questo accorgersi precocemente della brevità della vita umana, l’essere colpito dalla sofferenza, o forse la visione continua dei malati dalla finestra della casa paterna che si affaccia sull’Ospedale degli Incurabili, che porta Giuseppe a preferire la facoltà di Medicina a quella di Giurisprudenza. Allora la medicina e la scienza in generale erano terreno fertile per il materialismo, ma Giuseppe riesce a tenerlo a distanza, alimentando la sua fede con l’Eucaristia quotidiana.
Il medico di tutti
Giuseppe si laurea brillantemente ed è un medico promettente: a nemmeno 30 anni diventa famoso per le sue diagnosi immediate e precise, che hanno del miracoloso considerando gli scarsi mezzi dell’epoca. A chi glielo fa notare lui risponde che è merito della preghiera, perché è Dio l’artefice della vita, mentre i medici non possono che essere indegni collaboratori. È con questa consapevolezza che va al lavoro ogni giorno, sia all’Ospedale degli Incurabili dove sarà nominato primario nel 1925, sia nel suo studio privato dove sono accolti tutti e dove non fa pagare i poveri, ma, anzi, li paga lui per essere andati a curarsi, sia nelle frequenti visite a domicilio in cui porta oltre all’assistenza medica anche il conforto spirituale. Si narra che una volta, dopo aver guarito un operaio da ascesso polmonare che tutti avevano scambiato per tisi, questi voleva pagarlo con tutti i suoi risparmi, ma Giuseppe gli chiese come onorario che andasse a confessarsi: “Perché è Dio che ti ha salvato”.
Scienza e fede
Oltre a dedicarsi alla cura dei malati, Giuseppe è anche un ottimo ricercatore che sperimenta le nuove tecniche e i nuovi farmaci, come l’insulina che dal 1922 inizia a essere utilizzata nella cura del diabete. É talmente abile nelle autopsie che nel 1925 gli viene affidata la direzione dell’Istituto di anatomia patologica. Non è inusuale vederlo farsi il segno della croce prima di operare su un cadavere, per il rispetto che si deve a un corpo che è stato un uomo amato da Dio. Per lui scienza e fede non sono due mondi lontani, separati e inconciliabili, ma due elementi che convivono nella sua quotidianità, fatta di una grande devozione per la Vergine Maria, di sobrietà e povertà personale alla sequela di San Francesco, e della scelta del celibato per avere più tempo per i suoi sempre più numerosi pazienti.
L’eruzione del Vesuvio e il colera
Ci sono due episodi importanti nella vita di Giuseppe Moscati che fanno meglio comprendere la grandezza di questa figura: l’8 aprile del 1906 il Vesuvio inizia a eruttare. Giuseppe capisce immediatamente la situazione e si reca a Torre del Greco, dove l’Ospedale degli Incurabili ha una piccola succursale, per mettere in salvo i malati. Quando anche l’ultimo paziente sarà al sicuro, la struttura, in effetti, crolla. Nel 1911, invece, a Napoli si diffonde un’epidemia di colera e anche stavolta Giuseppe sarà non soltanto accanto ai malati senza paura del contagio, ma anche in prima linea con le sue attività di ricerca che contribuiranno molto a contenere la malattia.
Medico e apostolo fino alla fine
Nello studio di Giuseppe Moscati si recano tutti, anche personaggi famosi quali il tenore Enrico Caruso e il Beato Bartolo Longo. A tutti riservava la stessa attenzione e la stessa scrupolosità, perché in ogni volto vede quello di Gesù sofferente. Nella sala d’attesa c’è una scritta per regolare gli onorari: “Chi può metta qualcosa, chi ha bisogno prenda”. È lì, al suo posto, sulla sua poltrona – quella diventata poi una reliquia da venerare – quel 12 aprile 1927 quando un infarto lo stronca all’età di 47 anni. Sarà canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1987 al termine del sinodo dei vescovi sulla vocazione e la missione dei laici all’interno della Chiesa.
"Dio dell’impossibile, se mi metti nel cuore questa spinta io ti dico sì, ma tu mettimi nella condizione"
Chiara Amirante
Chiara Amirante sorride anche nei momenti difficili
nascita 20 giugno 1966
Lucia Bellaspiga
La risposta alla disperazione con un percorso di riscatto: «Dico il mio grazie a Dio per tutti coloro che sono stati nella morte e sono risorti spiritualmente». Parla la fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti.
«Sono stata una bambina vivace e impegnativa, di quelle che bombardano i genitori di “perché?” e non si accontentano di risposte preconfezionate... Ma ho avuto la grazia di nascere da due genitori che si erano convertiti da poco, quindi nel momento della massima scoperta di questa grande notizia che troppo spesso si dà per scontata. Mi è andata bene». Ed è tuttora impegnativa, Chiara Amirante, 52 anni, ogni definizione le va stretta: laureata in scienze politiche alla Sapienza di Roma, autrice di bestseller e personaggio televisivo, soprattutto fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti, nata 25 anni fa nei meandri della Stazione Termini per salvare 27 ragazzi dai loro inferni personali e oggi divenuta la casa spirituale di 700mila testimoni di luce nei cinque continenti. Lei sarà anche premiata alla Festa di Avvenire a Lerici, il 31 luglio.
Chiara, un quarto di secolo di Nuovi Orizzonti è un giro di boa non indifferente. Come lo sta vivendo?
Venticinque anni ti portano a riguardare indietro e contemplare con stupore quello che Dio ha operato. In realtà ogni giorno faccio questo esercizio di ringraziare il Padre, ma certamente farlo tutto insieme per i 25 anni mi ha colmato il cuore di commozione. Ho ripensato a quei primi giorni in cui, da ragazza, mi sono immersa nell’inferno della strada, tra tanti fratelli sofferenti, nella droga, nella disperazione, nell’abbandono dopo il carcere, nella prostituzione, e poi a quanti di loro sono passati dalla morte alla vita. Nel 1994 cominciavamo con la prima piccola comunità, in una villetta familiare mandata senza preavviso dalla Provvidenza, i materassi sparsi ovunque. Da quei 27 su cui nessuno avrebbe scommesso, vero popolo della notte, è poi fiorito questo popolo di “cavalieri della luce”, testimoni della risurrezione nelle stesse strade in cui prima vivevano di espedienti. Il giorno di Pentecoste a Frosinone eravamo in tremila a festeggiare questo anniversario, una folla di persone, ciascuno un miracolo. Ho visto le lacrime di tanti mentre a 82 ragazzi consegnavo quella piccola croce simbolo dell’essere consacrati come “Piccoli della gioia”, sapevo che quasi tutti i presenti erano stati nella morte ed erano risorti spiritualmente, e da lì è salito il nostro grazie a Dio di questa grande famiglia che sempre più ci chiama a essere testimoni di gioia per chi ha perso la speranza.
Lei è una consacrata, ma Nuovi Orizzonti è una realtà che ha molti volti ed esperienze diverse. Che cosa vi accomuna?
Per lo più noi abbiamo una consacrazione laicale, ci sono anche “Piccoli della gioia” sposati, sposi chiamati al servizio del Padre anche nel lavoro quotidiano, oppure nelle missioni, ovunque, le “Famiglie di Nazareth” che vivono una dedizione totale a Dio, aperte all’accoglienza. È questa la nostra caratteristica specifica, anche se poi abbiamo pure sacerdoti, religiosi e religiose: la consacrazione come “Piccoli della gioia” è per tutti gli stati di vita. Credo che sia un segno dei tempi se lo Spirito Santo sta mandando tanti carismi e chiama i laici là dove sono. Riflette ciò che già il Concilio chiariva, e cioè che la santità è una chiamata per tutti, non è qualcosa che possiamo delegare a sacerdoti e religiosi. Oggi soprattutto, in un mondo spesso radicato in «strutture di peccato », come le chiamava Giovanni Paolo II, c’è un’urgenza assoluta di sposi santi, di santi immersi nel mondo del lavoro, di professionisti santi, capaci di rinnovare la società da dentro. Va detto però che come Chiesa siamo un po’ indietro nel riconoscere il contributo che ciascun laico può portare: colpa di quel clericalismo duro a morire di cui parla papa Francesco. Il sacerdozio è un dono immenso, ma poi siamo tutti corpo di Cristo.
Quei genitori che lei da bambina bombardava di domande hanno fatto in tempo a vedere il suo cammino?
Poverini, sì. Sentirsi dire da una figlia che va a vivere in strada non è facile. Avevo sentito la chiamata a lasciare tutto per andare a vivere in strada con la mia nuova famiglia, ero anche guarita all’improvviso da una malattia incurabile... In una giornata di spiritualità, quando erano sotto l’azione dello Spirito Santo, ho detto loro che avrei lasciato la casa e il lavoro per seguire Gesù nei bassifondi della città... Per la grande stima che avevano di me mi hanno dato la loro benedizione, sapevano che se facevo delle pazzie era perché Dio me le metteva nel cuore, essendo io molto razionale. Ma poi papà ha cercato di farmi ragionare, diceva che per una ragazza era troppo pericoloso. Mamma ha capito subito che era una chiamata e niente mi avrebbe distolto, ma lui ha vacillato, «Se vuoi diventare santa fallo lontano da me, perché non posso morire di crepacuore », mi ha detto. Ma Dio non si lascia mai vincere in generosità e proprio il giorno in cui dovevo trasferirmi in strada con la mia nuova famiglia di disperati è arrivata dalla Provvidenza la prima struttura per iniziare l’accoglienza residenziale. Mamma e papà sono poi venuti a vivere nove giorni di ritiro spirituale con i 27 arrivati tutti da esperienze estreme...
Che cosa proponeva a questi ragazzi?
Di fare un’esperienza di risurrezione. «Non importa se credete che Gesù è figlio di Dio – dicevo loro –meditate almeno le parole di questo grande uomo che mi hanno portato a rischiare la vita per voi». Meditavamo la promessa di Gesù, che se chiediamo al Padre lo Spirito Santo egli ce lo dona: avevano i cuori tanto spezzati che nessun percorso umano avrebbe potuto trasformare i loro cuori di pietra in cuori di carne. Il nono giorno era la festa del Battesimo di Gesù. La maggior parte di loro non aveva mai pregato, ognuno ha chiesto lo Spirito in modo molto semplice, balbettando qualche parola. Non piangevano da quando erano bambini, ci siamo trovati tutti in lacrime e in quella cappellina siamo rimasti fino a sera, nessuno riusciva ad allontanarsi. Mio papà, vedendo questi lupi trasformarsi in angeli, si è tranquillizzato, innamorato di ciò che Dio stava operando non ci ha più lasciati.
Tra tanti salvati, è andata incontro a sconfitte?
Non credo nelle sconfitte. Quando Gesù ha vissuto il più grande fallimento, ha ottenuto la più grande vittoria per l’umanità. Dio è morto, ma da quella morte è avvenuto il miracolo dei miracoli. C’è nella nostra vita la terribile possibilità di dire “no” all’amore di Dio, il che è la tragedia della nostra esistenza ma anche la forza del libero arbitrio. La cosa bella è che ogni “no” può sempre ritornare a essere un “sì”. Poi è vero che quando perdi per strada qualcuno lì per lì ti arriva la spada nel cuore, ma per la mia lunga esperienza so che, se Dio ha seminato il suo amore in un cuore, quel cuore resta segnato e il più delle volte prima o poi ritorna. Certo, c’è sempre un Pietro che rinnega o un Giuda che tradisce, ma se un tempo mi scoraggiavo e soffrivo, ora è più forte la certezza che le tenebre non prevarranno.
A volte si sente sola?
Da 25 anni porto la croce terribile di raccogliere il grido lancinante dei fratelli, e non si arriva a tutti. Nonostante il Papa chieda di uscire nelle periferie esistenziali, l’indifferenza è ancora un grave peccato di omissione da parte di troppi. Ci sono poi tanti che attaccano il Papa: come si può avere la presunzione, da cattolici, di saperne più del Pontefice? Il Divisore è abile...
Come si spiega la presenza di tanti attori, cantanti, vip, attratti da Nuovi Orizzonti, da Nek a Bocelli a molti altri?
Me lo chiedo spesso. Certo nel mondo dello spettacolo c’è grande sete di spiritualità, di uscire dalle apparenze per trovare rapporti veri. Vedere in Nuovi Orizzonti le realtà di ragazzi rinnovati dal Vangelo, toccare con mano i miracoli di tante risurrezioni interiori, riaccende in loro una nostalgia. Il mondo ci propone una gioia patinata. Quando vedono la luce negli occhi dei nostri ragazzi, dicono: «La voglio anch’io questa luce, se ce l’ha fatta lui allora posso anch’io ». E da personaggi tornano a sentirsi persone.
Don Coluccia fa rumore sulla piaga della droga. Quando ci svegliamo?
Maurizio Patriciello
Ben vengano la solidarietà, le strette di mano, le polemiche e le prese di posizioni politiche. Ben vengano i consigli dei superiori preoccupati per l’incolumità di questo prete affidato alle loro paterne cure. A don Antonio Coluccia, però, non interessa tanto la propria sicurezza – anche quella, ci mancherebbe – ma portare a galla un fenomeno malavitoso talmente incancrenito da essere diventato “normale”. Il dramma è questo, al Quarticciolo come a Caivano, a Tor Bella Monaca come a Scampia e in tante altre periferie. Don Antonio sa bene che non sarà una passeggiata della legalità a risolvere il problema, eppure insiste. E i fatti gli danno ragione se un semplice corteo riesce a far saltare i nervi ai malavitosi. Non è tanto il mancato introito di una sera, proveniente dalla droga, a preoccuparli, ma il fatto che una persona – un prete, addirittura - si sia permesso di accendere i riflettori su un mondo che – pur stando sotto gli occhi di tutti – avrebbe dovuto godere, secondo loro, di uno “statuto speciale”. Legge non scritta ma attuata.
«Qui comandiamo noi. Lasciateci in pace. Dobbiamo mangiare tutti. A ognuno il suo. Badate ai veri problemi del Paese…». Tutti sanno. E quando dico “tutti” intendo la Roma dei professionisti, degli imprenditori, degli industriali, delle forze dell’ordine, della gente comune, dei preti, ma, soprattutto, della politica. È a questo punto che l’operato di don Antonio diventa insopportabile. Con la sua impeccabile talare nera dalla quale non si separa mai – ammettiamolo, tanti lo avrebbero preferito in jeans e maglietta malandata, un cosiddetto “prete antimafia” - don Antonio ci richiama alle nostre responsabilità. Qual è, dunque, la vera intenzione di questo giovane religioso salentino? Attirare l’attenzione su di sé? Certo non manca chi ha la faccia tosta di affermarlo. La solita tiritera: vuole apparire, vuole andare in televisione, ama la ribalta, non sono fatti suoi, chi crede di essere, e scemenze del genere. In genere chi le inventa ha tutto l’interesse a farlo. La prima arma di difesa di chi naviga nel fango è il fango stesso. Messo in un’apposita macchina, serve a occultare, a sporcare, a insozzare, a fare perdere credibilità. Molto più dei colpi di pistola valgono le calunnie. Generano dubbi, acquietano le coscienze intorpidite, dividono, devastano.
A don Antonio, la capitale d’Italia deve molto. Credo che abbia tanto da insegnare a tutti, a cominciare da noi preti, continuamente invitati e trascinati, da papa Francesco a uscire dalle sacrestie, a sporcarci le mani, a sentire gli odori delle pecore e il puzzo di coloro che ne farebbero un boccone. I lupi non dormono, sempre alla ricerca dell’agnellino da sgozzare. I lupi sono scaltri, occorre – parola di Gesù – essere scaltri almeno al pari di essi. Scaltrezza come metodo, il fine è il bene comune. Un bene, cioè, che appartiene a tutti ma che alcuni vogliono accaparrarsi. Se c’è una cosa che preoccupa don Coluccia non è tanto la propria incolumità. Lui ha già messo in conto tutto. Quando mise mano all’aratro sapeva bene il rischio che correva. No, non è questo a rendere insonni le sue notti, a mettergli le ali ai piedi, a distrarlo durante la Messa. A turbarlo sono gli uomini della sua scorta, per i quali sente una grande responsabilità. Tra loro è nata un’amicizia bella. Si sorvegliano a vicenda. Ognuno teme e trema per la vita dell’altro.
Don Antonio non è un ingenuo ma un prete a tutto tondo. Non sta esagerando. Sta solo – come gli ha raccomandato il Papa – facendo rumore. Tant’ è che i nomi di questi quartieri della periferia romana, fino a ieri sconosciuti alla maggior parte degli italiani, oggi non lo sono più. Don Antonio ci sta tirando giù dal letto dove pigramente avremmo continuato a dormicchiare facendo finta che, in fondo, il problema non esiste. Non sto dicendo che eravamo all’anno zero, tutt’altro, voglio affermare, ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che questa guerra alla criminalità la vinceremo solo stando insieme. Un esercito preparato dove anche l’ultimo dei soldati e dei volontari è necessario per conquistare la vittoria. Un giovane professionista, una volta, ebbe a criticare una mia affermazione. Avevo detto che, a ben guardare, il problema della droga sono anche gli stessi drogati. Non ne era convinto. Per questo lo ripeto qui. Se non ci fosse la domanda la risposta cadrebbe da sola. Occorre chiarire una volta per tutte che i consumatori di droghe – persone oneste, giovani, padri di famiglia – oltre a rovinare se stessi alimentano la stessa malavita che li angaria. Scendiamo in campo, tutti insieme.
A don Coluccia il nostro ringraziamento e le nostre raccomandazioni. Sii prudente, caro confratello. Di eroi morti ne abbiamo già troppi. Sono un vero pugno nell’occhio. Falcone e Borsellino, don Diana e don Puglisi, insieme alla numerosa schiera di martiri che li accompagnano, ci fanno male. Stanno a dirci che hanno dovuto rinunciare alla loro vita anche perché non sempre gli altri hanno fatto il proprio dovere. Ci rimproverano per la nostra negligenza, la nostra pigrizia, la nostra ottusità. Don Antonio, continua – come già in modo mirabile stai facendo – a darci calci negli stinchi. Da vivo, però. Con perseveranza, forza, prudenza e quella virtù desueta che tanto piace al nostro Dio, l’umiltà. E tutti noi, che leggiamo le gesta di questo povero prete, cerchiamo di apprenderne la lezione. Non lo lasciamo solo. Soli si muore. Lo ripeto per i duri di orecchi: soli si muore. Scendiamo in campo, facciamogli scudo, moltiplichiamo a dismisura non solo le passeggiate della legalità, ma tutto ciò che serve a riportare lo Stato nelle nostre periferie.
La lunga lotta di Don Antonio contro la criminalità di strada
data di nascita 2 giugno 1975
Da ex operaio in una fabbrica salentina, a sacerdote fondatore dell’opera “don Giustino” per gli emarginati. Una vita rivoluzionata nel giro di pochi anni e dedicata ai poveri e ai bisognosi. Ma allo stesso tempo molto «scomoda», addirittura un prete «da eliminare».
Don Antonio Coluccia lotta da anni per restituire dignità agli uomini della sua comunità e non solo, ma gli ostacoli incontrati lungo il percorso non sono stati pochi. Nel 2012 ha trasformato una villa confiscata a un boss della banda della Magliana, in una casa di accoglienza. Don Antonio in questi anni è stato oggetto di minacce di morte a seguito del suo impegno nella pastorale di strada.
A Roma e non solo, è un simbolo della lotta allo spaccio e alla criminalità, dalle cui mani cerca ogni giorno di strappare i giovani con le sue iniziative, con i valori dello sport – a San Basilio ha aperto una palestra della legalità con le fiamme oro della polizia di Stato – e con il suo coraggioso impegno.
È segno di testimonianza della fede con opere di carità e di vera azione pastorale.
Il testamento spirituale di don Franco Monterubbianesi: «Io sono colpevole»
Pino Ciociola
Questo “Io sono colpevole” l’ha dettato a Luca prima d’andarsene, martedì scorso, tre giorni prima di compiere 94 anni. Il testamento spirituale di don Franco Monterubbianesi, fondatore della Comunità di Capodarco ( nella foto)
“Io sono colpevole – si legge -, colpevole di aver amato il prossimo, colpevole di aver pregato per tutti, colpevole di essere stato progressista o anche di più (e ride, ndr), sì sono colpevole del bene che ho voluto al mondo e agli ultimi, d’aver aiutato chi era considerato immeritevole o scansafatiche, colpevole di aver preso la parola, di non averla lasciata a quegli uomini che si credevano innocenti in una società in cui gli esclusi erano colpevoli solo di essere nati”.
Non era da mezze parole o mezze verità, don Franco. Va avanti: “Chi si ricorda delle mele marce? Così vi chiamavano, invece voi avete fatto la Storia... Perché Capodarco è la Storia! Ma da colpevoli siete tornati a essere abbandonati, poveri, umili, piccoli innocenti e non siete più solo italiani, perché il Signore ci dice sempre di aprirci al Mondo”.
“Non esistono colpevoli, non esistono innocenti”, ripete don Franco, come ha fatto per l’intera vita: “Ci sono gli Uomini, come genere umano, e hanno bisogno di progetti per essere vivi, hanno bisogno di creare e non di distruggere”. Al contrario, i colpevoli “sono gli ‘ignavi’, gli indifferenti e anche se a volte sono molto arrabbiato con chi non mi risponde al telefono, oggi devo perdonarlo”. Capodarco “è nata non giudicando, così deve continuare”. Continua: “Qui non abbiamo mai giudicato... Come potevo giudicare io, che ero più pazzo dei matti?”
È anche a tratti amaro, don Franco, nel suo testamento spirituale: “Questa non è la prima volta che muoio, siamo morti un po' a ogni fine, ogni volta che un pezzo se ne andava”, eppure “per poi risorgere sempre, perché noi siamo i Giovani di Capodarco e allora voglio che questa sia una festa per voi e un nuovo inizio”.
Detta le sue volontà, prima di salutare: “Non dovete disunirvi e non dovete star qui a litigare – fa scrivere chiaro -. Quando una mano è tesa, afferratela sempre anche voi che oggi vi sentite ultimi, che vi sentite esclusi, tenete strette le relazioni in famiglia, con i figli, con gli amici, con la Fede e alimentate sempre la Speranza. Pensate a un Noi e sarete più sereni perché costruirete qualcosa di bello”.
Sorride, don Franco. “Noi tutti siamo qui e il mio amico Luca, l'Americano e amico dell'Africa, che cura il progetto con il Catholic Land Movement negli Usa a cui teniamo tanto, che mi dice che è meglio non dilungarmi (sorride ancora, ndr)”. Invece va avanti: “Fate che il vostro cuore di pietra si trasformi in un cuore di carne, guardate i poveri, i giovani, l'Africa, guardate il mondo e pensate che esistano solo uomini la cui unica colpa sarà quella di non stare insieme, di distruggere e non costruire”.
La sua volontà, ancora: “Dovete lasciare una traccia di voi su questa vita, non ci abbandonate, state vicini a tutti gli uomini bravi, alle famiglie che abbiamo formato e solo così a ogni caduta risorgeremo. Gesù e Maria ci vogliono bene sempre”. Del resto, anche “io vi voglio bene, a tutti, anche quando mi avete causato molta sofferenza e ho tanti ricordi belli dalla mia famiglia”.
“Alla fine, qui, in un letto, è stata durissima, però ora è tempo di andare”, dice, avvicinandosi al commiato: “Quattro anni fa avevo ho chiesto al signore altri cinque anni, ma a voi ne spettano mille e più, se sarete uniti, sinceri e come dicono i miei giovani, non vi disunite!”. Allora, “guardate tutti questi ragazzi, giovani e vecchi amici, che mi hanno fatto compagnia e pensate che sono stato arrabbiato a volte, ma sempre felice, perché questo bene è di tutti”.
Ed ecco l’addio o l’arrivederci: “Ho detto abbastanza – chiude don Franco -. Però dovete chiedere ed essere degli "scocciatori" come me, capito? E bisogna partire sempre da voi giovani e raccontare tutto questo fermento. Ciao. Ciao. Ciao”.
Capodarco, così don Franco ha reso concrete le parole dignità e diritti
Don Franco Monterubbianesi è scomparso a 94 anni lo scorso 27 maggio. Nelle parole del direttore generale della Comunità di Capodarco dell'Umbria il ricordo del fondatore. «Non era un santo», sottolinea «era un uomo, con i suoi difetti, ma anche con una forza e una visione che hanno ispirato e cambiato la vita di molti». Non un visionario teorico, ma un rivoluzionario concreto
Riccardo Sollini
Il 27 maggio 2025, all’età di 94 anni, è venuto a mancare Don Franco Monterubbianesi, fondatore della Comunità di Capodarco. I racconti epici di quel Natale del 1966 fanno ormai parte della storia di trasformazione del nostro Paese.
L’intuizione di Don Franco, condivisa con altri compagni di strada, ha saputo trasformare le parole “dignità” e “diritti” in azione concreta per conquistarli.
Lo spartiacque alla fine degli anni ’60
Fu un passaggio epocale, che si inseriva nel contesto della nascita del nostro Welfare State. La fine degli anni ’60 rappresentò uno spartiacque culturale: i diritti non erano più vissuti come concessioni esterne, ma come responsabilità collettive e individuali.
La nascita della Comunità di Capodarco, come di altre esperienze simili, ruppe uno schema profondamente radicato nella società: quello dell’assistenzialismo caritatevole. Al suo posto, si affermava l’idea rivoluzionaria che vivere la propria vita in pienezza fosse un diritto.
Don Franco Monterubbianesi
La vita di Don Franco è stata segnata da un sogno inseguito con ostinazione quasi ossessiva, diventato la priorità quotidiana del suo impegno.
Aveva la straordinaria capacità di percepire ciò che nella nostra società non funzionava, e il bisogno incessante di raccontarlo, narrarlo, diffonderlo con ogni mezzo possibile.
Non conosceva stanchezza lui, ma metteva alla prova la pazienza di chi lo circondava, insistendo, incalzando, tornando sullo stesso punto fino allo sfinimento – degli altri, non suo.
Lo sguardo mondialista e l’agricoltura sociale
Aveva compreso l’urgenza di uno sguardo mondialista: chi si fa carico degli ultimi non può ignorare le ingiustizie che attraversano ogni angolo del pianeta. È stato tra i primi a legare l’accesso ai diritti con la necessità di proteggere il creato. In un periodo della sua vita, si lasciò ispirare profondamente dal concetto di Pachamama, che inseriva in ogni riflessione come chiave di connessione tra giustizia sociale e giustizia ambientale.
Fu anche tra i primi a intuire il potenziale dell’agricoltura sociale come strumento di riscatto, e coltivò con tenacia il sogno del “dopo di noi” – o, come diceva lui, del “dopo di noi durante il noi” – pensato come orizzonte concreto per garantire un futuro alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Le sue intuizioni erano immersioni visionarie, spesso premonitrici dei tempi che sarebbero venuti.
La capacità di generare trasformazioni
Era un visionario, sì, con una dose di quella follia che caratterizza chi ha il coraggio di aprire porte nuove. Una follia difficile da gestire per chi, intorno a lui, ragionava secondo schemi più lineari, o si doveva fare carico delle difficoltà economiche e gestionali che i sogni messi nelle mani sbagliate hanno generato. Ma una follia necessaria, capace di generare trasformazioni. A volte diventava ossessione, e poteva suscitare rabbia, specie alla decima telefonata sullo stesso tema.
Don Franco non era un santo, come è stato forse descritto in modo un po’ troppo agiografico nei giorni successivi alla sua morte. Era un uomo, con i suoi difetti, ma anche con una forza e una visione che hanno ispirato e cambiato la vita di molti. Due articoli letti in questi giorni mi hanno colpito profondamente e mi hanno aiutato a comprendere la portata della rivoluzione che ha saputo mettere in atto. Due persone con disabilità, in modo diverso, lo hanno ringraziato per aver donato loro una seconda vita. Sono persone che oggi rappresentano un esempio di lotta e trasformazione, attivisti che si battono per migliorare le condizioni di vita degli altri.
Sono cambiati gli occhi con cui guardare la realtà
L’intuizione della Comunità di Capodarco ha permesso di affermare, con serietà e concretezza: si può fare. Sì, una persona con disabilità ha il diritto di sposarsi, di inseguire i propri sogni, di creare spazi di cura, di farsi carico delle fragilità altrui. Le fragilità non spariscono, ma possono essere trasformate in risorsa. Non si guarisce dalla propria condizione, ma quella condizione non è più il centro della vita.
Si aprono altre opportunità, si sviluppano altre competenze, si attivano altre intelligenze. Con questi nuovi “occhiali”, mi sento di dire che da quel momento in poi il mondo non è stato più lo stesso. Perché sono cambiati proprio gli occhi con cui guardiamo la realtà, e la consapevolezza che ciascuno ha il diritto di trasformare lo sguardo su di sé.
Forse questa è la rivoluzione più grande: tendere la mano non per accudire, ma per stare accanto e dire: «La tua vita può essere diversa. Si può fare. Guarda oltre, pretendi di essere altro». Una nota personale. Ho ancora almeno dieci messaggi in segreteria di Don Franco. Ripensandoci, mi rendo conto che la sua necessità costante di lanciare intuizioni, di spostare continuamente l’obiettivo, andava spesso in contrasto con il mio modo di essere. Più volte mi sono innervosito, molte più di quante gli abbia detto grazie. Forse è stato un errore.
Per questo, voglio ringraziare Nunzia Coppedè della Comunità Progetto Sud e Francesca Bondì della Comunità di Capodarco di Perugia. Sono loro che mi hanno aiutato oggi a comprendere davvero il messaggio e, soprattutto, l’azione concreta che Don Franco è riuscito a introdurre.
Da visionario teorico quale era ritenuto, è stato in realtà un rivoluzionario concreto.
“Per ragioni che hanno a che vedere con l’impegno della mia vita, questa è una guerra civile che lacera la mia anima. Vorrei fare qualcosa per fermarla… Ma non voglio vivere una vita che sia altro da un dono radicale”
Paolo Dall'Oglio
Paolo Dall'Oglio, maestro di umanità
«Prendersi cura di una persona di qualsiasi classe sociale, simpatia o pesantezza, aveva la precedenza su tutto, perfino sull’appuntamento della preghiera. Paolo aveva davvero a cuore le persone, che considerava sacre perché espressione diretta di Dio». Padre Jihad Youssef, 47 anni, è il superiore della comunità monastica di Deir Mar Musa al-Habashi (monastero di San Mosè l’Abissino) in Siria, fondata nel 1991 da padre Paolo Dall’Oglio.
Al gesuita, di cui non si hanno notizie dal 29 luglio 2013, quando venne rapito da un gruppo di estremisti islamici vicino ad al-Qāida, è legato in maniera indissolubile: «In me, Paolo, tu vivi», scrive nella toccante prefazione al libro Paolo Dall’Oglio. Il mio testamento, appena pubblicato dal Centro Ambrosiano. «In noi, tua comunità, tuoi amici, sei vivo. Uno come te, Paolo, non può morire. Anche se fossi morto nel corpo, rimani vivo in Dio».
L’INCONTRO CON DIO
La vita di padre Youssef è stata del tutto trasformata dall’incontro con la comunità di Mar Musa. Siriano, originario della Chiesa maronita, da ragazzo Jihad fa parte dei giovani del gruppo di preghiera Equipes Notre Dame.
«A 19 anni siamo stati a Mar Musa trascorrendo lì una notte in un ambiente primitivo, non c’era nemmeno l’elettricità. Abbiamo celebrato Messa e il Signore mi ha pescato: il mio cuore non è più tornato a casa», ricorda. «Dopo qualche mese sono stato nuovamente a Mar Musa e ho confidato a padre Paolo il desiderio di diventare monaco.
Siamo rimasti d’accordo che prima avrei portato a termine gli studi». Il tempo di concludere il corso di laurea in Scienze motorie e Jihad, violino e zaino in spalla, è di nuovo a Mar Musa: «Volevo fare il ragazzo di mondo, tutto muscoli e musica, ma a casa non ero più in pace: sono tornato al monastero il giorno dopo la laurea». Accolto a Mar Musa nel 1999, nel 2008 diventa sacerdote. Studia poi Sacra Scrittura al Pontificio istituto biblico di Roma e consegue il dottorato in Teologia biblica alla Gregoriana.
LA VITA COMUNITARIA
Gli anni con padre Paolo lo formano come uomo e come cristiano. E se la comunità di Mar Musa è consacrata al dialogo islamo-cristiano, padre Youssef non ha remore nell’ammettere che «la vita comunitaria è in sé la sfida più grande, più grande anche del dialogo interreligioso»:
«La comunità è la fornace che ci purifica dai nostri limiti e iniquità, è il posto dove nascono le difficoltà e in cui germoglia l’armonia. Paolo non desiderava l’obbedienza cieca quanto il confronto, non aveva segreti e capitava che ci riprendesse davanti a tutti. La trasparenza nelle relazioni era per lui la via per non accumulare nel cuore amarezza e rammarico. Credeva poi fermamente nell’uguaglianza fra tutti: uomini e donne, grandi e piccoli, forti e deboli, intellettuali e no, superiori e novizi».
L’esperienza comunitaria – prosegue il monaco – è scuola di vita: «Essere superiore costa fatica e chiede tanta disponibilità, d’altra parte non siamo stati battezzati per riposare ma per servire. Il nostro desiderio è rimanere a Mar Musa fino alla seconda venuta di Cristo, portando avanti ciò che il Signore ha seminato nei nostri cuori, lavorando sulla nostra vita spirituale in comunità. Il combustibile è la grazia del Battesimo, che ci dà la forza di sopportare una vita gomito a gomito con persone diverse da noi».
PADRE PAOLO, UNO SPIRITO LIBERO E PROFONDO
Nato a Roma nel 1954, padre Paolo Dall’Oglio entra nella Compagnia di Gesù a 21 anni. Dopo trent’anni in Siria al lavoro per il dialogo interreligioso, nel 2012 è espulso dal Paese per le sue posizioni contro il regime. L’anno successivo rientra due volte in Siria impegnandosi nelle trattative per la liberazione di alcuni ostaggi fra cui due vescovi, uno siro-ortodosso, l’altro greco-ortodosso. Di lui non si hanno più notizie dal rapimento, il 29 luglio 2013 a Raqqa. Lo scorso ottobre la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine sul sequestro per l’impossibilità di accertarne la sorte dal punto di vista giudiziario. «Uno sguardo non fondamentalista, ma lieve, pieno di quella speranza che non delude perché riposa in Dio. Sempre aperto al sorriso»: così papa Francesco parla di lui nella prefazione a Paolo Dall’Oglio. Il mio testamento (Centro Ambrosiano), ricordandolo come uno «spirito libero» con «grande profondità di visione».
IL LASCITO DI PADRE PAOLO
Oggi la comunità di Mar Musa, che si trova a circa 80 chilometri a nord di Damasco, è composta da otto monaci, «nove con Paolo»: «Quattro monache, tre monaci e un novizio. Siamo cinque siriani, una libanese, una tedesca e uno svizzero». Fino allo scorso marzo ne faceva parte anche padre Jacques Mourad, co-fondatore della comunità, da marzo arcivescovo di Homs, Hama e Nebek.
«Noi monaci e monache abbiamo lasciato tutto per seguire Dio, ogni giorno ci chiediamo come fare per camminare verso un discepolato vero. Non bisogna aggrapparsi a piani immodificabili ma, data la velocità dei cambiamenti, rimodulabili ogni anno», spiega Youssef. «Andiamo avanti cercando di essere aperti alla grazia dello Spirito, cercando di capire che forma prenderà la fratellanza islamo-cristiana e cercando di innescarla, ad esempio, con progetti per i giovani e l’ambiente».
A Mar Musa la giornata comincia con il caffè delle 7. «Prima ciascuno prega, legge o medita. Poi alle 7.30 recitiamo le Lodi e ci intratteniamo per un’ora di catechismo», racconta ancora Youssef. Ed è proprio in questi momenti di catechesi che, fra il novembre 2011 e il giugno 2012, padre Paolo commentò la Regola di Mar Musa.
Le riflessioni di allora oggi sono raccolte nel già citato Il mio testamento. «In quelle conferenze Paolo desiderava consegnare a noi, e alla Chiesa, l’essenza del suo pensiero. Ci intrattenevamo per un paio d’ore: gli argomenti erano tanti, legati ai tre voti di povertà, castità e obbedienza, e al nostro carisma. A riprendere in mano Il mio testamento, emerge come al centro di tutto ci sia la relazione con Dio e come l’uomo avanzi nella maturazione dell’amore per Dio e per il prossimo.
Si riflette sul dialogo islamo-cristiano, la sacralità dell’ospite, e si affronta anche la questione antropologica: dalla sessualità alla relazione uomo-donna, dall’omosessualità alle questioni di genere, che in tante società non si vivono in modo sereno e sono un tabù anche per la Chiesa».
LA SPERANZA OLTRE LA GUERRA
Sono passati dieci anni da quando di padre Paolo si sono perse le tracce. Da allora la situazione in Siria non è certo migliorata, anzi. Nel Paese, squassato da più di dieci anni di guerra civile e dalla violenza cieca del regime di Bashar al-Assad, nonché dall’ultima disgrazia del terremoto dello scorso febbraio, le Nazioni unite stimano in oltre 15 milioni le persone che necessitano di aiuti umanitari, su un totale di 22 milioni abitanti.
«Il popolo è angosciato e depresso» commenta Youssef. «Non puoi pensare ad altro se non al pane e alla scuola dei ragazzi. Nel cuore umano la speranza c’è ancora, resiste perché siamo un popolo vivo e creativo, ma l’incertezza rende la vita un sopravvivere». Nonostante tutto, padre Youssef è un uomo sereno: «Paolo mi ha insegnato che il Signore viene prima di tutto e non c’è che un solo Signore. A tenere alta la speranza è Dio, l’immagine di Dio in noi. Non trovo altra giustificazione a questa nostra resistenza».
di Laura Bellomi
DUE LIBRI L’ATTUALITÀ DI PADRE DALL’OGLIO
Nel decimo anniversario del rapimento di padre Paolo Dall’Oglio sono stati pubblicati due libri utili per conoscere meglio la sua figura e la sua storia. Il libro Il mio testamento, a cui accenniamo nell’intervista con padre Jihad Youssef, è pubblicato dal Centro Ambrosiano con la prefazione di papa Francesco. Si tratta di un vero e proprio testamento spirituale, da cui emergono chiari i temi più cari a Dall’Oglio.Verrà presentato il 29 luglio alla chiesa di Sant’Ignazio a Roma alla presenza, tra gli altri, proprio di padre Youssef. Una mano sola non applaude di Riccardo Cristiano è invece il testo pubblicato da Àncora. Come da sottotitolo, ripercorre la storia di padre Paolo Dall’Oglio letta nell’oggi. Viene presentato il 24 luglio alle 18.30 alla Biblioteca europea di Roma alla presenza – tra gli altri – di Francesca e Immacolata Dall’Oglio, sorelle di padre Paolo, e di Jacques Mourad, arcivescovo di Homs e cofondatore della comunità di Mar Musa.
“Chi riconosce l’appartenenza alla famiglia umana, come fa a non aprire le porte?
Poi io, come cristiano, come faccio a non essere accogliente?
E io ti accolgo come sei"
Don Gallo
Don Gallo a dieci anni dalla morte: «Continuiamo le sue battaglie»
Il prete di strada scomparso nel 2013 non è stato dimenticato. I suoi valori di accoglienza e solidarietà vivono nonostante il vento politico contrario nella Comunità di San Benedetto da lui fondata. E che continua a essere meta del pellegrinaggio di politici e intellettuali
di Massimiliano Salvo
Nella trattoria A’ Lanterna, a Genova, è ancora tutto identico: il chiasso, l’odore di fritto, le foto di vip alle pareti. E le citazioni: Don Gallo di qua, Don Gallo di là. Perché fu proprio il prete di strada, all’inizio degli anni ’80, a immaginarsi in queste tre stanze qualcosa di impensabile per l’epoca: un ristorante gestito da persone con problemi di dipendenza. «E oggi eccoci qui», dicono gli eredi del progetto, una ciurma un po’ incasinata tra i fornelli e la sala. Maura, capello bianco, da dietro al bancone allunga il dito: «Don Gallo si sedeva lì, in quel tavolo ovale».
Il 22 maggio saranno dieci anni dalla morte del prete di strada, educatore, attivista, saggista e fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto. «Non una comunità di recupero, ma una comunità di accoglienza», ripete Domenico Chionetti detto “Megu”, che di Don Gallo è stato portavoce ed è da sempre in prima linea nel portare avanti le sue battaglie.
Non è stato semplice: subito dopo la morte del “Gallo” nella stessa Comunità c’era il timore che fosse difficile continuare con lo stesso slancio. E invece l’associazione ha resistito ed è ancora protagonista della vita sociale e politica di Genova, dove il 22 maggio doveva tenersi una giornata di eventi per ricordare il sacerdote, rinviata a luglio dopo la tragedia dell’Emilia Romagna. Hanno aderito Moni Ovadia, Dori Ghezzi, Africa Unite e Walter Massa (presidente nazionale di Arci). A volere la giornata è stata la Comunità, non le istituzioni locali: anche perché rispetto agli ultimi anni della vita di Don Gallo il contesto politico è completamente cambiato.
Dieci anni dopo: la destra dilaga, gli amici rimangono
Quando Don Gallo morì, a 84 anni, Genova e la Liguria erano in mano al centrosinistra mentre oggi il centrodestra del sindaco Marco Bucci e del presidente Giovanni Toti non hanno rivali; a livello nazionale Fratelli d’Italia aveva il 2% e la Lega il 4%, ora governano. La Comunità però è ancora in prima linea nelle lotte per diritti civili e sociali, ed è una tappa simbolica nelle visite genovesi per una certa sinistra politica e culturale. Tanto per dire: il comizio di Elly Schlein, il venerdì sera prima delle primarie del Pd, è stato in piazza Don Gallo, nel “ghetto” di Genova, zona dimenticata popolata da spacciatori e prostitute.
A metà aprile, come tradizione, il segretario della Cgil Maurizio Landini è stato a Campoligure nell’entroterra di Genova, paese natale della famiglia di Don Andrea, dove il prete è sepolto e dove ogni anno la Comunità ricorda la Liberazione. «Don Gallo era cattolico, ma anche partigiano e militante comunista: e non ci vedeva nessuna contraddizione», lo ricorda il suo caro amico Moni Ovadia, attore e scrittore. «Dal punto di vista cristiano era un santo, dal punto di vista ebraico un “giusto”. Si batteva per l’uguaglianza e la giustizia sociale e lo faceva con una passione vibrante». Tra battute e sbuffi di sigaro Don Gallo era un uomo di relazioni, ed è infatti lunga la lista di amici e sostenitori della Comunità: da Vasco Rossi e Ilaria Cucchi a Nicola Fratoianni e Vauro, passando per Vito Mancuso, Dario Vergassola, Fiorella Mannoia, Però Pelù, i Subsonica, Caparezza, Erri De Luca, Dori Ghezzi.
Per rendersi conto degli intrecci del sacerdote basta fare un salto nel suo archivio: tra le decine di agende spicca quella del 2001, anno del G8 di Genova. In quei giorni di manifestazioni gli appuntamenti del Don erano senza sosta: “intervista con Mario Monicelli”, “cena con Manu Chao”, “marcia con Franca Rame”, “intervista a Porta a Porta”. «Don Gallo andò al concerto di Manu Chao, il giorno dopo Manu Chao venne nella nostra sede», ricorda la storica aiutante del sacerdote, Liliana “Lilly” Zaccarelli. «Aveva un assegno per noi. “Serve per dar da mangiare alla gente”, ci disse».
La Comunità oggi
Oggi la Comunità ha una trentina di dipendenti ma non ama dare numeri, memore di quando in passato tutti chiedevano a Don Gallo: «Quanti ne salvate?». E lui piccato rispondeva: «Che importa? Degli altri cosa facciamo, li ammazziamo?», per sottolineare una visione non salvifica, ma di rispetto anche per chi non riusciva a liberarsi dalla dipendenza. L’impegno della Comunità in questo campo è intanto diventato meno rilevante, tanto che delle cinque comunità di un tempo oggi ne sopravvivono tre: dal dilagare dell’eroina negli anni ’70 il mondo delle dipendenze è cambiato: «Ma la vocazione è identica», spiega Marco Malfatto, presidente della Comunità. «Ci occupiamo di persone e di bisogni, di essere umani, luoghi, quartieri».
I bisogni cui risponde la Comunità si sono quindi ampliati: verso le vittime della tratta, delle nuove povertà e del gioco d’azzardo, oppure con l’aiuto ai migranti; ma anche con l’offerta di servizi in zone problematiche, e con la solidarietà in ottica di economia circolare grazie alla raccolta di abiti usati e la lotta agli sprechi del cibo. «La persona resta al centro: ma davvero, non per modo di dire», spiegano Malfatto e “Megu” Chionetti. «La grande eredità di Don Gallo è la sua pedagogia: è importante la scelta, la motivazione di ognuno».
Il fulcro di questo mondo continua a essere la trattoria di fronte al porto, in via Milano 134r, luogo di emancipazione e incontro, laboratorio politico e di riflessione. Dove il cuoco o il cameriere possono essere un richiedente asilo un ex carcerato, e a tutti i commensali è data la stessa importanza: che si tratti di un magistrato, un cantante, un politico, un portuale. «Qui non c’è una classe sociale, non si fanno distinzioni», ripete chi ci lavora, con orgoglio. «Perché questa è A’ Lanterna di Don Gallo. E a tavola, come diceva Don Andrea, siamo tutti uguali».
Don Andrea Gallo
“Un prete che si è scoperto uomo”
Andrea nasce a Genova il 18 Luglio 1928 e viene immediatamente richiamato, fin dall’adolescenza, da Don Bosco e dalla sua dedizione a vivere a tempo pieno “con” gli ultimi, i poveri , gli emarginati, per sviluppare un metodo educativo che ritroveremo simile all’esperienza di Don Milani, lontano da ogni forma di coercizione.
Attratto dalla vita salesiana inizia il noviziato nel 1948 a Varazze, proseguendo poi a Roma il Liceo e gli studi filosofici.
Nel 1953 chiede di partire per le missioni e viene mandato in Brasile a San Paulo dove compie studi teologici: la dittatura che vigeva in Brasile, lo costringe, in un clima per lui insopportabile, a ritornare in Italia l’anno dopo.
Prosegue gli studi ad Ivrea e viene ordinato sacerdote il 1 luglio 1959.
Un anno dopo viene nominato cappellano alla nave scuola della Garaventa, noto riformatorio per minori: in questa esperienza cerca di introdurre una impostazione educativa diversa, dove fiducia e libertà tentavano di prendere il posto di metodi unicamente repressivi; i ragazzi parlavano con entusiasmo di questo prete che permetteva loro di uscire, poter andare al cinema e vivere momenti comuni di piccola autogestione, lontani dall’unico concetto fino allora costruito, cioè quello dell’espiazione della pena.
Tuttavia, i superiori salesiani, dopo tre anni lo rimuovono dall’incarico senza fornirgli spiegazioni e nel ’64 Andrea decide di lasciare la congregazione salesiana chiedendo di entrare nella diocesi genovese: “la congregazione salesiana, dice Andrea, si era istituzionalizzata e mi impediva di vivere pienamente la vocazione sacerdotale”.
Viene inviato a Capraia e nominato cappellano del carcere: due mesi dopo viene destinato in qualità di vice parroco alla chiesa del quartiere Carmine dove rimarrà fino al 1970, anno in cui verrà “trasferito” per ordine del Cardinale Siri.
Nel linguaggio “trasparente” della Curia era un normale avvicendamento di sacerdoti, ma non vi furono dubbi per nessuno: rievocare quel conflitto è molto importante, perché esso proietta molta luce sul significato della predicazione e dell’impegno di Andrea in quegli anni, sulla coerenza comunicativa con cui egli vive le sue scelte di campo “con” gli emarginati e sulle contraddizioni che questa scelta apre nella chiesa locale.
La predicazione di Andrea irritava una parte di fedeli e preoccupava i teologi della Curia, a cominciare dallo stesso Cardinale perché, si diceva, i suoi contenuti “non erano religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti”.
Un’aggravante, per la Curia è che Andrea non si limita a predicare dal pulpito, ma pretende di praticare ciò che dice e invita i fedeli a fare altrettanto: la parrocchia diventa un punto di aggregazione di giovani e adulti, di ogni parte della città, in cerca di amicizia e solidarietà per i più poveri, per gli emarginati che trovano un fondamentale punto di ascolto.
Per la sua chiara collocazione politica, la parrocchia diventa un punto di riferimento per molti militanti della nuova sinistra, cristiani e non.
L’episodio che scatena il provvedimento di espulsione è un incidente verificatosi nel corso di una predica domenicale: lo descrive il settimanale “Sette Giorni” del 12 Luglio 1970, con un articolo intitolato “Per non disturbare la quiete”.
Nel quartiere era stata scoperta una fumeria di hashish e l’episodio aveva suscitato indignazione nell’alta borghesia del quartiere: Andrea, prendendo spunto dal fatto, ricordò nella propria predica che rimanevano diffuse altre droghe, per esempio quelle del linguaggio, grazie alle quali un ragazzo può diventare “inadatto agli studi” se figlio di povera gente, oppure un bombardamento di popolazioni inermi può diventare “azione a difesa della libertà”.
Qualcuno disse che Andrea era oramai sfacciatamente comunista e le accuse si moltiplicarono affermando di aver passato ogni limite: la Curia decide per il suo allontanamento dal Carmine.
Questo provvedimento provoca nella parrocchia e nella città un vigoroso movimento di protesta ma, la Curia, non torna indietro e il “prete scomodo” deve obbedire: rinuncia al posto “offertogli” all’isola di Capraia che lo avrebbe totalmente e definitivamente isolato.
Lasciare materialmente la parrocchia non significa per lui abbandonare l’impegno che ha provocato l’atteggiamento repressivo nei suoi confronti: i suoi ultimi incontri con la popolazione, scesa in piazza per esprimergli solidarietà, sono una decisa riaffermazione di fedeltà ai suoi ideali ed alla sua battaglia “La cosa più importante, diceva, che tutti noi dobbiamo sempre fare nostra è che si continui ad agire perché i poveri contino, abbiano la parola: i poveri, cioè la gente che non conta mai, quella che si può bistrattare e non ascoltare mai.
Ecco, per questo dobbiamo continuare a lavorare!”
Qualche tempo dopo, viene accolto dal parroco della chiesa di San Benedetto, Don Federico Rebora, ed insieme ad un piccolo gruppo nasce la comunità di base, la Comunità di San Benedetto al Porto.
Dopo tanti anni, la nostra porta è sempre aperta!
Il testimone
Lorenzo Milani
Una fede scomoda
Dalla testimonianza di don Renzo Rossi, amico di don Lorenzo Milani fin dagli anni del seminario e per tutta la vita, conosciamo il primo atto della sua vita da priore nell'esilio di Barbiana. La possiamo leggere nel volume Lorenzo Milani, «Perché mi hai chiamato?». Lettere ai sacerdoti, appunti giovanili e ultime parole (San Paolo, Cinisello Balsamo 2013), curato da Michele Gesualdi, uno dei primi ragazzi della scuola di Barbiana e attuale Presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani. Il libro presenta testi inediti (con lettere a don Bensi, don Renzo Rossi, mons. Loris Capovilla, Primo Mazzolari, Barsotti e altri ancora), a cui sono opportunamente affiancati brani già noti ai lettori per favorire la lettura e la comprensione degli inediti. Scrive don Renzo Rossi: «Il giorno dopo il suo arrivo a Barbiana, Lorenzo venne a trovarmi nella canonica di Vicchio e mi chiese di accompagnarlo in Comune perché voleva comprarsi subito la tomba nel piccolo cimitero di Barbiana. Io gli feci in faccia una bella risata! "Quanto sei bischero!". Ma lui mi disse che con quel segno (la tomba) voleva sentirsi legato totalmente, nella vita e nella morte, alla sua nuova gente! La sua scelta "per tutta la vita fu immediata" !» (p. 94). Davanti alla miseria di quella minuscola parrocchia sperduta sul monte Giovi, quasi irraggiungibile all'epoca (6 dicembre 1954), non pochi amici protestarono auspicando un suo rapido trasferimento altrove. Tra questi, oltre alla madre, il giudice Gian Paolo Meucci e don Raffaele Bensi, suo confessore. Proprio dal carteggio con il parroco di San Michelino Visdomini veniamo a sapere la sua reazione, davanti alla proposta di considerare Barbiana come un posto da abbondare al più presto: «La prego dí non parlare più né con me né con altri di questa parrocchia come se fosse un banco di prova provvisorio in attesa di qualcos'altro. La sua lettera mi ha talmente turbato che son stato due o tre giorni a pensare al suicidio. Poi per fortuna le ho dato del bischero e poi l'ho anche perdonato» (p. 21). La lettera è del 29 dicembre, venti giorni dopo il suo arrivo a Barbiana, e ci dà subito l'idea della radicalità e della libertà interiore di don Lorenzo, del suo coraggio nel difenderla dicendo, senza mezze misure, al suo amato amico e confidente don Bensi, che gli è di scandalo, distogliendolo dalla sua missione, dalla sua vocazione. Comprando la tomba nel piccolo camposanto antistante la chiesa, don Lorenzo si confrontava col senso ultimo della sua esistenza dí credente e di sacerdote, agendo coerentemente con quanto aveva scritto, un anno prima, nella traccia della sua omelia per la festa dei morti: «questa vita non è tutto, ma solo un passaggio o un esame» (p. 191). La vita di don Lorenzo si è svolta sotto questo esame, sotto lo sguardo di Dio, e da qui derivano il suo coraggio, la sua radicalità per certi aspetti violenta, la percezione in lui chiara e inequivocabile della abissale differenza che corre tra lo stare sotto lo sguardo degli uomini oppure sotto lo sguardo di Dio. In questo senso, parla di sé come di un «eserciziante perpetuo» o anche come di un «rigido rabbino tradizionalista». Tanto rigoroso con se stesso, quanto capace di dedicarsi instancabilmente agli altri, facendo sua l'espressione di Gesù citata da Paolo e ripresa da Francesco di Assisi, «c'è più gioia nel dare che nel ricevere». Tanto esigente con i suoi allievi e nel rapporto dialettico con i suoi interlocutori o avversari, quanto capace di ammirare la generosità della sua perpetua, Eda, e dei suoi ragazzi nell'assisterlo fino alla fine.
Nella lettera a don Bensi che abbiamo citato, emerge anche con forza il senso, che via via prenderà un contorno sempre più definito, del suo modo di intendere il sacerdozio e la sua missione nella nuova situazione in cui si è venuto a trovare. Si tratta della sua ben nota opposizione contro l'ideologia della ricreazione, su cui tornerà più volte nel tempo con argomentazioni molto stringenti. «Voglio scrivere un libro contro la ricreazione. Lo intitolerò: L'Eresia del secolo. E sarà diretto in parti uguali contro i preti e i comunisti». Vorrebbe predicare gli esercizi spirituali ai diaconi proprio su questo argomento: «Do loro ospitalità quassù per tutta la settimana e li rimando in giù riformati» (p. 20). Circa un anno dopo, vorrebbe parlarne ai teologi, come scrive sempre al suo confessore: «Da anni covo in cuore il segreto desiderio di parlare ai teologi. Naturalmente parlerei della ricreazione e della scuola. Non chiedo di farmi dei seguaci, ma solo di poter turbare per mezz'ora le loro coscienze, seminare un dubbio, una necessità di revisione degli slogans» (p. 25). L'unica ricreazione buona, che don Milani ammette, è quella che ha un carattere educativo e che di fatto ha accolto con entusiasmo nella sua scuola. Vorrebbe, dunque, parlare ai diaconi in formazione e ai teologi professionisti, e mentre rivendica questa attenzione esprime, al contempo, pieno distacco da se stesso e dalle sue prese di posizione. Prenderà sempre le distanze, a più riprese, da chi si fa difensore delle sue idee («qualcuno – scrive – si è buttato accanitamente per difendere le mie affermazioni cui io stesso non credo più da mesi o da anni»), perché non cerca seguaci né tanto-meno di affermare un "metodo don Milani", per così dire, da applicare altrove. Scrive, nel 1956, a don Renzo Rossi: «Sarebbe bello che io potessi assolvere la funzione di serbatoio di pensiero per tutti gli indaffaratissimi preti che non han tempo per pensare a quel che fanno, ma vedo questa cosa assolutamente impossibile e del resto anche immorale per parte loro. Ognuno deve pensare quello che fa e siccome ognuno fa cose diverse e incontra persone diverse, nessuno può valersi, sull'apostolato, del pensiero d'un altro. Così son giunto alla conclusione che sia mia specifica missione non il distribuire pensieri prefabbricati ai preti, ma solo turbarli e farli pensare» (p. 108). Nella dedizione instancabile alla sua missione di "conturbatore di coscienze", non cerca le luci della ribalta o il conforto di un ampio consenso, ma lascia trasparire la verità irresistibile del Vangelo, quella buona notizia che facendosi lievito nella cultura cresce, inevitabilmente, generando una controcultura rispetto agli slogan e alla mentalità più diffusa e accolta acriticamente. Del resto, secondo don Lorenzo, un parroco non deve avere la preoccupazione di "piacere". «Ecco dunque l'unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira basso. Riceffargli ogni giorno la sua vuotezza. La sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza» (Lettera a don Ezio Palombo, del 25 marzo 1955, cit. da N. Fallaci, Vita del prete Lorenzo Milani, Bur, Milano 1993, p. 231).
La sua lotta per una vita coerente e fedele è an- che il suo dramma umano e di sacerdote: come fare un cammino non solitario né eccentrico e arbitrario, se ci si trova isolati e in esilio, di fatto quasi extra ecclesiam? Le sue parole sulla curia fiorentina, e sul crudele esilio in cui è stato relegato, sono durissime e non solo perché espresse senza accomodamenti e con il suo linguaggio diretto e molto toscano (che ancora forse scandalizza qualcuno e che è stato un facile bersaglio dei suoi detrattori, che non sono mai mancati nell'ambiente dei cristiani di facciata). Per don Lorenzo non era possibile una via mediana: aderire alla fede senza aderire alla Chiesa, senza un'obbedienza piena, equivale per lui a farsi una fede su misura, una fede fai-da-te. Ne scrive in proposito con grande chiarezza già nel 1953: «Quelli che scelgono e preferiscono e alla fine si creano la verità da credere si fanno la religione in casa a conto proprio. Sì, vedete, il mondo moderno che ci ha educati alla democrazia e alla fiducia nelle opinioni degli uomini ci ha dato anche questa tendenza di volerci fare su misura anche la fede. [...] Fede è entrare in casa d'altri, non costruirsi la casa. Entrare in una casa che non abbiamo costruita, che non è nostra, che non ci viene donata in proprietà ma in cui è già troppo alto onore di poter entrare. Ospiti del gran re. Non per mutar di posto a qualche mobile che non ci piace, ma per piegarci, accettare di umiliarci e accettare di soffrire qualcosa per amor di lui che tanto ci ha amato. Tutto dunque crederemo o nulla» (pp. 184-185). Al di fuori di questa prospettiva radicale e senza sconti, le parole di don Milani possono sembrare prese di posizione eccentriche o ideologiche o, per qualcuno, opinioni personali. Il priore di Barbiana, invece, sa bene di non aver aderito ad alcun partito, ad alcuna "ditta", ed è disposto a pagare fino in fondo il prezzo della solitudine per la sua coerenza. La fede professata deve, dunque, avere la sua verifica in un'etica vissuta, altrimenti è falsa.
Del resto, scrivendo a don Bensi nel 1965, rivendica di essere una «persona estremamente matura di cui ogni parola è misurata e frutto di anni di meditazione e di silenzio» (p. 65). In quel silenzio, la sua fede è cresciuta, fino a esprimere in poesia la forma della sua sequela senza sconti, del suo paradossale amore per Gesù: «Gesù ti odio / tu non mi dovevi chiamare. / [...] Gesù ti adoro / mi sei restato tu solo / Gesù m'aggrappo / alla tua unica mano / Gesù m'aggrappo / perché non voglio sparire / Ahi! // la tua mano è cosparsa di spine / Accidenti alle spine / della tua corona / Gesù ti odio / maledetta la tua croce / Gesù ti odio / ma non mi lasciare solo / Gesù ti odio / ma tu sai se è amore» (p. 209).
Bernardo Artusi
I CARE!
“L’arte dello scrivere è la religione. Il desiderio di esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo si intuiscono e le fa trovare a noi e agli altri. Per cui essere maestro, essere sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa.”
Don Lorenzo Milani
Gianfranco Ravasi "Don Milani, una voce profetica nel deserto"
Don Milani. Il prete che scuoteva la Chiesa mostra tutta la sua attualità grazie all’amore per la persona umana, soprattutto se emarginata
All’anagrafe fiorentina era stato registrato come Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, nato il 27 maggio 1923 da una famiglia borghese e intellettuale di matrice ebraica. Negli archivi parrocchiali apparirà come battezzato solo dieci anni dopo, successivamente a una lunga parentesi milanese dei genitori, che si erano trasferiti nel capoluogo lombardo nel 1930, ove il figlio avrebbe seguito tutto il cursus scolastico fino all’Accademia di Brera. Lorenzo ritornerà con loro a Firenze nel 1943 e fu là che si aprì il suo percorso spirituale che lo condusse al sacerdozio il 13 luglio 1947.
A questo punto sciogliamo del tutto l’enigma: stiamo parlando di don Lorenzo Milani, relegato dall’incomprensione ecclesiastica nel Mugello, a Barbiana, modesta frazione del comune di Vicchio che diverrà nota proprio per la genialità e la fede di questo prete. Là rimase fino alle soglie della morte, che avverrà a Firenze per grave malattia nel 1967.
La sua è stata una voce profetica che risuonava nel deserto, scuoteva le coscienze, anticipava i tempi collocandosi nei crocevia più roventi della società attraverso i suoi scritti, a partire dalle Esperienze pastorali del 1958, passando a L’obbedienza non è più una virtù per approdare all’indimenticabile dittico epistolare della Lettera a una professoressa (1967) su un originalissimo progetto educativo e della Lettera ai cappellani militari (1965) sull’obiezione di coscienza che gli costò una condanna per apologia di reato postuma, perché la sentenza fu pronunciata a un anno dalla sua morte avvenuta nel 1967. Sempre fermo e sereno, dichiarava ai suoi accusatori: «Dove è scritto che il prete debba farsi volere bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato».
Ai ragazzi della scuola di Barbiana confessava nel suo testamento: «Ho voluto più bene a voi che a Dio; ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto».
Il suo amore per la persona umana, soprattutto se povera ed emarginata, era totale: «Il cuore dell’uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola», scriveva a quella “professoressa” così rigida nel suo ottuso sapere e inesorabile nel suo giudizio su un’esperienza didattica creativa. Lapidario era don Lorenzo anche nell’ammonire che il «massimo della diseguaglianza è fare parti uguali tra diseguali», convinto com’era che «un atto coerente isolato è la più grande incoerenza» e che «non dobbiamo avere paura di sporcarci le mani.
A che servirà averle pulite se le avremo tenute in tasca?».
La sua fede era appassionata: «Se dicessi che credo in Dio, direi troppo poco perché gli voglio bene.
E volere bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza». Pur incompreso, come si diceva, dalle autorità ecclesiastiche, rimase sempre fedele alla Chiesa. Un suo compagno di seminario che sarebbe poi divenuto proprio arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, anni fa mi confidava che, a quanti chiedevano a don Milani perché non lasciasse una Chiesa così dura verso di lui, rispondeva: «E dove mai troverò chi mi perdona i peccati?», rivelando anche un temperamento da asceta, consapevole della fragilità umana e della necessità del perdono divino.
La sua opera principale a livello di elaborazione della sua esperienza è stata certamente il volume citato Esperienze pastorali, le cui righe sono già stilisticamente di un’essenzialità assoluta e programmatica, come egli stesso affermava in una sua lettera: «Lo stare per mesi su una frase sola togliendo via tutto quello che si può togliere», spogliando la verità da ogni paludamento retorico e dal manto dorato dell’ipocrisia. Infatti, «siamo in un mondo in agonia che Dio forse sta accecando per castigarlo per aver troppo e troppo male usato l’intelletto, oppure di non averne fatto parte agli infelici».
E alla fine il bilancio del suo impegno di pastore e di educatore era stato sorprendente: «Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Alla base, infatti, del suo insegnamento c’era soprattutto la ricerca condotta in comune tra insegnanti e discepoli. Il magister (da magis, più) si trasformava sempre in minister (da minus, meno) che procede spalla a spalla con l’altro. È ciò che avrebbe ribadito una figura lontana da don Lorenzo in tutti i sensi come Roland Barthes quando riconosceva che «vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa, e questo si chiama cercare».
In questo che non è un ritratto ma solo un’evocazione simpatetica di un sacerdote e testimone dalla storia tormentata e gloriosa, nel centenario della sua nascita, è stato naturale lasciare soprattutto a lui la parola, come abbiamo fatto intarsiando il nostro testo con l’eco della sua voce. La conclusione, però, dovrebbe essere affidata a un’immagine del 20 giugno 2017: papa Francesco in piedi, a capo chino e in silenzio, davanti alla tomba di don Milani in quel piccolo e semplice camposanto di campagna. Enzo Biagi aveva scritto: «È sepolto nel cimitero di Barbiana, sperduto e vuoto paese abitato dagli spiriti. Ma don Lorenzo parla ancora».
di GIANFRANCO RAVASI
Sergio Mattarella "Don Milani, battistrada di una cultura nuova"
Rivolgo un saluto a tutti i presenti, che vorrei poter salutare singolarmente (...) Ricordiamo oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani. È stato anzitutto un maestro. Un educatore. Guida per i giovani che sono cresciuti con lui nella scuola popolare di Calenzano prima, e di Barbiana poi.
Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana. Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano fra noi ma, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: fare crescere le persone, fare crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia.
Don Lorenzo avrebbe sorriso di una sua rappresentazione come antimoderno se non medievale, della sua attività. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario. Nella sua inimitabile azione di educatore — e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” — pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale. Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale.
Era stato mandato qui, a Barbiana, in questo borgo tra i boschi del Mugello — con la chiesa, la canonica e poche case intorno — perché i suoi canoni, nella loro radicalità, spiazzavano l’inerzia. La sua fede esigente e rocciosa, il suo parlare poco curiale, i suoi modi, a volte impetuosi, lontani da quelli consueti, destavano apprensione in qualche autorità ecclesiastica.
In tempi lontani dalla globalizzazione e da internet, da qui, da Barbiana — allora senza luce elettrica e senza strade asfaltate — il messaggio di don Milani si è propagato con forza fino a raggiungere ogni angolo d’Italia; e non soltanto dell’Italia. Don Milani, aveva una acuta sensibilità circa il rapporto — che si pretendeva gerarchico — tra centri e periferie.
Come uscire da una condizione di emarginazione? Come sollecitare la curiosità, propulsore di maturità? Come contribuire, da cittadini, al progresso della Repubblica? Il motore primo delle sue idee di giustizia e uguaglianza era proprio la scuola.
La scuola come leva per contrastare le povertà. Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino. La scuola per conoscere. Per imparare, anzitutto, la lingua, per poter usare la parola.
«Il mondo — diceva don Milani — si divide in due categorie: non è che uno sia più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco. Un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole». Si parte con patrimoni diversi. Da questa ansia si coglie il suo grande rispetto per la cultura. La povertà nel linguaggio è veicolo di povertà completa, e genera ulteriori discriminazioni.
La scuola, in un Paese democratico, non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine.
Lettera a una professoressa, scritta con i suoi ragazzi mentre avanzava la malattia — che lo avrebbe portato via a soli 44 anni — è un atto d’accusa, impietoso, di tutto questo. Lettera a una professoressa ha rappresentato una lezione impartita a fronte delle pigrizie del sistema educativo e ha spinto a cambiare, ha contribuito a migliorare la scuola nel mezzo di una profonda trasformazione sociale del Paese.
Ha aiutato a comprendere meglio i doveri delle istituzioni e sollecitato a considerare i doveri verso la comunità. Sempre più gli insegnanti, hanno lavorato con passione per attuare i nuovi principi costituzionali. Perché a questo occorre guardare.
La scuola è di tutti. La scuola deve essere per tutti. Spiegava don Milani, avendo davanti a sé figli di contadini che sembravano inesorabilmente destinati a essere estranei alla vita scolastica: «Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose». Impossibile non cogliere la saggezza di questi pensieri. Era la sua pedagogia della libertà.
Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito. Merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto e per non far perdere all’Italia talenti; preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito. I suoi ragazzi non possedevano le parole. Per questo venivano esclusi. E se non le avessero conquistate, sarebbero rimasti esclusi per sempre.
Guadagnare le parole voleva dire incamminarsi su una strada di liberazione. Ma chiamava anche a far crescere la propria coscienza di cittadino; sentirsi, allo stesso tempo, titolare di diritti e responsabile della comunità in cui si vive. Aveva un senso fortissimo della politica don Lorenzo Milani. Se il Vangelo era il fuoco che lo spingeva ad amare, la Costituzione era il suo vangelo laico. «Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Difficile trovare parole più efficaci. Difficile non riscontrare lo stretto legame del suo insegnamento con la fede che professava: prima di ogni altra cosa, il rispetto e la dignità di ogni persona. Qui si intrecciano il don Milani prete, l’educatore, l’esortatore all’impegno.
L’impegno — educativo, e di crescita — richiede sempre, per essere autentico, coerenza. Spesso sacrificio. Al pari di tanti curati di montagna che hanno badato alle comunità loro affidate, Don Milani non si è sottratto. Era giovane. Chiedeva ai suoi ragazzi di non farsi vincere dalla tentazione della rinuncia, dell’indifferenza.
La scuola di Barbiana durava tutto il giorno. Cercava di infondere la voglia di imparare, la disponibilità a lavorare insieme agli altri. Cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico.
Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere a tacere qualcuno, tanto meno un libro o la sua presentazione. Insomma, invitava a saper discernere. Quel primato della coscienza responsabile, che spinse don Milani a rivolgere una lettera ai cappellani militari, alla quale venne dato il titolo L’obbedienza non è più una virtù e che contribuì ad aprire la strada a una lettura del testo costituzionale in materia di difesa della Patria per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Padre David Maria Turoldo, amico di don Milani, disse di lui che «diventando disobbediente» in realtà obbediva a principi e regole ancora più profonde e vincolanti. Non certo a un capriccio o a una convenienza.
Non c’era integralismo nelle sue parole, piuttosto radicalità evangelica. Sapeva di avere in mano un testimone. Un testimone che doveva passare di mano, a cui poi i suoi ragazzi “aggiungessero” qualcosa.
Un grande italiano che, con la sua lezione, ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva. Il suo “I care” è divenuto un motto universale. Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza. A quella espressione se ne accompagnava un’altra, meno conosciuta. Diceva: «Finché c’è fatica, c’è speranza». La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora. Impegno accompagnato dalla fiducia che illumina il cammino di chi vuole davvero costruire. E a don Lorenzo ha percorso un vero cammino di costruzione. E gli siamo riconoscenti.
di SERGIO MATTARELLA
"Signore, io ho provato che costruire è più bello che distruggere, dare più bel che ricevere, lavorare più appassionante che giocare, sacrificarsi più divertente che divertirsi. Signore Gesù fa che non me ne scordi più"
Don Lorenzo Milani
Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio
Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte
Chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama.
Voler bene al povero è proporsi di metterlo al posto che gli spetta
Don Lorenzo Milani
La lezione di don Lorenzo
Giovanni Meucci
In dialogo con il documentario Barbiana '65. La lezione di don Lorenzo Milani (Italia 2017), del regista Alessandro G.A. D'Alessandro, cinque verbi per raccontare un possibile incontro con don Milani: visitare, leggere, ascoltare, imitare, essere.
Salire a Barbiana
La prima volta che sono salito a Barbiana è stato, forse, più di venti anni fa, insieme ad alcuni membri della mia Comunità, l'amico don Bruno Forte, attuale arcivescovo di Chieti-Vasto e don Renzo Rossi. Ricordo l'accoglienza di Michele Gesualdi, il suo dialogo con don Bruno Forte, riguardo alla paura che don Lorenzo Milani potesse essere trasformato in un "santino" perdendo la propria umanità e quella severità di carattere con cui, in tante agiografie, difficilmente si presentano i santi. Mentre parlavano, osservavo le pareti della Scuola di Barbiana dove tutto era rimasto a quei giorni in cui don Milani, a causa dell'aggravarsi del tumore, aveva dovuto abbandonare i monti del Mugello per concludere la sua esistenza nella casa della madre, in via Masaccio a Firenze. Tutto molto semplice, povero, essenziale, ma pieno di vita, di profezia, di attualità. La piccola piscina, simbolo borghese di ricchezza trasformato in strumento per abbattere le paure dei suoi giovani alunni. Era una giornata di primavera o autunno, non ricordo, però si stava bene fuori e abbiamo potuto concludere la breve visita scendendo verso il piccolo cimitero dove Lorenzo Milani è sepolto. Tornando poi lungo la strada sterrata nel bosco verso la Pieve, in quanto la scorciatoia per risalire era alquanto difficoltosa, avevo incontrato un grosso cane fortunatamente seguito a poca distanza dalla sua padrona. Mi ero, comunque, leggermente spaventato perché ero solo. Ecco la sensazione più forte di quella prima visita: la solitudine, la sofferenza, la paura che la figura di don Milani potesse continuare a essere fraintesa nella sua unicità e irripetibilità anche dopo la morte. Non tanto dalla società civile, dal mondo intellettuale e della cultura, dalle scuole e da educatori e docenti, ma dalla Chiesa, dai cristiani stessi. Segno di una ferita ancora profondamente aperta, quella con una parte dell'ambiente ecclesiale fiorentino, per un sacerdote che aveva semplicemente deciso di attuare e vivere il Vangelo fino in fondo, fino alla passione nell'orto del Getsemani. Obbediente al suo Vescovo in cui vedeva adempiersi la volontà di Dio Padre.
Leggendo il libro di Michele Gesualdi Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, si percepisce proprio una grande sofferenza non tanto per le incomprensioni tra don Milani e i suoi due Vescovi, ma per lo scandalo causato nei giovani del tempo. Anche se questo può sembrare assurdo, Gesualdi esprime la consapevolezza che quell'esilio sia stato un evento di grazia che ha permesso alla vocazione di don Lorenzo di manifestarsi nella sua pienezza. Come testimonia il ricordo di questo sacerdote: «Mi sembra di sentirla ancora la sua voce: "bisogna innamorarsi di tutti quelli che fanno parte della nostra famiglia, di tutto ciò che facciamo e l'amore deve essere un amore carnale. Non esiste un uomo migliore di un altro, non esiste posto al mondo che io possa amare di più. È Dio che mi ha messo qui. Questa certezza è il simbolo di una predilezione sconfinata di cui sono stato oggetto. [...] Non ci sono rimpianti nella mia vita, né nostalgie. I miei superiori io li amo: nessuno può dimostrarmi di essere stato punito o di non aver ubbidito. Della verità non si deve aver paura; un sacerdote non ha nulla da perdere; ovunque vada, troverà sempre qualcuno da amare, non a parole che sarebbe un mostruoso misfatto e una ignobile falsità, ma con i fatti. Amare non significa dare qualcosa, significa dare noi stessi, significa essere e i poveri sono quelli che Dio oggi in particolare, ha gettato sul nostro cammino; essi sono il segno di contraddizione; di fronte a loro bisogna scegliere. Non ci sono vie di mezzo, né possibili compromessi. Non si può vivere senza innamorarsi. La soluzione che io ho trovato è una nelle infinite. Vedi questi bambini io li amo. Essi hanno riempito il mio cuore"» (cfr. M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, pp. 232-233).
Ritirato sul monte è diventato un faro che ha rischiarato la notte indicando la strada per un rinnovamento del modo di vivere il Vangelo e di essere cristiani nell'oggi. Se il seme gettato non muore, non dà frutto. E più veniva ufficialmente isolato, più salivano alla Scuola persone importanti per incontrarlo, giudici, politici, giornalisti, professori, uomini di spettacolo. Più cercavano di nasconderlo più il suo pensiero sí diffondeva tra le persone. La forza della sua azione stava nella scelta di amare i ragazzi di Barbiana, senza cercare visibilità per se stesso, riconoscimenti pubblici o spazi di carriera. Umiliato, offeso, calunniato, per le parole di verità contenute nelle sue lettere e nei suoi scritti, non rispondeva con oltraggi, ma spiegava e rispiegava il senso del suo pensiero. Ed era questo che certamente non piaceva a tanti delatori: la capacità di non cedere all'ira, di obbedire sempre alla Chiesa, di rimanere fedele alla verità nell'oggettività del suo rivelarsi. E quando si esponeva e decideva di scrivere le sue lettere, come Risposta ai Cappellani militari, era a scopo educativo, di esempio per i suoi ragazzi affinché imparassero a rimanere fedeli alla propria coscienza in ogni occasione della vita. A sviluppare il proprio senso critico conservando sempre la libertà interiore ed esteriore. In quei giorni, infatti, sul quotidiano «La Nazione» di Firenze era riportato un documento dei cappellani militari contro l'obiezione di coscienza «in cui si leggeva, fra l'altro questa frase: "Considerano un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà". Così lo racconta Lorenzo nella Lettera ai giudici: "Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un comunicato dei cappellani militari in congedo della regione Toscana. [...] Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi, le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. [...] Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote, e perfino al vescovo che sbaglia. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. E il contrario del motto fascista Me ne frego"» (cfr. Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, a cura di G. Ceccatelli, Edizioni Clichy, Firenze 2015, pp. 64-65).
Fiction, non realtà
I libri con i quali mi sono avvicinato alla sua figura sono stati Lettera a una professoressa prima ed Esperienze pastorali poi. Avevo appena iniziato la Facoltà di Filosofia. Lettera a una professoressa come prima reazione alla negativa esperienza scolastica liceale appena conclusa, Esperienze pastorali per capire cosa mi aveva allontanato dal catechismo e dalla parrocchia poco dopo essere passato a comunione. Non ne ho parlato per molto tempo con nessuno, forse tutto non avevo compreso, ma quelle letture hanno lavorato nella mia mente, ispirando il modo di rapportarmi con le altre persone e la realtà nel suo complesso. Spesso le sue frasi sono diventate degli slogan o si è pensato di riprodurre nelle scuole di oggi la Scuola di Barbiana. Nel 1997, su Raidue, è stata trasmessa la miniserie in due puntate Don Milani. Il Priore di Barbiana, di Andrea e Antonio Frazzi, con Sergio Castellitto e Ilaria Occhini. Film che, in modo semplice e coinvolgente, rendeva bene la figura di don Milani e la sua esperienza a Barbiana. A volte eccedendo un po' nel cliché del sacerdote controcorrente, al di là dagli schemi tradizionali e contestatario, ma senza mai discostarsi troppo dalla storicità dei fatti accaduti.
Nell'ottima interpretazione di un giovane Castelletto traspariva tutta l'ammirazione sua e dei due registi per una vita donata completamente a servizio dei suoi ragazzi. La novità di una pedagogia capace di valorizzare il singolo alunno rispettandone tempi e modi di apprendimento. Senza la fretta di giudicare, valutare, selezionare. Uno studio mai disgiunto dalla concretezza della vita, dal mondo del lavoro, da uno sguardo ampio, cosmopolita: l'apprendimento delle lingue e i viaggi di studio e lavoro all'estero, la lettura dei giornali, l'attualità, la conoscenza del presente e di cosa stava accadendo intorno a loro. il coraggio di stare sempre dalla parte della verità. Ed è una storia che incanta, che rende partecipe il pubblico mettendone in gioco i migliori sentimenti. I rapporti tra Milani e la sua famiglia sono delineati con grande sensibilità. Molto bella e toccante la scena della morte di don Milani con cui si conclude il film. A settembre, l'ho fatto vedere ai miei alunni in preparazione alla gita di inizio anno della nostra scuola a Barbiana, e ho avuto nuovamente conferma della bontà dell'opera dei fratelli Frazzi. Il problema è come fare esperienza di questa bellezza, come calarla nella vita dei giovani che oggi popolano le nostre scuole quando il mondo è completamente cambiato rispetto a quell'Italia di ormai cinquanta anni fa'. Quí la fiction non aiuta in quanto, per sua natura, tende a semplificare le cose, a renderle leggere, a eliminare il peso della storia, della realtà.
Un nume tutelare
«Nei racconti dei ragazzi riferiti dal loro compagno Edoardo Martinelli, [...] si può cogliere direttamente dalla voce degli allievi della scuola di don Milani l'impronta che quell'esperienza ha lasciato nella loro vita. L'impegno a riuscire, contraddicendo un destino già segnato; un po' di quella superbia, che secondo il priore andava coltivata negli umili; ma anche la memoria grata dello stupore per le scoperte, del senso di responsabilità dei più grandi per i progressi dei più piccoli, delle coraggiose e meravigliose avventure dei viaggi all'estero per imparare le lingue, inimmaginabili nelle loro famiglie, perfino della fatica e dei sacrifici necessari per frequentare la scuola, e magari anche dei rimproveri per un momento di pigrizia o di distrazione. Insomma una crescita personale evidente, riconosciuta e probabilmente mai sperata, come racconta Nevio, poi diventato autista di pullman e militante comunista: "della sua lezione mi sono rimasti oggi i ricordi più belli ed emozionanti. Mi è rimasta dentro una carica esplosiva che uso ogni qualvolta c'è bisogno, sperando di farlo nel modo più corretto e incisivo, mi è rimasta dentro la volontà di sentirmi una persona utile ai bisogni dei più deboli; la consapevolezza di non dover esser pecora e di andare anche controcorrente senza tradire quello che dice la mia coscienza, di dire sempre la verità, anche se questo può essere in contrasto con la mia fede politica, con le mie convinzioni sindacali e sociali e con gli interessi della Chiesa della quale mi sento di far parte". O come dice Edoardo, con le parole forse più belle: "L'orgoglio di comprendere il proprio stato, la propria condizione umana, l'ambiente in cui si cresce e in cui si vive, si lavora, si lotta. La consapevolezza di essere uno e inimitabile". Verità, fede, politica, convinzioni, orgoglio, consapevolezza, chi nella vita di ragazzi come questi, si era mai impegnato a fare simili doni?» (Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, pp. 58-60).
Ripeto le ultime parole scritte da Giovanna Ceccatelli, «verità, fede, politica, convinzioni, orgoglio, consapevolezza» perché sono quelle cose che cerco di trasmettere ai ragazzi da quando, tredici anni fa, mi sono ritrovato a insegnare a dei liceali. Riuscire a fare questo credo sia il sogno di ogni professore che voglia essere anche educatore. Umili, vite segnate, poveri, sono le altre parole da cogliere, che probabilmente vanno in netto contrasto con la realtà di oggi, dove i ragazzi sperimentano sempre una forma di abbandono, ma insieme ad abbondanza, disillusione, scetticismo, narcisismo. Allora diventa difficile realizzare le altre parole. Ed è forte il rischio di scivolare nel moralismo colpevolizzando i giovani come se la povertà fosse l'unica strada per accettare la necessità di avere dei maestri. Come se il dialogo potesse crearsi solo tra persone umili, che cercano qualcosa, che prima di ottenere prestazioni desiderano conoscere. Solamente realizzare una scuola senza voti, cattedre e registri, sarebbe un problema, ma bisogna trovare il modo di raggiungere gli stessi obiettivi educativi anche oggi. I giovani attendono sempre qualcuno che li liberi. E, tuttavia, non basta leggere in classe Lettera a una professoressa, perché quell'esperienza torni magicamente a vivere. Così, dopo i primi anni di insegnamento, ho smesso di ricorrere a strane bacchette magiche, ma ho semplicemente preso una foto di don Milani da ragazzo, l'ho incorniciata e appesa in aula come un nume tutelare che ti protegge le spalle, che con il suo esempio indica lo scopo ultimo di fare scuola, un percorso particolare da cui prendere ispirazione.
La voce del maestro
Slogan, sogno, esempio, realtà, essere, sono le cinque tappe del percorso del mio avvicinamento a don Lorenzo Milani. Così, lo scorso 22 novembre, sono andato a vedere Barbiana '65. La lezione di don Lorenzo Milani, il documentario di Alessandro G.A. D'Alessandro (Italia 2017) prodotto da Laura e Silvia Pettini per Felix Film in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà e Fondazione Don Milani. Al Nuovo Cinema di Figline Valdarno, dove ha avuto luogo la proiezione, era presente una delle produttrici, Laura Pettini, che, presentando il documentario, ha ripercorso brevemente la lunga storia della sua genesi partendo dall'occasione che cinquantadue anni fa aveva portato il padre di D'Alessandro a salire a Barbiana. Il regista Angelo D'Alessandro, autore di sceneggiati importanti per la Rai come Zanna Bianca e Ciuffettino, si era recato da don Milani per un'inchiesta sull'obiezione di coscienza. Si era, poi, proposto di fare una lezione di cinema a quei giovani come ne faceva tante ai suoi studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia. In particolare, mostrare ai ragazzi un film di Georg Wilhelm Pabst, La tragedia nella miniera, considerato uno dei principali film pacifisti del tempo. In effetti, appena a Barbiana arrivò la corrente elettrica, una delle prime cose che fece don Milani fu quella di procurarsi un proiettore da 16 millimetri con cui studiare con i ragazzi film d'autore, analizzandone linguaggio e montaggio, fotogramma per fotogramma. Ed effettivamente, come ha ricordato il figlio di D'Alessandro nel comunicato stampa a cura di Laura Pettini per la Felix Film, il film «venne visionato varie volte dal priore e dai ragazzi che alla fine dimostrarono come sí trattasse in realtà di un film mediocre. Mio padre raccontava di come avessero perfettamente ragione: era salito per fare lezione ai ragazzi ma la lezione l'avevano fatta a lui». Nacque, così, un dialogo profondo sui temi della fede, del Vangelo, dei diritti umani, della guerra e della pace, tra il regista e i giovani di don Milani, che lo porterà a tornare più volte a Barbiana. Fino a quando, comprendendo la sua sincera partecipazione all'esperienza della Scuola, sarà lo stesso don Milani a offrirgli la possibilità di riprendere e di girare un documentario sul metodo di Barbiana.
I filmati originali – circa 40 minuti in pellicola bianco e nero, mentre la colonna sonora era stata registrata a parte su nastro magnetico, come si usava in quegli anni – mostrano alcuni momenti fondamentali della Scuola di Barbiana: la scrittura collettiva, la lettura dei giornali, i ragazzi píù grandi che insegnano ai più piccoli, il lavoro manuale svolto dai ragazzi e la partecipazione alla Messa, in cui vediamo don Milani celebrare, ma solo "per finta", per la macchina da presa. Spezzoni di pellicola e riflessioni personali del regista rimasti per lunghi anni separati, fino a quando il figlio, dopo la morte del padre, dopo un lungo lavoro di riflessione e preparazione, non ha trovato l'ispirazione per unirli in una narrazione. Nel tentativo di farsi guidare dalla viva voce di don Milani, che al momento delle riprese stava scrivendo con i suoi ragazzi Lettera ai giudici, per difendersi dalle accuse di apologia di reato nel processo che lo attendeva a Roma, per cogliere il senso ultimo, lo scopo del suo fare scuola. Che, nell'interpretazione di D'Alessandro, è: far diventare i suoi allievi dei cittadini veri, uomini capaci di andare in fondo alle cose, ragionare con la propria testa ed essere "sovrani di se stessi". Attraverso uno studio approfondito, la Costituzione italiana e il Vangelo. Come nei loro interventi durante il documentario hanno cercato di chiarire i tre testimoni chiamati a rappresentare i tre pilastri della Scuola di Barbiana: metodo didattico, Adele Corradi, l'insegnante che ha vissuto l'esperienza di Barbiana con don Lorenzo; Costituzione italiana, Beniamino Deidda, ex Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Firenze e docente volontario fin dalla scuola a Calenzano; Vangelo, don Luigi Ciotti.
Non saprei dire quanto il documentario possa essere efficace per avvicinare, chi ancora non conosce don Milani, alla Scuola di Barbiana, ma è sicuramente un importante punto di partenza per continuare a studiare e ad approfondirne la figura. Sono rimasto colpito dalle immagini iniziali dove i ragazzi, prima in lambretta, poi a piedi, sotto la pioggia, per strade fangose, raggiungevano contenti la loro scuola. Come partecipavano alle lezioni di don Milani e sapevano interloquire con chi andava a trovarli. Mi ha colpito il suono della sua voce, il suo sguardo, il suo modo di essere, ed è stato come rincontrare un vecchio amico. Ed è bello che il documentario si sia concluso con le immagini di papa Francesco che prega sulla tomba di don Milani, perché quella visita del 20 giugno 2017 ha posto fine a un lungo esilio di sofferenza e solitudine, dando al sacerdote fiorentino il posto che merita nella Chiesa del nuovo millennio. Una Chiesa chiamata a ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c'è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. «Non c'è da parlare della eroica storia di don Lorenzo Milani, ma della eroica storia dei poveri, della nobiltà della classe operaia e contadina che mi ha accolto e aperto gli occhi. In questi anni vi ho educato a sentirvi classe, a non dimenticarvi dell'umanità bisognosa e a tenere a bada il vostro egoismo, perché non si tratta di produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente. Il buon cristiano, oggi, non si limita a fare l'elemosina, ma s'impegna a
lottare per rimuovere le cause che tengono i poveri in condizione di sottomissione e miseria» (L. Milani, in M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana, cit., p. 208). «Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra [...] fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità» (dal discorso di papa Francesco, in occasione del pellegrinaggio a Barbiana, 20 giugno 2017).
(FEERIA 17/1 n. 51, pp.50-55)
"Abbiamo bisogno di persone che si mettano a servizio delle vocazioni, di persone cioè che siano a servizio dei fratelli, ponendosi accanto a ciascuno per un cammino graduale di discernimento. Persone che a tal fine diano indicazioni, alla luce della Parola di Dio, perché ciascuno capisca qual è la sua vocazione e qual è il servizio che deve rendere".
"Il maggior bene che ciascuno di noi può fare al fratello è aiutarlo a scoprire e poi a seguire la sua vocazione. Cioè a comprendere qual è il progetto che Dio ha su di lui e a realizzarlo".
Ognuno di noi sente dentro di sé una inclinazione, un carisma.
Un progetto che rende ogni uomo unico e irripetibile.
Questa chiamata, questa vocazione è il segno dello Spirito Santo in noi.
Solo ascoltare questa voce può dare senso alla nostra vita.
"Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d'amore.
Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l'invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio".
Padre Pino Puglisi
A testa alta
di Alessandro D'Avenia
«Perché lo avete ucciso?», chiede il magistrato. «Perché si portava i picciriddi (i bambini) cu iddu (con lui)», risponde il sicario che ha sparato il colpo alla nuca. Si tratta del Cacciatore, questo il suo soprannome a Brancaccio. Aveva sparato a padre Pino Puglisi, 3P, come lo chiamavamo noi a scuola, il 15 settembre 1993, 25 anni fa. Stavo per cominciare il quarto anno e lui, uno dei professori della mia scuola, il Liceo Vittorio Emanuele II di Palermo, non sarebbe più entrato in classe. Capo d’accusa: far giocare e studiare, con l’aiuto volontario dei ragazzi di cui era professore di religione, bambini che altrimenti erano preda della strada e di chi su quella strada comandava. Troppo poco?
3P sapeva infatti mescolare i quadrati della scacchiera di Palermo, facendo muovere chi conosceva solo la città di luce verso quella più tenebrosa, e viceversa. I ragazzi di un rinomato liceo classico aprivano gli occhi su strade nuove, perché l’inferno poteva essere girato l’angolo. A cosa serviva la cultura che ricevevamo se restavamo ciechi su ciò che avevamo accanto? Don Pino sapeva che per far rifiorire il quartiere in cui era nato e cresciuto, bisognava ripartire da bambini e ragazzi, anche se, per stare fermi e in silenzio, gli alibi non mancavano. La sua battaglia era tanto semplice quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissimi attraverso il gioco, lo studio, la catechesi, prospettando loro una vita diversa da quella del «picciotto mafioso». La mafia alleva il suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e assicurando il sufficiente benessere materiale, condizioni che riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da cui attinge. Don Pino ne inceppava dall’interno il meccanismo, ripetendo a bambini e ragazzi di andare «a testa alta», perché la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono connaturato al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e non dal Padrino di Cosa Nostra. Per questi motivi lottò per aprire un centro che chiamò «Padre Nostro», dove i ragazzi potevano stare anziché lasciarsi ghermire dalla strada, e si batté per avere la scuola media nel quartiere. Il giorno del suo omicidio era andato per l’ennesima volta nei sordi uffici del Comune a sollecitare i permessi per la scuola, inaugurata solo 7 anni dopo la sua morte.
Nonostante i molti impegni pastorali non smise mai di insegnare religione. Proprio quell’estate, forse temendo qualcosa, aveva chiesto una diminuzione d’orario, ma il preside che teneva a lui quanto i ragazzi, lo aveva convinto a non farlo. Ho conosciuto il suo volto, sempre sorridente anche se provato, da cui non traspariva la lotta impari che stava combattendo silenziosamente. La sua pace veniva dall’unione con Cristo, di cui offriva lo sguardo ad ogni persona, perché riteneva ogni vita unica e necessaria alla multiforme armonia del mondo, e infatti paragonava le singole vite alle tessere dei meravigliosi mosaici del duomo di Monreale. Per questo decisero di ucciderlo, perché scardinava il sistema mafioso da dentro, non con slogan o bei pensieri, ma lavorando accanto alle persone, calpestando le loro strade e dando loro nutrimento per il corpo e lo spirito, così che percepissero la possibilità di un’altra «strada». Per questo lo fecero fuori, erano gli anni di Riina, al quale i Graviano, capi mandamento del quartiere, erano affiliati. 3P era, a suo modo, dal basso, tanto pericoloso quanto Falcone e Borsellino, uccisi un anno prima. «Si portava i picciriddi cu iddu»: portava i bambini, non a lui, ma con lui verso una vita nuova, più piena, più bella, sicuramente meno facile, ma costruttiva, libera, vera. Padre Puglisi era «pericoloso» perché era un vero maestro, apriva la strada, ti prestava il coraggio che non avevi, come i veri padri. E proprio come i veri padri pagò di persona.
Avevo solo 16 anni. Ho provato a raccontare questa storia di tenebra e luce nel romanzo «Ciò che inferno non è», perché ha determinato il mio sguardo su me stesso e sul mondo. Ho sentito entrare dentro di me una vita molto più ampia e non volevo che quel fatto diventasse, con il tempo, l’ennesima, archeologica, commemorazione di una delle tante ferite della mia città, recuperata per l’occasione nelle soffitte della retorica. In molti sentimmo che quel sangue mite e coraggioso raggiungeva cuore e membra come una trasfusione. E così se il professore di lettere mi aveva fatto vedere «che cosa» sarei voluto diventare, un altro, 3P, mi fece vedere «come»: impegnarsi per ogni vita, anche quando c’è poco da sperare o attorno hai un sistema che ti scoraggia, ostacola, deride. Quel giorno ho capito che dovevo bandire dalla mia vita gli alibi: il pessimismo diventò per me una scusa per starsene comodi e la speranza la principale attività della testa, del cuore e delle mani. Grazie a 3P ho imparato che la vita può essere felice solo quando è impegnata per gli altri, il suo umanesimo era integrale, non solo mentale o verbale: affermare la vita altrui, costi quel che costi, perché raggiunga la vera altezza: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». Per questo portava i bambini a guardare il cielo stellato, per trasformare il loro desiderio di vita attraverso la morte, come mostrava la mafia, in desiderio di vita attraverso la vita, come mostrava lui.
A lui mi ispiro per il mio lavoro. L’uomo che sono diventato lo devo alla ferita di quel sedicenne inconsapevole, ingenuo, egoista, che aprì gli occhi su un modo di impegnarsi nella vita che non poteva essere fatto solo di sogni e parole, ma doveva farsi carne. 25 anni dopo voglio ricordare quell’uomo minuto, sembrava che il vento potesse farlo volar via, ma gigantesco nella fede in Dio e quindi nella fede nell’uomo. L’ho constatato incontrando i ragazzi che operano oggi al Centro Padre Nostro, di fronte alla chiesa di San Gaetano. Studenti delle superiori o universitari si impegnano per i bambini come faceva don Pino, come è chiamato a fare ogni maestro, «portarsi i picciriddi cu iddu», non a lui, ma con lui: perché educare è dare a un giovane uomo coraggio verso se stesso e il mondo, ma tale forza educativa si sprigiona solo se io stesso sono impegnato, come posso, a crescere con quell’uomo. Abbiamo bisogno di maestri, il messaggio arriva forte e chiaro da una delle tante lettere sul tema, ricevuta pochi giorni fa: «Mi son sempre sentita sbagliata in classe. Ho avuto paura di occupare un posto nel mio banco e nel mondo, mi sono convinta di non essere abbastanza: abbastanza intelligente, abbastanza creativa, abbastanza bella… Non ho trovato insegnanti innamorati del proprio mestiere e capaci quindi di scovare il tesoro che ogni persona nasconde, ma insoddisfatti della propria condizione e convinti dell’inferiorità delle nuove generazioni. Ho avuto insegnanti che non leggevano una poesia “perché tanto non capireste”. Così mi sono ritrovata, da sola, a cercare parole che mi avrebbero salvato. Ho divorato libri, anche il manuale di letteratura. Cercavo chi mi avrebbe abbracciato anche da epoche lontane, chi mi avrebbe dato la mano e accompagnato nei tempi più bui. Ho trovato chi mi facesse conoscere il mondo, gli altri e me stessa. Da sola. Sto studiando per diventare maestra e ho fatto la mia prima esperienza in quarta elementare. È stata una delle cose più belle che mi siano successe. Ho scoperto con i bambini mondi così profondi che non scorderò mai». Essere maestri è aprire strade e aiutare le persone a sentirsi «abbastanza», scoprendo che in realtà lo sono già: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». 3P da vero maestro non ha mai accampato alibi (in latino «alibi» vuol dire letteralmente essere «altrove») in un quartiere difficilissimo, né a scuola, ma ha creduto in quei giovani contro ogni speranza. Ha amato lì dov’era, con lui nessuno era «sbagliato».
La più bella definizione di maestro che io conosca si trova nell’incontro tra Dante e Brunetto Latini. Il poeta dice al defunto maestro che nella sua mente «è fitta, e or m’accora,/la cara e buona imagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/m’insegnavate come l’uom s’etterna». Ricorda con affetto la figura «paterna», maestro è chi dà la vita, uomo o donna che sia, e gli è grato perché «ad ora a ora», che mi piace pensare in termini di quotidiano orario scolastico, gli insegnava «come l’uom s’etterna», parole che indicano l’immortalità dell’anima, ma in senso più ampio, la ricerca radicale di ogni uomo: attingere a una vita che non si rovina, ma sempre si rinnova, all’altezza del desiderio umano. Brunetto si rammarica: «figliuolo mio… s’io non fossi sì per tempo morto… dato t’avrei a l’opera conforto». Egli avrebbe voluto continuare a prestare servizio, come si dice con lampante verità anche in burocratese scolastico, alla vita dell’allievo. Maestro è chi riconosce «l’opera» che l’altro deve fare e la serve, con la sua vita. Così è stato 3P, padre che ha dato la vita perché altri ne avessero una più degna, vera, felice. L’uomo che sono oggi lo devo a ciò che vidi a 16 anni, una lezione che non dimenticherò, ed è la lezione che ha reso la mia vita bellissima, perché solo i maestri ci liberano dalla paura della vita, ci prestano il coraggio di andare a testa alta lì dove siamo, spazzando via gli alibi, e ci fanno essere «abbastanza», anche se pensiamo di non esserlo mai. Grazie, 3P, il letto oggi lo rifai tu per me
Il segreto di un sorriso: Padre Pino Puglisi
Rideva, don Pino Puglisi, se lo chiamavano prete antimafia. Il parroco di Brancaccio, una delle borgate di Palermo a più alta densità mafiosa, non amava i proclami, si sforzava semplicemente di essere un sacerdote coerente con il Vangelo. Quella coerenza che non cede di fronte ai compromessisu cui spesso si basa la potenza prevaricatrice degli "uomini d’onore".
«Quel prete rompeva le scatole», dirà di lui uno dei componenti del commando di fuoco che lo uccise come un agnello, una sera di settembre, la sera del suo compleanno, di fronte alla porta di casa, mentre dalle finestre aperte entrava l’aria avvolgente dello scirocco.
La sua pastorale dentro la borgata, come ha scritto don Luigi Ciotti nella prefazione della biografia di Mario Lancisi del sacerdote che viene proclamato beato, era considerata "un’interferenza".
Per svolgere appieno la sua missione la Chiesa spesso "interferisce", si frappone tra vittime e carnefici, si inserisce nei disegni dei mafiosi, nei soprusi della politica complice, getta luce nei verminai nascosti nelle zone d’ombra. Don Puglisi, martire in odium fidei, è stato la dimostrazione vivente di quanta paura a Cosa nostra possa fare un’azione sacerdotale svolta fino in fondo: l’educazione, la catechesi dei ragazzi, l’apostolato in parrocchia, l’esempio e il richiamo all’autenticità dei valori del Vangelo.
Il parroco di Brancaccio, costretto a celebrare Messa in un garage perché la chiesa di San Gaetano era rimasta danneggiata dal terremoto, strappava centinaia di bambini alla strada, tradizionale vivaio mafioso.
Promuoveva comitati civici per rendere più vivibile una borgata che non aveva nemmeno un albero e una scuola media. Ricordava ai politici locali il senso autentico del loro mandato. Smontava e irrideva la cultura dell’indifferenza e dell’omertà (con Agostina Ajello aveva creato un "Padre nostro dei mafiosi" per tenere lontano bambini e ragazzi dalla mentalità criminale).
Portava a fare volontariato in un quartiere periferico i ragazzi della buona borghesia del liceo classico Vittorio Emanuele che, come avviene spesso nelle metropoli del Sud, in certe zone non ci avevano mai messo piede. Aveva fondato un centro, intitolato alla preghiera che tanto amava, per fare ripetizione ai bambini poveri, destinati a un futuro di disagio o di asservimentoalla potenza dei boss.
Non a caso il suo assassino, che era della sua stessa borgata, aveva la quinta elementare. E quando gli arrivavano minacce, intimidazioni, avvertimenti, invitava i mafiosi dal pulpito a redimersi.
Non è possibile comprendere fino in fondo la sua santità se non si comprende il suo modello autentico di sacerdozio. La sua luce di santità ora splende su una città difficile come Palermo, e ci ricordache anche nei momenti più cupi,come è stata l’epoca delle stragi, cui il martirio di Puglisi appartiene storicamente, la luce del Vangelo e l’esempio di un modo di vivere autentico non ci abbandonano mai.
«La morte di don Puglisi, così tragica e dolorosa, è la chiave di volta nell'atteggiamento della gente rispetto alla mafia. La verità squarcia il velo dell’ipocrisia: non esistono mafiosi buoni e mafiosi cattivi, ma un cancro da combattere civilmente ed ecclesialmente con la Parola, l’esempio, la testimonianza. Preti che umilmente, ma con fede certa si facciano compagni di viaggio degli uomini, col Vangelo in mano e nel cuore. Proprio come don Puglisi, che è annoverabile tra i profeti. La sua testimonianza, infatti, non dà quiete ed è coraggiosa, ferma, intransigente. Non accetta baratti né compromessi. Puglisi ha detto e fatto contro la mafia parole e azioni pesanti da imitare, proponendosi quale esempio di una vita più degna d’essere vissuta. La sua morte ci sprona a essere cristiani con la testa alta e la schiena dritta. Essa è un seme insuperabile di vitalità, la sfida del futuro della Chiesa siciliana e non solo: la morte di don Puglisi si pone come luminoso esempio di vita sacerdotale. Il suo sangue innocente è stato e dev’essere come una trasfusione nelle coscienze indifferenti, richiamando tutti a un nuovo approccio con il fenomeno mafioso e, quindi, a una decisa ricerca degli strumenti ecclesiali e pastorali più idonei a formare coscienze veramente cristiane (confraternite, comitati per le feste, consigli pastorali e affari economici) che operino evangelicamente: dopo Puglisi nulla può essere più come prima nella valutazione storica e sociologica del fenomeno mafioso dentro e fuori la Chiesa» (mons. Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione).
Qualche riferimento
- Vincenzo Bertolone, Padre Pino Puglisi beato. Profeta e martire, San Paolo 2013
- Augusto Cavadi, Francesco Palazzo, Rosaria Cascio, Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia, Edizioni Di Girolamo, 2013
- Mario Lancisi, Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia, Piemme, 2013
- Alla luce del sole, film diretto da Roberto Faenza, 2005
- Brancaccio, un film di Gianfranco Albano, 2001
La parola chiave del lettore:
Siete occhi che guardano e che sognano!
Continuate a sognare, a inquietarvi, a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità universale.
Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio!
Papa Francesco