“ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul corso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il mio spirito
Card Newman
( Apologia pro vita sua,cit pp381-382)
Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Rianimare la speranza!
Papa Francesco
Il cristiano è sollecitato così come da tutta la Scrittura, a imitare Dio, il mondo e le sue realtà sono un ostacolo alla sua "divinizzazione", alla sua santità, per il cristiano che vive secondo lo Spirito Amore, il mondo e le sue realtà sono la condizione stessa per divinizzarsi, per entrare per ciò che gli compete, nel disegno e nell'economia della salvezza dell'umanità e del mondo. Così come non v'è salvezza del mondo senza l'opera dell'uomo che lo conduce a perfezione, il cristiano non si salva senza il mondo, poichè è chiamato a santificarlo finchè "Dio sia tutto in tutti", Il mondo è il luogo e il mezzo grazie al quale il cristiano " guidato dallo Spirito" raggiunge la sua santità e il suo essere e vivere nell'Amore"
Padre Lorenzo Rossi
...Sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboli, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del Crocifisso amore.."
( da I nomi del bello e il mistero di Dio; Bruno Forte)
Vita..Ri-co-nascenza!
L'uomo è chiamato a nascere, venire alla luce, venire al mondo, per tutta la vita.
In ogni ambito, ciascuno nel suo, vivere è creare condizioni di co-nascenza. Solo così smettiamo di oscillare tra voler occupare tutta la scena e voler toglierci di scena, per paura di non esistere abbastanza, e ci apriamo all'unica forma felice di vita, quella che ci permette di nascere fino alla morte: la ri-co-nascenza.
Alessandro D'Avenia
La ferita e il canto
Dante: il divino in corpo
Marco Campedelli
Di Dante ci si può innamorare? Nella maggior parte dei casi, a scuola no. Sembra essere un personaggio di un altro mondo, altro linguaggio, altra pasta. È più facile ri-innamorarsi di Dante quando usciti dalla scuola lo si riprende, magari dentro certi snodi della vita. Allora si può scoprire che il nostro linguaggio nasce dal suo, intendo per noi occidentali almeno, nati o vissuti nel Belpaese. Scoprire insomma che non siamo fatti di una pasta diversa della sua. Poeta, pensatore, fantasista, e perfino teologo, il nostrο Alighieri può continuare a provocarci.
Il Dante che ho in mente non è il poeta di élite, è piuttosto un capo-popolo, uno che mette in versi ciò che noi riusciamo solo a balbettare, eppure che ci appartiene, ci attraversa.
Chi di noi non si è trovato “nel mezzo del cammino” a fare un punto sul suo viaggio, a chiedersi dove lo avrebbe portato la sua storia? Proprio in certi viaggi iniziatici, ovvero quelli più misteriosi e necessari della vita, si possono trovare tre fiere come è capitato a lui: la lonza, il leone e la lupa magra. Sono metafore delle nostre ombre, delle nostre inquietudini, delle paure che potrebbero farci desistere da intraprendere il viaggio. Non sono solo simbolo di malattie personali, ma di patologie sociali, politiche, di cui oggi è afflitto il mondo. La seduzione della Lonza: l’incantamento di un modo effimero, inconsistente. E il leone, che solo con la sua criniera fa tremare l’aria, dice l’orgoglio, il delirio di onnipotenza. Nel tempo, poi, le criniere si trasformano. Non è difficile guardare in quest’ottica quella di Trump ad esempio, la criniera carota, del viziato, capriccioso, delirante presidente degli Stati Uniti. Ma è soprattutto la lupa magra, la “cupidigia rerum”, che disegna un sistema in cui non si è mai sazi, e più si accumula, più si accumulerebbe. La metafora di un sistema in cui si fabbrica l’inferno dei poveri per garantire il paradiso dei ricchi.
E la teologia, questa scienza così poco presente nel dibattito pubblico, è anch’essa un bene necessario che Dante ci propone?
Se si facesse uscire la teologia dagli stretti corridoi dei seminari e dei conventi, si direbbe di sì. Perché oggi la gente comune, di fronte all’incertezza, alla precarietà, alla questione capitale del male, al timore di saltare in aria con una bomba atomica, si pone quotidianamente le “domande ultime”. O quelle “penultime”, come dice Giorgio Agamben.
Davanti alla vita che viene aggredita da un male invisibile e pervasivo, o alla guerra mondiale a pezzetti, la gente inizia a fare “teologia pratica” quando si domanda che senso ha stare in questo mondo, se c’è un Dio, e come si possa conciliare la somma bontà con il persistente male. E cosa c’entra Dante in tutto questo?
Dante, oggi, diventa idealmente il compagno delle “domande ultime”. E lo fa da una esperienza esistenziale che dà forma e sostanza alla sua poesia, al suo pensiero, alla sua teologia: l’esilio. Oggi l’esilio ritorna ad essere un’esperienza comune.
Ora, se non tutti devono lasciare le loro città, come è stato per Dante, oggi in una certa misura sentiamo l’esilio come un essere “senza patria” dentro di noi. L’esilio come una “condizione spirituale”.
«L’essilio che m’è dato, onor mi tegno», scrive Dante (Rime, 47, CIV, v. 76).
In questo tempo in cui siamo entrati – forse per la prima volta – in una “selva oscura” globalizzata, Dante ci indica alcuni punti per orientarci.
Ricordandoci che i mondi, prima di tutto, vanno attraversati. Per attraversarli però bisogna essere “iniziati”, soprattutto nella dimensione simbolica della vita, cioè la più profonda.
Se vogliamo compiere questo viaggio senza “smarrirci” o senza essere aggrediti dagli animali feroci, dobbiamo però farci accompagnare. Quella che Dante sembra indicarci è una teologia della relazione. Non si può andare verso l’Alto senza andare verso l’Altro. Senza i nostri Virgilio, Bernardo o Beatrice. L’altro diventa la via di accesso al mistero, alla vita, che si può chiamare “Dio”. La questione-Dio, al di là delle diverse interpretazioni, non è un fatto privato, dunque. È un fatto pubblico. È una questione “politica”, come sosteneva Romano Guardini.
Ma se “Dio” è pubblico, lo è nonostante la religione. Fa parte cioè del paesaggio più profondo e intimo della vita. Non è il Dio pubblico dei Teocon, merce di scambio, denaro da puntare in borsa. È pubblico come lo è una fontana in mezzo ad una piazza. Per rispondere alla nostra sete, la sete di tutti, di tutte.
Il cammino religioso della vita, nella scoperta di sé e del mondo, non coincide con la religione e le sue strutture. Anzi, qualche volta per scoprire il vero cuore religioso della propria coscienza è necessario prendere le distanze da una religione pervasiva e autoritaria. Dante non è, come qualcuno ha scritto, il fondatore del pensiero di destra. Ha fondato piuttosto quel modo di stare aderenti alla propria coscienza esiliata e lì scegliere la libertà.
Oltre che una teologia della relazione, Dante ci insegna una teologia del corpo.
Non si va all’altro mondo senza il corpo. Non si attraversano gli inferni del mondo e della storia senza la carne. Non è sufficiente l’“Itinerarium mentis in Deum” di Bonaventura. Figli e figlie di un pensiero che ha essiccato il corpo, oggi sentiamo una struggente nostalgia della carnalità della vita. La sua dimensione terrestre non può più essere in antitesi con la via celeste.
Per questo, parlare di ecologia, di politica, di diritti umani è parlare in qualche modo della dimensione più “divina” della vita.
Lì, il verbo davvero si fa carne.
Non un amore mentale, astratto, dunque, tantomeno un amore virtuale, ma un amore che incarna il divino nel colore degli occhi, nella perfetta geometria di una mano, nel timbro inconfondibile di una voce.
La poesia è in fondo un modo dell’incarnazione divina. Il verbo lì si fa carne.
In questo, Dante è un Teo-poeta, come ci ha insegnato a dire Ruben Alves.
Dante poeta e teologo ci ricorda che ogni volta che attraversiamo le domande profonde della vita condividiamo il poetico e il teologico che ci abitano.
Infine, Dante ci ricorda il senso vero della laicità.
Dante non è politicamente schierato con i Guelfi, non è d’accordo che sia il papa a dover dominare il mondo. Arriva a mettere Bonifacio VIII, che è in parte responsabile del suo esilio, da vivo, all’inferno.
Non per questo rinuncia però a essere un cittadino libero e un uomo amante del Vangelo. Anzi, più si allontana dagli intrighi di una Chiesa corrotta più si avvicina alla luce della propria coscienza, toccando così il mantello di Dio.
Essere cittadini appassionati e liberi, non genuflessi, non devoti a un potere occulto: Dante ci consegna una sorta di teologia della cittadinanza.
Alla fine del viaggio il nostro Teo-poeta, dentro il luminoso cerchio che racchiude il mistero trinitario di Dio, vede qualcosa di inaspettato e commovente: «Dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effige; / per che ‘l mio viso in lei tutto era messo» (Paradiso XXXIII, vv. 130-132).
Quel volto del Teo-poeta è quello di ciascuno e ciascuna di noi.
Di noi tutti in qualche modo, come lui, esiliati.
Nessuna teologia può parlare più di Dio senza mettere al centro il volto umano. Ma anche gli animali e gli alberi.
Dante è il capocordata di una possibile teologia pubblica che metta al centro il canto del mondo.
Ecco perché anche rileggere la Divina Commedia può essere oggi tra le cose urgenti ed essenziali, per non smarrirsi…
Ha scritto Jorge Luis Borges, critico incantato di Dante, da poeta e poeta: «La Commedia è un libro che tutti dovremmo leggere. Non farlo significa privarci del dono più grande che la letteratura può farci».
Mentre scrivo questo articolo ci raggiunge la notizia della morte di Goffredo Fofi, uno degli ultimi intellettuali che ha vissuto la letteratura come atto di resistenza alla banalità, alla stupidità. Lui ci ha insegnato che la letteratura “squaderna” e rimette in cammino la vita. Che la letteratura è “cibo per tutti”. E tutti, tutte siamo affamati…
Amore e Bellezza
Bruna Capparelli
Ci innamoriamo e amiamo solo per la bellezza. Nessuno di noi ha desiderato avvicinarsi e conoscere qualcosa o qualcuno senza esserne prima sedotto. Questo principio di attrazione ha il suo fondamento ultimo qui: «Nessuno viene a me se non lo attrae il Padre». Tutte le volte che nell’ambito naturale (la grazia delle cose) o soprannaturale (la Grazia, dono di Dio a partecipare alla sua vita) la bellezza ci mette in movimento, sperimentiamo l’attrazione dell’Amore che ci trasforma, cioè vuole darci la sua forma, la sua essenza, per farsi tutto in tutti, pur mantenendo ciascuno la sua irripetibile identità.
Che ne sarebbe dell’abbraccio del padre che si china sul figlio sporco, ordinando anello, vestiti e banchetto di festa, se il figlio non fosse andato via e tornato, dopo aver sperperato tutto? La misericordia è una forma unica e ulteriore di bellezza, perché è la bellezza resa compatibile con il male, con la ferita, con la resistenza (forse solo Michelangelo è riuscito a scolpirla, quasi per errore, nella Pietà Rondanini). Si tratta di una bellezza che mostra le ferite (come accade con l’incredulo Tommaso) come credenziali di un’estetica nuova, in cui la vita ha attraversato e trasformato la morte, ma non per via immaginaria, perché ne porta i segni, producendo una meraviglia inedita rispetto a secoli di storia in cui il bello era soltanto armonia delle parti e il sangue doveva rimanere fuori dalla scena («osceno» appunto). Per ricordarselo, basterebbe fissare per qualche minuto la Pietà di Avignone che Enguerrand Quarton dipinse a metà del 1400: «Quando sarò elevato da terra attirerò tutti (o tutto) a me», la massima attrazione, fascinazione, bellezza, si dispiega proprio al massimo della sconfitta, la massima seduzione provocata dalla nostra più pervicace resistenza.
Tutte le volte che l’uomo si lancia a capofitto nella bellezza, in fondo a essa cerca Dio, anche le volte in cui quella bellezza anelata è frutto del cuore curvato su se stesso che, investendo di assoluto quel poco che gli resta da amare, lo fa diventare un’illusione di Dio: proprio allora, quel cuore deluso e spaccato, può aprirsi al Dio misericordioso. L’ubriaco ama la sua bottiglia perché in essa cerca Dio, il sensuale ama il suo piacere perché in esso cerca Dio, l’avaro ama il suo denaro perché in esso cerca Dio. Dio però non è «in» ma «oltre» la bottiglia, il piacere, il denaro. Che Dio? Il Dio misericordioso che lo seduce proprio lì, nell’ultimo tentativo auto-inventato dall’uomo per essere tutt’uno con ciò che ama, salvo poi esserne fatalmente e dolorosamente respinto per insufficienza di eternità di quella briciola di bellezza.
Forse proprio a quel capolinea abita Dio, per questo «pubblicani e prostitute» precedono chi si crede giusto, perché hanno toccato il fondo e oltre il fondo c’è il profondo, il sottosuolo teologico di Dostoevskij, cioè o la salvezza o la distruzione. C’è Dio, la cui regola è: «a chi molto viene perdonato, molto ama». In un attimo, con un paradossale «colpo di grazia» che dà vita e non morte, la nostra disperazione può trasformarsi in salvezza, fosse anche per il solo desiderio di avere una «vita nuova», come accadde a Dante, proprio mentre (in)seguiva Beatrice.
Non c’è bellezza piena senza ferita, come non c’è misericordia senza giustizia: non è venuto per i sani ma per i malati, che si riconoscono tali. Se il malato riconosce la ferita e la mostra a Dio, perché sa che altrimenti non potrebbe guarirne, la misericordia immediatamente lo raggiunge, anche di soppiatto, come quella donna che sapeva che le sarebbe bastato toccare la veste di Cristo per esser sanata, tanto da costringerlo al miracolo senza neanche chiederlo a voce, in mezzo alla folla che lo pressa. Egli, quasi che la guarigione gli sia scappata, chiede: «Chi mi ha toccato?». Toccare Dio con la propria ferita aperta è il segreto per sperimentarne la misericordia e vederne finalmente, senza più difese, la bellezza che tutto vince e avvince, bellezza antica e sempre nuova, che non è mai tardi per esserne sedotti, come accadde a un ladro e assassino, che ammise la sua colpa e si rivolse all’unico innocente della storia, e fu accolto in quel giorno stesso in Paradiso.
Non è il miracolo che fa la fiducia ma la fiducia che fa il miracolo. Infatti solo chi ha fiducia nella vita ne è curioso, aggettivo derivante da «cura»: chi ha cura del mondo non solo vede i miracoli, ma li fa. La fiducia non è un trucco, doping psicologico come il pensiero positivo, ma è una postura originaria di apertura alla realtà che dipende da quanto siamo amati: la fiducia deriva dalla forza dell’amore che ci genera in ogni istante, e consiste nel sapere, in ogni cellula, che questo amore c’è e mi vuole esistente.
L’uomo non è prodotto, come ci fa credere la tecnocrazia odierna, ma generato, e ri-generato quando fa esperienza di appartenere (essere amato), e può quindi sporgersi sulla vita senza essere paralizzato dalle vertigini che comporta. Questa appartenenza (legami liberanti, perché «assicurano» come quando si scala in montagna), effetto di ogni buona relazione, crea energia in questa sequenza: fiducia, coraggio, curiosità, scoperta, vocazione, creatività, gioia. Se l’appartenere a un amore che ci vuole esistenti non c’è o viene meno, si esaurisce l’energia vitale e la si deve elemosinare. Le dipendenze (legami bloccanti) sono contraffazioni dell’appartenere: poiché non si può non appartenere (essere in relazione) si accetta di dipendere, la schiavitù. Inoltre la fiducia è scalzata dal sospetto: distanza e paura di tutto. Il bambino non amato teme tutto, non è curioso ma insicuro, nessuno fa sicurezza alla sua esplorazione.
Meravigliarsi «stando fermi nelle nostre scarpe» (verso di una filastrocca di John Keats, 1818) è ciò di cui tutti abbiamo bisogno quotidianamente, perché se non troviamo bellezza almeno una volta al giorno perdiamo la capacità di abitare il mondo e amare la vita. La vera bellezza fa sentire a casa, anche quando ci mostra stanze oscure o chiuse. Come fa? Da un lato con la gratuità: ci regala la chiave della stanza senza che l’abbiamo cercata o meritata; dall’altro con l’armonia e la luce: ci assicura che ogni stanza è casa nostra, anche la più buia.
Il brutto ci priva della speranza che può salvarci: di contro chi è toccato dal bello, torna a sperare, perché riscopre che la sua vita ha ancora uno scopo. La bellezza non spiega quale sia lo scopo, ma assicura che ne esista uno. Lo sa bene il Matto del film La Strada di Fellini: «Tutto ha senso, anche questo sassetto. E se sapessi quale sarei il Padre Eterno. Ma se questo sassetto è inutile, allora tutto è inutile. Anche le stelle». Lo dice a Gelsomina in una scena indimenticabile in cui la donna è disperata perché la sua vita le sembra del tutto inutile. Il Matto è un artista ambulante, un acrobata-clown capace di trovare il sublime nel quotidiano, il bello stando nelle sue povere scarpe, e per questo non perde mai il buon umore e ridona la speranza a chi lo guarda. Consola il dolore di Gelsomina con la bellezza del creato, perché la bellezza, grazie alla gioia che provoca, fa sperimentare e sperare in una certa «salvezza».
Anche Modigliani cercava queste aperture sacre nei volti dei suoi ritratti e nei loro occhi, che spesso rappresentava vuoti, a volte uno vuoto e uno pieno, ma raramente li dipingeva entrambi. Che si trattasse della moglie Jeanne, di una poetessa come Anna Achmatova, di un mercante d’arte o di una bambina, Modigliani rendeva trasparenti il corpo o il volto dei suoi soggetti, perché manifestassero l’anima: per questo allungava i colli e deformava le fattezze, perché il corpo non fosse apparenza, ma evidenza della verità che spesso cerchiamo di nascondere, ma che è invece la nostra unicità. Se dipingeva un occhio solo era perché – diceva – era quello rivolto al mondo, mentre l’altro era impegnato con il proprio mistero. Aveva imparato dagli antichi, i quali credevano che l’anima risiedesse nell’occhio e per questo la chiamavano «pupilla», diminutivo di pupa (bambola, bambina): per loro l’anima era la piccola immagine riflessa al centro dell’occhio. I ritratti di Modigliani, mostrando un esterno che è in realtà un interno, ci ricordano che l’irripetibile bellezza di una persona risiede in ciò che la «anima» (dal greco anemos: soffio), il soffio della vita o di Dio che dà la vita, ragione ultima per cui bellezza e sacro spesso si identificano.
Senza bellezza, almeno una volta al giorno, smettiamo di abitare la vita, divenendo stranieri proprio a casa nostra, proprio nelle nostre scarpe.
Bellezza segno dell'infinito
Antonino Zichichi
Molti pensano che la bellezza sia soltanto una questione di gusto. Eppure, esiste una legge matematica che attraversa la storia della nostra civiltà e si manifesta nei luoghi più inaspettati. Parlo della sezione aurea, o Numero Aureo, indicato con la lettera greca φ (phi), pari a circa 1,618.
Nella Cultura Occidentale, a partire dalla Grecia classica con Fidia e l’architettura del Partenone, questo numero è stato utilizzato – a volte consapevolmente, a volte intuitivamente – per conferire armonia, proporzione e equilibrio a opere che ancora oggi consideriamo capolavori assoluti. Il Rinascimento, con la riscoperta dei numeri di Fibonacci, ha consacrato il φ a simbolo della perfezione estetica.
Leonardo da Vinci ne fece uso nello studio delle proporzioni del corpo umano e nella progettazione artistica e architettonica. Dürer, nel cuore della matematica applicata all’arte, lo utilizzò nelle sue incisioni e trattati. Ma la bellezza aurea non è solo arte. È geometria pura. È fisica visiva. Si trova nel pentagono regolare, dove il rapporto tra il lato della stella inscritta e il lato del pentagono è esattamente il 62% e 38%: i due segmenti di una linea divisa secondo sezione aurea.
Anche l’Italia ne custodisce un esempio sublime: Castel del Monte, con la sua architettura ottagonale e proporzioni auree, è una testimonianza matematica incastonata nella pietra.
Tutto questo ci dice una cosa semplice ma profonda: la bellezza non è arbitraria.
È scritta nel linguaggio della matematica, la stessa matematica che governa le leggi dell’Universo. E così come le leggi della fisica ci permettono di comprendere la materia, le leggi della proporzione ci aiutano a comprendere perché certi oggetti, certe strutture, ci appaiano naturalmente armoniosi.
Attraversare la vita con la preghiera
Bruno Forte
Credere implica il continuo combattimento con una Alterità che non può essere “risolta” né “fermata”. Spesso le ore del buio sono il tempio privilegiato delle rivelazioni divine
È stato da poco pubblicato per le Edizioni Shalom il libro di Bruno Forte La preghiera cristiana. Un’introduzione. Ne presentiamo alcuni stralci, tratti dal capitolo terzo, intitolato “La notte oscura”.
La fede non è possesso scontato né facile certezza: piuttosto, è lotta, agonia e, a questo prezzo, pace e gioia del cuore. Lotta fu l’esperienza di Giacobbe al guado (Genesi 32, 23-33): come per lui, così per chi crede il Dio vivente è l’assalitore notturno, tutt’altro che il “Deus mortuus”, proclamato dalla ragione ideologica, o il “Deus otiosus”, esiliato dalla ragione strumentale. Credere implica la continua lotta con una Alterità, che non può essere “risolta” né “fermata”. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede ed essa sarà combattimento, resistenza e resa, come testimonia il profeta Geremia: «Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Geremia 20,7. ).
Veramente il Dio della fede è “fuoco divorante” (Deuteronomio 4,24; Isaia 33,14; Ebrei 12,29). In questo senso per credere si ha sommamente bisogno della preghiera, esperienza per eccellenza della lotta con Dio. La “noche oscura”, di cui parla San Giovanni della Croce, è in realtà il luogo delle nozze mistiche: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a sé stessi, nella notte dei sensi e dello spirito. Solo dopo aver portato il credente nel fuoco della desolazione, il Dio rivelato e nascosto si offre come il Dio delle consolazioni e della pace: «Dio, se ci vuol rendere viventi, ci uccide» (Lutero). Dio non è risposta, è promessa e custodia: in Lui stanno l’ultima Parola e l’ultimo Silenzio, anche se qui ed ora ci è dato di accoglierli soltanto nella speranza.
Diversamente da ogni ideologia, che lascia l’uomo prigioniero di sé, la fede è un continuo convertirsi all’Altro, un continuo consegnare il cuore a Dio, cominciando ogni giorno in modo nuovo a vivere la fatica di sperare e di amare in compagnia del Figlio abbandonato alla morte per noi, per risorgere alla vita con Lui. Questa notturna esperienza di Dio, che la fede fa nella sequela di Cristo, questa conoscenza vespertina, che anela alla domenica senza tramonto, intravista nella speranza, ma non ancora posseduta, è appunto la preghiera. Perciò nessuna negligenza della preghiera è ammissibile per la fede, nessuna preghiera indolente, statica e abitudinaria. La fede orante dovrà essere sempre interrogante e viva, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare di nuovo a consegnarsi all’Altro, a vivere – pregando – l’esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola.
Quest’anima pellegrina della preghiera è resa stupendamente dal grido del salmo: «Svégliati, mio cuore, svégliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora» (Salmi 57,9). Sveglia l’aurora chi aspetta con impazienza nella notte l’avvento del giorno, chi conosce il desiderio del cuore assetato di luce, proteso verso il momento in cui passi l’oscurità e spunti la stella del mattino. In questa condizione di lotta nella veglia, ritorna la domanda: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Isaia 21,11). Come il “servus lampadarius”, che portava la fiaccola per illuminare la via nella notte, così la Parola ci aiuta ad accettare i volti della notte per discernere quanto manca all’aurora e quale sia la via da percorrere per andare incontro alla luce del mattino: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmi 119,105). Pregare è stare in ascolto della Parola, ruminandola fino ad aprirsi agli abissi del Silenzio che in essa risuona e cui essa schiude, perché si apra la strada nella notte.
È per questo che occorre vegliare nella notte, come servi del Signore, discepoli dell’Amato, in preghiera: «Ecco, benedite il Signore, voi tutti, servi del Signore; voi che state nella casa del Signore durante le notti» (Salmi 134,1). Nella notte Gesù ama vivere l’esperienza del Padre: «Gesù se ne andò sulla montagna e passò la notte in orazione» (Luca 6,12). La Sua preghiera è attesa, amando nella notte il Volto nascosto. La notte, peraltro, è anche il tempo privilegiato delle rivelazioni divine: gli oranti sono spesso i notturni cercatori di Dio. Così è per Abramo (Genesi 15,17); così per Giacobbe a Betel quando fa il sogno della scala che unisce il cielo e la terra (Gen 28,11); così per Elia all’Oreb (1 Re 19,9); così per Daniele e le sue visioni notturne (Daniele 7,2). Chi crede avanza nella notte verso la luce del mattino. Perciò il canto mistico può dire: «O notte più amabile che l’aurora, o notte che hai congiunto l’amata con l’Amato, l’amata nell’Amato trasformata!» (San Giovanni della Croce, En una noche oscura, Strofa V). È di questa preghiera notturna, assetata di luce, che sono testimonianza le parole che Teresa di Lisieux consegna a uno dei suoi testi autobiografici più impressionanti, che dicono della preghiera come lotta e come resa più di ogni astratta riflessione: «Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza fede. Ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento. Bisogna aver viaggiato sotto quel tunnel cupo per capirne l’oscurità. Signore, la vostra figlia ha capito la luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi per quanto tempo voi vorrete del pane di dolore e non vuole alzarsi da questa tavola piena di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori prima del giorno che Voi avete segnato. Ma osa anche dire a nome proprio e dei suoi fratelli: Abbiate pietà di noi Signore, perché siamo poveri peccatori! O Signore, che tutti coloro che non sono illuminati dalla fiaccola limpida della fede vedano finalmente...» (Scritto autobiografico C, 1897, numero 276).
Ho bisogno che le parole mi ascoltino
Chandra Candiani
Le belle parole.
Non voglio parole che mi spieghino e nemmeno che sgroviglino né chiariscano. Non voglio parole che mi riempiano e nemmeno che mi facciano sentire sciocca e con poca scuola alle spalle. Non voglio parole che complichino senza un cuore al centro. Non voglio parole che si diano arie. Ho bisogno di parole leggere eppure capaci di sfamare e dissetare, parole che mi domandino tanto, tutta la testa da mozzare e un cuore ingenuo da allenare al passo delle bestie nella foresta, vigile e sempre a casa, eppure sempre in pericolo. Voglio parole disobbedienti ma anche candide. Parole capriole e parole solletico, parole lampi, fulmini e tuoni, parole aghi che cuciono e parole che strappano la stoffa del discorso.
Parole silenziosissime che non svegliano i bambini della notte. Parole che conoscono i ring e non sferrano mai colpi bassi. Ma toccano. Rintoccano. Fanno percepire la pelle e vibrare le ossa. Le ferite si acquietano sotto le parole di fuoco, si riconoscono della stessa natura. Ho bisogno di parole che mi cercano, cercano la mia oscurità, non la mia chiarezza e si accovaccino con me, con me respirino affannate nell’oscurità. Parole che sappiano aspettare. Parole che mi diano uno spintone verso quello che ancora non oso sapere. Parole compagne del silenzio. Una ogni tanto. Poi tre passi. Ancora una. E sei passi. Parole che vedano i tuoi occhi e i tuoi capelli, come cadono per un nonnulla e come gli occhi si arrossino scrutando il buio. Parole che conoscano gli sforzi. Per non dire. Per dire tutto. Per dire senza far male. Per velare. Per dire quello che tu taci. Per dire quello che sottintendi. Parole che accarezzino quello che taci per viltà e per paura e non lo condannino a decifrarsi ma bisbiglino solo: “Ci sei. Io ti sento.”
Ho bisogno di parole che mi ascoltino.
Dov’è tuo fratello?
Salvatore Abagnale
Viviamo un tempo paradossale: mai come oggi siamo stati così connessi, eppure mai così soli. La nostra epoca è segnata da una crisi profonda delle relazioni, da un individualismo diffuso che frantuma i legami e da un crescente senso di smarrimento collettivo.
Lo scenario sociale ed educativo in cui ci muoviamo è contraddittorio: le reti digitali sembrano avvicinarci, ma spesso esasperano differenze e polarizzazioni; le città si popolano, ma la vita quotidiana si fa sempre più anonima; i luoghi di aggregazione tradizionali – dalla scuola alla parrocchia – perdono la loro forza coesiva.
Solitudini
A confermare questa diagnosi è stato anche il sociologo Zygmunt Bauman, che ha descritto la nostra società come “liquida”, incapace di strutturare relazioni durature, in cui “la solitudine è diventata l’esperienza quotidiana dell’uomo contemporaneo”[1]. Ma accanto a questa solitudine, emerge una nuova fame di relazioni autentiche. Come osserva il pedagogista Andrea Porcarelli, “la persona non può realizzarsi senza relazioni significative: la qualità dell’educazione dipende dalla qualità dei legami”[2].
In questo scenario, la fraternità non è solo un’istanza teologica o un valore morale, ma una questione antropologica e politica. La Fratelli tutti di papa Francesco ha rimesso al centro questa parola quasi dimenticata, definendola come il “sogno di una società aperta, dove ciascuno ha un posto”[3]. Ma può davvero esistere fraternità in un mondo frammentato, segnato da logiche di dominio, competizione e paura dell’altro?
Lo stesso discorso vale all’interno delle comunità ecclesiali. Anche qui la fraternità, da fondamento spirituale, rischia di essere piegata a logiche funzionali, di appartenenza e di omologazione. Il teologo Giuseppe Lorizio ha parlato in modo provocatorio di un’“ecclesiologia della selezione”, denunciando la tendenza, più o meno esplicita, a includere solo chi appare conforme a determinati modelli dottrinali, pastorali o morali[4].
In altre parole, il fratello è accolto solo se risponde ai requisiti impliciti della “normalità ecclesiale”, se non disturba l’equilibrio interno, se non costringe a ripensare visioni e pratiche consolidate.
Questo approccio, seppure spesso giustificato da esigenze di coerenza o di “fedeltà alla verità”, tradisce in realtà una paura profonda della differenza. Ma una comunità che accoglie solo il simile non è una fraternità: è un’ideologia.
L’evangelico “amare il prossimo” non è mai condizionato dalla sua somiglianza con me, ma dalla sua umanità nuda, irriducibile. Come afferma Christoph Theobald, “non si dà esperienza di Dio senza un’esperienza ecclesiale di fraternità: è questa la carne della fede” [5]. La fede, infatti, non è solo adesione intellettuale a una dottrina, ma immersione in un corpo relazionale dove ciascuno è accolto nella sua unicità, ferita compresa.
La domanda che fa da sfondo a queste riflessioni – e che diventa oggi radicale – è dunque la stessa posta da Dio a Caino: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9).
L’unicità come premessa della comunione
La fraternità non nasce dall’uniformità. Non è il risultato di un’identità omologata, né di una comunanza imposta dall’alto. La vera fraternità – quella che custodisce e genera vita – nasce solo dall’incontro tra unicità riconciliate. Perché se non si è riconciliati con la propria storia, con i propri limiti e con la propria luce, la differenza dell’altro viene vissuta come minaccia e non come occasione.
Hans Urs von Balthasar lo afferma con chiarezza disarmante: «Ogni persona è un’idea unica e irripetibile di Dio»[6].
Non una copia, non una ripetizione. Non una variante di un modello preesistente. Un’idea unica. In ciascuno di noi si riflette qualcosa del volto di Dio che nessun altro può riflettere allo stesso modo. La comunione non è dunque il risultato di una cancellazione delle differenze, ma un’armonia costruita sull’ascolto profondo delle unicità. La verità è sinfonica – scrive ancora Balthasar – perché solo voci diverse possono comporre un canto bello, vero, umano. Dove le voci si sovrappongono, si confondono o cercano di prevalere l’una sull’altra, lì non c’è sinfonia, ma rumore. E la fraternità si spegne.
È in questa prospettiva che possiamo comprendere come ogni relazione fraterna nasca non dal bisogno dell’altro, ma dal suo riconoscimento. Non c’è vera fraternità se io voglio l’altro per completarmi, o peggio ancora, per conformarlo alla mia visione del mondo. C’è fraternità solo quando io vedo l’altro per quello che è: distinto, autonomo, libero. Solo chi ha accolto la propria unicità può lasciarsi sorprendere da quella dell’altro senza sentirsi minacciato.
Quando invece l’identità personale è fragile o irrisolta, la differenza dell’altro provoca inquietudine. Quando non abbiamo ancora fatto pace con la nostra storia, ogni diversità ci sembra un giudizio implicito, una superiorità esibita, una ferita riaperta. È allora che la fraternità si ammala: si trasforma in concorrenza, in paragone sterile, in fatica da sopportare. Il fratello diventa nemico non per quello che fa, ma per quello che è. Perché ci ricorda qualcosa di noi che non siamo riusciti a integrare.
Emmanuel Levinas, rileggendo l’etica a partire dalla prossimità, ricorda che: «L’altro non è l’inferno: è la possibilità della mia verità»[7].
È nel volto dell’altro – con il suo sguardo, le sue fragilità, le sue attese – che io posso scoprire chi sono. Ma questa possibilità si apre solo se ho già compiuto un tratto di cammino verso me stesso. Altrimenti l’altro diventa specchio distorto, riflesso da combattere, differenza da ridurre.
Eppure, ogni volto porta con sé una rivelazione. Ogni fratello è un’occasione di trasfigurazione. Ma solo se smettiamo di chiedergli di rassicurarci e iniziamo a lasciarci interpellare. Fraternità non significa che siamo tutti uguali, ma che siamo tutti unici, e proprio per questo chiamati a incontrarci. La comunione non nasce dall’appiattimento, ma dal coraggio di custodire insieme il mistero che ciascuno è.
Non è forse questo lo stile della Trinità? Tre Persone, una comunione. Nessuna si perde nell’altra. Nessuna si impone. Nessuna prevale. Eppure sono intimamente intrecciate. Amate l’unicità del fratello come luogo di Dio, sembrano dirci le Scritture. Perché dove c’è riconoscimento dell’altro, lì può nascere la fraternità. E dove c’è fraternità, lì si manifesta il volto del Dio vivente.
La fraternità come esercizio di libertà
La domanda allora si fa ancora più urgente: in un tempo attraversato da polarizzazioni feroci, da identità che si definiscono per esclusione, da individualismi che si travestono da autonomia, è ancora possibile pensarsi fratelli?
La fraternità non è una condizione spontanea. Non è nemmeno un sentimento da evocare nei discorsi. È una scelta, un cammino, un lavoro di libertà. Lo ricorda Christoph Theobald in un passaggio essenziale della sua riflessione ecclesiale: «La fraternità è l’esercizio più alto della libertà umana, perché implica che io mi accolga in ciò che sono per poter accogliere l’altro in ciò che lui è»[8].
La libertà non è, dunque, un’astratta capacità di fare o scegliere, ma la disponibilità concreta ad abitare sé stessi con verità, per poter accogliere l’altro non come intrusione ma come compimento. Fraternità significa lasciarsi coinvolgere nella storia dell’altro senza annullarsi, lasciarsi toccare dal suo volto senza difendersi, accettare che il limite dell’altro parli anche al mio.
Ma questo richiede maturità, profondità interiore, discernimento. Richiede soprattutto di spezzare la logica – sottile ma potente – della competizione come unica forma di relazione possibile. La nostra cultura sembra invece strutturata per alimentare il contrario: la rivalità, il paragone, il successo a spese dell’altro. La meritocrazia esasperata, più che premiare il talento, finisce per generare solitudini e frustrazioni, perché chi non “vince” non solo perde, ma viene disconosciuto nella sua dignità.
Non si tratta semplicemente di accogliere l’altro, ma di lasciarsi abitare da lui. Non è sufficiente tollerare la presenza dell’altro senza reagire; occorre lasciarlo entrare nella nostra vita, riconoscendo che non siamo interi da soli. La fraternità, allora, non è solo una virtù relazionale, ma una forma alta di spiritualità, che fa della libertà un atto di responsabilità e non un privilegio personale.
Eppure, anche nelle comunità ecclesiali, questo cammino si mostra fragile. Si parla molto di fraternità, ma spesso la si riduce a una parola edificante, a una formula spirituale da inserire nei documenti. In realtà, nei meccanismi reali delle relazioni ecclesiali – nella gestione dei ruoli, nel riconoscimento dei carismi, nei percorsi di discernimento – emerge una fatica profonda ad accogliere l’altro nella sua reale diversità. Come se solo chi rientra nei codici condivisi, solo chi è “riconoscibile” e “controllabile”, potesse essere davvero fratello.
Ma la fraternità evangelica nasce dalla disponibilità a lasciarsi convertire dal volto dell’altro, anche quando ci destabilizza. Come ha ricordato papa Francesco: «O ci salviamo tutti insieme nella fraternità, o non ci salviamo affatto»[9].
La fraternità è dunque profezia, non tattica. È visione del Regno, non strategia ecclesiastica. È libertà che si apre all’altro non per calcolo, ma per fede. Perché solo insieme possiamo sperare. E solo riconoscendoci fratelli possiamo credere ancora che l’altro non è un ostacolo al mio compimento, ma condizione della mia pienezza.
Fraternità o primato?
La storia di Caino e Abele non è un episodio del passato, ma un archetipo che attraversa ogni epoca. Una pagina antica, capace però di rivelare le logiche più profonde del nostro presente. In quella domanda che Dio rivolge a Caino – «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9) – non c’è solo il dolore per un’assenza, ma la denuncia silenziosa di una scelta: Caino non ha voluto essere fratello. Ha preferito essere il primo[10].
La Scrittura non ci offre motivazioni psicologiche dettagliate, né ci consegna un profilo complesso dei due fratelli. Dice solo che l’offerta di Abele fu gradita a Dio, e quella di Caino no (Gen 4,4-5). E questo basta perché il fratello diventi minaccia, il volto si abbassi, l’ira prenda il sopravvento. Ma il problema, in fondo, non è Abele. Il problema è lo sguardo ferito che Caino ha su di sé. È lì la radice del dramma: nell’incapacità di riconoscersi amato nella propria unicità[11].
Dio lo sa. E per questo non interviene con un castigo, ma con una domanda: «Perché sei irritato? E perché è abbattuto il tuo volto?» (Gen 4,6). È una domanda che apre uno spazio. Uno spazio per riconoscere la propria fragilità, per nominare la propria delusione, per fare verità sul proprio desiderio di essere visto, riconosciuto, amato. Ma Caino non coglie questo spazio. Non dà voce alla sua ferita. E nella mancata elaborazione del dolore nasce la violenza. Quando il bisogno d’amore non viene nominato, si trasforma in potere. Quando non si riesce a custodire la propria mancanza, si cerca di colmare distruggendo l’altro.
Fraternità o primato: è la scelta radicale che ci viene chiesta ogni giorno. Chi vuole essere fratello sa che la luce dell’altro non spegne la propria, anzi la rivela meglio. Perché nella reciprocità non si perde identità, ma la si completa. Chi invece desidera essere il primo – e soltanto il primo – finirà inevitabilmente col trasformare ogni fratello in un potenziale rivale, ogni relazione in un conflitto latente, ogni dono altrui in un fastidio da rimuovere.
Eppure, la pagina di Genesi non si chiude con la morte. Si chiude con una voce che continua a interrogare. Dio non si arrende. Anche davanti al sangue versato, anche dinanzi alla fuga, Egli resta fedele alla sua domanda: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9).
È come se Dio stesse dicendo: “Dov’è il tuo cuore? Dove hai smarrito la tua verità più profonda? Quando hai dimenticato che eri figlio, prima ancora che fratello?”.
Questa domanda risuona come un invito più che come un rimprovero. Un richiamo a tornare a sé, a ritrovare la voce originaria della propria umanità. Finché c’è questa voce che ci chiama, la fraternità non è perduta. Può essere ancora scelta. Può diventare orizzonte. Può ritornare ad essere promessa.
Non si tratta solo di sapere dove si trova nostro fratello, ma di desiderare di esserci accanto. Di volerlo raggiungere. Di sentire che la sua vita riguarda la nostra. Non come padroni, non come salvatori, ma come compagni di cammino. Custodi, non controllori. Fratelli, non giudici.
Fraternità non è assenza di conflitti, ma capacità di attraversarli senza rinunciare all’altro. È la decisione quotidiana di non lasciarsi definire dall’istinto di dominio, ma dalla possibilità della cura. È la libertà di scegliere l’altro come parte di me, senza paura di perdermi.
È ancora possibile essere fratelli, se rinunciamo al delirio del primato e torniamo ad abitare la verità semplice – e radicale – di essere unici, ma non soli.
E forse, proprio lì, nella fatica del vivere insieme, nel disagio della differenza, nel confronto con il limite, la domanda di Dio cambia forma: non è più un’accusa, ma un appello.
“Dov’è tuo fratello?” È lì dove tu hai il coraggio di incontrarlo. È lì dove tu scegli, ogni giorno, di non avere paura della sua luce. Né della tua.
Praticare fraternità
Non basta dire “fratello”. Occorre scegliere di esserlo.
La fraternità non nasce da un’ideologia, né da un istinto. Non è un sentimento spontaneo, né un’espressione generica di buon cuore. È piuttosto una decisione consapevole di riconoscere nell’altro una parte costitutiva di sé, al di là di ogni convenienza, affinità o utilità. È un atto di fiducia nel legame, una scommessa sulla possibilità che l’altro non sia un limite, ma una possibilità.
La domanda di Dio a Caino – “Dov’è tuo fratello?” – continua a risuonare nel cuore della storia. Non come condanna, ma come possibilità. Non come peso, ma come invito. È una domanda rivolta a ciascuno di noi, ogni volta che ci scopriamo indifferenti, arrabbiati, chiusi nel bisogno di emergere. Ogni volta che la logica del confronto prende il posto della logica del dono. Ogni volta che la differenza diventa distanza, che l’altro ci appare come una minaccia e non come un mistero da accogliere.
Fraternità e primato non possono coesistere. O scegliamo di essere fratelli, o continueremo a costruire sistemi, comunità, relazioni segnate dalla paura, dalla competizione, dall’ossessione di dover contare, emergere, comandare. Il cuore della fede non sta nella supremazia, ma nella cura. Non nell’ordine, ma nella prossimità. Non nel controllo, ma nella fiducia.
In questa luce, la fraternità non è solo una categoria relazionale, ma una dimensione teologica ed ecclesiale. È nella fraternità che si misura la verità di una comunità credente. Una Chiesa che non è capace di riconoscere il volto dell’altro come “sacramento dell’incontro con Dio” rischia di ridursi a struttura organizzativa, a contenitore ideologico, a corpo senz’anima.
La sfida allora non è semplicemente “essere gentili”, ma riconoscere che nessuno può salvarsi da solo. Siamo legati. Non per debolezza, ma per vocazione. La nostra è un’identità “in relazione”, aperta all’altro, fatta per la comunione. È tempo, dunque, di riapprendere l’arte del legame. Di attraversare la fatica del conflitto senza rinunciare al cammino insieme. Di scegliere, ogni giorno, l’altro come presenza significativa, come domanda che mi interpella, come volto che rivela qualcosa anche di me.
Forse è proprio questa la via per non rassegnarsi alla frammentazione del nostro tempo: riabilitare la fraternità come pratica concreta, come stile di vita, come scelta politica e pastorale, come spiritualità incarnata. Uscire dalla logica delle “appartenenze blindate” e abitare lo spazio dell’incontro, dove nessuno si salva da solo, dove l’altro non è ostacolo ma compagno, dove la luce che lo attraversa non è minaccia ma rivelazione.
La fraternità non è un’utopia. È una scelta radicale, un esercizio quotidiano, una sfida al cuore del Vangelo. È l’orizzonte possibile per chi non vuole smettere di credere nell’umano, per chi rifiuta la retorica dell’“io prima di tutto”, per chi desidera costruire comunità in cui si respira la libertà dell’essere accolti nella propria verità.
Dov’è tuo fratello? È la voce che ci accompagna, che ci inquieta, che ci salva. È la domanda che ci ricorda che prima di essere padri, leader, ministri, cittadini o credenti, siamo figli. E dunque fratelli. E che l’unica eredità che vale davvero, è quella che nasce quando nessuno viene lasciato indietro.
[1] Z. Bauman, Solitudine nel tempo della rete, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 11.
[2] A. Porcarelli, Educare alla cittadinanza e al bene comune, LAS, Roma 2020, p. 45.
[3] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 127.
[4] G. Lorizio, La crisi della fraternità nelle comunità ecclesiali, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, 2020/1, pp. 9-22.
[5] Ch. Theobald, Il concilio del futuro. Nuovi cammini di cattolicità, EDB, Bologna 2009, p. 115.
[6] H. U. von Balthasar, La verità è sinfonica, Queriniana, Brescia 1972, p. 18.
[7] E. Levinas, Totalité et Infini, Martinus Nijhoff, La Haye 1961, tr. it. Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 2001, p. 73.
[8] Ch. Theobald, Il concilio del futuro. Nuovi cammini di cattolicità, EDB, Bologna 2009, p. 136.
[9] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 137.
[10] Sul carattere archetipico del racconto di Caino e Abele, si veda P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento, Borla, Roma 1992, pp. 55-67.
[11] L’incapacità di Caino di sentirsi amato è il nodo simbolico dell’intero testo. Cfr. A. Wenin, Caino e Abele. Genesi 4,1-16. Fraternità e responsabilità, EDB, Bologna 2005.
Corpo Celeste
Chandra Livia Candiani
Oggi ho letto Anna Maria Ortese, Corpo celeste.
E adesso ricopio qui le sue parole perché non avrei parole così battenti e dirette per dire quello che preme.
“So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere, e della dignità di ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.
C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al di sopra dell’utile. […] Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi.
Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie – può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.”
Non avere vergogna di difendere con parole scarne e semplici il bene della diversità, della svariatezza, dell’interdipendenza degli esseri, rispetto a un pensiero che guarda solo all’intricatezza umana e non osa richiami a partire da sé, come invece fanno gli asini ragliando. Considerare l’altro che non può parlare un testimone del nostro disastro, della nostra cieca voracità, della nostra passione di essere in primo piano e ridurre così tutto il resto a nostro sfondo. Imparare da animali e alberi e minerali come stare al mondo con l’umiltà delle creature, l’onesto essere precari in vita. Non raccontarsi la storia come vogliono i tiranni del pensiero, non infilarsi una maschera e lasciarla diventare nostra pelle.
Imparare a stare nascosti. In disparte. Tornare a giocare. Fare della innocua follia una legittima risorsa. Stare fermi e zitti a guardare e ascoltare. Smettere di far paura a tutti gli altri esseri e agli umani che non stanno in riga. Smettere di parlare solo con chi ci fa eco. Lasciarci vedere brutti come siamo, crudeli come siamo, per fiducia nella trasformazione e nella bontà fondamentale, quella che non lo fa apposta. Non cercare scuse, ma smettere e rammendare. Farci domande, tante domande e aspettare silenziosi che arrivino le risposte, aspettare tutta la vita e forse scoprire che la nostra esistenza così com’è e come siamo è la risposta, e non le parole con cui ricopriamo il nostro spavento raccontando la storia della storia della storia. Sapere che la paura che gli animali hanno di noi è la stessa che noi abbiamo della nostra nuda solitudine. Lasciare che la nostra vera storia non occhieggi soltanto nel disastro.
Non confessarla, ma offrirla con dignità perché è il nostro ponte più solido verso la storia degli altri. Rianimare la storia tatuata nel corpo, nella voce, negli sguardi. Non ignorare quello che bussa nelle buie notti e stenderlo al sole di giorno. Entrare nel nostro mancare e conoscerlo anziché riempirlo costantemente di futilità. “Lei non sa chi sono io.” Oh sì che lo so e mi si stringe il cuore sapendolo. Le opere sono gradini in discesa non in salita. Rivoluzionare la coscienza, non essere un carattere, ma un fiume, con tanti affluenti, e agire partendo dall’attesa e dal silenzio. Intonarsi alle azioni, riconoscendo le intenzioni. Risvegliarci ogni momento. Cosa cerchiamo quando anziché annusare le scie e poi seguirle corriamo dietro alle illusioni umane di appropriazione e accumulo, di ascesa? Restare fedeli alla sete senza confonderla con l’evaporazione dell’acqua. Quando disseto curo.
Di riuscirci prego.
Serve una rivoluzione di umanità
Sandro Cominardi
Nella vita, i doveri talvolta diventano insopportabili se imposti come ingranaggi che schiacciano le coscienze e pretendono obbedienza cieca.
Grazie al card. Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli. Ha avuto il coraggio di chiedere l’intercessione presso Dio a un prete suicida. Che nessun papa dichiarerà santo.
«E io, senza paramenti, se fossi lì oggi, davanti al tuo feretro, non avrei il coraggio di fare un’omelia. Mi inginocchierei in fondo alla chiesa, senza voce, e vorrei solo domandarti perdono».
Una lettera così profonda che ogni singola affermazione risulta direttamente coinvolgente.
E allora perché scrivo? Non un commento, ma alcune considerazioni, partendo dalle affermazioni che maggiormente mi hanno fatto riflettere.
Tu hai sanguinato in silenzio. Tu non sei un mistero. Sei stato un grido…
Incapaci di stare, nessuno ha percepito il tuo star male dentro… Rifugiati nel comodo “Solo Dio conosce i cuori”…
Tu eri figlio di Dio, ma anche nostro fratello e ti abbiamo lasciato nel vuoto delle stanze fredde dei doveri…
Che la tua assenza diventi una profezia. Che non si continui a chiamare “servizio” l’ingranaggio che schiaccia le coscienze, che pretende obbedienze cieche come prova di fede e adulazioni docili come pegno di carriera…
Serve una rivoluzione di umanità…
L’espressione “star male dentro” è piuttosto generica, mai presente nei testi di psicopatologia, ma che descrive efficacemente la fatica del vivere. Che è gioia faticosa.
In genere “lo star male dentro” lo percepiscono le persone dotate di particolare sensibilità umana.
Ai superficiali e ai menefreghisti mancano i presupposti per rendersene conto. Bighellonano nella vita e, molto probabilmente, si permettono anche il giudizio, perché “incapaci di stare”. La capacità di stare, nel silenzio, per riflettere e percepire il valore della fratellanza! Senza, il sentirsi figli di Dio diventa perfetto e inutile astrattismo.
Drammatico “lo star male dentro” vissuto “nel vuoto delle stanze fredde dei doveri”. Nel vivere, i doveri sono tanti e spesso possibili, ma diventano insopportabili se imposti come ingranaggi che schiacciano le coscienze e pretendono obbedienza cieca.
“Il tu devi” con l’occhio inumano che ti guarda! Sguardo ossessivo indotto in modo subdolo dalle istituzioni che ricorrono a motivazioni sublimi o accecano con i bagliori del “sempre qualcosa di più”. Come risultato: terribili sensi di colpa o profonda inadeguatezza nel percepirsi costantemente out.
Sarebbe interessante verificare quante volte si usa la parola “peccato” nelle liturgie e nelle varie relazioni clericali.
Il super-io tiranno annienta e non può essere supportato dalla sublimazione; meccanismo di difesa che Anna Freud definisce il più nobile. Che spesso viene indotto da “motivazioni oltre”, dimenticando la concretezza dei desideri che chiedono di essere legittimamente valorizzati.
Si celebrano i supereroi della fede e si delegittimano i fragili come tutti gli umani.
Quando il dolore dello star male dentro è molto profondo, anche la parola “misericordia” risuona vuota. È la fratellanza che richiama la concretezza del Gesù della Buona Novella. Fratellanza che ognuno esercita secondo il suo ruolo, che risulta efficace solo se guidato dalla consapevolezza che ”lo star male dentro” accomuna e può diventare un capitale. Allora fratellanza è capirsi per capire e viceversa. E che dovrebbe animare la tecnica di ogni conoscenza umana.
Serve una rivoluzione di umanità. Educazione e formazione costante, valorizzando contenuti esistenziali personalizzati!
Riparare
Chandra Candiani
Lo chiamano «perdono». Ma cosí la giustizia resta indifesa. Il dono, se è per qualcuno, non è piú dono. Nella visione orientale, donare è vero donare solo se non c'è piú né chi dona né chi riceve e nemmeno il dono stesso, solo il puro
gesto. Allora la giustizia è trascesa.
Ma sulla terra, nell'immanenza, c'è un gesto magnifico e in via di sparizione: il riparare. Posso ripararmi dal pericolo e dalla pioggia e posso riparare le scarpe come fa il ciabattino, o l'orologio come fa l'orologiaio e cioè posso non buttare via né il danno né quello che è danneggiato. Sono parole che hanno a che fare con il lavoro anziché con il dono. Non hanno trascendenza ma rappezzatura. Stanno qui. Guardano con attenzione il danno, lo studiano, progettano passo passo la riparazione.
E un'andatura che ha a che fare con il passo della compassione, perché si può aver compassione del cosiddetto "nemico", di chi ci ha ferito e danneggiato anche per sempre. Chi è ferito è danneggiato ma chi ferisce è condannato a vivere di fronte a se stesso ogni minuto della sua vita, e sa. Anche se a tutti gli altri è ignoto, sa.
Ripararsi da altro male, non permetterlo piú, fermare la mano anche quando è ben travestita.
Chi sa rammendare, rattoppare, è addestrato a lottare al buio e al buio inizia a lavorare con i fili, a separare, unire, cucire e disfare. Non ha niente a che fare con la superiorità di chi perdona.
Una volta, è stato chiesto a un grande Lama tibetano, sopravvissuto ad anni di torture nelle prigioni cinesi, quale fosse stato il suo momento peggiore. E lui rispose: «Quando sotto tortura odiavo i cinesi, quello era il momento piú brutto, quando cedevo all'odio per il nemico».
E il Dalai Lama, quando gli chiesero se detestasse i cinesi, rispose: «Si sono già presi la mia terra, non permetterò che si prendano anche la mia mente».
Inviare frasi di compassione al nemico significa slegarlo da noi. Personalmente, sento il bisogno di inviare: «Che tu possa sapere quello che hai fatto, che tu possa esserne consapevole, che tu possa essere libero dalla sofferenza». Perché credo nel potere guaritivo della consapevolezza, una guarigione ad alto costo, l'unica che non sappia di oblio.
Ha detto Liliana Segre ai giovani a proposito del nazismo: «Io non perdono e non dimentico, ma non odio».
Riparare e ripararsi significa staccare il filo che ci lega al danneggiatore, affidarlo al suo karma, alle conseguenze delle sue azioni, non assomigliargli, non cadere negli stessi sentimenti di distruzione e occuparsi del baratro, il vuoto lasciato dal danno e assaporarne la sconfinatezza, e la libertà di essere diversi. Sentire il male significa che il male è già altro da noi. Non condonare, non perdonare, ma lavorare alla possibilità di nascere di nuovo, di portare con dignità il passato e di rivolgersi al futuro con fiducia nelle proprie strumentazioni. Le strumentazioni di un radar, di una nave che si inoltra nel buio ma sente, avverte ogni pericolo e possibilità di ripeterlo.
Compassione è comprendere che il male va fermato definitivamente. Per noi, per tutti. Inviare compassione al nemico è comprendere il gioco delle parti e augurargli di cambiare posizione grazie alla consapevolezza del male inflitto.
Dalle aspettative alla speranza
José Tolentino Mendonça
Un’arte che la vita ci richiede, per vie diverse ma insistentemente, è quella di tramutare le aspettative in speranza. Dobbiamo riconoscere che tante volte, invece di essere un moltiplicatore di vita, le nostre aspettative diventano un’inconfessata spina nel fianco che ci trasciniamo per anni e anni. Siamo lenti a capire che le aspettative corrispondono alla proiezione dei nostri desideri, mentre la speranza si libra su di noi e ci coinvolge in una gestazione più grande, più generosa e polifonica. Facilmente le aspettative diventano creazioni astratte e illusorie, disegnate come forme ideali, determinate dalla nostra visione parziale. Mentre l’esperienza della fede, per esempio, ci fa abbracciare una speranza crocifissa, che si costruisce in direzione contraria al cammino lineare e senza scosse che avevamo previsto, e ci apre alle sorprese a cui l’amore concretamente ci conduce. Le aspettative sono una forma nervosa di intervenire nella realtà e di accompagnare gli altri. Senza rendercene conto, facciamo pressione, condizioniamo, riduciamo la vastità con il nostro stile affannoso. La speranza, invece, ci insegna a prendere il tempo come nostro alleato, poiché crede nel potere vitale di ciò che pare appena una briciola, quasi un niente. Ma ci sono briciole, infine, che si rivelano essere semi prodigiosi: il loro schiudersi riscatta la storia.
Fortezza virtù della Speranza
Enzo Bianchi
È difficile oggi parlare delle virtù. Pensiamo subito a una lettura moralistica, perché non si comprende più la virtù come habitus che fa parte della formazione del carattere. In realtà, la virtù è la dimensione stabile e evidente degli aspetti più profondi della persona dal punto di vista psicologico, morale e spirituale.
Non è una virtù teologale, dono dall’alto, ma è qualcosa che si può acquisire con la ricerca, l’esercizio, e dando costanza nel tempo a atteggiamenti e azioni finalizzate a compiere il bene.
Oggi, dobbiamo riconoscerlo, una delle più gravi carenze nella paideia, nell’educazione, è nell’approccio alle virtù.
Ma tra le virtù alle quali si bada poco, possiamo dire che la fortezza è ancora una virtù, la terza virtù cardinale secondo la tradizione filosofica e teologica occidentale?
Forse oggi è misconosciuta perché termine troppo imparentato con “forza”? O forse in reazione a una certa lettura di Nietzsche e del suo “uomo forte”? Eppure in passato la fortezza era considerata la virtù per eccellenza. Era la virtù “condizione necessaria di tutte le virtù”. Era ritenuta indispensabile per una vita bella, buona, felice, degna di essere vissuta, era sentita come determinante. Solo con la fortezza si può firmiter operari , operare in modo saldo, rimuovendo gli ostacoli perché l’azione decisa abbia corso e abbia buon esito.
Come si può costruire una famiglia se non c’è questa virtù della fortezza nei genitori e in modo specifico nel padre? I figli che crescono hanno bisogno di sentire e vedere la possibilità di aderire a qualcosa di sicuro, di saldo. E come si può governare una comunità senza essere “forti” ? Come si può contrastare la forza che aggredisce e tenta di distruggere senza persone forti che con discernimento sappiano lottare e difendersi? Ed è proprio nella capacità della lotta che la virtù della fortezza deve esercitarsi, nel sustinere ,cioè nella resistenza anche lunga e faticosa.
Il contrario della persona forte non è il pauroso ma l’impotente, che nella sua paralisi ad operare lascia fuoriuscire la violenza che lo abita per rovesciarla fuori di sé.
Proprio per mancanza di fortezza diventerà un traditore lasciando agli altri il lavoro sporco e nascondendo così la sua incapacità anche a opporsi alla persona forte.
Dove manca la fortezza fiorisce l’omertà, si omette la cura, la giustizia non può essere esercitata per l’arroganza di chi possiede potenza, il silenzio complice di chi non vuole vedere vince su ogni compassione. Troppi elogi della fragilità vengono celebrati oggi ma la fragilità è un grido che chiede aiuto, cura, interessamento di persone forti, non di persone complici della diffusa astenia.
Vorrei infine ricordare come la virtù della fortezza sia il fondamento della speranza. Perché colui che sa sperare lo può fare tenendo i piedi su un terreno solido per poi lanciarsi in avanti, può sperare sul fondamento di cose certe e mai da solo ma insieme agli altri.
Sperare
Giovanni De Mauro
“La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio.
Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita.
Significa riconoscere l’incertezza del futuro e impegnarsi a cercare di partecipare alla sua creazione.
Significa affrontare le difficoltà e accettare l’incertezza. Sperare significa riconoscere che si può proteggere qualcosa di ciò che si ama anche se si soffre per ciò che non si può proteggere – e sapere che dobbiamo agire senza conoscere l’esito di queste azioni.
Più e più volte il mondo è stato cambiato da persone che, all’inizio, sembravano troppo deboli per sfidare le istituzioni più potenti del loro tempo. Sperare significa accettare la disperazione come emozione ma non come analisi. Riconoscere che ciò che è improbabile è possibile, così come ciò che è probabile non è inevitabile. Capire che difficile non equivale a impossibile. Pianificare e accettare il fatto che l’imprevisto spesso sconvolge i piani, sia in meglio sia in peggio.
Sapere che i potenti hanno le loro debolezze e che noi, che in teoria siamo deboli, abbiamo un grande potere insieme, il potere di cambiare il mondo, lo abbiamo fatto in passato e lo faremo ancora. Sapere che il futuro sarà come lo costruiamo nel presente. Sapere che la gioia può apparire nel bel mezzo di una crisi e che una crisi è un bivio.
Forse la speranza è il coraggio di perseverare quando vincere sembra difficile; forse non è la speranza ma la fede che sostiene le persone quando il successo sembra inconcepibile.
È in questo senso che ne parla il drammaturgo Václav Havel, che è stato un catalizzatore della rivoluzione e del cambio di regime in Cecoslovacchia negli anni settanta e ottanta: ‘La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che vale la pena fare qualcosa a prescindere da come andrà a finire’”
Il senso del nostro credere
Ernesto Balducci da “Il mandorlo e il fuoco”
…La realtà della Resurrezione noi dobbiamo proporla con forza ogni giorno nel nostro cammino. E saremo costretti a farlo nella misura stessa in cui quelli che sono i relitti delle tradizioni religiose, saranno dissolti e noi rimarremo con davanti agli occhi nessun segno sacro della realtà di Gesù e avremo la necessità di riscoprirla nella sua misteriosa presenza. Se vi dicono: Cristo è qui, è là, non ci credete, Egli disse prima di lasciarci. Perché il Cristo si vede ovunque, ma non è in nessun posto in modo limitativo. Ecco allora il problema che oggi mi sollecita, anche per ragioni di esperienze comuni che stiamo vivendo. In un tempo di tale disgregazione in cui non solo la nostra realtà sociologica di credenti sembra abbandonata ormai alla deriva, ma la stessa società tradizionale nei suoi rapporti costitutivi sembra colpita da necrosi, e la ferocia ci invade ed occupa quotidianamente le cronache pubbliche come fatto più importante, in un tempo simile che senso ha parlare di Gesù risorto? È una soddisfazione privata? È un modo con cui – in un tempo di ferocia – ci creiamo il giardino delle idilliache soddisfazioni che ci consentono, almeno la domenica, di assentarci dalla competizione feriale? Che cos’è la nostra fede? Un’isola? un convento? un giardino segregato? Se così fosse saremmo già fuori del mistero del Cristo. Il quale, non ci dimentichiamo, ha vissuto una passione pubblica (è stato ucciso e condannato, come ci ricorda la Scrittura di oggi, pubblicamente, secondo la Legge) ed è risorto dando testimonianza di Sé a coloro che Dio aveva prescelto perché fossero gli araldi del grande evento. Cioè il Gesù della Resurrezione non è un idolo per una setta; i suoi eventi toccano le nervature della storia; sono, di loro natura, pubblici, universali; e perciò il suo mistero si racconta sulle pagine dell’esperienza pubblica e collettiva. La religione (la chiamerò così per quanto il termine perde già di legittimità) che ci lega al Cristo, non è una religione settoriale, che sta accanto alle nostre occupazioni profane, per darci, poi, un complemento che riguarda la vita dell’al di là. La fede in Cristo coinvolge la totalità dei nostri rapporti. Ebbene, come troverò io il modo di vivere questa fede in un tempo come questo? Più volte abbiamo fatto riferimento, nelle nostre riflessioni domenicali, ad alcune emergenze umane sia individuali che collettive, in cui è possibile cogliere – secondo quel nesso che è «il genio del cristianesimo – delle possibilità concrete di verificare la nostra fede cristiana e di proporla. Non già con messaggi altisonanti, non già con riti religiosi collettivi, ma attraverso i tramiti stessi dell’essere uomini; attraverso i modi stessi del nostro partecipare all’opera comune della costruzione di una città meno disumana di questa. Io credo che il primo riflesso di questa fede nel Gesù della Resurrezione, è la passione per la vita, il discernimento delle forze della vita in mezzo alla civiltà della morte. Sempre di più questo compito si fa pressante. […] Il discernimento della vita non è una passione qualsiasi per la difesa della vita ecologica o biologica. Può essere anche questo ma dobbiamo stare attenti a non portare su di noi il peso di un passato in cui eravamo come appiattiti nella logica delle cosi dette leggi naturali, che poi non si sa mai che cosa siano. La passione per la vita è una passione promotrice, una passione che discerne i valori. E intanto mira a rompere quel nodo che strozza la vita a dimensioni collettive: la subordinazione dell’uomo alla logica dell’avere, del possesso, del produrre. È un luogo comune ma i luoghi comuni nascondono spesso una intuizione collettiva. In questo caso la intuizione rende la coscienza impaziente ed a volte furiosa! Nelle stesse ondate giovanili che mettono a soqquadro il nostro ordine, dobbiamo riconoscere con occhio intuitivo, la passione delusa per una società in cui vivere sia possibile. I cristiani invece di fare le loro reiterazioni religiose, le loro retoriche di circostanza, si impegnino in questa costruzione di una società in cui la vita sia al primo posto. È importante che ciascuno di noi, nella diversità delle sue collocazioni, ricerchi, secondo questo criterio, il senso della propria vocazione…
L’armonia è la chiave per salvare il mondo, solo così possiamo sognare giustizia e bellezza"
Vito Mancuso
La leva dell’intelligenza ci ha innalzati come teorizzava Archimede, ma serve una fede a cui appoggiarsi. Filosofia, religione o politica offrono una soluzione a patto di non crederle immobili, perché nulla lo è.
Immaginatevi (com’è capitato a me) di dover esporre pubblicamente quale sia la vostra filosofia di vita, la vostra scala di valori, il punto di appoggio della vostra mente per orientarvi nel mondo: quale sia insomma il vostro “ubi consistam”. L’espressione latina è tratta dalla frase pronunciata da Archimede dopo aver scoperto il principio della leva: “Da ubi consistam et terram caelumque movebo”, “Datemi un punto d’appoggio e solleverò la terra e il cielo”. Qui però non è in gioco un punto di appoggio materiale, quanto piuttosto il punto di appoggio immateriale necessario alla coscienza per non smarrirsi nel labirinto della vita. Ebbene, come rispondereste?
Ad Archimede nessuno fu in grado di dare il punto di appoggio fisico richiesto e il mondo proseguì nel suo corso regolare. E fu proprio questa regolarità cosmica a costituire lungo i secoli il punto di appoggio mentale degli esseri umani. Così Shakespeare illustrava la situazione: “I cieli, i pianeti, e questa terra ch’è centro di ogni cosa, rispettano grado, priorità, rango, stabilità, corso, proporzione, tempo, forma, dovere e fedeltà col massimo rigore” (Troilo e Cressida, I,3). Su questa cosmologia si appoggiavano la religione e la politica, l’etica e l’estetica, producendo ciò che nella sua bellissima autobiografia intitolata “Il mondo di ieri” Stefan Zweig definiva “il mondo della sicurezza” …
Oggi le cose sono cambiate. La leva dell’intelligenza umana è effettivamente riuscita a sollevare il mondo come sognava Archimede. Da qui lo scardinamento dell’antica cosmologia, della religione, dell’ideologia politica, dell’etica, dell’estetica, della socialità. Tutto il mondo di ieri, oggi, non esiste più. Si trattava di un lavoro che andava fatto? Penso di sì, ma la conseguenza è che noi ora siamo rimasti privi di punti fermi che ci consentano di avere un terreno comune su cui costruire anche solo un minimo di comunità. Il mondo di ieri faceva pagare la sicurezza e l’unità conferite negando libertà e diritti dei singoli, il mondo di oggi assicura libertà e diritti ai singoli ma lo fa sgretolando i valori e generando solitudine e insicurezza. Siccome però il primo bisogno della mente è la sicurezza (avvertita più urgentemente anche della libertà), da tale insicurezza deriva un malessere generale il cui nome più preciso è: paura. La paura conosce diverse gradazioni: preoccupazione, inquietudine, timore, agitazione, ansia, tremore, smarrimento, sgomento, spavento, fobia, orrore, panico, terrore. Ma una cosa è certa: essa si vince ritrovando sicurezza, e la sicurezza necessita di un punto fermo archimedeo su cui sollevare non dico il mondo, ma se stessi rispetto al mondo. Ovvero: datemi un punto fermo e mi solleverò dal mondo. E una volta lassù con la mia mente, il mondo mi farà meno paura e il mio respiro tornerà normale. Ma esiste un punto fermo a cui la mente si possa appoggiare?
L’atto di fede costituisce la posizione di un punto fermo per esercitare su di sé il movimento della leva. Ci si appoggia a quel punto e si solleva se stessi. Forse è la missione più importante della vita: sollevare se stessi e così vincere le proprie paure.
Esattamente come scriveva Etty Hillesum: “In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità”.
Solo dalla serenità interiore infatti scaturisce una vita autenticamente capace di bene, di giustizia, di vera bellezza.
Ma in che cosa avere fede? Qui il discorso si fa strettamente personale, si può avere infatti una fede religiosa, una fede filosofica, una fede politica o ancora di altro tipo. Un tempo si cercava il punto fermo in cui avere fede pensando che qualcosa (Dio, il partito, la scienza…) potesse essere immobile, o, teologicamente parlando, infallibile, poi però si è capito che in realtà nulla sta fermo e nessuno è infallibile. Anche quando siamo fermi, ci troviamo su un pianeta che gira su di sé a una velocità di 1700 km/h e che ruota attorno al sole alla velocità di centomila. Nei nostri corpi poi è tutto un continuo movimento: cellule che nascono, cellule che muoiono, microrganismi del nostro microbiota che ora combattono ora collaborano, e mille altri incontrollati processi. Nulla sta fermo fuori di noi, nulla sta fermo dentro di noi. Noi quindi oggi possiamo onestamente ottenere un punto d’appoggio per la nostra fede solo a condizione di non ricercare un punto fermo che sia immobile, perché non c’è nulla che lo sia (e se, ciononostante, lo facciamo, cadiamo nel dogmatismo e nella durezza ideologica). Un punto fermo si può dare solo a patto che non sia immobile: ecco la condizione per avere un punto di appoggio per noi postmoderni.
Per questo la mia fede, che riprendendo Jaspers definisco “fede filosofica”, è fede nell’armonia quale logica complessiva del mondo e della vita. Il mio punto fermo ma non immobile è dato dall’armonia e dalla sua ricerca. In tutto questo incessante mutamento che produce spaesamento io tento come posso con la mia vita e il mio lavoro di inserire in me e fuori di me energia positiva finalizzata alla costruzione di armonia. Più c’è armonia, più c’è vita sana: questa è la mia verità.
A proposito di verità, un giorno mi colpì il fatto che in latino il termine verità (veritas) ha la medesima radice del termine primavera (ver). Non credo sia una mera coincidenza.
Anzi, a mio avviso questo legame tra verità e primavera attesta che originariamente il concetto di verità non aveva a che fare con la mera esattezza (verità scientifica) né con un’immutabile dottrina (verità religiosa), ma con il dinamismo naturale che fa fiorire e rifiorire la vita: cioè con l’armonia in quanto capacità di aggregazione. Per questo, inoltre, il colore primaverile per eccellenza venne denominato “verde” (in latino virĭdis).
Si tratta di un dato che va attentamente considerato: le radici della nostra lingua ci consegnano la radice “vr” connessa alla primavera e alla verità, la quale perciò non va intesa come formula o come dottrina, ma come energia e informazione che fa fiorire e rifiorire la natura. Come armonia.
Ora scusatemi, ma invito chi ha letto fin qui a pronunciare ad alta voce la radice “vr” di veritas; anzi, la seguente sequenza: “vr vr vr vr vr”. Non sentite come il suono di un motore che cerca di mettersi in moto? Che cos’è questo motore? Io credo che qui abbiamo a che fare con la riproduzione, intuita dalla mente archetipale, della vibrazione originaria dell’essere come motore che genera vita, dell’essere come energia. Energia etimologicamente significa “al lavoro”, in questo caso potremmo dire “in moto”.
Mediante la radice vr la mente antica della nostra civiltà giunse a cogliere l’energia che mette in moto e produce lavoro e così a esprimere l’armonia . Noi siamo all’interno di questo processo e più saremo conformi alla sua logica relazionale servendone la fioritura, più a nostra volta fioriremo. Ecco il mio “ubi consistam”.
Il punto fermo ma non immobile dell’armonia quale logica profonda della vita è stato colto da tutte le grandi civiltà dell’antichità e denominato in vari modi tra cui “logos, dharma, tao, hochmà, maat”. Per me il nome più bello è “sophia”, e per questo vivo il mio “ubi consistam” come philo-sophia: come servizio amorevole della logica più profonda della vita.
"La speranza ci rende altruisti"
Vito Mancuso
È possibile oggi sperare? La situazione è tale che la scritta posta da Dante sulla porta dell’inferno, «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», verrebbe collocata da molti all’interno dei reparti di ostetricia quale benvenuto ai nuovi arrivati.
Kant collocò la speranza tra le questioni decisive della vita: «Ogni interesse della mia ragione si concentra nelle tre domande che seguono: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?». L’uso della prima persona singolare da parte del filosofo segnala che qui non sono in gioco disquisizioni accademiche, ma l’esistenza concreta. Nella nostra epoca il filosofo marxista dissidente Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza, di Adorno ho già detto e di molti altri non cristiani potrei dire. Quanto al cristianesimo, esso considera la speranza una virtù teologale, altrettanto fondamentale quanto la fede e la carità.
Ma è soprattutto una celebre pagina di Eschilo a sottolineare l’importanza della speranza per tutti gli esseri umani: Prometeo è incatenato per ordine di Zeus, un’aquila gli mangia il fegato che di notte gli ricresce per poi essere nuovamente divorato, e una corifea gli chiede il motivo di questa terribile condizione. Prometeo le risponde: «Gli uomini avevano sempre, fissa, davanti agli occhi, la morte: io ho fatto cessare quello sguardo». Domanda: «E quale rimedio hai trovato per questo male?». Risposta: «Ho fatto abitare dentro di loro le cieche speranze». E conclude: «E poi procurai a loro il fuoco». Prima del fuoco Prometeo dà agli uomini le speranze, che sono dette “cieche” non perché fatue, ma perché la speranza per definizione non vede e non sa come andrà a finire e per questo, appunto, spera. Ma per quanto cieca, essa è forte e conferisce forza, come si capisce dal fatto che lo stesso utilizzo del fuoco ne richiede la presenza. Non a caso Aristotele definiva la speranza «il sogno di un uomo sveglio».
In cosa avere speranza? Io sono convinto che la stella seguendo la quale possiamo ritrovare speranza sia l’amore. È l’amore la sorgente della speranza nella vita. Ma che cos’è l’amore? Da sentimento privato occorre, molto più profondamente, considerarlo logica cosmica. Novant’anni fa il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, esiliato in Cina dalla Chiesa a causa delle sue idee sul peccato originale, a un amico che gli aveva chiesto di esprimere in sintesi il suo credo, rispose così: «Se a seguito di un qualche capovolgimento interiore, io dovessi perdere la mia fede in Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello Spirito, a me sembra che io continuerei invincibilmente a credere nel Mondo. Il Mondo (il valore, l’infallibilità e la bontà del Mondo), ecco in ultima analisi la prima, l’ultima e la sola cosa in cui io credo. È di questa fede che io vivo. Ed è a questa fede che io, lo sento, nell’ora della morte, oltrepassando tutti i dubbi, mi abbandonerò».
La domanda sull’essenza dell’amore trova qui la sua risposta: l’amore è la logica relazionale che ha reso e che rende possibile il mondo, dapprima il formarsi degli elementi e del pianeta, poi il sorgere della vita, dell’intelligenza, della libertà, infine di quella libertà che si dedica gratuitamente a un’altra libertà e così raggiunge la pienezza dell’amore. L’amore esprime la logica della relazione che fa sì che le cose esistano, dato che non esiste nulla che non sia ontologicamente un sistema e in quanto tale risultanza di relazione e di armonia.
L’esito più alto del processo cosmico in cui siamo inseriti si chiama mente, pura energia di consapevolezza, e si chiama anche cuore, pura energia operativa che riproduce la medesima dinamica di armonia all’origine dell’esistenza. Mente + cuore: questo è il risultato più alto del processo cosmico. Questo possiamo essere noi: una mente che sa e un cuore che ama. Questo va insegnato ai bambini e ripetuto ai giovani, e mai dimenticato fino all’ultimo giorno dell’esistenza. La sorgente della speranza è la consapevolezza della (possibile) ricchezza della nostra umanità.
Questa forza cosmica ci riguarda in quanto oggetto, perché ne siamo il risultato, e ci riguarda in quanto soggetto, perché possiamo a nostra volta esercitarla. Essa è la dimensione generatrice dell’essere, che gli antichi greci chiamavano Logos e l’ebraismo Hochmà, seguendo la quale ognuno di noi da caos può diventare mondo. Lo può diventare anche nel senso dell’aggettivo, mondo cioè nel senso di pulito. Inserito in questo processo, ognuno di noi può essere mondo: lo può essere nel senso del sostantivo che rimanda a organizzazione e nel senso dell’aggettivo che rimanda a pulizia. Il senso dell’esistere viene così compendiato dal termine greco per mondo, “cosmo”, da cui cosmesi: il senso della vita è fare esperienza di bellezza, fisica e morale. Si può ragionevolmente sperare in tutto ciò? Si può. Anzi, oggi si deve, e si deve insegnare a farlo, se non vogliamo naufragare nel nichilismo.
I problemi di oggi sono tali da sfiduciare chiunque eserciti il raziocinio: la guerra mondiale sempre più incombente il cambiamento climatico sempre più devastante, le migrazioni sempre più massicce, la tecnologia sempre più padrona delle anime, e si potrebbe continuare. Ma, annotava Hannah Arendt, «negli uomini esiste un’inclinazione, forse un bisogno, a pensare al di là dei limiti della conoscenza». È a causa di ciò che si origina la speranza, da sempre connessa all’essenza del pensiero umano. Per Isidoro di Siviglia, un dotto del VII secolo esperto di etimologie, il termine latino “spes” viene da “pes”, piede; fondata o no, l’etimologia è suggestiva: la speranza è ciò che fa camminare nella vita. Senza speranza non si cammina. La speranza, infatti, è performativa: occorre sperare per realizzare. Lo vide già Eraclito: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile». Speranza e fuoco, fiducia e tecnica, sapienza e scienza, devono tornare a essere strettamente connesse nella società e ancor prima nella singola esistenza. Quanto a tecnica, non siamo mai stati così forti. Se ritroveremo una speranza alla sua altezza, forse riusciremo a rivedere la nostra stella e a «non fallire a glorioso porto».
È ancora possibile abitare la speranza?
Renato Zanon
«Come parlare di speranza guardando negli occhi una bambina o un bambino di Gaza, di Kiev, del Congo, dei due Sudan, del Myanmar, di una delle troppe periferie del pianeta costrette a fare i conti quotidianamente con la guerra e la violenza, con la fame, con la carenza di medicinali e di istruzione, con i cataclismi ambientali?» (pp. 19-20).
Leggendo il libro di Brunetto Salvarani Speranza – la cosa difficile (Paoline, Milano 2025), si percepisce questa appassionata preoccupazione: l’annuncio evangelico della Speranza non può più limitarsi alla «difesa d’ufficio» di una delle virtù teologali, fatta oggetto di studio e approfondimento teologico staccato dalla via di oggi, ma «… che è proprio nella consapevolezza di questo contesto mondiale malato che vale ancor più la pena di interrogarsi nuovamente sulla speranza cristiana, su cosa sia davvero, su come sia possibile rilanciarne la centralità nel dibattito pubblico…» (p. 20).
Salvarani riporta all’attualità il pensiero di Jurgen Moltmann che, proprio negli anni del Concilio Vaticano II, rilanciava «il tema della speranza, mentre era ancora nell’aria l’eco cupa della catastrofe bellica» (p. 7). È ancora credibile parlare di speranza in un mondo dove «è più facile disperare che sperare» (quarta di copertina)?
Il libro ricorda che papa Francesco si è fatto coraggioso interprete di questa domanda con l’indizione del Giubileo, che stiamo vivendo, e con l’invito a ripensarci e ad essere «pellegrini di speranza» (cf. Spes non confundit, 9 maggio 2024). E Salvarani afferma che «siamo Chiesa in quanto capaci di sperare» (p. 8), capaci di continuare a tenere vivo lo spirito del Concilio Vaticano II, là dove afferma che «si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (GS 31).
Così il libro di Salvarani compie un excursus nel testo biblico del Primo e del Nuovo Testamento, per sottolineare le radici bibliche e spirituali della speranza cristiana. Per chiedersi come questa «perla» può essere ricercata e riscoperta come motivo di fede nell’attuale incertezza, o crisi vera e propria, di tutti i discorsi che arrivano a toccare il tema del dopo, del futuro legato all’«aldilà», all’oltre.
Sicuramente impegnativa, ma stimolante, la parte nella quale Salvarani, a partire dalla domanda «Ci è ancora lecito sperare?» (p. 115), si propone di passare dal tesoro passato alle possibili piste di attualizzazione della speranza nel «qui ed ora».
Non solo frequentazione del generico ottimismo che si esprime nello slogan «io penso positivo», ma presa d’atto della possibilità di una scelta coraggiosa e controcorrente di sfida al clima culturale odierno, della necessità di guardare la notte come ci si presenta davanti, con le sue incertezze e disperazioni, ma anche con la domanda mai soffocata: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Isaia 21,11).
Ricorda opportunamente un profeta dei nostri tempi, padre Balducci, che affermava la necessità previa di educarsi con pazienza, con lo sguardo in avanti e l’ascolto della storia, soprattutto di quella «miriade di piccole storie animate dai «santi della porta accanto» che forse ci sfiorano ogni giorno senza che ce ne accorgiamo (p. 117).
Ricorda anche il «poeta della speranza», Charles Péguy, con la sua convinzione che è la Speranza a dare forza e costanza alle altre due virtù cardinali, e ancora papa Francesco e il suo grido «Non lasciatevi rubare la speranza» davanti a chi specula sulle paure, a chi usa le forme anche subdole della violenza, a chi costruisce barriere e non ponti tra le persone.
La riflessione teologica e filosofica contemporanea può contribuire a trovare «il difficile equilibrio tra speranza nell’aldilà e speranza nel presente» (pp. 120-121), per riscoprire non tanto la speranza egoistica dell’individuo, ma la solidale condivisione con altri di una prospettiva per l’umanità che non sia una qualunque via di fuga.
Riprendendo l’immagine che viene dal mondo ebraico della speranza come «una corda che ci lega tutti indissolubilmente, e sta quindi a fondamento della nostra umanità» (così in quarta di copertina), il libro di Salvarani si interroga sul «compito infinito di chi in questo tempo si dice cristiano, ma che è in realtà di ogni persona di buona volontà aperta al mistero» (p. 171), quello di comunicare speranza per arrivare a vedere – e ritorna la memoria di Moltmann- «l’aurora dell’atteso nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce» (p. 171).
Da non trascurare infine, per il significato non solo affettivo per l’autore, la dedica del libro al pastore valdese Paolo Ricca, «uomo di speranza» (p. 5), che con la sua riflessione ha arricchito la ricerca di un cristianesimo ecumenico, fonte di speranza per gli uomini e le donne di oggi, al di là della confessione religiosa di riferimento.
Brunetto Salvarani, Speranza – la cosa difficile, Paoline, Milano 2025, pp. 171, € 16,00
Non c’è vita senza gli altri
L’incontro favorisce il passaggio del singolo da individuo a persona
Solo nella profondità del cuore si intrecciano storie e destini
Enzo Bianchi
Se apprendere l’arte della vita è una fatica personalissima a caro prezzo, così lo è anche apprendere l’arte di vivere insieme: non io senza gli altri, non io contro gli altri, ma io insieme agli altri fino a vivere per gli altri. E tale cammino non va pensato in termini di impoverimento: gli altri mi tarpano le ali, mi impediscono di sviluppare la mia personalità, dunque sono costretto a trovare un compromesso. No, è ora di comprendere che l’incontro, il vivere insieme, in uno scambio di sguardi, gesti, parole e anche silenzi, può aiutare a far fiorire la personalità del singolo: può aiutarlo a passare dall’individuo alla persona. Non si dimentichi che, secondo un’ardita etimologia, “persona” potrebbe derivare dal verbo latino per-sonare: io sono in quanto risuono all’appello dell’altro…
La mia cultura cristiana di provenienza mi spinge quasi naturalmente a collegare il tema del convivere a una celebre espressione di Paolo di Tarso. Nella sua Seconda lettera ai cristiani di Corinto l’Apostolo definisce così il fine della vita cristiana: “siete nel nostro cuore per morire insieme e vivere insieme” (2Cor 7,3). Sembra un assurdo logico e invece può esprimere mirabilmente il fine del con-vivere, anche a livello umano: solo chi è disposto a dare la vita per chi gli è accanto, al limite fino a morire, può giungere davvero a con-vivere, a vivere insieme con coscienza di causa. È così che si può imparare, nelle profondità del cuore, cioè dell’intera persona, a intrecciare vite, storie e destini.
Se si vuole comprendere in profondità che cos’è e come si origina una vera convivenza, occorre essere consapevoli che in primo luogo occorre dare la propria presenza agli altri, fino a dare loro la propria vita. Detto altrimenti: se una comunità non vuole incorrere in derive patologiche – e ahimè oggi quanto siamo esposti! – deve porre come suo principio fondamentale un movimento in cui ciascuno si dispone a donare all’altro la propria presenza. Ci sono due affermazioni del Nuovo Testamento illuminanti in proposito, ben oltre la semplice prassi cristiana, ma in riferimento a un vero cammino di umanizzazione: “Non abbiate alcun debito verso nessuno, se non quello dell’amore reciproco” (Rm 13,8); “Non c’è amore più grande che dare la propria vita per quelli che si amano” (Gv 15,13).
Per entrare nella communitas occorre sentire la propria presenza tra gli altri come un debito e un dono nello stesso tempo. Io sono nella comunità per l’altro, soprattutto la mia presenza, l’essere là concretamente è per l’altro, per gli altri. La domanda posta come essenziale sull’architrave della porta della comunità è sempre quella che troviamo nelle prime pagine del “grande codice” della Bibbia, là dove si dice che l’umanità ha avuto inizio attraverso legami e relazioni, all’interno dei quali vi è anche la possibilità dell’omicidio del fratello. Dopo che Caino ha ucciso Abele, si sente chiedere da Dio: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Questa domanda pone in questione ciascuno di noi sulla sua capacità di essere custode, responsabile dell’altro. Ovvero, ogni essere umano deve sempre sapere dove si trova l’altro, deve sapere dove egli si colloca rispetto all’altro, se in un rapporto di vicinanza oppure di estraneità. Chiedere: “Dov’è tuo fratello, tua sorella?”, equivale a chiedere: “Tu hai il volto rivolto verso di lui/lei, per sapere dove sta? Tu guardi l’altro/a?”.
Ecco uno dei punti cruciali per capire da dove può nascere un’autentica convivenza umana: essa nasce da questa responsabilità dell’altro. L’altro è altro e tale deve rimanere, l’altro è unico, tra io e tu c’è un’irrimediabile distanza; nel contempo, però, io e l’altro, io e tu siamo chiamati alla relazione, al dialogo, all’accoglienza reciproca, e questo richiede una grande responsabilità dell’uno verso l’altro: di fronte all’altro devo deporre la sovranità del mio io per poterlo incontrare e con lui poter dire “noi”. L’altro con la sua alterità crea in me un timore, la relazione con lui è sempre un rischio e la sua presenza si impone accanto a me. Ma io posso incontrarlo o rifiutarlo, posso avvicinarlo o escluderlo: se lo avvicino gli riconosco la vita, se lo escludo è come se lo dichiarassi morto.
L’altro che mi sta di fronte a questa comunione radicale, originaria con me: siamo umani, siamo mortali, siamo piccola cosa, siamo provvisori, ma proprio per questo abbiamo bisogno gli uni degli altri, abbiamo bisogno di senso, quel senso minacciato dalla morte. E solo la relazione, la comunione, la fraternità, l’amore possono lottare contro la morte e dare senso a ciascuno di noi.
La preghiera respiro dell'anima
Il fondatore di Bose ci invita a cercare momenti di orazione silenziosa nelle nostre frettolose giornate, recuperando la centralità dell’azione della grazia nella nostra vita quotidiana
Intervista a Enzo Bianchi di Stefano Stimamiglio
Incontriamo fratel Enzo Bianchi a Casa della Madia, il suo monastero vicino a Ivrea. Vecchia conoscenza del nostro giornale, con cui ha collaborato negli anni passati, dal prossimo numero inaugurerà una nuova rubrica di spiritualità incentrata sulla preghiera dal titolo: “Cristiano chi sei?”.
Fratel Enzo, perché questo titolo?
«Sono convinto, e non è solo un mio pensiero, che in questo momento c’è una grande fragilità nella vita di fede di tanti cristiani. Papa Leone nel suo recente intervento alla Conferenza episcopale italiana ha chiesto ai vescovi di risvegliare la fede in Gesù Cristo come unico Salvatore e come centro della fede cristiana. Viviamo in un tempo in cui i cristiani si sono giustamente aperti ai bisogni del mondo, al dialogo e al confronto con tante realtà terrene, ma è venuta meno la centralità del primato di Cristo, da cui dipende la nostra fede. La nostra salvezza non dipende da Lui?».
In parole semplici cosa è la preghiera?
«La preghiera ha uno sviluppo diverso da persona a persona. C’è quella della persona semplice che chiede grazie e protezione e che va rispettata, ma sapendo che non è sufficiente per una matura vita di fede. La preghiera non è tanto un chiedere a Dio, quanto un ascoltare la sua voce che si manifesta nella Parola di Dio. È dall’ascolto che nasce la fede, che conosciamo la volontà di Dio, che plasmiamo la nostra vita secondo il Vangelo. La preghiera è un lungo cammino che porta la persona ad adorare e lodare Dio fino alla misura della contemplazione, che non è solo dei mistici, ma è la capacità aperta a tutti di assumere lo sguardo di Dio sulle persone e sulle cose. È qui l’apice della preghiera».
Cosa direbbe a un giovane?
«L’unica cosa che si può chiedergli è di fermarsi dieci minuti al giorno per leggere alcune righe del Vangelo e chiedersi se trova qualcosa che parla al suo cuore. Tutto qui. Non dico che questo lo renderà automaticamente cristiano, ma almeno maturerà una memoria affettiva di Gesù che rimarrà nel tempo. E che nel momento opportuno riemergerà come una vera luce».
Quale malattia ci affligge oggi?
«È quella di un mondo in fuga che dovremmo combattere e che invece assecondiamo con le nostre scelte, vivendo da mattino a sera a velocità massima. Questa rapidità non ci da tempo per pensare, per fermarci, per approfondire. Per uscirne dovremmo organizzare la nostra giornata prima che cominci e mettere da parte del buon tempo per quello che vogliamo realmente fare. Altrimenti veniamo “mangiati”, e alla fine siamo estranei a noi stessi. Molte persone anziane mi confidano di non aver vissuto la loro vita e sono tristi, non perché non abbiano avuto successo nella loro vita, ma perché sentono che per loro il tempo è volato inutilmente. È un problema antropologico prima che cristiano».
E le distrazioni nella preghiera?
«C’è un’educazione alla concentrazione nella preghiera, ma non dobbiamo spaventarci se accade. La mente vaga nella preghiera, possono esserci distrazioni. Ci vuole tempo e perseveranza perché perdano la loro forza. A volte però sono delle specie di mostri che si agitano dentro di noi e che salgono dalle nostre regioni interiori più basse. È il allora momento di immergerci ancora di più in noi stessi per guardarli in faccia senza spaventarci, per vincerli e ordinarli con la forza dello Spirito Santo».
Spesso oggi ci si rivolge agli psicologi…
«Oggi esiste una pericolosa “psicologizzazione” della vita di fede. Anche nella Chiesa si parla più di psicologia che dell’azione della grazia, cioè dello Spirito Santo. Persino nei seminari, cosa che ha contribuito a creare un vero deserto nel campo delle vocazioni. Così Gesù non è più il medico delle nostre vite. Io credo, invece, che bisogna combattere soprattutto con le armi spirituali contro i fantasmi che ci abitano. È pericolosa questa mescolanza tra spiritualità e scienze umane e può in casi limite essere causa di abusi spirituali, perché a un certo punto non si capisce più se uno è il padre spirituale o lo psicologo».
Poi c’è la pace del cuore...
«La pace è l’ultimo frutto della vita dello spirito. Per ottenerla occorre che lo Spirito Santo scenda nelle nostre profondità, lì dove manteniamo le nostre riserve verso il nemico e il nostro carico di aggressività. Se non accade rimarranno dentro di noi delle forme di rancore, di odi nascosti, di volontà di dominio. Lo vediamo anche tra noi cristiani. Pensiamo solo alla guerra fratricida in Ucraina: fratelli battezzati e parte dell’unico corpo di Cristo si ammazzano ogni giorno».
Cosa ha ispirato la sua preghiera?
«La mia vita di preghiera è nata quando ero molto piccolo e mia madre ogni sera mi faceva inginocchiare sul letto, sussurrandomi le parole delle preghiere, facendomele ripetere. Così ha iniziato a farmi balbettare con Dio e da allora non ho più smesso di pregare. Credo che se le madri facessero questo coi loro figli farebbero loro un grande regalo».
La via del desiderio
Verso un'autentica spiritualità cristiana
Bruno Meucci
Nel mondo in cui viviamo siamo così pieni di occupazioni, di impegni e dí doveri verso gli altri che ci sentiamo spesso privi di respiro, svuotati dei nostri sogni e dei nostri progetti personali. Con l'aiuto di un prezioso libro di Benoit Garceau, andiamo alla ricerca di una spiritualità che sappia risvegliare il desiderio profondo che abita nel nostro cuore per illuminare di senso la vita di ogni giorno.
La spiritualità del dovere
Da tempo, ormai, i cristiani sentono la necessità di abbandonare una certa spiritualità tradizionale, fondata sul modello ascetico (sacrificio, rinuncia, mortificazione), e di scoprire nuove forme di spiritualità, più attente alle esigenze dell'uomo contemporaneo. Si assiste dappertutto alla ricerca di una via che guidi alla scoperta dei desideri profondi del nostro cuore e ci aiuti a realizzarli nella nostra vita. In un suo libro ancora utile e prezioso (La voie du désir, Montreal 1977, tr. it. La via del desiderio, Cittadella Editrice, Assisi 2000), Benoît Garceau richiama l'attenzione sull'importanza della parola spirito (dal latino spiritus) che è la traduzione della parola ebraica ruah e di quella greca pneuma, aventi entrambe il significato di «soffio, respiro»: noi siamo esseri che cercano di vivere secondo un'ispirazione profonda e ogni autentica spiritualità, secondo l'Autore, non può essere altro che un'arte di essere ispirati.
Nel mondo in cui viviamo siamo così pieni di occupazioni, di impegni e di doveri verso gli altri che ci sentiamo spesso come sgonfiati del nostro respiro, svuotati dei nostri sogni e dei nostri progetti personali. Ci accorgiamo, in altre parole, di essere privi di quel respiro profondo che allarga i nostri orizzonti e ci fa vivere in pienezza con tutto il nostro essere. Ci troviamo spesso senza fiato nel cammino faticoso della vita e quasi sempre brancoliamo alla ricerca di un autentico respiro. Le religioni potrebbero offrire una chance in più alla nostra ricerca di significato: la possibilità, appunto, di respirare liberamente e di vivere intensamente. Sarebbe bello che la missione delle religioni nelle società odierne, tutte fondate sull'organizzazione e sull'efficienza, fosse questa: ridare vita ai nostri aneliti profondi. Tuttavia, non è sempre così. Spesso la spiritualità cristiana non è fondata sulla scoperta e sulla valorizzazione dei nostri autentici desideri. E questa, senza dubbio, è una delle ragioni per cui uomini e donne del nostro tempo vanno alla ricerca di spiritualità alternative a quella cristiana o rinunciano completamente a una vita spirituale, abbandonandosi al materialismo e al consumismo: il cristianesimo è identificato ancora oggi come via alla rinuncia e alla mortificazione di sé.
Benoit Garceau definisce la spiritualità cristiana che normalmente era praticata e insegnata fino agli anni Settanta del secolo scorso una «spiritualità del dovere». I principi su cui si fondava questo tipo di spiritualità sono essenzialmente tre: 1) la sfiducia nei confronti dei nostri desideri, che sono numerosi e di vario tipo. Non sappiamo infatti dove ci condurrebbero e se ci fermassimo ad ascoltarli temiamo che ci porterebbero a perdere il controllo sulla nostra vita interiore. 2) Il principio della prevalenza dei valori oggettivi: ci sono valori oggettivi che si impongono all'individuo per cui «tu devi» essere giusto, buono, generoso, sobrio e così via. Obbedire a questi imperativi appare come l'unico modo di superare la paura e la diffidenza che l'agitarsi confuso dei desideri provoca nei livelli "inferiori" del nostro essere. 3) II principio dell'autorevolezza di persone che sono ritenute importanti nella nostra vita, come i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti: i valori oggettivi che devo perseguire sono, in definitiva, ciò che gli altri desiderano per me in vista del mio bene, sono le aspettative che gli altri hanno su di me. Al posto della fedeltà all'aspirazione profonda del mio essere, la spiritualità del dovere insegna a conformarmi alle aspettative degli altri. Costoro – genitori, insegnanti, sacerdoti – parlano infatti nel nome di Dio: quindi, secondo la spiritualità del dovere, sarei obbligato a rispondere ai desideri che Dio ha per me, senza prestare ascolto a quello che sento. Ma il salto è troppo grande. Rischia di lacerare qualcosa dentro di me, di lasciarmi privo di quel respiro vitale di cui il mio essere sente il bisogno.
Gli esiti di questo tipo di spiritualità ormai sono ben noti: induce a "colpevolizzare" i desideri che sono in me; a esaltare, al contrario, virtù come l'obbedienza (agli altri), l'umiltà, il sacrificio; a credere che il criterio della crescita spirituale si trovi nella rinuncia alla mia personalità e alle mie inclinazioni. La vita, presto o tardi, mi porterà a scoprire che questo tipo di spiritualità è sbagliato perché non corrisponde a quello che tutti profondamente cerchiamo. Abbiamo la possibilità di respirare liberamente e di vivere intensamente. Ma questo modello di spiritualità, fondato esclusivamente sui principi oggettivi e sul dovere di conformarvisi, non porta a una vita spirituale autentica e veramente libera.
La spiritualità del bisogno
A partire dagli anni Settanta, la spiritualità del dovere è stata sempre più criticata, contestata, abbandonata. La psicologia ha contribuito non poco a mettere in discussione scelte basate sul timore di deludere le aspettative degli altri e a sottolineare l'importanza di vivere in conformità con i propri desideri. D'altra parte, la società occidentale ha conosciuto una profonda trasformazione dei valori e dei modelli educativi tradizionali, a cominciare dalla rivolta giovanile del Sessantotto contro un'educazione fondata sul principio dell'autorità e del dovere. Anche i cristiani hanno cominciato a rifiutare una spiritualità imposta dall'esterno e si sono messi in cerca di esperienze spirituali nuove, nella speranza di poter soddisfare i propri bisogni interiori. È iniziata così una diaspora dei cristiani dal modello tradizionale della spiritualità ascetica verso forme di spiritualità nuove, alternative, diverse, un vagabondare inquieto e insoddisfatto, spesso senza una direzione precisa, di cui ancora non si vede la fine. Nel suo libro, Benoît Garceau raggruppa le diverse spiritualità che promettono di soddisfare le esigenze del soggetto nella macrocategoria della «spiritualità del bisogno». Anche questa spiritualità, benché si fondi sulle esigenze dell'individuo, non lo aiuta a scavare nel profondo di se stesso e a gettare luce nel mondo oscuro dei propri desideri. Spesso questo tipo di spiritualità considera la ricerca di libertà e di realizzazione spirituale allo stesso modo in cui il bisogno di gustare un buon cibo è soddisfatto in un ristorante: con un menù, con una carta di proposte più o meno rispondenti ai nostri bisogni. Ci abituiamo a comportarci nei confronti delle nostre esigenze spirituali come se fossimo davanti ad altri bisogni da soddisfare. Come il mercato ha trovato il modo più comodo per soddisfare tutti i bisogni materiali, allo stesso modo l'offerta religiosa può soddisfare tutti i bisogni spirituali mettendoci di fronte possibilità di scelta varie e abbondanti. Nasce così quella che i sociologi hanno definito la religione «fai da te»: sei tu che vai alla ricerca della religione o della spiritualità che fa al tuo caso, che più corrisponde ai tuoi bisogni e alle tue richieste del momento, riservandoti poi di cambiarla se non funziona o se ha deluso le tue speranze. Se hai bisogno di allontanare il timore della morte, sceglierai la dottrina della reincarnazione; se hai bisogno di aumentare il tuo ottimismo nei confronti della vita, potrai scegliere il new age, e così via.
Neppure la spiritualità del bisogno è una vera e propria spiritualità, per il semplice fatto che l'essere umano non è riconducibile a un insieme di bisogni da soddisfare. Molte forme di spiritualità che attraggono l'uomo contemporaneo ignorano completamente la differenza che esiste tra desideri e bisogni. Ciò che cerchiamo in una spiritualità autentica è che ci illumini sul desiderio profondo del nostro essere. La spiritualità del bisogno, invece, tende a confondere i desideri spirituali con i bisogni. Mentre un bisogno può essere soddisfatto, un desiderio per sua natura non lo sarà mai. Quello dell'uomo felice e soddisfatto può essere tutt'al più un mito che si riflette spesso nell'immagine pubblicitaria, ma è un mito illusorio: non corrisponde all'esperienza reale delle persone.
La spiritualità del bisogno è presente anche nella Chiesa cattolica: quanti sono, ad esempio, i cristiani che vanno alla ricerca di esperienze spirituali nuove, originali, diverse, in grado di rompere la monotonia della parrocchia e di far sentire qualcosa di speciale? Oppure i cristiani che saltano da un corso di esercizi spirituali all'altro, con una bramosia di consumo sfrenato e con il desiderio di trovare finalmente quello che soddisfa le proprie insaziabili esigenze? Più in generale, anche Dio è trattato spesso come Colui di cui abbiamo bisogno per stare bene, per ottenere serenità o successo, per giustificare decisioni che prendiamo nella sfera degli affari, della politica o della morale. Anche Dio è sottomesso ai nostri bisogni.
Per distinguersi dalla spiritualità del bisogno –tutta centrata sulle esigenze dell'individuo – una vera spiritualità del desiderio deve essere consapevole che esistono desideri che non si possono trattare come bisogni da soddisfare. Il bisogno, infatti, ci chiude nel nostro io, il desiderio ci fa uscire dall'io, è una fonte di auto-trascendenza. Il bisogno riconduce l'oggetto nell'orizzonte del soggetto (quindi assorbe l'altro, amplificando l'ego), il desiderio ci porta invece all'incontro con l'oggetto, con l'altro, che diviene importante per la nostra vita, senza però essere esaurito in essa.
L'enigma del desiderio
Filosofi, psicologi e pedagogisti sono d'accordo nel considerare il desiderio come il centro dinamico della vita psichica. Una spiritualità che non tenga conto della realtà del desiderio rischia di dividere l'uomo a metà, di tagliare per sempre le ali che gli consentono di prendere il volo.
L'uomo – come diceva sant'Agostino – è un essere desiderante. I filosofi hanno dedicato numerose riflessioni al desiderio, mettendo in evidenza la polarità entro cui il desiderio nasce e si sviluppa. Il desiderio nasce dalla mancanza di un bene che si considera importante per sé. Il polo positivo è la speranza di raggiungere il bene, l'oggetto o la persona sentiti come necessari. Il polo negativo è il sentimento della loro mancanza. Entro questa polarità, tutte le energie psichiche sono coinvolte e mobilitate nella ricerca di quel bene. Platone ha descritto questa tensione nel racconto della nascita di Eros (amore, desiderio), il demone figlio di Poros – dio della ricchezza – e di Penia – una povera mortale. Ogni desiderio si manifesta infatti come povero, perché privo del bene cui aspira e, al tempo stesso, ricco della speranza di possederlo. Ecco perché colui che desidera oscilla tra stati d'animo contraddittori, si sente felice e infelice, allegro e triste, soddisfatto e insoddisfatto. Spinoza riassumeva la natura complessa del desiderio in una semplice definizione: il desiderio è «la tristezza che riguarda la mancanza della cosa che amiamo». Il possesso segna allora la fine del desiderio: una volta che l'oggetto amato è stato raggiunto, la tensione entro cui si muove l'atto del desiderare è risolta e il dinamismo si ferma. Proust era convinto che non fosse possibile amare una bella donna per tutta la vita, per la semplice ragione che, una volta posseduta, smettiamo di desiderarla.
Il desiderio, quindi, ha come causa la sofferenza di non possedere il bene desiderato. Ma una volta che questo bene è stato ottenuto, il desiderio muore. La tensione sí spenge e al suo posto subentrano abitudine e noia, fino a quando non nasce un altro desiderio. Alcuni filosofi – come Arthur Schopenhauer – sostengono che bisogna imparare a liberarci dalla schiavitù del desiderio di possesso, altrimenti soffriremo inutilmente per tutta la vita e procureremo enormi sofferenze anche agli altri esseri viventi. Altri – come gli stoici – hanno ritenuto opportuno distinguere i desideri realizzabili da quelli che non si possono realizzare, dicendo che sono i secondi a renderci infelici e insegnandoci quindi a farne a meno. Pochi, in realtà, sono andati oltre una descrizione, seppur veritiera, della fenomenologia del desiderio, dedicandosi a un'analisi più approfondita della sua natura misteriosamente sfuggente e contraddittoria.
In effetti, la natura del desiderio è contraddittoria, ma di questa contraddittorietà si possono dare diverse interpretazioni. La tradizione cattolica, fin da sant'Agostino, ricava dal desiderio numerose indicazioni sulla natura dell'uomo e sul fine per cui è stato creato. Il desiderio spera di essere appagato dal possesso di un bene finito, ma appena lo possiede si accorge che non lo appaga abbastanza. L'uomo si scopre così come un essere che ama beni finiti, i quali però non appagano il suo desiderio, che è infinito. Tra il desiderio, che si scopre infinito, e i beni a cui si rivolge, ma che sono finiti, esiste uno scarto insuperabile. Questo fenomeno ci dice qualcosa di importante sulla dinamica profonda del nostro essere: benché segnati da un limite esistenziale insuperabile (non possiamo ottenere ciò che desideriamo), il desiderio ci segnala con evidenza che nella nostra natura c'è qualcosa che spinge verso la trascendenza. E desiderio porta, infatti, al superamento di sé e quindi all'apertura verso l'altro. Il bene desiderato è ritenuto come significativo sia per se stesso sia per la propria persona, perciò lo desideriamo. Il desiderio porta a identificare il proprio compimento esistenziale nell'unione con il bene desiderato, in una fusione felice in cui l'oggetto desiderato e il soggetto desiderante, verità oggettiva e libertà soggettiva, si comprendono l'uno nell'altro, totalmente. Desiderare significa quindi auto-trascendersi, indipendentemente da quale sia l'oggetto del nostro desiderio. Da qui nasce la convinzione, propria della fede cristiana, che tutto ciò non sia casuale, ma che sia stato Dio a mettere nel cuore dell'uomo un desiderio insaziabile di bene, di felicità e di bellezza che può essere colmato solo attraverso la comunione con Lui.
Risvegliare il desiderio in noi
Educare al desiderio diventa, così, un compito fondamentale per la vita spirituale. Riprendiamo dal bel libro di Benoit Garceau alcuni spunti che ci sembrano importanti per incrementare un'autentica spiritualità del desiderio. Il primo luogo, il desiderio è connesso sempre alla facoltà di prendere decisioni, al coraggio di scegliere, di decidersi per qualcosa. Quando si desidera, ci si decide per la persona o la cosa desiderata. Anche nella vita spirituale non basta la sola volontà per decidere, ma la decisione è sempre frutto del desiderare. Decidersi per Dio deve combaciare quindi con il desiderio profondo di Dio. Altrimenti, come spesso accade, si rischia lo sterile volontarismo. In secondo luogo, il desiderio richiede una grande capacità di rinuncia: rinuncia a tutto ciò che abbasserebbe il livello dei nostri obiettivi, dei nostri ideali. Tra il desiderare e l'ottenere c'è sempre un periodo di attesa. Bisogna quindi saper coltivare l'attesa, saperla valorizzare come un periodo in cui possiamo approfondire e chiarire quello che desideriamo. Il periodo dell'attesa, sempre più accorciato nella cultura del «tutto e subito», è invece fondamentale per conoscere e accrescere il nostro desiderio. «Dio mette da parte ciò che non vuole darti subito – ricordava sant'Agostino – affinché tu impari a desiderare grandemente cose grandi» (Discorsi, 61).
Infine, non è la volontà, ma il desiderio che attiva tutto il nostro sistema psichico: il desiderio proietta verso il nuovo, verso il futuro, rende creativi, capaci di immaginare la vita come potrebbe essere se riusciamo a realizzare un ideale, uno scopo, un progetto. Scelta e desiderio devono stare sempre uniti. Ciò che non attrae non può diventare mèta stabile di una vita.
Il desiderio, in fondo, porta calore, contenuto, immaginazione, gioco puerile, freschezza e ricchezza a tutta la nostra vita. La volontà offre la direzione concreta, dona al desiderio la sua maturità. Essa sorveglia il desiderio, gli permette di maturare senza correre rischi eccessivi. Ma, senza desiderio, la volontà perde la sua linfa vitale, la sua spontaneità. Il valore e la qualità di un individuo, a ben vedere, non dipendono da ciò che egli è visibilmente, ma da ciò che desidera essere. Occorre reagire quindi alla «caduta del desiderio», questo fenomeno paradossale che minaccia le società libertarie, consumistiche, permissive e che è la conseguenza di come i desideri sono trattati nella maniera sbagliata: come bisogni che devono essere soddisfatti. Questo porta velocemente alla nevrosi da insoddisfazione, alla noia e all'apatia. Bisogna invece scoprire il desiderio fondamentale della vita umana, il desiderio di amare e di essere amati, di comunione con gli altri e con Dio. Questo desiderio che abita nel profondo di ogni uomo non lo può risvegliare semplicemente un'indagine psicologica né una riflessione o un percorso di introspezione. Lo può risvegliare soltanto lo Spirito di Dio. Perché, ricordiamolo, la vera spiritualità cristiana è vita nello Spirito santo, colui che risveglia in noi il desiderio di Dio. E lo Spirito da chi è stato donato ai cristiani se non da Gesù Cristo? «Vedo allora in Gesù – scrive ancora Garceau – il "Maestro del desiderio", la cui prima preoccupazione nel rapporto con i discepoli è di destare in essi il loro desiderio profondo. Egli è stato per il desiderio ciò che Socrate ha rappresentato per il pensiero: entrambi hanno compiuto un'opera di risveglio».
Graziato
Alessandro D’Avenia
La misura della felicità è la gratitudine. Alla fine di ogni giorno, anche il più difficile, cerco di scegliere qualcosa per cui ringraziare e alla fine di ogni settimana scrivo su un foglio quale è stato il dono più bello, così da avere alla fine dell’anno un «salvadonaio» di una cinquantina di «presenti» che hanno reso unico l’anno «passato». Volevo partire da qui per «riprendere» la rubrica dopo la pausa estiva. La «ripresa» è ben diversa dalla «ripetizione»: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport... vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. Diverso è «riprendere»: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima... Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti «ripetente» è sinonimo di bocciato e «mi sono ripreso» di salute: facciamo una «ripresa» quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia «ripetuto» ma «ripreso»?
Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. Atena interviene sovente per versare su Ulisse la charis, grazia, che lo rende bello e luminoso come un dio (ne rimane traccia nel nostro «carisma»). La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive. Ricordo le parole di una cugina pochi mesi prima di morire, non la vedevo da tempo e, dopo averle raccontato del periodo difficile che attraversavo, lei, con gli occhi di chi vede oltre le apparenze, mi ha detto: «Sei ammaccato, è vero, ma sei molto più bello». Avevo grazia. La grazia quindi non riguarda solo ciò che è piacevole, il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. Per me è stata una grazia scoprire la mia chiamata a insegnare da giovanissimo ma lo è stata anche grazie all’insufficienza nella mia prima interrogazione in greco, che è così diventato la mia passione. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. Nel racconto evangelico, quando Maria riceve l’annuncio, il messaggero divino la chiama «piena di grazia», ma trattandosi di un verbo si potrebbe tradurlo anche «fatta di grazia, riempita di dono». La radice è sempre quella dell’omerico charis. Ne rimane traccia nel nostro «graziato» per chi scampa la morte o in «grazioso», versione per lo più meridionale forse più sopportabile di «carino». In italiano restano poche tracce della potenza salvifica e quotidiana di questo termine, e i «colpi di grazia» non danno la vita ma la morte. La grazia è invece la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. A Maria veniva annunciata la possibilità di rimanere incinta in modo misterioso e quindi di essere considerata da tutti un’adultera. Sembra paradossale ma quella grazia, essere la madre di Dio, avrebbe comportato un’onta allora meritevole di lapidazione. Per questo non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire. Nel recente film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella. L’aragosta quando deve crescere si nasconde, si spoglia della scorza rigida, rimane in carne viva fino a che non si forma una nuova corazza. È un momento di paura, nudità, dolore, ma necessario alla sua vitalità. Il giorno del mio matrimonio un’amica mi ha chiesto di riassumere in una sola parola il mio stato: «Graziato». Stavo ricevendo un dono inatteso, il dono dell’amore che mi ha raggiunto proprio quando mi sentivo a pezzi. Vorrei allora che questo primo ultimo banco dell’anno, sia una vera ripresa e vi invogliasse a fermare, magari su carta, la grazia che riceverete oggi, domani, dopodomani... fosse anche ruvida o piccolissima, perché in ogni grazia si nasconde una via di salvezza, di compimento, di gioia. Per riconoscere una grazia bisogna chiedersi se ci porta a diventare più veri, belli e compiuti. E magari queste righe, per chi è arrivato fin qui, saranno per due o tre la piccola grazia odierna. Io vorrei imparare a tenere gli occhi sempre ben aperti per saper ricevere le mie grazie quotidiane, come afferma senza mezzi termini Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo, Il passeggero: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta».
La forza della gratitudine
Massimo Recalcati
Si può accogliere ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. Occorre essere grati nei confronti delle generazioni precedenti e di ciò che abbiamo vissuto.
Il passato è una catena che impedisce la nostra libertà? E una maledizione che impone la ripetizione inesorabile dello stesso trauma? Non a caso Nietzsche lo definiva come «il peso più grande».
Quello che abbiamo vissuto si deposita alle nostre spalle accorciando e condizionando impietosamente il tempo della nostra vita. Siamo tutti figli del «potere di ieri», come direbbe Jung.
Nessuno può più agire su ciò che è già stato ma solo subirlo.
Ma le cose stanno davvero così? Sappiamo bene che esiste un passato che non possiamo dimenticare. È un insegnamento della clinica psicoanalitica: la nostra memoria – come la nostra stessa vita – resta appesa ai traumi che l’hanno marchiata in modo indelebile. Si tratta di un passato che non può essere ordinato in un archivio, catalogato in un album o in un cimitero dei ricordi, ma che ritorna in modo spettrale imponendo alla nostra vita la sua ripetizione. In questo senso non siamo noi che decidiamo di ricordare il passato ma è il passato che si impone sulla nostra decisione di ricordare. È un fatto di esperienza: non riusciamo mai a ricordare come vorremmo quello che è stato e non riusciamo a non ricordare quello che dal passato vorremmo dimenticare. Questo significa che c’è qualcosa di sempre vivo nel nostro passato. La memoria non può essere né l’archivio, né l’album, né il cimitero dei ricordi. Piuttosto, come Freud ha mostrato bene, siamo inseguiti, tormentati, placcati dal nostro passato più traumatico: quello che è già stato insiste nel ripetersi, non cessa di rincorrerci e di condizionare la nostra vita.
Accade in modo eclatante nel film Il cacciatore di Cimino, dove uno dei protagonisti non può non continuare a ripetere nel corso della sua vita il trauma della roulette russa alla quale era stato sottoposto durante la guerra del Viet Nam, quando era caduto prigioniero dei Viet Cong. In questo caso, come nei disturbi che il DSM classifica come post-traumatici, il passato ritorna spettralmente imprigionando la vita in un “eterno ritorno dell’eguale”. Anche la depressione scaturisce da un legame tossico con il passato. Per il depresso tutto è già avvenuto, tutto si è già consumato, tutto è già stato e l’avvenire non può che essere solo cenere. Per questa ragione la sua inclinazione è sempre quella di rimpiangere ciò che è stato e non è più: la vigoria del proprio corpo, gli entusiasmi dei primi amori, una carriera professionale luminosa, un’infanzia felice… Il rimpianto è, infatti, un modo per entrare in rapporto col passato che mentre lo idealizza, lo rende per questa ragione insuperabile. Se tutto ciò che brilla è perduto, se è sprofondato nel buio di un passato irrecuperabile, se la mia vita si perde insieme a ciò che ha perduto, allora non abbiamo più futuro perché anche il futuro viene risucchiato all’indietro, trascinato verso il passato.
Ma il rimpianto non è la sola possibilità che noi abbiamo di entrare in rapporto col passato. Il grande insegnamento della psicoanalisi, che su questo punto eredita la riflessione di Nietzsche sul tempo storico, consiste nel mostrare che è solo la nostra lettura attuale del passato a definirne il senso. In questo modo noi abbiamo sempre la possibilità di dare una significazione inedita a ciò che è già avvenuto. La concezione lineare e causale del tempo si modifica profondamente: non è più il “prima” che determina inesorabilmente il “dopo”, ma esattamente il contrario. È il “dopo”, quello che deve ancora venire, che determinata quello che è già stato.
Sembra un pensiero contro intuitivo ma è, in realtà, un pensiero che anche gli storici conoscono bene. È solo lo sviluppo successivo dei fatti che ha potuto, per esempio, tradurre la presa della Bastiglia in un evento che noi possiamo riconoscere come epocale e non in una sommossa qualunque. Lo stesso si deve dire anche per il trauma incalcolabile della Shoah. Siamo noi a custodire oggi la realtà di quell’evento.
E questo si realizza solo se nel tempo presente quel trauma continua a esistere e ad insegnare. Non si tratta, dunque, di ricordarsi di ciò che è avvenuto ma di riscrivere la storia facendo esistere oggi il senso di ciò che è stato.
È lo stesso che accade in una esperienza analitica: il paziente non si limita a ricordare il proprio passato, ma ne ricostruisce il senso in modo assolutamente inedito. È quello che intendeva Nietzsche quando affermava che è necessario «darsi a posteriori il proprio passato». La rimemorazione non consiste nella semplice riproduzione di quello che è già avvenuto, ma nella ricostruzione inedita della propria storia. Il rimpianto non è dunque il solo modo di entrare in relazione con il nostro passato. Ad esso dovremmo contrapporre la gratitudine.
Diversamente dal rimpianto, essa accoglie ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. In questo senso, nella gratitudine il passato non è mai del tutto morto. Non appare come un peso al collo che trascina la vita verso il basso, ma come una nuova linfa: luogo di un insegnamento, di una verità, di un evento ancora vivo. Essere grati nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduti e nei confronti di tutto quello che abbiamo vissuto (il bene e il male, il buono e il cattivo incontro, la gioia e il dolore), significa non lasciarsi inghiottire dal passato, non cedere alla tentazione della nostalgia come rimpianto, ma riscattarlo, redimerlo proprio in quanto esso continua a riscriversi attraverso la nostra vita attuale e futura. È solo nella gratitudine che la memoria resta davvero viva.
Custodire, sostenere ed educare insieme alla speranza
Gustavo Cavagnari
Una persona ha bisogno, nel succedersi dei giorni, di piccole o grandi speranze: essere corrisposto nell’amore, ricevere un riconoscimento professionale, aver successo in una impresa, guarire da una malattia, risolvere positivamente una crisi. Queste aspirazioni alla felicità, questi desideri di crescita, queste attese di miglioramento sono dei “motori” che spingono la vita, la tengono in cammino, la muovono in avanti. Ogni volta che noi spendiamo energie nel lavoro, attiviamo il pensiero nello studio o coinvolgiamo gli affetti in una relazione, mettiamo in campo delle dosi di speranza che sono in grado di mobilitare la nostra routine, giustificare i nostri impegni, portarci a fare dei gesti anche eroici.
Conoscere, serbare e diffondere la grande speranza
All’opposto, chi non spera più niente si rassegna a sopravvivere o, peggio, si lascia spegnere. Ne sono figura evangelica quei due discepoli che dicono col volto triste: «Noi speravamo» (Lc 24,21). La “disperanza”, infatti, diversa dalla disperazione spirituale, è lo stato d’animo di chi chiude gli occhi al futuro per non rischiare che possa andare peggio e vive il presente immerso nel proprio mondo, riducendo il pensiero a impulso e andando avanti in “riserva” nel serbatoio della vitalità.[1] Sfortunatamente, l’inevitabilità dell’invecchiare, l’irruzione di eventi inaspettati, la sofferenza, gli affetti feriti, la stanchezza a causa delle prove, gli inganni sofferti, l’avvicendarsi di fallimenti, la disillusione per la perdita di credibilità delle figure di riferimento… possono portare a che molti facciano i conti con se stessi, verifichino quanto la propria speranza sia corta e povera, vivano nella paura di non ritrovare le forze e alla fine accettino la sensazione di morire quotidianamente in modo “liscio”, senza intoppi e senza sorprese. L’animo non mitigato da nessuna speranza, appunto, uccide lentamente.[2]
Se da una parte può capitare che le nostre aspettative non si compiano, e ci causino frustrazione, delusione, amarezza, sconforto, dall’altra può anche capitare che siano soddisfatte, e ci rechino quindi felicità e compiacimento. Pur tuttavia, neppure in questi casi siamo certi di poter possedere per sempre quanto ottenuto. Inoltre, sappiamo che quando una speranza è soddisfatta, subito ne sorge un’altra. Di fatto, sempre si spera qualcosa in più.[3] Per i cristiani, l’unica speranza che, soddisfatta, non avrà bisogno di anelare qualcosa altro, è quella soprannaturale. Essa spera appunto la vita eterna, promessa da Dio a coloro che lo amano (cf. Rm 8,28-30) e fanno la sua volontà (cf. Mt 7,21). Se la fede teologale ci fa credere quaggiù in Colui che attendiamo di vedere lassù «faccia a faccia» (1Cor 13,12) «come egli è» (1Gv 3,2), la speranza teologale ci fa pellegrinare con pazienza e perseveranza verso l’incontro con Lui con la fiducia di arrivarci (cf. 2Tm 2,5; Gc 1,12; 1Pt 5,4). Allora, la nostra vita (cf. Gv 10,10), la nostra gioia (cf. Gv 15,11), la nostra maturità (cf. Ef. 4,13), la nostra conoscenza (cf. Col 3,10), la nostra ricompensa (cf. 2 Gv 8)… saranno piene, e questo non ci sarà tolto (cf. Lc 10,42). Che cos’altro continuare a cercare (Sal 24,7)? Perché poggia appunto sulle promesse di Cristo (cf. Eb 10,23) anziché sulle nostre forze, questa speranza, infusa e custodita dallo Spirito Santo, «non delude» (Rm 5,5).
Siccome il suo essere ignota è la causa di tutte le disperazioni,[4] oggi è prioritario e decisivo tenere desta la preoccupazione per conoscere, custodire e diffondere la specificità della speranza cristiana;[5] in altre parole, accogliere con gratitudine, conservare con fedeltà e vivere nell’umiltà la novità unica e universale che viene dalla morte e risurrezione di Gesù e dagli orizzonti che esse aprono.[6] Senza la certezza di questo solido e positivo significato ultimo, è quasi impossibile avere una speranza robusta. Senza la certezza che tutto è intrecciato di solidi e originari significati, la persona è costretta a ridurre la speranza a qualcosa di precario, di discontinuo, di provvisorio. In un tempo dominato dai beni immediati e concentrato sulle briciole, i cristiani devono perciò interrogarsi sulla forza della «speranza viva» che portano con sé (1Pt 1,3). Ma loro, credono ancora che c’è un compimento trascendente per la vita delle persone e il futuro del mondo?[7]
Rinforzare, purificare e decifrare nel concreto le molte nostre speranze
In un certo senso, la speranza soprannaturale assume tutte le speranze naturali che ispirano le attività degli uomini. Inoltre, le dilata in prospettiva di eternità, le preserva della corruzione, le purifica per ordinarle al regno dei cieli e, di sicuro, le trascende.[8] Non le cancella, però; si innesta in esse e le assesta. Tra l’altro, sarebbe impossibile rimuoverle. Malgrado tutta la loro fragilità e fugacità,[9] nelle nostre decisioni e azioni noi continuiamo a investire in queste speranze feriali, finite, immanenti. Non solo noi individualmente, ma anche socialmente. Infatti,
la singola persona vive dentro ad una rete di rapporti che è la comunità. Le speranze degli individui si travasano nella comunità e le speranze che sostengono una comunità influenzano gli individui. Esiste un’osmosi della speranza tra singoli e società. Per questo si parla anche di speranza sociale, intendendo la passione con cui una comunità “getta avanti” a sé lo sguardo, si dà degli obiettivi, si muove su orizzonti di futuro. Il termometro della speranza sociale è dunque la progettualità: là dove prevalgono lamento, nostalgia e rimpianto del passato, il grado di speranza sociale è basso; è alto, al contrario, là dove si diffondono spirito d’iniziativa, capacità di sognare e fiducia nel futuro.[10]
Spirito di iniziativa
Le voci che accusano la speranza cristiana di protendere verso un domani disertando da un vero impegno nel presente, rivelano solo la loro erronea comprensione.[11] Infatti, la speranza, anziché fuga in avanti, è forza fecondante e lievitante della cura del presente, della donazione nel servizio, del farsi carico dell’altro, del coltivare le condizioni che fanno la vita vivibile e feconda. Cercare la dimora futura (cf. Eb 11,13-16; Fil 3,20) è tutt’altro che un semplice rinviare a dopo: chi ha speranza evangelica abita, plasma e trasforma l’esistenza quotidiana. La società nuova, infatti, viene in qualche modo iniziata nella società presente.[12] «La Chiesa insegna che la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell’attuazione di essi».[13]
Sotto il profilo della pratica, la speranza cristiana si snoda attraverso tre fasi: leggere e interpretare i segni di speranza presenti nel mondo, offrire orizzonti di senso che aprano alla speranza e impegnarsi in atteggiamenti e comportamenti concreti che sostengano la speranza.[14]
In primo luogo, chi ha speranza cristiana vede e gode del numero incalcolabile di semi, germi e frutti concreti di speranza che sono in atto nei più diversi ambiti e soggetti, e anche nelle realtà e nelle vicende più disagiate e sofferte della vita ordinaria. Le speranze degli uomini d’oggi, soprattutto di tutti coloro che soffrono, sono pure le speranze dei discepoli di Cristo, proclamava il Vaticano II.[15] Li vede nei tanti uomini e donne che, «nella vita e nelle attività d’ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi – certo per la potenza della grazia di Dio – della crescita del regno di Dio nella storia».[16] Li ravvisa nei santi «della porta accanto» che vanno avanti con pazienza e «lottando con speranza».[17] Soprattutto in questi tempi di pandemia, li scorge in coloro che, invece di «fuggire con la speranza di salvare se stessi», rimangono e si impegnano «con sforzo e sacrificio» affinché la situazione sia meno amara.[18]
Umanamente parlando, la speranza non è un oggetto che si possiede e può essere dato. È piuttosto un esercizio che ciascuno deve fare a partire dalla scoperta di orizzonti che lo tengano in tensione, nonostante il rischio di illusioni o inganni. Eppure, c’è bisogno di testimoni che possano in qualche modo indicare una direzione, mostrare delle certezze, lasciare trasparire la presenza di Chi è la propria speranza (cf. 1Tim 1,1) e rafforzare il senso di abbandono nella sua provvidenza.[19] Chi ha speranza cristiana condivide perciò quelle ragioni di vita che lo muovono e l’orientano e che magari possono aprire in altri delle brecce in cui lo Spirito semini una più ferma speranza.[20]
Infine, chi ha speranza cristiana si impegna in gesti e condotte concrete. Da quanto detto prima, ne viene fuori che il primo modo di rinsaldare la speranza è stare accanto. Il racconto dei “disperati di Emmaus” ci insegna che per ripartire «senza indugio» (Lc 24,33), i due discepoli hanno dovuto riconoscere in una luce nuova (cf. Lc 24,31) quello che prima sapevano materialmente, senza capirne il senso (cf. Lc 24,25); e che per ricomprendere in modo nuovo il significato di quanto accaduto, essi hanno anche avuto bisogno di un viandante che restasse con loro, gli offrisse un nuovo orizzonte d’interpretazione, convertisse la loro mente, la guarisse dalla delusione e riscaldasse il loro cuore ferito. Specialmente nella disperazione che viene dalla solitudine – fisica, sociale, affettiva ma anche spirituale – o dalla sofferenza e dallo smarrimento che essa provoca, l’essere-con potrà essere vissuto come con-solazione[21] e, quindi, come presenza che rimane, accoglienza che cura, vicinanza che consola, relazione che riannoda i frammenti, affetto che riconnette.[22] In situazioni di confusione, di disagio, di abbandono… il desiderio di esserci chiede la scelta di investire sulle relazioni come modo concreto per sostenere la speranza oltre i bisogni materiali.
Colpisce che nell’Apocalisse l’immagine per esprimere il modo concreto di farsi prossimo a chi è nella sofferenza sia l’asciugare le lacrime dagli occhi di chi piange. È con questa pratica che si può creare e suscitare una concreta speranza. È di fronte al disperato che si deve misurare l’autenticità della nostra speranza e la nostra capacità di creare speranza. Senza questo banco di prova, il rimando alla speranza rischia di essere solo retorica.[23]
Ma non basta. Attuare la speranza comporta la responsabilità di farsi carico di situazioni concrete e impegnarsi per renderle sempre più conformi al disegno di Dio. «Dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri».[24] A partire dell’essere presente e del saper accogliere, insegnare all’ignorante, curare il malato, soccorrere il povero, ospitare l’abbandonato, visitare a chi è solo o proteggere l’anziano possono essere dei grembi in cui la speranza può nascere. In questo senso, la carità verifica la speranza che la fede genera. I fatti, benché possano partire da realtà spicciole, sono capaci di traforare l’assenza di speranza e, inoltre, di provocare attenzione, di generare altre azioni, di moltiplicare cambiamenti.
Ancora di più. Se la speranza cristiana si esercita attivamente mediante la carità e l’attenzione al prossimo, essa si esercita anche passivamente mediante la pazienza e la resistenza. La pazienza perché, se il credente è certo che Dio realizza le sue promesse e che il suo regno è già attuante in mezzo a noi (cf. Lc 17,21), egli sa anche di vivere nel non ancora, e quindi rifiuta la tentazione presuntuosa di trovare sicurezza in possessi che non si sa quando gli saranno tolti (cf. Lc 12,20). La resistenza perché viviamo in un contesto che sopprime la speranza, molte volte la interrompe sul nascere e non si fa eco delle cose positive. Di solito, ciò che una persona sogna e progetta in avanti viene rapidamente contrastato o messo in discussione, quasi sempre al ribasso. Si pensi ai giovani e a quel discorso cinico per cui devono sedersi piuttosto che sognare. Si pensi a chi intraprende un compito con novità e freschezza e a tutti i gradini che deve salire per raggiungere il suo scopo. Si pensi a quelli che cercano di generare entusiasmo alla vita e sono schiaffeggiati dal “è quello che c’è” o “che si può fare?” delle persone comode.[25]
Capacità di sognare
Sognare non è fantasticare, divagare, vaneggiare, come neppure i sogni sono miraggi, deliri, allucinazioni, chimere. Partendo dalla realtà, chi sogna proietta il presente verso un traguardo perfettivo, raffigura altri stili di vita, immagina comunità alternative… e opera un’invenzione di senso che dia una vivibilità diversa al presente. Chi, perciò, spera ragionevolmente nel compimento del traguardo desiderato, non costruisce tanto a partire da che cosa vede nel presente, ma agisce invece a partire da come vede il presente alla luce del futuro prospettato. In questo senso, direbbe il Papa, sognare ci permette di tenere lo sguardo largo, ci porta verso un orizzonte, ci suggerisce un cammino che ci permetta di abbracciarlo, ci porta in là, coltiva la nostra speranza in ogni azione quotidiana. Certo, «i sogni vanno fatti crescere, vanno purificati, messi alla prova e vanno anche condivisi».[26] E poi vanno concretizzati. Il lavoro e la responsabilità di chi sogna è infatti trasformare oggi in realtà quanto si intravede per un domani. Da una parte, per questo ci vuole coraggio davanti alle resistenze, costanza nelle difficoltà, resilienza nelle cadute; dall’altra, apertura, fiducia, affidamento a delle persone significative in grado di aiutare a comprendere i sogni e a renderli concreti nella gradualità e nella serenità. È proprio a partire dalla capacità non solo di sognare, ma di scegliere, di attuare, di perseverare, di rischiare e di coinvolgere che si plasma la differenza tra un idealista e un operatore.
Chi ha speranza cristiana discerne infine da dove prendono ispirazione i propri sogni, la loro qualità e grandezza, la loro fecondità; anzi, pensa come articolare i propri sogni con i “sogni di Dio” per ciascuno e per tutti e, quindi, come impegnarsi per un’umanità più fraterna.[27] Da questa prospettiva, la speranza cristiana, grazie alla novità dei contenuti della fede – una concezione della persona, dell’inizio e termine della vita, della indole delle relazioni interpersonali e sociali, dell’educazione e la trasmissione dei valori, della carità e sollecitudine verso l’altro, dei modi della cittadinanza e della legalità, delle figure della convivenza tra le religioni e le culture – e, in concreto, grazie all’esperienza di Dio e dell’uomo che essa genera e alimenta, possiede un eccezionale potere di ridefinire gli orizzonti, di trasformare la visione, di qualificare i passi.
Fiducia nel futuro
Parlare di fiducia nel futuro può sembrare cosa da ingenui buonisti o, come minimo, da poco realisti, con la crisi demografica, economica o sanitaria che stiamo attraversando. Eppure, è una condizione perché ciascuno possa vivere il presente esercitando le proprie responsabilità in maniera feconda e dispiegando i doni e i talenti che scopre dentro di sé.[28] Ancora una volta, però, quello che ci fa sperare nel futuro non è il futuro in sé – che può essere persino utopico o distopico, a seconda di chi lo pensa –, ma il presente, dal quale si può costruire un futuro eutopico. La fiducia nel futuro è fortemente legata alla fiducia nel presente, dunque. Ci sono ad esempio tanti processi di disgregazione sociale, ma ci sono anche tante risorse che sono messe in campo come anticorpi per opporsi alle derive peggiori; ci sono tante minacce ambientali, ma ci sono anche tante energie che si muovono nella consapevolezza che il problema è grave e va affrontato; ci sono tante situazioni disastrate per diversi motivi, ma ci sono anche in tanti a rimboccarsi le maniche per ricostruire. In questo senso, si dice che qualcosa avrà futuro “se” si compiono certe condizioni; ma questo “se”, in tanto assunto e attuato nel presente, è proprio quello ci fa sperare che le cose possano essere diverse.
Per chi ha speranza cristiana, ci sono ulteriori e più fondati motivi per avere fiducia nel futuro. Esso appartiene a Dio, nel senso che Lui solo lo conosce, lo prepara e lo realizza. Egli certo richiede e sollecita la cooperazione umana, ma non cessa per questo di essere il trascendente regista della storia. […] Solo Dio conosce come sarà il futuro. Noi sappiamo, però, che in ogni caso esso sarà un futuro di grazia, sarà il compimento di un disegno divino di amore per tutta l’umanità e per ciascuno di noi.[29]
Educare da, con, in e alla speranza
Per finire. Si parla dell’educazione come di un atto di speranza. Inoltre, di educare dalla speranza, con speranza, nella speranza.[30] Che cosa significa educare oggi alla speranza? È educare: a scovare dentro i luoghi del vivere quotidiano tutti i segni di senso e di futuro, ad apprezzare e ringraziare i piccoli gesti; ad abbandonare i pensieri pessimisti, amari, oscuri, disfattisti, ma anche quelli ingenuamente ottimisti, naïf, idilliaci, illusori; a reagire con resilienza, non rimanendo mai per terra, ma alzandosi, mettendosi in cammino, lasciandosi aiutare; a sostenere gli altri, accompagnando a maturare, aiutando a vivere in profondità specialmente le esperienze difficili; a conoscere i propri limiti ed essere pazienti con essi; a frequentare le persone che custodiscono nel loro cuore lo stupore; a coltivare ideali che permettano di vivere per qualcosa che supera la propria immediatezza; a sognare un mondo che ancora non si vede, ma che arriverà se si costruisce nel presente, nonostante le incertezze; a maturare scelte libere e consapevoli che, facendo memoria del passato, portino a prendersi cura del presente e lo proiettino verso il domani; a pensare nuove strade adeguate al nuovo contesto in cui ci si muove oggi; a cercare insieme per trovare soluzioni; ad avviare processi di trasformazione; a fidarsi di Dio, riconsegnando tutto a Lui nella preghiera e credendo all’esistenza di una creazione che si estende fino al suo compimento definitivo.[31]
NOTE
[1] Cf. G. Cavalli, Disperanza, Roma: Fandango 2020.
[2] Cf. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Critica della Ragion Pratica, a cura di P. Chiodi, Torino: UTET 2013, Parte Prima, Libro III, §76.
[3] Cf. Benedetto XVI, Spe salvi. Lettera enciclica sulla speranza cristiana (30 novembre 2007), nn. 30-31, in «AAS» 99 (2007) 12, 985-1027.
[4] Cf. Benedetto XVI, Spe salvi, n. 12.
[5] Cf. Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000 (29 giugno 2001), Milano: Paoline 2001, n. 2.
[6] Cf. D. Tettamanzi, Il dono di testimoni umili e coraggiosi. Prolusione al IV Convegno Ecclesiale Nazionale (16 ottobre 2006), in “Il Regno-Documenti” 51 (2006), 602-609, qui 603.
[7] Cf. F. Mosconi – Salvatore Natoli, Sperare oggi, Bologna: EDB 2021, 76.
[8] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano: LEV 1992, n. 1818.
[9] Cf. V. Melchiorre, Sulla speranza, Brescia: Morcelliana 2000, 7.
[10] E. Castellucci, Seminatori di speranza. Messaggio alla città per la solennità di San Geminiano (31 gennaio 2019).
[11] Cf. Concilio Vaticano II, Gaudium et spes. Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (7 dicembre 1965), n. 20, in «AAS» 58 (1966) 15, 1025-1120.
[12] Cf. Benedetto XVI, Spe salvi, n. 5.
[13] Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 21.
[14] Cf. Tettamanzi, Il dono di testimoni umili e coraggiosi, 607.
[15] Cf. Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 1.
[16] Giovanni Paolo II, Christifideles laici. Esortazione apostolica post-sinodale sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo (30 dicembre 1988), n. 17, in «AAS» 81 (1989) 4, 393-521.
[17] Francesco, Gaudete et exsultate. Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018), nn. 7, 154, in «AAS» 110 (2018) 8, 1111-1161.
[18] Francesco, Un piano per risorgere (17 aprile 2020), in «L’Osservatore Romano» CLX/48412 (2020) 88, 10.
[19] Cf. L. Sandrin, Prendersi cura della speranza, in C. Palazzini (ed.), Le relazioni che curano, Città del Vaticano: LUP, 2013, 13-34.
[20] Cf. Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, nn. 21, 31, 93.
[21] Cf. Benedetto XVI, Spe salvi, n. 38.
[22] Cf. J. Goopman, Anatomia della speranza. Come reagire davanti alla malattia, Milano: V&P 2006.
[23] L. Manicardi, La comune responsabilità per l’umano. Riflessione proposta in occasione di una giornata formativa rivolta ad alcuni operatori della Caritas Ambrosiana (26 febbraio 2008).
[24] Benedetto XVI, Spe salvi, n. 35.
[25] Cf. J. Juan, Los contrarios a la esperanza, in «Newsletter RPJ».
[26] FrancEsco, Sognate in grande. Dialogo durante la Veglia di preghiera con i giovani italiani (11 agosto 2018).
[27] Cf. C. Borghi, Sogni di Dio, speranza per l’uomo, Roma: San Paolo 2018.
[28] Cf. M. Delpini, Benvenuto, futuro! Discorso alla città (6 dicembre 2019), Milano: Centro Ambrosiano 2019, 7.
[29] Giovanni Paolo II, Il futuro dell’uomo è anzitutto futuro di Dio. Catechesi all’Udienza generale (19 novembre 1997).
[30] Cf. Francesco, Ricostruire il patto educativo globale. Messaggio per il lancio (12 settembre 2019).
[31] Cf. Francesco, Educare alla speranza. Catechesi all’Udienza generale (20 settembre 2017).
Il mondo lo salverà la gentilezza
Alessandro D'Avenia
Il mondo non è una biglia blu mare che danza secondo le leggi della fisica alla periferia di una delle infinite galassie dell'universo. Troppo poco.
Mondo è la relazione che ciascuno stringe: con sé, con le cose e le persone. Ogni persona è e fa un mondo mai visto, da cui dipende il corso della storia umana, determinata dalla libertà più che dalla fisica.
Perché mondo? Traduzione del greco kosmos (ordine/bellezza), armonia di elementi connessi tra loro; l'opposto è immondo (brutto/decomposto) come l'immondizia. E poiché salvo significava in origine unito, collegato, integro, allora il mondo è salvo quando i legami che lo costituiscono sono così forti che l'entropia (morte) non riesce a spezzarli.
Ma per essere così saldi di che cosa devono esser fatti questi legami con sé stessi, con le cose e con le persone? Se per esempio in una catastrofe mondiale sopravvivesse solo la classe in cui sto facendo lezione, quello sarebbe il mondo intero.
Che mondo sarebbe? Che cosa le permetterebbe di salvarsi e fare un mondo nuovo?
La gentilezza, che non è il morbido sentimental-moralismo di facciata a cui è spesso ridotta oggi. Ho partecipato al Festival della Gentilezza, organizzato dal Corriere la scorsa settimana, nel tentativo di rianimare questa parola. Che cosa ho scoperto?
La gentilezza nella cultura individualistica in cui siamo immersi è spesso una finzione, una forma seduttiva per avere più potere.
Siamo gentili fino a quando qualcuno non calpesta l'alluce al nostro ego, tolleranti fino a prova contraria. Quanti «gentili» in scena, dietro le quinte sono feroci, perché la loro gentilezza è manipolazione, seduzione, paternalismo, affettazione, posa, strategia... per far abbassare le difese altrui e ottenere più controllo. La gentilezza è l'opposto. Gentile viene infatti dall'antica radice del «dare vita» presente in: generoso, geniale, generare, genesi, ingegno... Anche gente viene dalla stessa radice, gens era infatti, a Roma, il clan allargato con il medesimo capostipite, e gentile era quindi chi apparteneva a quella stirpe (Cesare era della famiglia dei Cesari, della gens Iulia, e si chiamava Caio: Caio Giulio Cesare).
Nel Medioevo, grazie soprattutto ad alcuni poeti, si spezza l'identificazione gentilezza-sangue, cortesia-corte, e la gentilezza diventa qualità dello spirito, cioè del cuore. I poeti dello Stilnovo (tra cui il giovane Dante) dicono che la gentilezza è la potenza umana che si attiva quando si è «generati» dall'amore.
La donna gentile rende gentile l'innamorato, perché solo chi è già gentile rende tale chi lo è ancora solo in potenza.
Gentilezza è quindi l'effetto dell'amore che mi conferma, gratuitamente, che sono degno di esistere, sono voluto, così come sono, nella vita. È infatti il «saluto» (stessa radice di salute e salvezza) fisico e metafisico di Beatrice a Dante a farlo entrare in una Vita nuova (titolo della sua prima opera).
La gentilezza non è più nobiltà di sangue, ma di cuore. Esser nobile per questi poeti non è questione di «classe», ma di nascere a una vita che è il progressivo compimento della propria natura nel suo darsi unico e irripetibile.
Il gentile viene generato e può quindi generare. Facciamo un salto nella modernità, sempre dove la lingua è madre, cioè dà vita, come accade per lo più nella poesia. Leopardi definisce «gentile» un fiore, non per effetto di un'emozione effimera ma di una profonda verità: gentile è la ginestra che fiorisce nel deserto di lava del Vesuvio. Per il poeta la gentilezza del fiore è l'eroica fedeltà a se stesso in favore dell'altro, compimento della propria originalità (origine).
La ginestra infatti mostra all'uomo, illuso di esser padrone della vita con le sue «magnifiche sorti e progressive», dove alberga la sua reale grandezza: «tu siedi, o fior gentile, e quasi/ i danni altrui commiserando, al cielo/ di dolcissimo odor mandi un profumo,/ che il deserto consola».
La gentilezza-ginestra è fedele a sé e agli altri, e non nonostante il deserto, ma proprio nel e per il deserto, dove ha le sue radici e il suo compito: ama, dà se stessa, profuma e consola. Questa gentilezza crea la famiglia umana, che Leopardi chiama «social catena» e basa sulla lotta degli uomini contro il loro nemico comune, la natura con la sua indifferenza. Ma neanche ciò basta, perché non tutti sono capaci di questo generoso eroismo.
Dove attingere allora l'energia della gentilezza? L'unica cosa che tutti gli uomini hanno veramente in comune è essere figli, questo significa che l'esperienza della filiazione, quel radicale sentirsi e sapersi voluti nella vita, è l'unica condizione che consente di essere poi riconoscenti alla vita, cioè pronti a creare altra vita.
Chi appartiene diventa gentile, ed è poi quindi generoso, geniale, ingegnoso. È «da» e quindi «per». Oggi è eroso proprio il senso di filiazione, di appartenenza alla vita, di ri-generazione continua. Più che figli ci sentiamo orfani. Questo dipende dalla morte di Dio certificata da Nietzsche, Dio non fa più mondo, non è più la fonte dei legami.
E infatti il filosofo proponeva una via, eroica e solitaria, simile alla ginestra leopardiana. Ma chi ci riesce? Per esempio: come può essere gentile (generativa) una scuola basata sul precariato, che fa sentire orfani sia docenti che studenti. Serve uno stilnovo di gentilezza che rinnovi cuori e strutture sulla base del senso di filiazione, di appartenenza: essere generati per generare.
A dispetto di quanto si dica in giro, Dio ci manca, e per questo Chesterton a proposito di guerra diceva che sono solo due le vie per la pace: «Uno consiste nel rimedio buddista dell’eliminazione di tutti i desideri. L’altro nel rimedio cristiano di una comune religione». Non a caso è la rivelazione del Figlio, cioè la rivelazione di una relazione e non di una religione, proprio quello che ci apprestiamo a festeggiare con il Natale.
Quando Cartesio mise a fondamento della realtà il suo «Penso quindi sono», ci obbligò a «pensarci» soli e a «farci» da soli (self-made), conquistando, consumando, sottomettendo. In guerra. Invece, come dice il filosofo Emmanuel Lévinas, tornando inconsapevolmente al «saluto» di Beatrice a Dante: «Prima del cogito viene il buongiorno», prima dell'io viene il tu, prima dell'individuo la relazione, l'io è un figlio. Infatti a differenza della certezza cartesiana, la verità è di carne, ha un volto, e per questo comporta rischi e incertezze, come accade in ogni relazione.
Il gentile non teme di morire perché viene sempre ri-generato, non si esaurisce perché riceve sempre vita e nessuno gliela può togliere, anzi è lui che la dona. Per salvare il mondo il «Penso dunque sono» deve cedere il passo al ben più reale e appassionante «Mi pensi dunque sono» e «Ti penso dunque sono». Chi mi pensa? A chi penso? La somma delle risposte fanno quanto siamo «gentili».
Solo così quella classe, sopravvissuta alla catastrofe, potrà essere un mondo nuovo. Salvo. Gentile.
“Per salvarci dobbiamo creare una barriera tra noi e la cattiveria mondo”
Vito Mancuso
Ascoltiamo una notizia alla radio, leggiamo un giornale e poi usciamo, di corsa nel traffico. Un clacson suona, l’autobus è affollato, c’è uno che impreca.
Corriamo in giro, leggiamo dell’ennesimo omicidio, malediciamo qualcuno perché sui social abbiamo letto che… E poi torniamo a casa, la stanchezza, lo stress, un magone nel petto. Quante volte accade? Quanto della negatività del mondo ci avvelena quotidianamente? Alla fine, quel che resta è una sensazione di smarrimento e di paura, come se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, tra guerre, crisi climatiche e migrazioni. Eppure, non è così. L’unica cosa da fare, quindi, è tirare un respiro per poi focalizzarsi su sé stessi. Non è difficile e ce lo spiega il filosofo Vito Mancuso.
In questi tempi difficili che stiamo vivendo come ci può aiutare l’etica?
L'unica possibilità che abbiamo per non diventare difficili anche noi, come lo sono questi tempi, è di porre una barriera tra noi e la difficoltà di questi giorni. Difficoltà che si chiama cattiveria, tensione, aggressività. E la barriera che noi poniamo tra la cattiveria di questi tempi e noi stessi si chiama etica. Etica significa giustizia interiore, ricerca di armonia, ricerca del bene e non dell'interesse immediato. L’etica trasforma una persona negativa non dico in un amico, ma perlomeno in una persona non ostile. Questo vuol dire etica. Considerato i tempi che viviamo, chi non fa così soccombe. L’unica soluzione, come dicevo prima, è creare una specie di fossato, come nei castelli medievali, tra sé stessi e la cattiveria. Per isolarsi da questa specie di onda nera che arriva e che può sommergere tutti. Ci si aiuta così. Chi non lo fa, viene travolto dalla marea nera, è in balia di questo spirito. E molti lo sono già, purtroppo. Lo si capisce parlando con le persone, andando in giro, guidando nel traffico. Siamo diventati tutti tendenzialmente più aggressivi e rissosi, senza empatia.
Tra guerre, discorsi d’odio e altre cose, come possiamo difenderci? La filosofia può aiutarci?
La società sta andando verso un declino, per non dire dirupo, ed è chiaro che la filosofia ci aiuta interiormente. Certo, in questo momento storico non è che con la filosofia, l'etica, la spiritualità insomma, si riesca a cambiare il mondo esterno. È evidente che questo processo nel quale siamo inseriti non è facilmente trasformabile. E, tra l’altro, chissà per quanto tempo dovremmo ancora sopportare questa situazione sempre più problematica. Però, la filosofia, l’etica, la spiritualità e la coltivazione della propria interiorità ci possono aiutare a non diventare noi stessi vittime di questa situazione.
E se non riuscissimo a trovare forza nella filosofia?
Le soluzioni sono due: o diventiamo anche noi a nostra volta delle persone negative, assorbendo quello che c’è intorno, oppure resistiamo, perché sentiamo che diventare cattivi significherebbe la peggiore sconfitta per la nostra vita. Bisogna riuscire a rimanere persone giuste. Tutti insieme, con l’aiuto della filosofia, dobbiamo resistere, trovando una fonte di energie positive. Questa fonte si chiama preghiera, per chi è religioso. Per chi non lo è si chiama filosofia, meditazione. Ma anche una persona religiosa può benissimo sia pregare sia avvalersi della filosofia. E poi è anche importante creare dei legami positivi, sani. Ma, ripeto, la cosa imprescindibile è la cura della propria interiorità: a cosa serve lottare per la pace se dentro di noi c'è la guerra? Dobbiamo aspirare prima di tutto a una pacificazione interiore. Il grande errore del socialismo, del comunismo e delle ideologie del ‘900 era di pensare che i problemi umani si risolvessero solo a livello sociale. Non che la società non sia importante, ha un ruolo rilevante. Ma i problemi umani si risolvono a livello umano, a livello interiore, perché la società non è nient'altro che l'espressione di quello che siamo noi. E quindi il vero campo di battaglia è interiore.
Il titolo del suo ultimo libro è “Destinazione speranza”. Cosa intende?
La parola speranza, come diceva il grande studioso della lingua latina VII secolo, Isidoro di Siviglia, viene dal termine “pes”, piede, un elemento del corpo ci tiene in posizione eretta. Ecco, la speranza è una forza interiore che non ti fa abbattere sulla realtà, quando la realtà è quella di cui abbiamo parlato finora. Se una persona non ha questa ulteriore forza interiore è chiaro che viene catturato dall’onda nera e diventa aggressivo e depresso. E anche deprimente, nel senso che deprime gli altri e si deprime sé stesso. Se, invece, si ha un'interiorità viva, vivace, allora le cose cambiano e si può affrontare la realtà senza scoraggiarsi, senza cadere nello scetticismo. E questo distributore di energia positiva la possiamo chiamare, appunto, speranza.
Agli smarriti di cuore
Il senso di non vivere invano
Piero Stefani
«Dite agli smarriti di cuore: coraggio non temete» (Is 35,4).1 Le parole di Isaia sembrano scritte per il nostro tempo; ma forse sono state e saranno consone per ogni epoca. Per comprenderle occorre riservare qualche attenzione al termine «cuore». È una parola, a tutt’oggi, di uso metaforico molto diffuso; di solito, però, in accezioni distanti da quelle bibliche.
La cultura moderna ha reso comune la convinzione che il cuore sia il luogo dei sentimenti, dell’amore prima di tutto ma anche dell’odio, della gratitudine ma anche del suo opposto. La precomprensione rende non agevole cogliere il senso biblico della parola. Nel mondo greco «cuore» è, di norma, inteso come semplice organo corporeo; di contro, nella Bibbia gli usi traslati sono frequenti e molteplici.
I significati principali coprono l’area circoscrivibile con i termini di volontà-coscienza-intelletto (se così si potesse dire, la Bibbia è infatti «senza cervello», parola in essa del tutto assente). Nell’essere umano il cuore indica il sé profondo proprio di una coscienza sostenuta dall’intelligenza e dalla volontà.
Il 35o capitolo di Isaia costituisce una specie d’anticipazione di quanto sarà sviluppato in seguito (vale a dire nella parte del libro attribuito al cosiddetto «secondo Isaia»): la gioia per la rifioritura del deserto (vv. 1-2), la venuta di Dio e la sua ricompensa che scaccia ogni timore (vv. 3-4), l’acqua che sgorga dal deserto che guarisce ciechi, sordi, zoppi e muti (vv. 5-7), l’appianamento della strada chiamata via santa (vv. 8-9), infine il ritorno dei riscattati contraddistinto da gioia e felicità perché fuggiranno tristezza e pianto (v. 10; ritornello conclusivo ripreso in modo identico in Is 51,1).
Nel messaggio complessivo lo smarrimento viene sopraffatto dalla speranza.
Il termine ebraico per «smarriti» deriva da un verbo (mahar) che, oltre all’accezione legata a essere codardi, spauriti e timorosi, ha il significato d’essere veloci e precipitosi. La traduzione «smarriti di cuore» è sicuramente corretta, tuttavia in un certo senso l’espressione si potrebbe rendere anche con «precipitosi di mente». In determinante circostanze, lo smarrimento e lo scoraggiamento derivano da una mente-coscienza troppo propensa a giungere subito alle conclusioni, senza aver fatto prima la fatica di cercare, di sforzarsi di capire e di cogliere le possibilità nascoste.
Si afferma «tutto va male, tutto va a rotoli, non c’è più niente da fare», senza avere il coraggio del pensiero. Cercare di capire è un tormento condito dalla strana consolazione nata dalla consapevolezza d’aver compiuto quanto ci è chiesto dalla dignità umana.
A suo modo lo affermava già Qohelet: «Rivolsi il mio cuore a esplorare con saggezza su tutto quanto si compie sotto il sole. Si tratta di un brutto affare rifilato da Dio agli uomini perché vi si esauriscano» (Qo 1,13). Per gli esseri umani l’indagare è fatica inevitabile. Alla fine, però, anche la nobile via della ricerca si trasforma in vicolo cieco.
Nel versetto di Isaia il peso decisivo poggia su quel «dite» imperativo che, peraltro, non si sa bene a chi sia rivolto. Il comando viene da Dio, ma chi sono coloro a cui è affidato il compito di dire? L’indeterminatezza racchiude la difficoltà dell’atto di farci giungere «buone notizie».
Una voce che viene da fuori costituisce, comunque, sempre un annuncio. È una forma di «evangelo» che rompe il cerchio chiuso dei propri tentativi di comprendere la realtà. Non sempre è così. Nel loro affastellarsi, le notizie che giungono a noi da ogni dove rappresentano una specie di «antivangelo». Suscitano smarrimento. In questo contesto, quel «dite agli smarriti di cuore: non temete» risuona come il buon annuncio di una realtà futura diversa da quella presente. Per crederlo occorre una fede sostenuta dalla speranza e una speranza alimentata dalla fede.
Cuori spezzati
Non ci sono solo i cuori smarriti, ci sono anche quelli spezzati: «Vicino è il Signore agli spezzati di cuore / i frantumati di spirito salva» (Sal 34,19; cf. Sal 51,19; 147,3; Is 61,1). Che differenza c’è tra coloro che hanno il cuore smarrito e chi lo ha spezzato? Lasciando da parte riferimenti, peraltro pertinenti, legati al pentimento personale, si potrebbe liberamente affermare che si tratta di coloro che soffrono non per lo scacco derivato dall’incapacità di capire, ma per la volontà di fare in qualche modo proprio il dolore del mondo.
Il Signore è a loro vicino perché si serve di loro. Un parere rabbinico è, al riguardo, illuminante e consolante: «Rabbi Alexander disse: se un uomo mortale rompe del vasellame è una disgrazia, ma per Dio le cose stanno altrimenti. Infatti tutto il suo servizio è costituito da vasi rotti come è detto: “il Signore è vicino agli spezzati di cuore”» (Pesiqta de Rav Kahana, 158b).
Il cuore spezzato è antidoto allo smarrimento, ma lo è ancor di più seguire il cuore umile di Gesù: «imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo per la vostra vita» (Mt 11,29). È un «riposo» (non «ristoro», il riferimento è al sabato – cf. Es 20,11) conseguito proprio perché si è preso su di sé il giogo dolce e leggero di Gesù, vale a dire il giogo da lui portato e che, per questo motivo, chiede anche ai suoi discepoli di portare (cf. per contro Mt 23,4).
Si è «stanchi e oppressi» (Mt 11,28) ma non se ne esce rinunciando al giogo; al contrario, bisogna prenderlo su di sé. Non è il riposo dopo la fatica, ma (come è detto in relazione allo Spirito Santo nella sequenza di Pentecoste) è il riposo nella fatica. È una condizione legata al convincimento profondo di aver compiuto una scelta dotata di senso.
Oggi, come conseguire questo riposo mentre sembra che si stia compiendo un lavoro di cui non si vedono i frutti? Davanti a noi si distendono coltri di nebbia; avvertiamo il timore che esse, in luogo di deserti prossimi a fiorire, nascondano baratri. Non ci sono scorciatoie. Il giogo leggero ma esigente è il riposo del cuore spezzato. È il contrario del cuore smarrito e distratto che, secondo la massima pascaliana, cerca un’illusoria via di uscita nel non pensare.2
È inevitabile che non si riesca a reggere sempre il peso del pensiero. Nella vita di ciascuno la distrazione chiede la sua parte; è decisivo che si tratti di una parte e non già del tutto. Il cuore spezzato e non smarrito è quello che, almeno ogni tanto, si pone in ascolto del dolore del mondo. Anche quando se ne ode soltanto una qualche eco, il suo suono è tale da trasformarsi in invito a evitare, oltre la distrazione, anche la violenza: «imparate da me che sono mite».
Uccidere è sempre un male, anche quando vi si è costretti
Chi ode il dolore del mondo sa che la mitezza e la nonviolenza non sono sempre nelle condizioni di prevalere sulla violenza. Ci sono circostanze, e quest’ultimo anno ne è ulteriore conferma, in cui si è costretti a essere ingiusti, vale a dire in cui si è obbligati a rispondere alla violenza con la violenza. Il cuore allora è chiamato a mantenersi spezzato e, in questo caso, anche penitente. Uccidere è sempre un male anche quando si è obbligati a farlo. L’accento, allora, non va posto sulla giustizia perché essa non c’è. Quanto il cuore, vale a dire la coscienza-intelletto-volontà, è chiamato a fare è il discernimento della costrizione: la violenza è davvero inevitabile?
Un problema tra i più gravi, come lo è la risposta. E quando la conclusione è «sì», il cuore è chiamato a spezzarsi: «Un cuore spezzato e affranto tu Dio non disprezzi» (Sal 51.19).
La mitezza non è la nonviolenza integrale, è l’antieroismo integrale. Rimane, però, da porsi la difficile domanda se una certa dose di eroismo, ossia di esaltazione per una vittoria raggiunta o almeno possibile, sia una componente inevitabile sul piano dell’efficienza pratica.
«Felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,10). I verbi al futuro ci attestano, da un lato, quanto ci manca e dall’altro la non rassegnazione alla situazione presente.
Ha scritto Jürgen Moltmann: «Chi spera in Cristo non può più sopportare la situazione così com’è, ma comincia a soffrire sotto di essa, a contraddirla. Pace con Dio significa conflitto con il mondo, perché il pungolo del futuro promesso trafigge inesorabilmente la carne di ogni presente incompiuto».3
È il cuore spezzato, ma è anche il giogo leggero che da una parte ci convince di non aver vissuto e di non vivere invano, e dall’altra non ci ripara dal dolore, anzi lo suscita.
Nessun accadimento in quanto tale ci insegna qualcosa. Le prove di questa massima sono innumerevoli, pandemia compresa. Perché ci ha insegnato così poco? Perché vi è una spinta irrefrenabile a vivere come prima?
Perché a mutare il cuore non sono i fatti, ma i modi d’interpretarli. È la fatica del cuore spezzato, ma anche è il giogo posto sulle nostre spalle che diviene leggero perché ci dona quello che nessun altro ci può dare: il senso di non vivere invano.
Per sperare, però, occorre avere orecchi capaci di udire una voce che viene da fuori di noi: «Dite agli smarriti di cuore».
1 Riprendo parte della conversazione tenuta alla parrocchia di San Camillo de Lellis di Chieti il 23 novembre 2022.
2 «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici»: B. Pascal, Pensieri, n. 168.
3 Cit. in Un giorno una parola. Letture bibliche quotidiane per il 2022, Claudiana, Torino 2021, 275.
Motivi di gioia
Alessandro D'Avenia
La vita felice è infatti un equilibrio tra lasciar essere e fare. Come trovarlo?
Ossessionati dal controllo, soffochiamo la vita, che è invece una sinergia di fare e lasciar essere, prima in noi stessi e poi nel mondo, come accade in un concerto. L'accordo di voci e suoni è presente in natura in modo sorprendente, come ha mostrato qualche anno fa Davide Monacchi nel premiato documentario Dusk chorus, tratto dal progetto «Frammenti di estinzione» atto a esplorare acusticamente le più antiche foreste equatoriali, registrando i suoni delle aree a più alta biodiversità.
Chi ascolta (l'ho fatto in una sfera buia con audio immersivo durante la settimana del design a Milano) diventa parte della foresta, grazie alla tecnologia del suono 3D che ha catturato i versi di insetti, uccelli, anfibi, mammiferi (e persino degli alberi). Monacchi ha poi tradotto i suoni in uno spettrogramma acustico dell'ecosistema, dove si possono vedere le bande sonore in cui i diversi animali si collocano. Il dato commovente è un'armonia in cui i versi non si sovrappongono, ma creano accordi: o occupano frequenze differenti o si alternano se usano la stessa, secondo uno spartito invisibile. Purtroppo però quando l'inquinamento acustico umano occupa alcune frequenze, gli animali che le usano sono costretti ad abbandonare l'ecosistema, e alcuni si estinguono: dal concerto si passa allo sconcerto, dall'accordo al disaccordo, dal canto al disincanto. In natura quindi ogni «voce» occupa il suo posto e si armonizza con le altre. Questa sinfonia, a cui saremmo più educati se frequentassimo i suoni naturali (è significativo della nostra nostalgia di pace che tra le playlist più seguite sulle piattaforme ci siano proprio quelle che riproducono questi suoni), è ciò a cui aspiriamo, ma spesso noi stessi la distruggiamo. Infatti se potessimo fare lo spettrogramma del nostro contesto acustico, scopriremmo quanto siamo esclusi o scappiamo dalla nostra banda sonora, o magari occupiamo quella altrui.
La comunicazione di oggi, urlata e saturata da chi ha i mezzi per far più rumore, tende a coprire le voci, soprattutto quella dei giovani, perché la frequenza su cui esercitarla è occupata da chi non dovrebbe star lì.
Scivoliamo così nella univocità (che significa «una sola voce») e monotonia («una sola tonalità») del controllo. Per vivere serve invece un'ecosistema umano corale che permetta a ciascuno di scoprire e usare la propria voce, che è il modo in cui abbiamo scelto di indicare, metaforicamente, proprio l'unicità personale: trovare la propria voce (da cui vocazione) è infatti sinonimo di vita autentica. Ma vocazione significa anche convocazione: coralità, lo strumento è orchestra, il singolo comunità. Siamo fatti perché le voci si accordino nella loro diversità in una sinfonia che non è data dalla loro somma ma da un superamento collaborativo, come narra in modo affascinante Tolkien nel racconto che dà origine al suo mondo, il Silmarillion. Protagonisti dell'origine dell'universo sono degli spiriti che abitano prima del tempo insieme a Eru Ilúvatar, il dio supremo. Eru per l'appunto li con-voca e propone un grande tema musicale, chiedendo di svilupparlo per dare vita a tutte le cose. La bellezza si espande e incarna coralmente finché uno di questi spiriti decide di mettersi in proprio tradendo l'armonia del tema e dell'orchestra: il male è uno sconcerto, un fare che impedisce il lascia che sia. Let it be. Anche a scuola proviamo a fare lo stesso aiutando i ragazzi a trovare la propria voce, e nei giorni di maturità mi è particolarmente evidente.
Ma abbiamo noi ancora un tema musicale da sviluppare? Esiste ancora uno spartito?
Alla fine dell'anno i maturandi mi hanno regalato un'edizione dell'Odissea, la stessa che abbiamo usato per la lettura integrale del poema ad alta voce durante il primo dei cinque anni di superiori, quello vissuto a distanza. Quell'esperienza di lettura in cui ciascuna voce incarnava un personaggio da un punto diverso e disperso della città, ci è rimasta nella memoria come un concerto, quando invece l'armonia era distrutta dal distanziamento. Nella prima pagina del libro di un racconto di tremila anni fa hanno apposto le loro firme, quelle che cominciano a usare per le loro nuove responsabilità. All'interno c'erano poi le loro voci.
Ognuno aveva infatti sottolineato il passo più amato affiancando il proprio nome alle parole di Omero. Così alla mia collezione di Odissee ho aggiunto la più bella, fatta di nomi e voci (versi). Quando la apro ascolto una musica “di classe”: volti e vocazioni, cioè la scuola, un luogo in cui, se non fossimo oberati da burocrazia, prestazioni e impegni che poco hanno a che fare con l'educazione, siamo chiamati a cercare proprio l'equilibrio tra il fare e il lasciar essere, per evitare sia il controllo sia l'indifferenza. E non è forse questo il lavoro della vita? Questo libro, divenuto per loro una sorta di tema musicale da sviluppare, sarà per me un Inno alla gioia, in cui ogni voce, unica, come ogni vocazione, per altezza, timbro, intensità e durata, si è legata ad altre in una convocazione che supera le singolarità e il tempo. E l'amore non è forse far essere «la voce a te dovuta», come il titolo del libro di un poeta innamorato? Quando tornando a casa tardi per il pranzo dopo gli orali di maturità trovo un post-it con su scritto «ti amo» e «potresti mangiare questo», non ascolto il canto quotidiano della vita? Un'armonia di fare e lasciar essere come il giardiniere cura le sue piante?
In musica tutto questo accade grazie al silenzio. Il mio augurio è che possiate (ri-)trovare la vostra voce, unica e necessaria al concerto della vita. Lo sconcerto, il disaccordo e il disincanto in cui a volte precipitiamo non sono la realtà, ma un tradimento della voce a noi dovuta e di quelle a cui, per ecosistema, siamo legati. La vita aspira e tende infatti al coro delle foreste vergini e al concerto sui tetti di una rumorosa città.
Questa Vita
conoscerla, nutrirla, proteggerla
Vito Mancuso
Nell’era delle tecnoscienze solo un altro umanesimo capace di nutrire corpo e mente può salvarci dal nostro ego.
Credo sia necessaria una nuova visione della Terra generata dalla consapevolezza che il nostro pianeta, ben lungi dall’essere riducibile a materia inerte aggregata da una serie di circostanze casuali, è un immenso e sofisticato ecosistema che deve la sua origine e la sua esistenza alla logica dell’armonia relazionale. Anzi, occorre procedere oltre e approdare alla convinzione, formulata qualche decennio fa dal chimico britannico James Lovelock, che la Terra sia un unico organismo vivente, da Lovelock chiamato Gaia. Qualcuno vedrà in questa affermazione un pericoloso e ingenuo regresso verso l’animismo dei primitivi, ma chi può dire, quando è in gioco la vita, se i primitivi in realtà non siano molto più avanti di noi che siamo abili calcolatori ma sempre più privi di intuizione, di capacità di visione, di poeticità? Il nostro pianeta non è riducibile a materia inerte. Nulla in natura è riducibile a materia inerte perché la natura è sempre al lavoro, è sempre nascitura, come dice il participio futuro latino del verbo nasci, “nascere”, da cui il termine deriva. E siccome il lavoro richiede non solo energia ma anche informazione, e siccome l’informazione è elaborazione dell’intelligenza che vince l’entropia, occorre concludere che la natura è dotata di intelligenza. Così sentono tutti coloro che l’amano veramente, come Tolstoj, Lovelock e molti altri. Oggi la scienza e la tecnica, ormai così strettamente associate da condurre molti a parlare di tecnoscienza, hanno urgente bisogno di venire integrate dalla sapienza umanistica e dalla spiritualità, ed è a mio avviso questa visione spirituale della natura, unita alla visione naturale dello spirito, l’unica via in grado di operare tale necessaria integrazione. Occorre una nuova visione della natura che veda l’evoluzione non solo come il risultato di mutazioni casuali e di selezione naturale (che pure ci sono e ci saranno sempre) ma prima ancora come risultanza della logica di aggregazione sistemica e della cooperazione che ne scaturisce. Non si tratta di una semplice disputa accademica. È in gioco più in profondità il nuovo stile di vita necessario al nostro tempo per fronteggiare la sfida ecologica: una sfida che non supereremo fino a quando non verrà risanata alla radice l’ideologia che l’ha prodotta, cioè l’estraneità tra materia e spirito, natura e cultura, mondo e mente, una frattura che ci ha condotto a considerare il mondo come mero ambiente esteriore e non come parte essenziale della nostra vita, e la nostra vita come mero caso all’interno di un mondo senza senso.
Occorre una purificazione del nostro modo di pensare, una “ecologia della mente” che faccia finalmente comprendere che l’uomo con la sua spiritualità va compreso come un essere materiale, e il mondo nella sua materialità va compreso come un essere spirituale, all’insegna di un’inscindibile complementarietà tra materia e spirito. Occorre una filosofia in grado di ridare importanza alla dimensione umanistica della vita, perché nel nostro mondo aumentano quotidianamente le conoscenze scientifiche mentre la saggezza e la sapienza rimangono ferme, il che si traduce in aumento del potere tecnologico e in aumento della produzione (il famoso Pil) senza che vi sia un’idea che orienti tutto ciò, a parte, ovviamente, la fame di profitto. Dalla scienza e dalla tecnologia prive di orientamenti etici può sorgere una trappola pericolosissima, anzi questa trappola è già sorta e noi ci siamo finiti dentro. Per uscirne occorre una svolta concettuale: da una visione che individua la logica che presiede all’evoluzione della vita nella cieca casualità e nella competizione per la sopravvivenza, a una visione che l’individua nell’aggregazione sistemica. È in base a questa logica che si potranno elevare a modelli di vita coloro che hanno sempre operato a favore della pace, figure come l’indù Gandhi, il panteista Albert Einstein, l’ateo Bertrand Russell, il protestante Nelson Mandela, il cattolico Oscar Romero, il musulmano Muhammad Yunus, la buddista Aung San Suu Kyi.
Una delle più celebri terzine di Dante ci invita ancora oggi a riflettere sulla nostra identità e sul compito che ne discende: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Naturalmente i due valori non sono affatto alternativi perché nella conoscenza c’è virtù e nella virtù c’è conoscenza, tuttavia essi non vanno sempre insieme perché vi sono persone virtuose ma ignoranti e persone colte ma disoneste, e nel nostro tempo assistiamo a un progressivo aumento della conoscenza e a una stasi, se non a una diminuzione soprattutto nell’ambito dell’etica pubblica, della virtù. Penso quindi sia urgente chiedersi che cosa nella vita debba avere il primato, se la conoscenza o la virtù. Einstein la pensava così: «Il vero valore di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso egli è giunto a liberarsi dell’io». È la medesima prospettiva che si ritrova nelle grandi dottrine spirituali, per esempio il buddismo definisce il non-sé «sigillo del Dharma» e Gesù invita chi vuole seguirlo a «rinnegare se stesso» (Marco 8,34). Questa liberazione dall’io non significa non curare la propria interiorità e non amare se stessi; significa piuttosto che il valore di un essere umano non dipende da ciò che ha, non dipende da ciò che sa, non dipende neppure da ciò che è, ma dipende dalla misura in cui è giunto a trascendere il suo ego perché l’ha posto al servizio di qualcosa di più grande e di più importante.
Il valore di un essere umano dipende dalla sua capacità di creare relazione, di dedicarsi, di uscire da sé, di aprirsi, di abbracciare, di amare. Il Processo cosmico ci immette in questa stupefacente avventura: noi siamo un pezzo di materia capace di creare relazione, di dedicarsi, di uscire da sé, di aprirsi, di abbracciare, di amare. Seguendo tale logica si attua la liberazione dall’ego, la meta di ogni autentica esperienza spirituale, la prima e più necessaria ecologia. Da essa può rinascere la visione del mondo e della natura di cui questa vita ha bisogno per tornare a fiorire.
Le parole che salvano
Eugenio Borgna
Sono molte le pagine che ho dedicato alle parole, alla loro importanza nelle relazioni quotidiane, e in particolare a quella delle parole nelle relazioni fra medico e paziente: paradigmatiche nel creare relazioni umane, e terapeutiche, o invece conflittuali, e antiterapeutiche. Fra le discipline mediche, la psichiatria è quella che dà la maggiore importanza alle parole, e non può vivere senza le parole, di quelle dei pazienti, e di quelle di chi li cura.
Come diceva Friedrich Hoelderlin, sulla scia di intuizioni nutrite di genialità e di follia, tutto è connesso, e allora vorrei dire che le relazioni sono il background, il tessuto ineliminabile, della vita, intrecciandosi alle emozioni che proviamo, e alle parole che le esprimono. Se vogliamo conoscere qualcosa di quello che avviene in noi, quando siamo in relazione, e non possiamo non esserlo sempre, non dovremmo mai stancarci dal seguire il cammino che ci porta alla nostra interiorità: in interiore homine habitat veritas: lo diceva sant’Agostino.
Noi siamo un colloquio
Ogni relazione è dialogo, è colloquio, è un essere insieme nell’ascolto, e non sempre è facile esserlo, ascoltare è attenzione, che è preghiera, si ascoltano le parole che ci sono dette, ma anche quelle che non ci sono dette, e che parlano con la voce degli occhi, alcuni occhi sbranano, come diceva Elias Canetti, e dei volti, delle lacrime e del sorriso. Quando ci incontriamo con una persona, la dovremmo guardare negli occhi, e la cosa ha una enorme importanza non solo nella relazione fra medico e paziente, fra insegnanti e allievi nella scuola, ma anche fra genitori e figli. Non saprei parlare della violenza che oggi dilaga nelle parole che si dicono nelle più diverse aree tematiche della vita senza svolgere alcune considerazioni sulla fenomenologia delle parole che dovremmo ricordarci di dire.
Le parole sono creature viventi
Le parole sono creature viventi, le parole non sono mai inerti e mute, comunicano sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, e una volta dette non ci appartengono più. Non c’è conoscenza se non seguendo il sentiero talora luminoso talora oscuro delle parole, ma ci sono parole che curano, parole che fanno del bene, e parole che fanno del male, e questo non ha importanza solo nella relazione fra medico e paziente, ma anche nella vita di ogni giorno. Sono le parole che ci consentono di essere in relazione con gli altri, con le persone che ci sono amiche, con quelle che ci chiedono di essere ascoltate, e con quelle che curiamo, se siamo medici. Non sempre siamo consapevoli dell’importanza che le parole hanno nel destare risonanze emozionali creative, e nel creare relazioni umane, che siano portatrici di serenità e di attesa, di conforto e di speranza, o invece di malessere e di sofferenza, di angoscia e di disperazione; ma non dovremmo mai dimenticarlo in ogni stagione della nostra vita.
Quando parliamo con una persona, cerchiamo di capire cosa ci dicano il suo volto e il suo sguardo, il suo sorriso e le sue lacrime? Non dovremmo mai dimenticare quello che ha scritto un grande scrittore francese, André Gide: nessuna parola giunga alle nostre labbra che non sia stata prima nel nostro cuore. Se lo facessimo, sapremmo trovare parole gentili che curano, e fanno del bene, parole che creano fiducia, e speranza, parole che ci allontanano dalla indifferenza e dalla violenza del linguaggio. Non so pensare a quanta consapevolezza noi abbiamo della importanza del linguaggio, che richiede in ogni caso riflessione e attenzione a quello che avviene nella nostra vita interiore, e in quella delle persone che la vita ci fa incontrare. Le parole che ci scambiamo in internet non bastano, e non servono, a metterci in una relazione dialogica con gli altri da noi, e semmai ci rendono partecipi di esperienze che non siano nutrite di emozioni.
Grande è la responsabilità delle famiglie e della scuola, degli strumenti di comunicazione, nel ridare importanza alle parole viventi, alle parole che hanno un suono, senza disconoscere i significati della comunicazione digitale, ma rimarcandone i limiti, e circoscrivendone le aree di comunicazione che in essa tendono ad essere astratte, ed estranee ad ogni contenuto emozionale.
Come riscoprire le parole gentili?
Le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che vivono nel dolore, o nella disperazione, le parole che non consentono il linguaggio della violenza, non le troveremmo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle emozioni delle persone, che la vita ci fa incontrare. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, in questo campo, ed è necessario affidarsi all’intuizione e alla sensibilità personali. Ci sono psichiatri e psicologi che non le hanno, e persone semplici che le hanno: sono qualità, almeno in parte, innate, e in ogni caso educabili. Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime. Ma è necessario educarsi a rivivere in noi le situazioni dolorose degli altri, e a immaginare quali parole vorremmo sentire dagli altri, se fossimo noi a stare male, e ad avere bisogno di parole che aprano il nostro cuore alla speranza.
Costa tempo, costa fatica, questa educazione alla immedesimazione nei pensieri e nelle emozioni delle persone che incontriamo; ma è un dovere al quale non dovremmo mai venire meno: solo così si può sperare in una rinnovata coscienza etica della vita.
Le relazioni quotidiane
Le parole sono essenziali nel creare relazioni quotidiane gentili e umane, invece gelide e ostili. Non ci sono insomma relazioni quotidiane, che non siano trainate dalle parole, dalla grande importanza che esse hanno nella vita. Non sono ovviamente un linguista, e non saprei inoltrarmi nelle selve oscure delle etimologie, e nondimeno nei lunghi anni di vita in psichiatria, in un manicomio in particolare, sono giunto a mano, a mano a conoscere quali parole dire, e quali non dire, quando ero in dialogo con le pazienti di cui mi occupavo. Le esperienze, che mi è stato possibile fare, mi hanno fatto conoscere l’importanza delle parole nella vita quotidiana, e la frequenza di quelle intessute di noncuranza e di indifferenza, di disinteresse e di apatia: premesse alla nascita della violenza del linguaggio.
Non ho potuto confrontarmi con un tema, come quello della violenza nel linguaggio nelle relazioni quotidiane, di questa radicale importanza, senza riflettere prima sulla fenomenologia e sulla dinamica del linguaggio delle parole: non c’è solo questo, certo, c’è anche il linguaggio del corpo vivente, dei gesti e dei volti, degli sguardi e delle lacrime, e c’è anche, non meno importante, il linguaggio del silenzio. Non dovremmo dimenticarlo, e in ogni caso vorrei ora continuare a riflettere sulla fenomenologia delle parole, e in particolare sulle risonanze, che esse possono avere nelle nostre quotidiane relazioni di vita, evitando le parole portatrici di aggressività e di violenza, che oggi riemergono così frequentemente.
Le parole divorate dall’indifferenza
Mille modi di essere in relazione, ma, prima ancora di parlare della violenza nel linguaggio quotidiano, vorrei dire qualcosa dell’indifferenza che ci porta a essere prigionieri dei nostri desideri e delle nostre attese, e a rifuggire dall’ascolto, e dalla ricerca, di quelli degli altri. L’indifferenza è una delle premesse a non interessarsi del valore e dei significati delle parole, essa crea il deserto in noi: il deserto dei tartari, così come ne parla Dino Buzzati nel suo bellissimo romanzo. La mattina, risvegliandoci, Friedrich Nietzsche diceva che dovremmo augurarci di fare durante la giornata almeno una buona azione: questa sarebbe la sconfitta dell’indifferenza, che si nasconde nella noia, nel disinteresse al dolore e alle sofferenze, nel venire meno al dovere della generosità e della solidarietà, e nella scelta di parole che non hanno risonanze risanatrici nella vita interiore degli altri.
Sono parole non ancora immerse nella violenza, ma fanno del male, generano malessere, e non di rado angoscia, nelle persone, in quelle adolescenti in particolare, con le quali ci incontriamo. L’egoismo e l’indifferenza che ne consegue, o che lo genera, sono i primi germi, i più diffusi, ai quali dovremmo fare attenzione, e ai quali invece non pensiamo, distraendoci, e smarrendo gentilezza e umanità. La violenza nel linguaggio la riconosciamo facilmente, ma non ci accorgiamo che anche parole divorate dall’indifferenza fanno soffrire gli altri che non riescono a difendersi. Le parole dell’egoismo e dell’indifferenza, le une sconfinanti nelle altre, le dovremmo riconoscere, ed evitare a ogni costo, perché sono pericolose ugualmente a quelle violente che sono più facilmente riconosciute nelle loro conseguenze. La violenza del linguaggio nasce da uno sconvolgimento etico ancora più radicale e sconvolgente.
La violenza del linguaggio
Il passaggio dall’indifferenza del linguaggio alla violenza del linguaggio si constata oggi con inquietante frequenza in molte condizioni sociali di vita. Basta andare in macchina, anche su strade provinciali, nemmeno molto trafficate, perché la violenza, e non solo l’indifferenza e l’insofferenza delle persone, si abbia a manifestare nei gesti e nelle parole. Il linguaggio violento si tocca con mano, ed è espressione di una raggelante indifferenza etica. L’andare in macchina, la cosa oggi più banale e più frequente, ci parla della violenza, che non è solo nelle parole, ma anche nei gesti che le accompagnano, causando indelebili ferite alla dignità e alla libertà, all’umanità e alla gentilezza, al rispetto e all’autonomia degli altri da noi.
Il linguaggio della violenza, che sradica le fondazioni etiche delle relazioni quotidiane, dilaga in aree sempre più vaste della vita: da quelle della vita quotidiana a quelle della vita politica. La violenza del linguaggio lascia ferite che non si rimarginano, e continuano a sanguinare; e la cosa è così diffusa che non ce ne accorgiamo. Dall’iniziale indifferenza ai valori delle relazioni quotidiane si passa così alla violenza agghiacciante delle parole, e da queste non si torna più indietro, inaridendo ogni fonte etica della vita. Non dimentichiamoci mai di riflettere sul destino delle parole che diciamo, e talora di quelle che dovremmo dire, e non diciamo, a causa delle nostre paure, e delle nostre negligenze.
La violenza del linguaggio non si manifesta solo quando si è in macchina, ma anche, e in misura ancora più pericolosa, in alcune trasmissioni televisive, in alcuni articoli giornalistici, e nella vita politica. Le relazioni quotidiane ne sono deformate e lacerate nei loro orizzonti di senso, conducono all’esasperazione, e alla creazione di esistenze imprigionate nei grovigli di individualismi, perduti a ogni possibile speranza. Ma la violenza delle parole rinasce nei suoi aspetti più devastanti, direi, nelle forme di espressione politica che raggiungono dissonanze intollerabili. Le parole, quelle che ho cercato di indicare nelle loro sfere semantiche gentili e comunitarie, ne sono sfigurate, non comunicano se non rabbia e aggressività, ritorsioni e violenza, ai confini di una umanità ferita e lacerata. Ciascuno di noi dovrebbe impegnarsi nel recuperare linguaggi e comportamenti educati e gentili, aperti all’ascolto e alla solidarietà, estranei a ogni forma di violenza.
Quale salvezza?
Solo recuperando il valore delle parole, e cogliendone le fragilità e gli orizzonti di senso, è possibile immaginare di moderare il flusso continuo e inarrestabile della violenza del linguaggio. La gentilezza è la forma di vita, antitetica a quella divorata dall’indifferenza e dalla violenza, che dovrebbe essere illustrata nella sua ragione d’essere nella scuola primaria e nelle scuole secondarie. In alcune scuole austriache questo avviene, illustrando il tema non meno importante della follia, considerata come dolorosa possibilità umana, e non demonizzata come esperienza di vita insignificante e desertica. A questa degenerazione etica non ci sarà salvezza se non insegnando nelle scuole il significato umano e rivoluzionario delle parole, e quello della gentilezza, che si dovrebbe accompagnare a ogni momento della nostra vita, e che nobilita la condizione umana: la psichiatria conosce bene queste cose che non si stanca di ripetere. Sì, in psichiatria parole sbagliate e immotivate, sconsiderate e indifferenti, sono causa di dolore e di angoscia, di ferite dell’anima, che possono non guarire più, e allora mi augurerei che queste mie pagine, nutrite di anni e anni trascorsi nel mondo misterioso della follia, possano essere di un qualche aiuto nelle riflessioni sugli infiniti orizzonti di senso delle parole, e in particolare sulla loro incompresa fragilità.
La violenza delle parole non è se non la premessa, voluta, o non voluta, alla violenza delle azioni, ed è allora un tema di radicale attualità. Non dovremmo mai dimenticarlo.
Indicazioni di lettura
Agostino, Le confessioni, Einaudi, Torino 1966.
E. Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino 2019.
E. Borgna, Saggezza, il Mulino, Bologna 2019.
E. Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore, Feltrinelli, Milano 2020.
D. Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano 2016.
E. Canetti, Il gioco degli occhi, Adelphi, Milano 1995.
A. Gide, La sinfonia pastorale, Frassinelli, Torino 1953.
F. Hoelderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, Adelphi, Milano 1976.
L. Serianni, Il sentimento della lingua, il Mulino, Bologna 2019.
Portatori di un dono nuovo
Carlo Molari
Ogni situazione della nostra esistenza può essere vissuta in modo da consentirci di crescere come persone autentiche. Noi possiamo vivere tutte le situazioni, anche quelle causate dal peccato e dalla violenza degli uomini, in modo da renderle spazi di novità, stimoli di rinnovamento, occasione di profezie. Da farne cioè luoghi di crescita per noi e per gli altri. Ma non siamo in grado di farlo da soli. Sono i rapporti con gli altri, gli incontri, le esperienze storiche che ci consentono di crescere, offrendoci ogni giorno possibilità nuove. Non è sufficiente essere nati, per poter vivere intensamente e neppure per poter sopravvivere. Occorre che qualcuno ci offra continuamente la possibilità di crescere. Ciò non vale solo per i più piccoli ma per ogni uomo. Anzi più la persona è grande e più esige offerte intense e profonde. Solo che mentre gli adolescenti, i giovani e soprattutto gli adulti sono in grado di cercarsi da soli ambienti di offerte vitali e di muoversi per allargare gli orizzonti e intensificare i rapporti, gli infanti ed i fanciulli sono costretti all'ambiente e quindi necessariamente condizionati dalle offerte di vita che concretamente essi ricevono.
Quando, nell'orizzonte della fede, diciamo che la salvezza è dono di Dio, intendiamo appunto esprimere questa nostra condizione di creature: abbiamo bisogno di accogliere la nostra perfezione dagli altri. L'amore di Dio, infatti, non è efficace per noi se non quando diventa amore di persone umane: gesto e sorriso di madri e di padri, affetto di amici o di sposi. Ognuno di noi porta per gli altri un dono che è più grande di sé, un dono che però non può trattenere nelle sue mani, ma deve saper offrire perché la vita non venga tradita e possa esprimersi in tutte le sue forme.
Soprattutto quando avvertiamo da qualche parte situazioni di emarginazione, di solitudine, ricordiamo che a nessuno è possibile uscire dalla sua condizione se altri non gli tendono la mano.
Oggi, forse, per qualcuno siamo noi i portatori di un dono nuovo. Come altri forse sono pronti ad offrirci la loro presenza, se saremo attenti ad avvertirla e ad accoglierla senza riserve.
Pensiamoci, oggi, quando ci si offrirà un incontro
Respirare meglio
Alessandro D'Avenia
«La sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Questa la motivazione con la quale gli accademici svedesi hanno assegnato il Nobel per la letteratura alla settantasettenne poetessa americana Louise Glück.
Che cosa significa che una vita è universale? Universo, come dice la parola, è ciò le cui parti sono legate in unità: tutte le cose co-spirano, cioè respirano insieme, in armonia. La poesia intercetta questo respiro che unifica la vita dispersa in migliaia di frammenti. Infatti nel suo Cantico, poesia con la quale si inaugura la letteratura nella nostra lingua, Francesco d’Assisi chiama fratello e sorella ogni cosa, persino la morte, perché ogni cosa è figlia della Vita.
I poeti, credenti o meno, hanno fede in questa Vita con la maiuscola, tanto che lo stesso Leopardi scriveva nel suo diario: «della lettura di un pezzo di vera poesia, in versi o in prosa, si può dir quello che di un sorriso diceva Sterne: aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita» (Zibaldone).
Per i poeti la vita si fonda sulla Vita, la prima è un soffio breve, la seconda un respiro inesauribile, al quale attingere quando ci manca l’ossigeno. Dei poeti diciamo infatti che sono ispirati, perché ci donano quel respiro. E noi possiamo essere ispirati?
Affido la risposta a Wisława Szymborska, Nobel nel 1996. Nel ricevere il premio la poetessa polacca disse: «L’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di persone visitate dall’ispirazione. Sono tutte quelle che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici, maestri, giardinieri così, per non parlare di tante altre professioni. Malgrado difficoltà e sconfitte, la loro curiosità non viene meno. L’ispirazione nasce da un incessante “non so”. Di persone così non ce ne sono molte. La maggioranza lavora per procurarsi da vivere, perché deve. Non sceglie il lavoro per passione, sono le circostanze a farlo per loro. Un lavoro non amato, che annoia, è una delle più grandi sventure umane».
Tutti noi quando arriviamo in riva al mare o in cima a una montagna inspiriamo forte, vogliamo trasformare in respiro, nostro, la bellezza là fuori. Il nostro corpo vuole essere «in-spirato», ricevere lo «spirito» che dà Vita. Per questo, durante l’estate, chiedo ai miei studenti di tenere un taccuino, in cui fermare i momenti di ispirazione. Quando uno di loro appunta un pensiero, una citazione, un fatto, un dolore, una gioia… apre un varco nella vita che si ripete, noiosa ed effimera, per far entrare una Vita più grande, che ci guarisce dal non senso e dalla dispersione, e trasforma il caos in universo, come quando Dante in Paradiso dice di aver visto: «legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna».
E così a partire da quegli appunti frammentari, da quei momenti di essere ancora grezzi, chiedo ai miei ragazzi di costruire una poesia, non, come dice Leopardi, necessariamente in versi, perché l’importante è che le parole rendano trasparente l’ispirazione, l’eternità dell’istante, il momento di essere, per poi, in qualsiasi altra ora, ri-viverlo e farlo ri-vivere, motivo per cui è bene imparare a memoria le poesie: un pozzo di essere a cui attingere sempre. Così il singolo respiro diventa universale, non più effimero, individuale, solitario…
Non è un trucco didattico che li illude di essere poeti, ma un formidabile esercizio di realtà come diceva un altro Nobel: «Curiosando tra gli appunti di un poeta troviamo crocette e segni, molti ripensamenti: che cosa è successo? Il poeta ha corretto i propri impulsi iniziali. Nel processo compositivo egli fonde il razionale con l’intuitivo. Il poeta è l’animale più sano: combina analisi e intuizione — analisi e sintesi — per giungere alla rivelazione. Per questo la poesia è il più efficace acceleratore mentale. Leggerla e scriverla offrono lo strumento di conoscenza più rapido ed economico che io conosca» (Iosif Brodskij, Conversazioni).
Eppure i libri di poesia occupano spazi irrisori sugli scaffali. Molti si lamentano di non comprenderla, e hanno ragione perché è lei a dover comprendere (cum-prendere: abbracciare) noi, che spesso però non siamo disponibili al silenzio, alla pazienza e a credere ancora nella Vita.
Ne ho avuto conferma leggendo, a caso, qualche poesia della neo-Nobel, autrice a me prima ignota. Mi ha attirato la prima di una raccolta intitolata, in omaggio a Dante, Vita Nova, che traduco per voi:
«Mi hai salvato, dovresti ricordarmi.
La primavera, giovani compravano i biglietti del battello.
Ridevano, perché l’aria era piena di fiori di melo…
Ho ricordato suoni come quello, dalla mia infanzia,
risate senza motivo, solo perché il mondo è bello…
e così mi sono svegliata ebbra, alla mia età
affamata di vita e ricca di fiducia».
Se la rileggete dieci volte, respirerete meglio.
Scegliere la vita
Adrien Candiard
La felicità è una scelta: così ci insegnano tanti coach di sviluppo personale. È un’idea al tempo stesso rassicurante, perché suggerisce che la felicità sia a portata di mano, e colpevolizzante. Se non siamo felici, sembrano dirci, è un po’ colpa nostra, perché basta decidere di esserlo… Nel libro del Deuteronomio, dopo aver trasmesso al popolo d’Israele appena uscito d’Egitto i comandamenti di Dio, Mosè conclude la sua presentazione della Legge con una frase semplicissima, che sembra voler dire qualcosa di molto simile: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e la felicità, la morte e l’infelicità. […] Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui» (Dt 30,15-20). E tuttavia Mosè qui non afferma che è sufficiente scegliere, che la felicità e la vita sono solo una questione di scelta: egli ricorda che una scelta è, comunque, necessaria. Il cammino della felicità che traccia è quello di un amore esigente, paziente, concreto, per Dio e per il prossimo, un amore che s’incarna nella realtà quotidiana e di cui la Legge è l’espressione. Per amare non basta volerlo, ma senza una scelta, senza l’impegno, senza il “sì” del nostro battesimo, sapremo noi metterci in cammino verso la gioia?
L’unica possibilità..il Coraggio della fratellanza. Ognuno, insieme.
Enzo bianchi
di Chiara Genisio
La fraternità come via per superare la guerra. «L’unica possibilità». Ad affermarlo è fratel Enzo Bianchi: «Siamo alla vigilia di una grande guerra mondiale. La fraternità è da vivere con lo stesso impegno avuto per la libertà e l’uguaglianza, come qualcosa di politico per cui combattere.
Deve tradursi in istituti politici, giuridici com’è avvenuto in Sudafrica per la riconciliazione. Finché la fraternità resta un augurio, anche la libertà e l’uguaglianza saranno fragili, come scrivo nel mio libro ». Si intitola proprio così, semplicemente Fraternità (Einaudi Editore), il suo ultimo libro. Un testo che era già pronto anni fa, poco prima dell’uscita dell’Enciclica sociale Fratelli tutti di papa Francesco. Ha scelto di attendere a pubblicare, nonostante i solleciti del suo editore. Ma ora ha sentito che il tema doveva “assolutamente” essere approfondito e divulgato. «Ne ho sentito l’urgenza», afferma, «la società è sempre più rancorosa, più diffidente con la mancanza di fiducia. Un clima in cui viene sempre meno soprattutto la fraternità e, di conseguenza, la solidarietà, lo stare insieme. Ciò mi ha spaventato e mi ha indotto a pubblicare questo libro; con la guerra ormai ai confini dell’Europa e nel Medio Oriente la fraternità diventa l’orizzonte dell’umanità e non più l’orizzonte di cui parlare come se riguardasse solo i cristiani o una parte del mondo».
Papa Francesco nella Prefazione scrive che nel libro lei mostra che «la fraternità è la vocazione dell’umanità». Quanto è importante che papa Bergoglio abbia scritto la Prefazione?
«Molto importante. Non ho mai perso la consapevolezza di essere figlio di uno stagnino, di venire dal Monferrato da una famiglia povera; nella mia vita avrei mai pensato di stringere la mano a un Papa, di diventare poi con Benedetto XVI e con Francesco, in un certo senso, un amico. La Prefazione mi è giunta come un dono grande, un segno di affetto di papa Francesco, di un suo riconoscimento soprattutto dopo un periodo burrascoso, in cui sembrava che ci fossero molte diffidenze verso di me. Quindi, non solo ringrazio Francesco che, in tutto questo tempo, con lettere e messaggi mi ha dato segni di affetto, di confidenza, di rassicurazione, ma lo ringrazio perché ha messo anche un sigillo su quello che scrivo, su quello che può essere il mio insegnamento, la mia eredità».
Lei a un certo punto cita che Francesco identifica la questione della fraternità come una cosa dei credenti di tutte le religioni, ma lei dice no: è una questione dell’umano...
«E aggiungo anche dei non credenti. Secondo me la fraternità è universale. Dobbiamo stare attenti a non fare una specie di “Onu dei credenti” in cui al centro ci sarebbero i monoteismi, poi le altre religioni e le altre spiritualità ai bordi. L’uomo non è definito dal credere o dal non credere, ma dal suo operare».
C’è, quindi, un’unica fraternità per tutti?
«Sì. Noi certamente ci sentiamo confermati nella fraternità, perché diciamo che l’unico nostro padre è Dio. Ma i non credenti possono sentire la fraternità come imperativo avvertito dalla coscienza umana come decisivo; è un cammino al quale sono chiamati tutti gli uomini e le donne della terra. L’umanità è una: ciascuno o si colloca in relazione con altri e si umanizza o sperimenta un cammino individualistico che ha come esito la barbarie».
Possiamo affermare che un credente dovrebbe avere una spinta in più verso la fraternità?
«Una responsabilità in più».
La Chiesa italiana come vive la fraternità?
«La Chiesa o è una fraternità oppure non è Chiesa di Cristo. La Chiesa italiana non sempre sente quello che dice Francesco, non sempre ascolta le voci più vive. È una Chiesa ancora troppo lenta; al Sinodo non c’è un vero tema di rinnovamento, manca l’invenzione, la scoperta di un segno dei tempi nuovi... Non si percepisce un’urgenza nuova nella Chiesa italiana. Sono ancora valide le indicazioni pastorali dell’inizio del 2000».
Di cosa c’è bisogno?
«Occorre avere del coraggio».
La questione femminile affiora nel dibattito anche al Sinodo: nella Chiesa italiana c’è un problema femminile?
«C’è in tutta la Chiesa, forse un po’ meno nelle Chiese del Nord. Le donne non sono ancora valorizzate come dovrebbero. Abbiamo un Papa che è più profeta e più avanti di quel che è il popolo di Dio».
Come sono i giovani che incontra?
«I giovani non sentono neanche la Chiesa lontano, per loro non esiste più. Viviamo un tempo di esculturazione del cristianesimo A volte parlando con loro mi dicono che la Chiesa non sanno cosa sia. Vivono nell’indifferenza verso tutto, con l’obiettivo di stare bene con sé stessi. Ci mancano dei corridoi di formazione per i giovani. Sono preoccupato, in questo periodo sto lavorando con gli Scout, un’agenzia che fa formazione e che aiuta a crescere umanamente e fornisce una grammatica umana».
Da mesi è impegnato con conferenze e iniziative, a parlare non solo di fraternità ma anche di vita, sentimenti, cuore, cibo. Tutta questa vitalità le arriva da “Casa Madia”, la sua nuova casa?
«No. Io credo che la fonte sia l’assiduità alla parola di Dio. Io sperimento che l’assiduità alla parola di Dio mi infonde un coraggio, una forza per cui non temo nulla. Mi fa dire quello che devo dire a chiunque; non ho paura e affronto anche quelli che mi calunniano o mi hanno calunniato. Se la parola di Dio viene meno anche per un giorno, io mi sento smarrito e mi sento debole».
L’invito è a pregare di più?
«Sì, a leggere di più la parola di Dio. Attaccarsi al Vangelo perché il Vangelo è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il Vangelo».
Abbiamo bisogno di poesia, custodiamola
Daniele Mencarelli
Abbiamo sempre più bisogno di parola e scrittura, ma abbiamo fatto fuori quella che per rango e valore ne era la somma. La sua morte non è stata accidentale, ma volontaria, studiata a tavolino
Poemi anglosassoni
Lo stranissimo tempo che ci è toccato in sorte, fatto di più e più cose, come ogni altro tempo, ha nella rivoluzione digitale il suo marchio più esibito e dibattuto. L’innovazione è continua, nella nostra attività quotidiana è sempre più frequente la relazione e l’intervento di invisibili aiutanti, pronti ad accenderci la luce o consigliarci il percorso più veloce. L’intelligenza artificiale sarà regista delle nostre vite, con la sua voce suadente ci sarà fondamentale in tutte le nostre attività. Sin qui nulla di nuovo.
Infatti, il nostro è il tempo delle innovazioni, altri sono stati quelli delle rivoluzioni vere e proprie. Basti pensare al mondo prima dei voli aerei e dopo, giusto per fare il primo esempio che passa per la mente. Il nostro tempo, fatto di piccole grandi migliorie rispetto all’esistente, è legato a tutti quelli passati, e forse futuri, da un dato che continua a rimanere centrale nella stessa misura in cui è centrale l’uomo rispetto alla civiltà umana. Il dato è il ricorso alla parola, e alla sua forma più durevole: la scrittura.
Tutto continua a girare attorno a questa stella. Anche quando viene occultata, anche quando pare non esserci, alla base di tutto c’è sempre lei, la regina di noi mortali.
Dalle nuove frontiere dell’intrattenimento passando per i social, anche laddove l’immagine sembra centrale, sino al profluvio infinito di news in diretta h24 in giro per il pianeta, ci sarà sempre un’anima nascosta, un’anima di parole e scrittura. Alla fine il nostro dialogo con il mondo non può non avvalersi di questa mediazione antica quanto l’uomo, o quasi. La parola come telaio irrinunciabile dello stesso pensiero umano e di tutto ciò che è in grado di partorire e realizzare. Magari si è portati a pensare il contrario, ma l’innovazione continua produrrà una sempre maggiore richiesta di materia prima, ovvero di parole e di scritture, con cui costruire sempre nuove e più seducenti, e commerciali, narrazioni da mettere sui vari mercati.
Narrazioni. A pensarci bene, lo stranissimo tempo che ci è toccato in sorte ha nella centralità del racconto uno stigma ben più profondo rispetto alla digitalizzazione imperante. L’uomo contemporaneo delega ad altri il suo rapporto con la realtà, in maniera sempre più cieca e inconsapevole. Pensiamo di sapere e conoscere tutto solo perché abbiamo a disposizione un’offerta di narrazioni come in nessun altro tempo. E questa non è un’innovazione rispetto all’esistente: è un dato nuovo, un codice assolutamente originale rispetto al passato. Viviamo sprofondati nella narrazione di tutto, ce ne nutriamo costantemente, la realtà in questa relazione ossessiva è diventata un dettaglio sacrificabile, obsoleto. Il nostro tempo ipernarrativo, perennemente in prosa, a pensarci una trasformazione epocale l’ha prodotta. Questa sì assume tutti i crismi del dato rivoluzionario. Abbiamo sempre più bisogno di parola e scrittura, ma abbiamo fatto fuori quella che per rango e valore ne era la somma, per dirla con le parole di Leopardi.
La poesia sta al nostro tempo come una testimone scomoda, all’uomo che si accontenta del racconto della realtà fatto da altri, sempre su commissione, sempre interessato, comanda di uscire e di vedere con i propri occhi. La poesia è figlia della realtà, realtà che è arcinemica di tutte le narrazioni che ci esplodono sul viso ogni secondo. Per far fuori la realtà, occorreva togliere di mezzo la disciplina che ne esaltava il valore primo più di ogni altra. E il delitto è servito.
Non è uno scenario distopico, è la nostra epoca. La poesia ha assunto un valore eversivo rispetto al tempo e agli interessi imperanti, è scomoda, chiede all’uomo di essere libero, di essere esperimento di se stesso, cerca di ricollegarlo costantemente al dato della realtà, l’unico veramente in grado di rivelargli qualcosa che sino a quel momento non sapeva.
Nessuno lo dice, ma l’uomo senza poesia si sta lentamente ammalando, anche se lui non ne è cosciente. La prova più drammatica è il progressivo imbarbarimento rispetto ai temi fondamentali della vita. Temi che la poesia, da sempre, affronta faccia a faccia, facendone canto e insieme esperienza. Perché la poesia è l’unica parola che risiede naturalmente nella realtà, l’unica di cui la realtà si fidi veramente. Custodiamola.
Abitare la vita
Emanuele Borsotti
Abitare è una parola che deriva dal verbo habére che in latino vuol dire: trattenere, occuparsi, possedere e, come forma intensiva frequentativa, continuare ad avere e quindi anche abitare in un luogo, cioè avere una abitudine con quello spazio, farsene quasi un abito, qualcosa che indossiamo e che aderisce radicalmente alla nostra persona. L’uomo è un abitatore di luoghi, di tempi, di storie, di memorie e fa di tutto questo universo il suo habitat, il suo abitare.
Il modo con cui noi uomini stiamo sulla terra è l’abitare (Heidegger).
Bisogna però chiarire come abitiamo o come dovremmo abitare. C’è un abitare improprio che è uno sfiorare il paesaggio, leggere i luoghi come un fondale della nostra vita, come un ambiente palcoscenico che ci resta estraneo, al quale noi non aderiamo intimamente. Ѐ come se il paesaggio fosse un oggetto e noi un soggetto ma senza una profonda relazione fra questi due elementi. L’unico legame fra i due sarebbe una visione superficiale, un aspetto puramente visivo. Pensiamo alla nostra società del selfie: oggi molte volte l’uomo contemporaneo non vede neanche più ciò che sta attraversando, ma frappone fra il luogo e se stesso uno smarphone, un apparecchio fotografico e se va bene rivedrà poi quel luogo nello scatto fatto. Quando però noi scegliamo di fare un passo più in profondità e non ci limitiamo allo sfiorare turistico ecco che viviamo un’esperienza di ancoraggio, cioè abbandoniamo l’esteriorità dello spettatore per entrare in un dialogo. Non si tratta, come diceva Barthes, di limitarci a fotografare il mondo, ma si tratta di rimanere, di percorrere tutta la marezzatura dei luoghi, delle luci, dei momenti.
Questo ancorarsi al luogo è l’esperienza che Cristo fa tante volte. In Marco 10,23 viene usata l’espressione: circumspicere per indicare che Gesù guarda intorno, che ha uno sguardo a 360 gradi ed è questo sguardo che permette a Gesù di amare. Guardarsi intorno è guardare anche dentro l’altro e fare il passo di uno sguardo che ama. Ecco allora l’invito a non fermarsi a posare uno sguardo superficiale sui luoghi, ma ad entrare in una relazione, ad essere implicato dentro l’esperienza di quel luogo.
Ѐ l’esperienza pasquale di Cristo là dove, in Giovanni, si dice che entra nel cenacolo, e “stette in mezzo”, in mezzo non solo dell’ambiente, ma anche del ‘con’ e del ‘fra’ le persone. Ecco allora che nel lasciarsi assorbire da un ambiente e assorbire l’ambiente che ci ospita sta la differenza tra la provvisorietà del turista in transito e l’abitatore del luogo.
Se dunque non sfioriamo i luoghi, ma li abitiamo veramente, dobbiamo confrontarci con l’esperienza di essere costruttori e ricostruttori. L’uomo abita costruendo, costruisce per abitare, ma è proprio perché l’uomo è un abitatore che è in grado di costruire. Vivere è dunque anche questo: costruire e ricostruire luoghi e, attraverso la metafora del luogo, costruire e ricostruire l’esistenza di noi che lo abitiamo. Partiamo da una suggestione che ci viene dalla vecchia sapienza dell’imperatore Adriano - come immaginato dalla Yourcenar, nelle memorie di un grande condottiero - che alla fine della vita fa un bilancio e conclude dicendo: “Io ho costruito e ricostruito”. Costruire come sinonimo di collaborare con la terra, di “lavorare con” e “faticare con” perché labor in latino vuol dire innanzitutto fatica, quindi lavoro. Collaborare con la terra è imprimere il segno dell’uomo in un paesaggio che quindi ne resterà modificato per sempre. E in questo modo contribuiamo a una lenta trasformazione che è la vita delle città, degli edifici, dei nostri spazi vitali. E poi costruire è anche opera di ricostruzione perché bisogna fare i conti con la labilità delle cose e con il tempo, grande scultore, ma anche grande distruttore. Quindi ricostruire è collaborare con il tempo, con il passato, se ne coglie lo spirito, lo si modifica, lo si conserva e gli si imprime un movimento propulsivo cercando di farlo arrivare verso l’avvenire. Ricostruire significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti, l’esperienza sorgiva della vita. Quindi costruire è principalmente un atto di speranza: è dare forma al presente, plasmare la materia, dare una direzione alla vita e sporgerla verso l’avvenire, verso il durevole, verso quello che è il lascito ereditario. Sempre dalla Yourcenar, Adriano dice: “Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno”. Le cose sono sempre costruende, sempre da costruire, sempre da riedificare. Allo stesso modo la nostra umanità, la nostra vita interiore, le nostre profondità spirituali come i nostri legami affettivi sono sempre incompiuti e quindi in costruzione continua. Costruire come speranza e ricostruire come forma architettonica della consolazione è questa l’idea che ci viene dalla Scrittura, dall’AT e dagli scritti profetici.
Sono testi nei quali il verbo ricostruire e il verbo consolare vengono coniugati in parallelo e i paralleli sinonimici dell’ebraico ci dicono appunto che c’è una profonda osmosi fra le due cose.
Ricostruire un edificio, ricostruirsi una vita dopo una frattura significa fare un’opera di architettura della consolazione. Ѐ l’esperienza di Israele dopo l’esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme quando il Signore consola ricostruendola dalle sue rovine, riaprendo un giardino là dove c’era solo un deserto. Questo induce in un canto di gioia. E ancora possiamo dire che la costruzione è un’opera di incontro. Costruire significa incontrare. Quando l’uomo costruisce lo fa a partire da un numero di elementi architettonici basilari limitati.
La novità sta nel numero infinito di combinazioni di questi elementi di base e questo crea l’unicità. Unicità dell’incontro tra l’uomo e un luogo e unicità dell’incontro fra gli uomini all’interno di questo luogo.
E anche nell’incontro tra la mia vita e gli incidenti dell’esistenza perché la vita è anche costruire nonostante gli incidenti, accettando anche un cambio di angolatura che ci porta ad aprire vie nuove.
Le mie città nascono da incontri, dagli incontri dell’uomo con un angolo della terra - imperatore Adriano.
Quando io mi rapporto con uno spazio mi sto sostanzialmente rapportando con del non-umano e paradossalmente il non umano del luogo (vegetale, minerale) riesce a far vibrare le corde dell’umano e tocca il mio intimo. Ѐ il paradosso di un uomo che si umanizza anche in virtù di quel non umano. Sempre che si accetti di compiere l’esercizio dell’attenzione. “L’attenzione è l’apertura dell’essere umano a ciò che lo circonda, un’attenzione non solo ad extra, ma anche ad intra rivolta verso ciò che è in noi” (Zambrano). Attenzione deriva dal verbo tendere quindi significa slanciarsi verso, avere una direzione, voler procedere verso. Ma questa esperienza dell’abitare luoghi concreti, fisici, palpabili diventa sempre porta verso qualcosa che supera la fisicità del luogo. Quando Giovanni dice: “Il vento soffia dove vuole, ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va” ci fa anche capire che, per esempio attraverso lo stormire delle fronde, quel luogo vegetale diventa il luogo di un’esperienza fisica dell’impalpabile. L’esperienza dell’intangibile del vento mi si dà grazie al luogo vegetale che si muove in virtù di quel passaggio. L’impalpabile diventa presenza. (lo stesso si potrebbe dire di un altro impalpabile: la luce). L’esperienza della vita spirituale, ma anche gli affetti, gli amori, i dolori…funzionano come il vento, come la luce. L’uomo fa l’esperienza che qualcosa dell’ordine dello spirituale si sprigiona a partire da ciò che è fisico. Allora la frattura fra il fisico e lo spirituale in certi momenti viene meno e i luoghi diventano dei legami.
In Giovanni 1,14 si legge: “Il mistero di Dio in Cristo è mistero di un Dio, di una Parola che viene ad abitare in mezzo a noi”. “Maestro dove abiti”? e Gesù: “Venite e vedete” e i discepoli fanno un’esperienza. Questa esperienza principale che l’uomo fa dell’abitare si radica in una prima abitazione, che è l’abitazione nel corpo. Il corpo nostra prima abitazione. L’uomo è un corpo abitante e abitato. Il nostro corpo abita innanzitutto nel corpo di una donna, noi veniamo al mondo come abitanti e usciti da quella prima casa incominciamo ad abitare nel mondo esterno, a coabitare con gli altri. E poi l’uomo abita il corpo dell’altro; l’esperienza dell’amore fisico della coppia è l’esperienza dell’abitare realmente le profondità del corpo dell’altro. Questo avviene anche nell’esperienza della fede quando nella comunione il mio corpo diventa l’abitazione del corpo di Dio, e il corpo di Dio che abita nel corpo dell’uomo crea il corpo della chiesa. Noi mangiamo ciò che siamo, noi mangiamo quel corpo che stiamo diventando. Se questo è vero allora l’uomo è il primo luogo per l’altro uomo. Prima di trovare luoghi fisici che lo ospitano, il cucciolo dell’uomo che viene al mondo trova il suo primo luogo in un altro. Per il bambino la figura genitoriale rappresenta il luogo primario, il suo primo orizzonte è lo sguardo della madre che si china sulla culla. Quando poi diventa grande, si stacca dal luogo- corpo- materno e incomincia ad abitare i luoghi fisici dello spazio. E allora ci affidiamo alla sintesi fulminea di S. Agostino: “Amando, noi abitiamo con il cuore” cioè noi abitiamo con il cuore là dove si trovano i nostri affetti e tradotto in un altro modo: dove è il nostro amore, il nostro cuore, là noi abitiamo. Abitare un luogo implica sempre delle scelte e chiede anche di lasciarsi istruire dall’alterità del luogo, lasciarsi educare dagli spazi in cui si abita.
L’uomo come può abitare i luoghi? L’uomo abita la terra con merito perché fa tante cose, ma bisogna aggiungere al merito delle cose che si fanno quella postura poetica dell’abitare che Holderlin e altre personalità del mondo della cultura hanno così sintetizzato: “abitare poeticamente”.
Poeticamente ci rimanda al verbo poiein che significa fare, abitare facendo e facendoci. Poetare significa aiutare noi stessi e gli altri ad abitare la vita. Questa azione dell’abitare poeticamente è per Holderlin l’azione del misurare la distanza tra cielo e terra. Noi abitiamo quando siamo capaci di custodire questa nostra duplice appartenenza alla terra sulla quale appoggiamo i piedi e al cielo verso il quale protendiamo il capo. La grande sfida è vivere in una duplice dimensione: chi impara ad avere una consuetudine buona, armonica con i luoghi fisici può ritrovarsi alla scuola preziosa dove imparare ad abitare amorevolmente, poeticamente se stesso; chi sa abitare se stesso, i suoi spazi interiori è capace di abitare amorevolmente, poeticamente i luoghi esterni. Ma questa è un’arte che si apprende nel tempo, con fatica e con pazienza. Con il coraggio di osare l’originalità di ciascuno.
"Accorgersi di essere vivi"
Dall'incontro tra il poeta e paesologo Franco Arminio e Guidalberto Bormolini, che si è consacrato alla vita religiosa e alla meditazione dopo aver fatto in gioventù il falegname e il liutaio, è sbocciata l'idea di scrivere insieme un libro, Accorgersi di essere vivi, uscito il 27 agosto per Ponte alle Grazie. È un breviario per chi ha perso la via, in cui con uno stile lirico e coinvolgente i due autori ci guidano in un viaggio alla scoperta non tanto del mondo, ma di noi stessi nel mondo. Il ragionare poetico di Arminio si interseca con le riflessioni in prosa di Bormolini, dando vita a un testo denso di spiritualità e poesia, che aiuta a ritrovare il senso perduto della vita. In un mondo frenetico e competitivo ci dimentichiamo di essere vivi.
Non sono un letterato, non sono un accademico. Sono un artigiano. Anche spiritualmente mi sento un artigiano. Mi piace costruire e ricostruire sia materialmente che spiritualmente, ed è il cuore della mia missione. Lavorare a questo “breviario per chi ha perso la via” rientra appieno nella mia missione di cura, cioè di “prendersi a cuore”. Mi piace tantissimo incontrare persone e far incrociare percorsi di persone diverse, scrivere per me è un modo speciale di stare con le persone: tutti voi lettori di cui cerco di immaginare i volti e i desideri profondi sin da quando scrivo, chi lavora nelle redazioni, gli amici che mi ispirano e correggono. Rifuggo ed evito il più possibile la televisione e i social (e me ne fanno di proposte!), perché lì non mi sembra di “incontrare”.
In un’interessante raccolta di colloqui mistici di due donne, rimaste anonime, che mi donò il mio padre e amico spirituale, trovai questa frase: «Accogli tutti coloro che vengono, come inviati da Me, e dona loro un benvenuto regale. […] Accogli benevolmente con amore tutti coloro che giungono. Tu non devi vederlo come un lavoro. Oggi essi possono non aver bisogno di te. Domani forse sì. Io posso inviarti strani visitatori. Fa’ in modo che ognuno desideri tornare. Nessuno deve venire e sentirsi indesiderato. Condividi il tuo Amore, la tua Gioia, la tua felicità, il tuo tempo, il tuo cibo, lietamente con tutti. Tali meraviglie vanno rivelate». Ormai da lunghissimo tempo nell’incontrare persone non guardo più idee e ideologie, dogmi o credenze, censo e cultura. Guardo le persone e questo mi basta. Certe volte mi sono sorpreso – ma ormai dovreste sapere quanto mi affascina esserlo – ad ammirare persone che avevano idee o storie lontanissime dalla mia. Mi sono perfino domandato se, inconsciamente, andassi a cercare di proposito personaggi che mai avrei pensato avrebbero potuto attraversare la mia strada tanta era la distanza dal mio pensiero. Ma in fin dei conti il mio amore per l’Infinito, per il Tutto dovrà pure lentamente giungere ai tutti che “abitano” il Tutto. E non vorrei essere equivocato: li cerco per arricchire me, non perché penso di aver da insegnare loro qualcosa. Senza questa pluralità la mia vita sarebbe tanto impoverita. Se fossi davvero innamorato del Tutto, dovrei anche innamorarmi di tutti, e poi andare ancora oltre!
Un giorno fu chiesto a Isacco il Siro, straordinario autore monastico: «Cos’è un cuore compassionevole?» Lui rispose: «È un cuore che brucia per tutta la creazione: per gli uomini, per gli animali, per i demoni, per ogni creatura. Quando pensa a essi e quando li vede, i suoi occhi versano lacrime. La sua compassione è talmente forte e violenta e la sua costanza tanto grande, che il suo cuore si stringe e non sopporta di udire o di vedere il minimo male o la minima tristezza in seno alla creazione. Per questo egli prega in lacrime, a ogni istante, per gli animali senza ragione, per i nemici della verità e per tutti coloro che gli fanno del male, affinché essi siano conservati e perdonati. Nell’immensa compassione che si leva nel suo cuore, che è senza misura a immagine di Dio, egli prega anche per i serpenti». Non sono così, purtroppo. Ma vorrei esserlo. Un piccolo passo è questo “breviario” col quale prendendomi cura di chi ha perso la via ricordo di continuo anche a me stesso quale è la Via che ho scelto e che amo. Il mio cuore ha un fuoco acceso, uno zelo che letteralmente è “ardore”, per andare incontro agli “erranti”, avendo io stesso molto errato.
Guidalberto Bormolini
Poesia e spiritualità strumenti di un nuovo umanesimo
Spiritualità e poesia: due parole vaghe, un connubio altrettanto vago. Se ne può parlare in tanti modi, se ne può parlare solo in modo confuso, con passi che somigliano a quelli di un cielo in un bosco fitto. Io posso dire di aver sempre tenuto con me la parola poesia. Mi sono interrogato su cosa fosse. L’ho letta, ho provato a farla.
La poesia mi ha salvato la vita o forse me l’ha rovinata, in ogni caso è una presenza indiscutibile nella mia mente e nella mia carne: la poesia che non ha a che fare col corpo è un’ingegneria letteraria che non ho mai amato. Io posso dire di avere avuto poche confidenze con la parola spirito, con la spiritualità. Mi sembrava di viaggiare in altre zone. Poi a un certo punto, un punto che ho intravisto pochi anni fa, questa parola ha cominciato a zampillarmi intorno. Mi è sembrato di capire che la questione del mondo più che economica era teologica. Mi è parso di sentire che l’eclissi del Sacro aveva creato nell’umanità una pericolosa condizione di miseria spirituale. E qui, forse, si è prodotto il tentativo di innestare il Sacro nella mia poesia. Il primo tentativo è stato un libro che si chiama Cedi la strada agli alberi. Poi ne sono venuti altri, poi è arrivato Sacro minore e infine Canti della gratitudine. Siamo nel cuore dell’intreccio, del travaso dallo spirito della poesia alla poesia della spiritualità. Non mi sono posto il problema se credo o non credo in Dio, mi sono posto il problema che il mondo non può andare avanti se persiste e si accentua il divorzio dal divino.
Il materialismo brutale e nichilista in cui siamo immersi non solo accentua le ingiustizie sociali e danneggia la salute del pianeta, ma è anche un’implacabile assicurazione sull’infelicità: le nazioni più avanzate economicamente sono piene di depressione e solitudine. Non è un caso che il responsabile della sanità degli Stati Uniti qualche mese fa ha elaborato un documento in cui si parla di pandemia di solitudine e in cui si invoca la riconnessione sociale come via d’uscita. La questione è che non ci possiamo riconnettere se rimaniamo quello che siamo adesso: animali spaventati, incapaci di affidarci e di credere. Prima della riconnessione è cruciale la rigenerazione dell’umano.
Serve tornare alla vita profonda se vogliamo tornare alla vita con gli altri. In superficie ci sono solo fuga e conflitto. Il bene esiste ancora, ma va scavato e portato alla luce con un lungo esercizio. Il bene non è un esercizio di stile, non è una vernice, ma un fuoco che sale da sotto e bisogna liberare le vie per farlo salire in alto e farlo incontrare col fuoco degli altri. Se vogliamo abitare degnamente il mondo, dobbiamo dare grande spazio alla poesia e alla spiritualità nella nostra vita. E questo gesto non è un gesto riposante, non ci mette in salvo. Ci rende più agili e vasti, ci fa sentire che confiniamo con l’infimo e con l’immenso. Siamo animali che possono farsi delle gentilezze, siamo un niente che affratellandosi a un altro niente diventa qualcosa: la stella della nostra vita è la relazione, tutto il resto è un pericoloso equivoco che ci porta alla rissa perenne dell’io, alla solitudine dell’individuo che vede gli altri individui come ostacoli alla sua realizzazione.
È chiaro che è necessario un radicale ripensamento dell’umano e un suo allargamento agli animali e alle piante: siamo tutti abitanti del piccolo pianeta del respiro, l’unico che per ora conosciamo in giro. La poesia e la spiritualità forse vanno pensate come strumenti di un nuovo umanesimo, non come feticci di cui farci mercanti. Sono strumenti preziosi in questo tempo, proprio perché ci mancano. Magari in un tempo, ulteriore avremo bisogno d’altro. Non riesco a scollarmi da un’idea di provvisorietà quando penso alle cose che incontriamo. Noi con la poesia e con lo spirito possiamo avere solo delle intimità provvisorie. Il resto, per chi ci crede, si trova in paradiso.
Un verso
Educare alla poesia
Antonio Prete
Un verso, un solo verso. Ramo di un albero, filo di una tessitura. Oppure, petalo di un fiore, se vogliamo rivolgerci alla classica contiguità della poesia con la rosa. Staccare un verso dal corpo di suoni e di silenzi cui appartiene, dall’onda del ritmo che in ogni parte di quel corpo trascorre, è come prelevare poche note da una composizione musicale. Un’azzardata sottrazione. Un arbitrio. Eppure ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, e anche nella loro traduzione in altre lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: schegge che si trasformano in sorgenti luminose, frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono.
Un verso, un solo verso, può corrispondere, sul piano della poesia, a quello che nel campo della prosa Leopardi chiamava “pensiero isolato”. Nello Zibaldone lampeggiano alcuni “pensieri isolati”, sottratti all’ordine discorsivo della trattazione: la loro densità di teoresi è più forte di ogni diffusiva analisi.
Così, accade anche che alcuni versi isolati, pur sottratti alla loro organica appartenenza, finiscano col vivere di una vita propria. Richiamano, per analogia, quel sapere che, nella “cura di sé” consigliata dagli antichi filosofi, era compendiato nel “detto memorabile”, nei “veridica dicta”, per usare l’espressione di Lucrezio. Trattenere quei detti nella propria memoria era come dotarsi di un prontuario che all’occasione poteva suggerire modi di comportamento, orientamento per le scelte di vita. Lessico interiore di una morale. Allo stesso modo, trattenere singoli versi nella propria memoria è custodire un serto di parole che non riposano nella quiete di un senso o nell’armonia di un suono, ma fanno del senso un suono e del suono un senso e per questa loro singolare virtù o acrobazia o grazia irradiano un pensiero aperto, irriducibile a un solo significato, interrogativo.
Di tali versi soli, e splendenti nella loro solitudine, dirò in questa rubrica. Ogni volta un verso ci inviterà a sostare alla sua ombra: per un pensiero al margine, per una annotazione esegetica, per una considerazione che può avere a che fare, più che col commento, con una libera interrogazione, e anche con quel divagare cui invita proprio quella conoscenza per via fantastica che è la lingua della poesia.
Di verso in verso: un cammino nel giardino della poesia. Un giardino nel quale si potrà sentire talvolta, insieme con il profumo dei fiori, il tragico della vita.
Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. E un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
"Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all'erta. Doni che implicano destino.
Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano […] viviamo sotto cieli cupi − e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche.“
“La poesia che viene al mondo vi giunge carica di mondo.”
Paul Celan
Breviario Laico, DARE OMBRA ALLE PAROLE
Riflessioni con Card. Ravasi /
Parla anche tu, /parla per ultimo, /di’ la tua sentenza. /Parla, ma non dividere il sì dal no. / Alla tua sentenza dà anche il senso: / dalle ombra. / Dalle ombra sufficiente, /dagliene tanta.
Paul Celan
Anche chi – purtroppo! – non ama la poesia, legga lo stesso queste righe di un grande e tragico poeta ebreo tedesco, Paul Celan, nato in Romania nel 1920, testimone della fine della sua famiglia nei lager nazisti, morto suicida gettandosi nella Senna a Parigi nel 1970. Di solito i suoi versi, altissimi, sono ardui, ma questa volta il suo è un appello semplice e incisivo. Il poeta non va contro il detto di Cristo sulla sincerità: «Sia il vostro parlare: Sì, sì! No, no!, il di più viene dal Maligno» (Matteo 5,37). Egli vuole, invece, colpire chi pronuncia sentenze definitive quasi fosse l’unico interprete autorizzato della verità. Sono quelle persone che non si lasciano mai frenare da un’esitazione, che asseverano «senza ombra di dubbio».
Ecco appunto l’immagine di Celan, l’ombra che invece dovrebbe alonare le parole. Solo così esse escono dalle labbra quasi in punta di piedi, con discrezione e pudore. Anziché essere un flusso veemente e inarrestabile, sono centellinate e avvolte nella pellicola del silenzio perché sono pesate e pensate. Sono frasi che lasciano spazi ancora bianchi che ammettono approfondimenti e un’ulteriore vita in coloro che le ascoltano, un po’ come accade alla poesia che ha bisogno degli «a capo» così da lasciare un vuoto che l’eco nell’anima del lettore riempie. È proprio l’esatto contrario della chiacchiera che non ammette spazio e interstizi, oppure dell’urlato che impedisce il dialogo. Un personaggio di Pirandello diceva in Ciascuno a suo modo (1924): «quanto male ci facciamo per questo maledetto bisogno di parlare!».
Testo tratto da: G. Ravasi, Breviario laico, Mondadori
Paul Valéry. Il mare, il mare sempre rinascente!
Un verso
Antonio Prete
Quale verso delle ventiquattro sestine che compongono il Cimitero marino di Paul Valéry può raccogliere nel suo specchio i riflessi che vengono dagli altri versi? La configurazione formale, ritmica, immaginativa e teoretica del testo poetico ha tale rigorosa e necessaria e impeccabile tessitura che separare un verso dagli altri versi può mandare in frantumi l’intero mirabile edificio. E tuttavia questo verso della prima sestina – La mer, la mer toujours recommencée – può fare se non altro da avvio ad una breve riflessione che accompagni lo scorrere del poème:, il quale ha esattamente cento anni (uscì nella prima versione sulla “Nouvelle Revue Française” nel giugno del 1920). Perché in questo verso il mare mostra, nel suono della ripetizione, il movimento dell’onda, e allo stesso tempo il suo doppio legame con un tempo fuori del tempo (toujours, sempre) e con un ritorno senza fine (recommencée), un ritorno che è rinascita, partecipazione a una creazione che sempre ricomincia.
Il mare, dunque, e lo sguardo sulla sua superficie, sul suo movimento, sulla sua bellezza, che dischiude la meditazione su quel che più conta, come l’essere, l’apparenza, il divenire, il già stato, la morte, la rinascita, e questo nella musica del verso. Contemplazione non da una riva, ma dal piccolo promontorio su cui sorge un cimitero che un tempo ospitava le tombe di marinai e di pellegrini. Contemplazione che, imitando l’onda marina, istituisce un andirivieni tra il vedere e il pensare, tra lo stupore dinanzi alla bellezza luminosa dell’apparire e l’interrogazione intorno al proprio stare – nella quiete e nell’ardimento, nel dubbio e nell’attesa – dentro un tumulto che è vita: vita consumata, scintillio di vita, vita dinanzi alla morte, morte nella vita. Ma ecco la prima sestina, dov’è incastonato il verso, seguita da una mia traduzione:
Ce toit tranquille, où marchent des colombes,
Entre le pins palpite, entre les tombes;
Midi le juste y compose de feux
La mer, la mer, toujours recommencée!
O récompense après une pensée
Qu’un long regard sur le calme des dieux!
Un tetto calmo corso da colombe
palpita in mezzo ai pini e tra le tombe.
Meriggio il giusto coi suoi fuochi acquieta
il mare, il mare sempre rinascente!
Dopo un pensiero, che dono lucente
guardare a lungo degli dei la quiete!
La seconda sestina inaugura un’alternanza – che rimbalza lungo tutto il testo – tra la visione del mare, delle sue metamorfosi, della sua luce (“Un puro assiduo folgorio consuma /diamanti di minutissima schiuma”) e le trasvalutazioni d’ordine concettuale (“scintilla il Tempo, e il Sogno è sapere”).
Un “monologo del mio io”, dirà Valéry del suo Cimitero marino. Un monologo nel quale prendono suono e forma i temi della sua vita “affettiva e mentale” – questa l’espressione che usa il poeta – così come sin dall’adolescenza si erano definiti, ovvero in una relazione fortissima con il mare e con la luce mediterranea.
Rievocando, molti anni dopo, la composizione, Valéry dirà che il primo movimento verso la scrittura poetica era nato da una sensazione puramente ritmica, vuota di senso, riempita di sillabe vane, che era diventata per un certo periodo un’ossessione: insomma, una frase musicale che s’insedia nella mente, priva di parole, ma che cerca di fissarsi nella misura metrica del decasillabo (il decasyllabe francese, un verso non consueto per la grande tradizione lirica). Allo stesso tempo quella misura, mentre risuonava, mostrava su di sé l’ombra del dodici, il numero sillabico dell’alessandrino, con la sua “potenza”, e a quella soglia tendeva e da essa si ritraeva (per questo la metà del dodici, la sestina, diventa la strofe della composizione, e il doppio del dodici, ventiquattro, diventa l’insieme delle strofe). Per un poeta come Valéry sostare, metricamente, al di qua del dodici significa non cadere nell’eloquenza teatrale dell’alessandrino (l’alessandrino, “il nostro esametro”, diceva Mallarmé); per contro, attivare le sonorità del decasillabo con una mobilità di cesure interne significa guardare all’endecasillabo dantesco, al suo grande esempio di vitalità ritmico-sonora e di modulazione ragionativa e contemplativa insieme. È singolare come questa sorta di ispirazione meramente sonora faccia germinare i movimenti del pensiero, e offra ad essi una dimora musicale.
Accade insomma che la forma metrica, una volta visitata dall’idea, incontra la singolarità vivente e rammemorante e meditante del poeta, la sua storia personale: di ricerca interiore, di formazione dello sguardo, di interrogazione sul nesso vita e morte. Un esercizio metrico si svolge come pensiero poetico. Per questo Oreste Macrì, che nel 1947 diede una traduzione italiana del famoso testo poetico di Valéry, accompagnata da un fitto e coltissimo corredo esegetico, intitolò il suo saggio introduttivo Metrica e metafisica nel “Cimetière marin”.
Opera di Andrew Wyeth.
Quanto alla mia esperienza, ho tradotto Le Cimetière marin dopo che avevo a lungo indugiato nella poesia di Valéry – dai Frammenti di Narciso alla Giovane Parca – e nelle prose, nei dialoghi, nei trattati, e soprattutto in quel meraviglioso Zibaldone novecentesco che sono i Cahiers, un quotidiano corpo a corpo con il sapere di tutte le arti, del linguaggio, delle scienze umane, fisiche e naturali. Avevo a lungo rinviato la traduzione di un testo la cui perfezione formale non poteva che disperdersi e spegnersi, o almeno attenuarsi, una volta traslata in un’altra lingua (anche se molti, e talvolta riusciti, erano gli esempi di poeti italiani che si erano applicati all’impresa). Ma quando mi accadde, sulla metà degli anni Novanta, di sostare per la prima volta a Sète, e salire tra le pietre del Cimétiere marin, in una luce mattutina abbagliante, i versi del poeta mi apparvero con una loro prossimità, come se da quel luogo le immagini abbandonassero la severa dimora del decasillabo francese e si distendessero, con semplicità, diventati parola della luce, pensiero del visibile, intimamente legati alle linee del paesaggio in cui erano nati, da cui erano nati (sarei tornato diverse altre volte sul bel porto di Sète, nei vari soggiorni d’insegnamento a Montpellier e di seminari tenuti in quella Università, appunto detta la Paul Valéry). Fu allora che decisi di avventurarmi nella traduzione. Le pagine di Ispirazioni mediterranee, in cui il poeta, rievocando la sua infanzia marina e portuale, riflette sulle figure di un pensiero meridiano, mi sembrava potessero accompagnare l’atto del tradurre. E tuttavia, come qualche volta accade, sulla prima traduzione sono tornato, dopo alcuni anni, con l’assillo del repentir, della revisione e riscrittura, giungendo infine a una nuova versione. Ogni traduzione poetica è solo una sosta lungo il cammino verso un’impossibile traduzione compiuta.
Torniamo ai versi di Valéry. Per il quale la poesia è suono del pensiero, musica del pensiero: questa è l’eredità mediterranea che il poeta sentiva di dover consegnare alla scrittura. Quanto al verso, esso nasceva nel corso di un raro, preziosissimo stato di grazia, una sorta di inatteso dono che insieme interrompeva e raccoglieva il tempo continuo, quotidiano, del ricercar meditando.
I versi del Cimitero marino, di sestina in sestina, rimodulano, nella tensione del suonosenso, e con la matericità di immagini corporee, le grandi domande sul tempo, anzitutto, ma anche sull’apparenza, sull’assoluto, sulla caducità, sulla mortalità, sul nulla, e questo attraverso la costruzione di figure corporee, attraverso il trionfo del visibile. E tra il bianco marmoreo delle tombe e lo scintillio della distesa marina trascorrono pensieri d’amore e di consunzione, il desiderio e il dolore mostrandosi come lingua propria dell’umano, come l’attesa e il sogno. Sullo sfondo, Lucrezio, Agostino, Pascal. Ma la curvatura del pensare che tra l’addensarsi di immagini rivela il suo nitido profilo è la necessità dell’ombra, l’accettazione della condizione umana, della distanza dall’assoluto, dal principio, l’invito a “rentrer dans le jeu”, rientrare nel giuoco, che è giuoco di vita e morte insieme, rimettersi in giuoco, e intanto opporre al fascino dell’astrazione la vibrazione dei corpi, al richiamo dell’oltre il qui tumultuante dell’esistenza, al gelo della cancellazione l’onda – appunto l’onda – del desiderio. A un certo punto appare, nella XXI sestina, il greco Zenone, col suo paradosso: “Zenone, crudo Zenone Eleata, / m’hai trafitto con questa freccia alata / che vibra e vola ed è priva di moto”. Dirà poi Valéry che introdusse l’argomento di Zenone per indicare, nel discorso sul tempo, la ribellione contro la durata, ma anche per una ragione compositiva, cioè per compensare con una tonalità filosofica il sensuale e “troppo umano” delle strofe precedenti. Ma ecco, in versione italiana le ultime due sestine, in cui si rompe definitivamente la “forma astratta”, la rinuncia all’assoluto è dichiarata, il corpo e la vita gridano il loro essere nel movimento del desiderio, all’unisono con l’energia metamorfica e scintillante del mare:
XXIII
Sì, mare immenso di folli scintille,
pelle di pardo, mantello che mille
e mille idoli del sole scompigliano,
sciolta idra che del tuo azzurro corpo ardi,
e la coda splendente ti rimordi
nel tumulto che al silenzio somiglia,
XXIV
si leva il vento! S’affronti la vita!
Squaderna il libro quest’aria infinita,
franta esce l’onda da rupestri stele!
Volate via, mie pagine abbagliate!
Rompete, onde, con acque rallietate,
quel tetto quieto morso dalle vele.
Lo sguardo torna sul mare, sul suo azzurro corpo vivente. Il tono è in levare, la severità della dizione poetica si apre al canto, il poemetto accoglie i timbri dell’ode, la solennità dell’alessandrino tenuta a distanza con il decasillabo riprende ora il suo campo, la “forme pensive”, l’astrazione, si lascia scuotere dal vento della vita. Il pensiero è invaso dalla luce, dall’aria, dall’infinito dell’aria. E il tetto d’acqua, l’azzurra superficie su cui il primo sguardo scorgeva colombe-onde, riappare con il suo movimento, percorso ora da vele, mordicchiato dal loro beccheggiare. La prima e l’ultima immagine si ricongiungono: il mare sempre ricomincia, nella luce del rinascere che dialoga con l’altra luce, quella che, in alto, tra le tombe del “cimetière marin” fruga interrogativa nelle pieghe del tempo, tra le ceneri di quel che è stato.
Friedrich Hölderlin. Chi pensa il più profondo, ama il più vivo
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso di Friedrich Hölderlin (Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste), che sopra riporto nella traduzione di Giorgio Vigolo, in un’altra traduzione, per dir così più esplicativa, quella proposta da Luigi Reitani nel “Meridiano” dedicato al grande poeta tedesco, suona così: “Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”. Il verso appartiene alla poesia che ha il titolo Sokrates und Alkibiades (Socrate e Alcibiade), una breve composizione di due strofe che è tra le più note e tradotte di Hölderlin (c’è anche una traduzione-imitazione di Giacomo Noventa, nel suo veneziano singolarissimo, che aderisce al testo nella prima strofe e reinventa con leggerezza sorridente il resto).
Il verso di Hölderlin ha la compiutezza aforismatica di un pensiero che intende raccogliere in una sola frase un cammino di teoresi e di meditazione; un verso, insomma, che somiglia ai “detti” della filosofia antica, ai “veridica dicta”, come li definiva Lucrezio. Il verso, che apre la seconda strofe, si pone come risposta alla domanda consegnata alla prima strofe. Ecco il testo della poesia nella traduzione di Vigolo, seguito dall’originale:
“Perché stai sempre adorando, Socrate santo,
questo giovane? Nulla sai di più grande,
che con occhio d’amore
come gli dei lo contempli?”.
Chi pensa il più profondo ama il più vivo,
sublime gioventù intende, chi ha guardato nel mondo,
e finiscono i savi sovente
con inclinare al Bello.
“Warum huldigest du, heiliger Sokrates,
diesem Jünglinge stets? Kennest du Grössers nicht?
Warum siehet mit Liebe,
wie auf Götter, dein Aug’ auf ihn?”
Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste,
hohe Jugend versteht, wer in die Welt geblickt,
und es neigen die Weisen
oft am Ende zu Schönem sich.
Socrate e Alcibiade: le due immagini, il maestro e il discepolo, rinviano ai dialoghi platonici – in particolare al Simposio e all’Alcibiade – e alla questione posta da Socrate sul rapporto tra sapienza e amore, una questione che il poeta qui disloca subito sul piano di una relazione forte tra due elementi: tra il pensiero che si sospinge fino all’estremo, fino al suo stesso confine – e per questo fa esperienza del “più profondo” (das Tiefste) – e l’amore del vivente, laddove questo manifesta la sua essenza, mostrandosi nel punto più alto (das Lebendigste), e cioè rivelandosi nella forma della bellezza. Il pensiero più profondo – di “profunda profunditas” parlerà Agostino – è proprio della sapienza, l’elemento più vivo è proprio della bellezza.
Illustrazione di Cressida Campbell.
Pensare il più profondo, amare il più vivo: ritmo che unisce conoscenza e amore. Diastole e sistole di un battito che fa del pensare una lingua del desiderio e dell’amore un pensiero del vivente. Un’unità – o tensione verso un’unità – che tende a bruciare ogni opposizione tra il sapere e l’amore, tra la conoscenza e la bellezza. Il pensiero, nella sua essenza, è amore della bellezza. Un poeta come Hölderlin, che nella poesia porta, inquietamente e luminosamente, tutta la propria formazione filosofica, mostra, con la cura del verso, della sua forma, del suo suono, come vera sapienza sia fare esperienza della bellezza attraverso l’amore del vivente, del tutto vivente. La Natura è figura prossima, visibile, del tutto vivente. E la Natura è infatti la madre dalla quale il poeta ha appreso la lingua della propria arte: die Mütterarzrtlichkeit (si veda la lirica intitolata Die Stille). Questa consapevolezza è propria del poeta romantico: Keats dice che dal ruggito del leone (the Lion’s roaring) e dal grido della tigre (the Tiger’s yell) il poeta apprende la sua lingua. È un modo per dire della materna pedagogia messa in campo dalla Natura nei confronti del poeta.
Nel Simposio, quando Socrate prende la parola, dopo gli elogi di Eros via via fatti dai discepoli, e racconta di non sapere dell’amore se non quello che gli ha detto un giorno la donna di Mantinea, Diotima, a un certo punto, come osservazione al margine delle considerazioni sulla natura di Eros, dice della equivalenza tra Eros e Poiesis: come Poiesis, cioè la creazione, è movimento che dal vuoto, dall’assenza, fa che le cose siano, così anche Eros, in quanto desiderio, è movimento che dalla mancanza va verso la presenza. Dal vuoto al visibile, dalla privazione alla forma: un movimento che nel suo divenire resta sempre aperto. Nella poesia di Hölderlin l’amore è allo stesso tempo amore della sapienza – il pensare profondo – e amore del vivente. La poesia è la lingua che accoglie questo incontro tra amore della sapienza e amore del vivente.
C’è come un cerchio che nell’Europa della Romantik mette in relazione diverse culture letterarie, diversi poeti, con questa idea forte del vivente: Keats, Novalis, Hölderlin, Leopardi, ed altri. L’onda di questa poesia intesa come ascolto e amore del vivente giunge fino a Rilke. Una singolare corrispondenza: nella traduzione che Rilke fa dell’Infinito leopardiano c’è una particolare attenzione, di natura direi teoretica, proprio ai riferimenti al vivente. Le parole leopardiane “… e la presente / e viva, e il suon di lei”, / Rilke in qualche modo le rafforza, traducendo “und diese/ daseiende Zeit, die lebendige, tönende”. Una traduzione interpretativa (una traduzione “glossematica”, avrebbe detto Contini), che approfondisce anche sonoramente da una parte il limite del visibile, del qui e ora, del questo, dall’altra la presenza appunto del vivente, il suo risuonare.
Hölderlin, Leopardi, Rilke: poeti che con la loro poesia hanno detto dell’essenza stessa della poesia.
Torniamo al verso di Hölderlin. La domanda rivolta a Socrate dice di uno sguardo che è contemplazione – la memoria del verso di Saffo tradotto da Catullo con Ille mihi par esse deo videtur è dichiarata – ma proprio questo sguardo si rivelerà subito come la figura di una contemplazione che ha radice nel pensiero profondo, dunque nella sapienza, e si manifesta come percezione, da parte di tutti i sensi, della bellezza. Questo sguardo sulla bellezza – che è insieme forma del vivente e manifestazione del sacro – si accompagna per il poeta tedesco alla ricerca di un’armonia, al senso di una grande quiete per la relazione con questa armonia. Nell’Iperione c’è un passaggio bellissimo che racconta di questa ricerca:
O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano (trad. di G. V. Amoretti).
La lirica di Hölderlin è in tutte le sue stazioni interrogazione della Natura: della sua presenza, del suo stormire, delle sue voci, dei suoi silenzi. E questo accade nella meditazione poetica intorno al pensiero rammemorante: Mnemosyne, l’An-denken raccolto e dispiegato più volte nell’ermeneutica di Heidegger. Accade nel grande tema del ritorno dopo la peregrinazione, nel tema della notte che è vuota attesa del dio, solitudine per la sua assenza.
E tuttavia il rapporto con la bellezza e la ricerca di armonia con la Natura che i versi del poeta accolgono e descrivono ha in sé l’ombra del tragico. Perché è lontananza dal principio, dalla perfezione, dal sacro, che si manifesta solo in quanto perduto. La prossimità al vivente di cui fa esperienza la poesia nel respiro stesso del suo suono, nelle sue immagini, ha in sé questo tremore: mentre sperimenta la tensione verso il vivente, avverte anche la fragilità e inanità di questo suo vedere e sentire. La fragilità della stessa lingua.
Anche se non diamo, oggi, a questa mancanza il nome del sacro, conosciamo quanto sia diventata profonda la lontananza dal vivente, dal tutto vivente. Il profilarsi di un tempo in cui si estende il dominio dell’artificiale, del virtuale, del robotico, mette in questione la relazione corporea – “sensibile e immaginosa”, direbbe Leopardi – con il vivente, con la Natura vivente. La poesia appare inappropriata, estranea, a questo tempo. Ma sempre la poesia è stata in esilio dal proprio tempo.
Una cosa bella è una gioia per sempre
Un verso.
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso apre il poema di John Keats Endymion: “The thing of beauty is a joy for ever”. La bellezza e la gioia. Keats unisce in un solo verso la forma del visibile cui diamo il nome di bellezza e quel sentimento fortemente corporeo e insieme profondamente spirituale che è la gioia. Per un poeta la bellezza è un fatto anzitutto interiore. Per questo definire la bellezza è una questione che non attiene all’ordine dell’estetica ma all’universo del sentire. Non è necessario evocare categorie che colgono la forma, o la relazione tra le forme, come l’armonia, la proporzione, la misura, ma basta riferirsi alla percezione di sé nel rapporto con il visibile, una percezione che è esperienza di un sentimento, anzi del più impetuoso e vitale dei sentimenti, al quale diamo il nome di gioia.
La bellezza e la gioia: una complicità forte, una sorellanza che sa accogliere il mondo, l’esperienza del mondo, per quel che si mostra come luce e come musica. E che per questo può sfidare la qualità prima del tempo, che è l’irreversibilità, può cioè tentare un patto – certo illusorio, azzardato, estremo – con la permanenza, con il sempre. Senza questa interiore sospensione della caducità, senza questa fantasticata esclusione del declino dall’orizzonte del visibile, le cose non possono salire verso la lingua della poesia e lì essere accolte e custodite. Ma si tratta di una finzione, analoga alla finzione che nell’idillio di Leopardi mette in moto la rappresentazione di un infinito impossibile a sostenersi: “Io nel pensier mi fingo”. Di questa finzione il poeta Keats, come del resto ogni poeta, è consapevole. Una finzione senza la quale non potrebbe esserci quella creazione del mondo che è sempre la poesia. Ed è questa sospensione della caducità che permette il dischiudersi del sentimento della gioia. Un sentimento che cerca i segni per manifestarsi: la gioia è una letizia che chiama i sensi, tutti i sensi, a congiungersi festosamente. Per questo, per dire della gioia ricorriamo ad aggettivi come pura, assoluta, incontenibile, piena. E tuttavia, nonostante la pulsione a manifestarsi, nonostante le forme profane o secondarie in cui la gioia si può manifestare, come l’allegrezza o il riso, il suo movimento più proprio è quello di portare il rapporto con il visibile nel tempo-spazio dell’interiorità. Un movimento somigliante a quello dell’amore. Anche l’amore è esperienza che nei suoi momenti di fulgore sospende la caducità del tempo, fa un patto con l’oltretempo: da qui il legame forte che la poesia d’amore ha con l’elemento lunare, solare, stellare, cioè con quelle figure che appartengono a un tempo diverso da quello umano e storico, un tempo cosmico, che è come dire un oltretempo, o un tempo senza tempo (poesia d’amore e cosmologia è un nesso intorno al quale mi è accaduto più volte di riflettere).
Keats dice in altri memorabili versi di questa sospensione del tempo che la bellezza – la bellezza del visibile e quella dell’arte – può dischiudere. Pensiamo ai versi dell’ Ode on a Grecian Urn, che dicono la sottrazione al declino propria delle figure rappresentate sull’urna (“Ah, happy, happy boughs! That cannot shed / Your leaves, nor ever bid the Spring adieu” – Oh! felici, felici rami, che non potete perdere / le foglie e mai direte a Primavera addio”. E nominano anche, quei versi, la dolcezza suprema di una melodia priva del suo suono, perché consegnata all’immagine dei flauti che continuano a suonare al di là del loro tempo, fuori dallo scorrere del tempo.
Keats qui nasconde quel senso del declino che pure è proprio della bellezza, per mostrare come la lingua del poeta, e prima ancora della lingua il suo vedere e sentire vivano l’esperienza di una lotta contro il passaggio, contro il transitorio, e anche contro l’oblio. Una suprema finzione, in virtù della quale la lingua della poesia può ospitare quel che più non c’è, accogliere il tempo finito, far risorgere quel che è fatto cenere.
Ma Keats non ignora, se pensiamo ad altre sue composizioni, l’altro aspetto della bellezza, quello della caducità: pensiamo al verso di Ode on Melancholy: “She dwells with Beauty – Beauty that must die” (“Lei dimora con la Bellezza – la Bellezza che deve morire”). E subito dopo questi versi compare anche qui, come compagna della Bellezza, la Gioia. La caducità, dunque, come altro elemento della bellezza. È il tema che darà avvio alla riflessione di Freud in Caducità (1915): al poeta che dinanzi allo splendore del paesaggio è malinconico perché vi legge l’ombra del declino si può opporre la preziosa esplosione dell’istante di vita che sospende quell’ombra. È Baudelaire che sul tema della bellezza sempre osserva la compresenza dello splendore e del declino, e lo fa con le sue categorie: la bellezza è composta di due elementi, l’éternel e il transitoir.
Torniamo al primo verso dell’Endymion, che si chiude con for ever, sempre. Anche il primo verso de L’infinito di Leopardi aveva un sempre, anzi cominciava con un sempre: “Sempre caro mi fu questo ermo colle”. Nel giovane poeta inglese il for ever si riferisce a un’appartenenza del visibile a sé che sconfigge il declino, o almeno sospende col linguaggio della poesia – con il racconto lirico ed epico che sta per prendere avvio – lo scorrere implacabile del tempo. Il sempre leopardiano dice invece l’intimità affettiva di un’appartenenza al visibile – questo colle, questa siepe – che è soglia per l’odissea del pensiero. Un’avventura della lingua che vuol dire l’infinito sapendo dell’impotenza del pensiero a dire l’infinito; ed è proprio il mi fu aperto da quel sempre (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”) che sopravviene nel naufragio e raccoglie il sentire, cioè la presenza del corpo, nel m’è dolce dell’ultimo verso: “E il naufragar m’è dolce in questo mare” (e occorrerebbe riflettere sul rapporto tra la dolcezza di Leopardi dinanzi allo spalancarsi dell’indefinito che risarcisce l’impossibile rappresentazione dell’infinto e la gioia di Keats dinanzi al mostrarsi della bellezza).
Il poema al quale appartiene il verso di Keats, l’Endymion, fu composto tra l’aprile e il novembre del 1817, pubblicato nel maggio del 1818. Impetuoso esercizio di scrittura poetica – in quattro libri di mille versi ciascuno – il poema è un trattamento lirico del mito che riguarda il re-pastore Endimione, la sua ricerca dell’amore, i suoi incontri, le sue visioni, il suo sonno, il suo rapporto con la sorella Peona, con una fanciulla indiana, con Venere, con la luna. Il primo verso apre il proemio del poema e unisce alla presenza della natura – il sole, la luna, gli alberi, le ombre, i fiori, i ruscelli – la presenza dei bei racconti (“all lovely tales”) uditi o letti: essenze (“essences”) che sentiamo come appartenenti a noi, al di là della percezione del loro passaggio.
Questo senso di una relazione profonda con il vivente e con il visibile ha a che fare, in Keats, con la sua stessa idea del poeta, che in una lettera a Fanny definiva come “la più impoetica delle creature”: il poeta è colui che sa esporre i suoi sensi all’ascolto, sa lasciarsi “impressionare”. Una dimissione del sapere, un sentire su cui si imprimono presenze e passaggi, che nella loro quieta dolcezza cercano la via della lingua, il nuovo tempo della poesia.
Rainer Maria Rilke. Incerta, dolce, priva d’impazienza
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
È il verso che chiude la poesia di Rilke dal titolo Orfeo, Euridice, Hermes. Novantacinque versi che, con un andamento insieme drammaturgico e meditativo, con rilievi fortemente figurativi, rivisitano e interpretano il mito di Orfeo che scende nell’Ade per tentare di riportare tra i viventi la donna amata, sorgente e vita del suo canto: il cantore, a un certo punto del sotterraneo cammino, infrange il divieto di voltarsi, condizione imposta dagli dei, così Euridice è ripresa nel regno dell’oscuro.
Scritto nel 1904, molto prima, dunque, della grande stagione delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo, il testo poetico muove da un bassorilievo presente nel Museo Archeologico di Napoli che raffigura i tre personaggi del mito. Come nel verso qui scelto, così in tutto il testo poetico, Euridice appare avvolta in una sua lontananza, che è lontananza dal desiderio stesso.
Figura d’ombra: tuttavia abitata da un sentire che è come un’increspatura astratta di quel che è stato. Un dopo-la-vita che è percezione, ancora, della vita, ma da una soglia di sopravvenuta imperturbabile quiete. Un oltretempo che fa venire alla mente la domanda gelida ed estrema del leopardiano Coro dei morti: “Che fu quel punto acerbo /che di vita ebbe nome?”. Il verso che chiude la poesia era già riapparso nel corso della composizione quando il poeta descriveva Euridice, con il passo “costretto in funebri bende”, la mano nella mano del dio, “chiusa in sé come alta speranza”. Ecco la strofe, in una mia traduzione (raccolta nel quaderno L’ospitalità della lingua):
Ma veniva lei a mano del dio,
il passo costretto in funebri bende,
incerta, dolce, priva d’impazienza.
Era chiusa in sé come alta speranza,
immemore dell’uomo ch’era avanti
e del sentiero che alla vita andava,
Era in sé raccolta, colma di morte,
e questo era pienezza.
Come un frutto di dolcezza e di buio,
era piena della sua grande morte,
così nuova che in quella si perdeva.
Il poemetto si era aperto col verso “Das war der Seelen wunderliches Bergwerk” (Era l’oscura miniera delle anime) mostrando con tratti espressionisti l’oltremondo sotterraneo, le anime che come vene d’argento, silenziose, solcano l’oscuro, e il rosso del sangue che sgorga tra radici per salire poi verso il mondo dei vivi, e intorno rocce, morte foreste, ponti sul vuoto, e un immenso grigio stagno, sospeso “come un cielo di pioggia sul paesaggio”. Poi un sentiero, e lungo il sentiero, il dio Hermes che conduce Euridice, più avanti Orfeo, le mani fuori dal mantello azzurro, la lira alla sua sinistra, “radicata / quale cespo di rose sull’ulivo”.
L’ombra qui è materia che si fa immagine, che prende forma, movimento, ritmo. Il mondo ctonio, sul quale si posava con insistenza lo sguardo dei romantici tedeschi, riappare in questi versi di Rilke come regno delle ombre abitato da un mito. Da un mito che è racconto del legame tra canto e amore, tra poesia e amore. Di quel legame è qui messa in scena la perdita, l’irrimediabile perdita. Il tema dell’addio avrà nella lirica successiva del poeta un grandissimo rilievo: l’addio ritmo dell’esistenza stessa.
Orfeo, nella ombrosa figurazione del cammino, è osservato di spalle: sale verso la luce dei vivi, dietro di lui l’eco dei suoi passi, e il vento che muove il mantello. Euridice e Hermes salgono anch’essi verso la luce, silenziosi. Se Orfeo si voltasse, disfacendo l’opera, vedrebbe lei, la silenziosa, chiusa nelle sue vesti, figura d’ombra, il passo lento, personaggio di un rito del quale non intende né la ragione né le forme.
Hermes, il dio dei viaggi e degli annunci che vanno lontano, la conduce tenendola per mano:
Lei, la molto amata, che dalla lira
traeva un lamento più che da donne
in lutto, e dal lamento sorgeva un mondo,
e tutto era di nuovo: selva e valle
e strada e borgo e campo e fiume e belva;
e nel mondo-lamento, come intorno
a un’altra terra, roteava un sole
e un silenzioso cielo stellato,
cielo-lamento con sbalzate stelle:
lei, la tanto amata.
Dal lamento sorgeva un mondo: eine Welt aus Klage ward. Lei, per l’amore ricevuto da Orfeo, muoveva la musica della parola. Di una parola che era creazione. Nel canto il visibile si dispiegava in una nuova esistenza. Il visibile della poesia: tempo-spazio dell’apparire in cui le cose sono intime a sé, si rivelano in quel legame con il tutto che al di fuori della parola poetica è fatto opaco. La poesia evoca un mondo in cui la parola e la cosa non sono disgiunte: selva, valle, strada, borgo, campo, fiume, belva respirano con il respiro della terra, sotto un cielo di stelle, anch’esse figurazione visibile del lamento-canto: “cielo-lamento con sbalzate stelle” (ein Klage-Himmel mit entsteltlen Sternen”). Il lettore avverte, in questa dolente nominazione creaturale messa in opera dalla parola poetica, l’annuncio di quello che sarà il cuore della meditazione di Rilke sulla poesia, una meditazione che nella Nona Elegia sarà affidata a questi versi:
…siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero, finestra,
al più: colonna, torre…ma per dire,
oh! dire così, come le cose stesse mai
dentro di sé sognarono d’essere.
Il mondo si mostra nella sua fisica, preziosa e prossima singolarità: la cosa sta nella parola come nel suo proprio abitare, e nella parola palpita, si conosce, vive. Perché questo avvenga occorre che il dire sia anzitutto una pronuncia interiore, il vedere sia un vedere interiore. Il dicibile è movimento della cosa verso la parola, e dire è compito terrestre e umano. Il tempo dell’esistenza individuale è tempo del dicibile: “qui, delle cose dicibili è il tempo” (Hier ist des Säglichen Zeit). Questo tempo della parola è altro dall’oltretempo stellare, che appartiene all’indicibile, e che solo la morte dischiude: pensiamo ai versi della Settima Elegia: “O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen! “(Oh! Esser morti una volta, e conoscerle all’infinito, / le stelle, tutte: e allora come come come dimenticarle!”). Compito dell’umano, dinanzi all’animale che sta nell’“aperto”, e all’Angelo, che è purezza della conoscenza, è accogliere il visibile nel nome, per trasformarlo nell’invisibile. E poterlo custodire: come si custodisce l’addio, ritmo stesso dell’esistenza.
Ma l’esteso ventaglio del pensare poetico di Rilke, sostenuto, negli anni che precedono le Elegie, dal passaggio attraverso Hölderlin, rischia di apparire contratto e scialbo in queste forzose abbreviazioni. Torniamo allora all’ Orfeo del poemetto. Il suo dire era, nella luce che vestiva i viventi, un dire che accoglieva le cose, le faceva vivere, e questo perché un principio d’amore, una figura d’amore, muoveva la parola della poesia.
Abbiamo lasciato Euridice sul sentiero d’ombra: “colma di morte”, incede con passo lento, “incerta, dolce, priva d’impazienza”; la mano nella mano del dio Hermes, va verso una luce che presto sarà negata.
Euridice, di qua dalla luce, di qua dalla vita, e dal canto che lei faceva sorgere, è come in una “nuova adolescenza”, dimentica delle nozze, è un “nuovo fiore prima di sera”, è turbata, come per troppa intimità, dal lieve contatto della sua mano col dio che la conduce. La sua essenza di vita è come dissolta (“sciolta come una lunga chioma, / abbandonata come pioggia in terra”). Un verso, isolato, quasi epigrafe che nomina un’altra appartenenza, campeggia tra i silenzi: “Lei era già radice”. Tornata a un prima della vita che è fondamento della vita, quiete nell’essenza, in quell’oltre che è l’essenza. Quando il dio ferma il passo e annuncia che lui si è voltato, lei non comprende e piano domanda: Chi? Una domanda che è voce priva di memoria, voce che sale da un corpo d’ombra. Dal profondo di un’altra appartenenza. E Orfeo dall’alto osserva il dio che si volge indietro, al suo fianco c’è lei, “il passo costretto in funebri bende, /incerta, dolce, priva d’impazienza”.
In questa messa in scena del mito – l’energia figurativa dei particolari qui risente dell’amore che il poeta ha mostrato fino a quel momento per Rodin e per Cézanne – mostra come in una sinopia la gravità delle domande ultime, le domande sul rapporto tra la vita e la morte. E la poesia, dando respiro e immagine a queste domande, si fa narrazione scenica, suono che disegna mondi, tappeto di silenzi sui cui sorgono voci. Per dire, ogni volta in modi diversi, il nesso tra amore e lingua. Per dire come il perduto possa trovare una sua nuova vita nella parola, restando nella sua privazione, nel suo già stato. L’addio, il dolore dell’addio, è in ogni passo, in ogni parola.
Mario Luzi. Vola alta, parola, cresci in profondità
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso di Mario Luzi è sempre un frammento che riceve luce da altri versi contigui e irradia sugli altri versi la propria luce: una luce in cui trema una ininterrotta meditazione sul tempo, sul visibile, sulla sua ferita, sulla sua sperata armonia. La poesia, annunciata in una pagina a sé col titolo Vola alta parola, appartiene al libro Per il battesimo dei nostri frammenti, del 1985 (ora nel Meridiano curato da Stefano Verdino, 1998). Ecco il testo che muove dal primo verso e sul primo verso riflette l’insieme del suo movimento:
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza …
La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?
L’allocuzione d’apertura, in levare, e quasi ad alta voce, rivolta “nel buio della mente” alla parola – che è parola, certo, della poesia, ma anche parola intesa come cifra propria dell’umano – è un invito: tentare l’estremo della significazione, sospingersi fino al confine del visibile, ma, in questa ascensione, non separarsi dal sentire, dalla corporeità del sentire, dal ritmo fisico del vivente. La parola, nel libro Per il battesimo dei nostri frammenti, è sostanza dell’interrogazione poetica, e per questo come esergo d’apertura il poeta sceglie il luogo più alto, nella cultura occidentale, di una rappresentazione della parola, quel principio intorno al quale si è affannata la grande esegesi patristica, il versetto dal Prologo di Giovanni (1, 4): “In lei [la parola] era la vita; e la vita era la luce degli uomini”.
Con Mario Luzi più volte mi è accaduto di parlare di poesia – considero quegli incontri come un dono e tra le esperienze più belle che mi sono occorse lungo gli anni –, più volte mi è accaduto di conversare intorno a Baudelaire e a Leopardi, campi di condivisa ricerca e di forte intesa interpretativa, ma rimpiango di non avergli mai domandato in modo esplicito (qualche allusione sarà pure trascorsa) – quale rapporto egli vedeva tra l’esergo giovanneo che apre La Ginestra di Leopardi e l’altro esergo giovanneo che apre il suo Per il battesimo dei nostri frammenti. Quella luce – alla quale “gli uomini preferirono le tenebre” – che compare nell’apertura della Ginestra è la stessa luce che, come parola e vita, apre il libro di Luzi.
La parola del principio (il logos oggetto di tanta esegesi cristiana) è allo stesso tempo vita e luce. Per Leopardi quella parola-vita-luce era il punto di un’anteriorità inattingibile che permetteva di leggere le “tenebre” della civiltà, di una civiltà che rimuoveva ogni senso della finitudine e si avvolgeva in una vanagloriosa illusione di potere sulla storia e sulla natura; per Luzi invece quella parola-vita-luce trascorreva ancora nel visibile, nel sensibile, forse anche nella tessitura nascosta della storia, e davanti alla sua perseguita umana cancellazione, il poeta poteva tentare di istituire un tempo del dire, e del pensare, in grado di preservare di quella parola se non la presenza, almeno l’immagine, il ricordo, l’attesa. Insomma la parola della poesia può farsi evocazione e insieme custodia di quell’altra parola che, come vita, aiuta a scorgere ovunque le pulsazioni del vivente, e come luce aiuta a vedere sino ai confini del visibile.
Monet, Ninfee
È poi questo movimento che permette alla poesia di Luzi di farsi poesia del tempo e della creaturalità, cioè di quel mostrarsi dei viventi e del paesaggio, intesi come rivelazione luminosa, e tuttavia ferita, di un mondo che ci appartiene, come ci appartiene il transito, il cammino, l’attesa. Si pensi alla sezione bellissima di Per il battesimo dei nostri frammenti intitolata Dal grande codice, dove in versi di grande respiro – musicale e visivo e teoretico insieme – la pernice, la rondine, la trota, il fiume si mostrano come figure che portano in sé, nel loro apparire, nel loro grido, nel loro movimento, nel loro rapporto intimo con l’elemento naturale, la pienezza della vita, di quella vita che è “vita soltanto”.
Qui, in questi versi che cominciano con “Vola alta, parola”, è la cosa che si rivolge alla parola, in una sorta di fantasticato sdoppiamento tra le due: “sogno che la cosa esclami / nel buio della mente”. È una voce interiore, di fatto, voce meditativa e interrogativa. In questo agostiniano teatro interiore di voci, la cosa, – diciamo il visibile, l’accadimento, la materia del dire e del ricordare – chiede d’essere portata nel nome e con il nome in quella profondità (ancora la profunda profunditas di Agostino) che è pienezza di significazione, in quella vertigine di conoscenza che è soglia dove è possibile sfiorare, ritraendosene, l’ineffabile: non mimesi di quel sublime di cui tante volte la poesia si è solennemente ammantata, ma dantesca ascensione della parola che nel volo possa avere esperienza piena del vedere e del sentire. C’è qualcosa, in quel volo della parola, che ricorda il leopardiano “Forse s’avess’io l’ale /da volar su le nubi” del Canto notturno e il baudelairiano volo che in Élevation può ascoltare e comprendere “le langage des fleurs et des choses muettes”: anche se nel primo caso la pronuncia del desiderio, o del sogno, è un lampo presto spento nel cielo del tragico, e nel secondo caso lo sguardo dall’alto invoca un’alterità in grado di sottrarsi con la poesia alla prigionia del sempreguale, della superficie, dell’apparenza.
E certamente la poesia di Luzi è anch’essa lungo quella linea di una moderna reinterpretazione (e messa in questione) dell’antico sublime – nell’orizzonte del tragico – di cui Leopardi e Baudelaire sono passaggi rilevantissimi.
Echi di una nominazione creaturale – cioè di una condizione in cui la corrispondenza intima tra il nome e la cosa è sostanza della parola (su questo il saggio di Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini ha passaggi essenziali) – trascorrono in questi versi di Luzi. Ma c’è anche un riflesso di quella ricerca che dai romantici giunge fino a Rilke, per la quale la parola può rivelare, accogliere e preservare nel nome la presenza della cosa, il suo essere, con la sua trasparenza e la sua anima.
Luzi mette, dunque, in scena un dialogo interiore, e quel che poteva essere un passaggio di poetica, di riflessione sul fare poetico, sul rapporto tra la parola e la cosa, diventa poesia: un movimento drammaturgico che è respiro consueto della scrittura poetica di Luzi.
Portare l’alta, sacra, metonimia di parola-vita-luce verso un’intima concordanza, verso un’unità, è andare oltre la metafora, oltre “il giogo della metafora” evocato nello stesso libro poche pagine prima (“Scioglile da quel giogo, /lasciale al loro nume / le cose che nomini”), è cercare nella parola l’intima presenza del sé. È fare della parola poetica, potremmo dire in una formula compendiosa, non una metafora ma una metanoia.
In questi versi il poeta nomina un cammino della parola verso un “celestiale appuntamento”, verso un approdo che è pienezza e profondità di significazione: “nel buio della mente” la cosa chiede che la parola non sia parola scorporata, sovrasensibile, astratta, ma preservi in sé il “caldo” della vita, o almeno il suo ricordo, e sia “luce, non disabitata trasparenza”. In questo auspicato cammino della parola, altro da quello della parola inerte, logora, consumata nella ripetizione e nell’insignificanza, c’è il cammino stesso del poeta. Un cammino che – da La barca, del 1935, a Primizie del deserto, del 1952, da Onore del vero, del 1957, a Su fondamenti invisibili, del 1971, da Per il battesimo dei nostri frammenti, del 1985, a Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, del 1994, per dire solo di alcune memorabili stazioni – ha fatto della parola poetica un’assidua e strenua meditazione sul tempo. Il tempo, il suo fluire e perdersi e ciclico ritornare, il suo lampeggiare risalendo da quel che è stato verso una nuova presenza, il suo consumarsi nell’attesa o raccogliersi nel ricordo, il suo mostrarsi e dissiparsi nella lontananza stellare, il suo rifrangersi nella speranza, il suo farsi storia e ferita nella storia, il tempo, insomma, in tutte le sue risonanze, è il respiro più proprio della poesia di Luzi. Una poesia che sta, agostinianamente, nell’immenso paese dove il tempo è corpo, memoria, attesa, caduta, addio, annuncio, transito. Pietre, acque, nuvole, vento, alberi sono, nella poesia di Luzi, tempo. Come lo è il fiume, presenza assidua e quasi emblema di una poetica.
La parola, dunque, che non può essere “disabitata trasparenza” è la parola che prende su di sé il tempo, il tempo del vivente.
L’ultimo verso, separato, è un margine alla scena allocutoria: “La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?”.
Un domandare che aggiunge una nuova figura, l’anima, e si fa cornice del dire poetico. Uno sdoppiamento tra la cosa e l’anima che è ombra di altro: la sofferenza del poeta, della sua anima. L’ultimo verso riporta nel cerchio doloroso del sentire quei segni del corpo individuo disseminati lungo la poesia: “da me”, “di me”, “il mio ricordo”, ovvero quell’insistenza tutta fisica su una presenza – corpo, sensi, desiderio – che la parola non deve abbandonare, mentre cerca luce e trasparenza. Ma la parola non disincarnata, la parola che attinge la luce senza perdere il sé, è parola della sofferenza, perché è vita.
La poesia che segue, nel libro Per il battesimo dei nostri frammenti, è parola che accoglie presenze, ricordo di presenze, mentre osserva il “vorticare /della vita dentro i suoi recinti”. E questo nella luce. Nella luce piena che apre la sezione Dal grande codice:
Genera azzurro l’azzurro,
si sfalda e si riforma
nelle sue terse rocce,
si erge in obelischi, scende
nelle sue colate e frane
di buio e trasparenza, migra
nell’azzurro fumigando, azzurro
in azzurro sempre –
Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest’albero mutilato
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
È il verso che apre la poesia I fiumi, di Ungaretti. Il titolo ha, come per gli altri testi poetici di Il porto sepolto, un sottotitolo relativo al luogo e alla data di composizione: in questo caso, Cotici il 16 agosto 1916. Un titolo, un luogo, una data: la poesia come parola che accoglie la situazione, ovvero la fisicità del tempo e la visibilità dello spazio, ed è a partire da questa presenza che prende movimento il sentire, oltre che la pronuncia del sé. Che può essere un sé tumultuante o quieto o indecifrato. Cotici è località prossima a San Michele del Carso, teatro di guerra, dunque di trincee, di notti insonni, di assalti nel fumo del fuoco nemico e amico, di caduti, di feriti. Questi e altri versi del Porto sepolto sono scritti, come racconterà il fante Ungaretti, su foglietti: “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute”, ma anche, come dirà ancora, “pezzetti di carta strappati agli involucri delle pallottole”. Foglietti conservati via via nel tascapane, e consegnati un giorno al giovane tenente Ettore Serra (fu costui, in una licenza, a stampare quei versi, a Udine, sul finire del 1916, in un’edizione di 80 esemplari). Nella successiva guerra mondiale, nel corso della Resistenza, un altro poeta, René Char, nel maquis in Provenza, scriverà anch’egli i suoi versi su foglietti casuali: nascosti, prima della notturna partenza in volo per l’Algeria, negli anfratti di un muretto a secco, i versi saranno poi recuperati, e avranno il titolo di Feuillets d’Ypnos. Li tradurrà in italiano Vittorio Sereni.
Il primo verso di I fiumi, Mi tengo a quest’albero mutilato, apre la scena della desolazione, la scena del terreno di guerra, con il disegno di due figure congiunte, appoggiate l’una all’altra in un prima o in un dopo della furia bellica, in una sorta di momentanea sospensione del tempo tragico, che però manderà via via, lungo i versi, i suoi cupi bagliori. Due figure, dicevo: il mi che delinea la presenza di un corpo – il corpo che prende la parola – e l’albero che si mostra nella sua nudità offesa, nella sua mutilazione, corpo d’albero che in quanto anch’egli vivente è dalla guerra ferito, come altri corpi umani che sono fuori dalla scena. Un appoggio – tenersi a un albero – ma anche una solidarietà con un elemento della natura che qui, in questo suo mostrarsi ad apertura di scena, raccoglie come in un emblema il dolore della guerra, il dolore di tutti i corpi dilaniati o feriti nella guerra. Il mi e il questo di un primo verso endecasillabo rinviano a un altro primo verso del poeta più amato da Ungaretti, quel Leopardi che insieme a Mallarmé è stato all’origine della stessa vocazione alla poesia: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Sia il mi sia il questo, un riflessivo e un deittico, come è accaduto nell'Infinito leopardiano, si rifrangeranno come un’onda nel resto della poesia, a dire sia la presenza corporale da cui muove la parola poetica sia la presenza forte e la prossimità del visibile da cui muove il rapporto con l’oltre. In Leopardi questo oltre è l’odissea di una rappresentazione impossibile, e tuttavia tentata, dell’infinito nel pensiero; in Ungaretti questo oltre è l’altrove che nel vuoto del sentire spalancatosi col tragico prende la forma dell’appartenenza a quel che è lontano e che, inattingibile, è memoria e figura sensibile: i propri fiumi, ai quali è un fiume prossimo, il fiume della guerra, l’Isonzo, a rinviare.
Il suono del primo verso dà rilievo alla presenza dell’albero, posto al centro: l’accento sulla quinta (la a di albero), ritenuto perlomeno inconsueto dalla tradizione dell’endecasillabo, mostra subito che sulla misura metrica prevale il ritmo, e questo in relazione con un dire che dà alla parola la sua evidenza di segno: segno di un’interiorità immaginativa e riflessiva. Ma ecco la strofa cui appartiene il verso:
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
L’amor che move il sole e l’altre stelle
L’ultimo verso del Paradiso di Dante, l’ultimo verso della Commedia. Certo, è un verso che viene dopo l’ultima terzina, conclusivo, ed è parte di una frase poetica, che è questa:
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
L’amore, quell’amore che è principio e anima dell’universo, quell’amore che muove il sole e le stelle, volgeva già il desiderio del poeta e il suo volere, lo volgeva, cioè accoglieva, nel suo ritmo, come ciascun punto di una ruota partecipa del movimento che ad essa è impresso. L’ultimo verso dice, dopo l’estrema visione, l’appartenenza dell’essere umano, di ogni essere, al ritmo dell’universo, all’unico movimento, un movimento che ha come sorgente e anima l’amore. Il libro della Commedia, il grande viaggio nei tre regni in cui vivono passioni e memorie e gesti e fremiti e sogni e fantasmi terrestri, ha al suo estremo la sconfinata apertura di una fisica cosmologica nella quale principio e respiro, energia e movimento sono compendiati nella parola amore. L’ultimo verso rinvia certo al movimento che apre la prima cantica, “La gloria di colui che tutto move”, ed ha la stessa apertura verso il cielo notturno e stellato, che è detta nella chiusa delle precedenti cantiche, dove sigillo ed emblema è ugualmente la parola stelle: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, ultimo verso dell’ Inferno, “Puro e disposto a salire alle stelle”, ultimo verso del Purgatorio. Ma qui sentiamo che la congiunzione di amore e stelle (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”) è misura e respiro dell’universo e compendia tutta la tradizione che ha legato l’amore, la poesia d’amore, alla cosmologia, al cielo stellato, al desiderio d’infinito.
Dante dà fondamento anche con questo ultimo verso – “l’amor che move il sole e l’altre stelle” – alla poesia d’amore occidentale, la quale declinerà in mille varianti la relazione tra l’amore e l’orizzonte cosmologico e stellare. Ma quest’ultimo verso raccoglie anche, come in uno sconfinato abbraccio, tutto quel che il canto, il XXXIII del Paradiso, il canto dell’ultima visione, ha messo in scena. A partire dalla preghiera di san Bernardo alla Vergine, nel corso della quale il santo indica, come in una pala d’altare, il poeta, il penitente giunto al termine della sua peregrinatio nell’oltremondo. Il poeta è invitato da Bernardo, dopo la bellissima sua intercessione, a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Dove si dischiude il trionfo della luce. La luce, qui, è pura luce, non affidata a raffigurazioni di colori e forme: non ci sono esseri di luce con il loro volto, le loro ali fiammeggianti, le loro vesti abbaglianti. La luce è tutta dispiegata nella sua astrazione, nella sua coincidenza con la verità, potremmo dire. Portare nella lingua il sentimento di questa visione di luce è impossibile, c’è solo il resto, il riflesso, la traccia, di questa visione: come il sentimento del sogno che persiste dopo che il sogno è svanito, lasciando una diffusa dolcezza, come la neve che al sole si scioglie, si dissigilla, come le foglie lievi su cui la Sibilla scriveva i responsi, foglie subito perse nel vento. Una dolcezza resiste dopo la visione. E il lettore può evocare la stessa dolcezza che appare nell’ultimo verso dell’Infinito leopardiano, “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, anche quella dolcezza resto di un’estrema impossibile visione.
Ma lo sguardo di Dante tenta l’azzardo: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Riesce a vedere “la forma universal di questo nodo”, il nodo che unisce sostanze e accidenti, il nodo che lega ogni cosa del mondo: respiro dell’universo, del suo ordine. Ma si può rendere visibile, dicibile la divinità? Dante ne dà solo una similitudine: tre cerchi “di tre colori e d’una contenenza”. Solo un’approssimazione, una terrestre raffigurazione. In quella “luce eterna” che è intendimento di se stessa, amore di se stessa, ordine impenetrabile, fondamento che sfugge allo sguardo, il poeta non può penetrare, e tuttavia gli sembra che in quella luce traspaia un colore, un’immagine: “mi parve pinta della nostra effigie”. È l’immagine della terrestrità, del vivente umano osservato nel cuore di uno splendore indecifrabile. E il poeta si ferma dinanzi a ogni altro azzardo della comprensione, e della visione, come il geometra dinanzi al problema della quadratura del cerchio, si attesta sulla soglia delle approssimazioni per immagini, della lingua come luogo delle parvenze, delle tracce, dei riflessi d’una verità sottratta da sempre alla comprensione. Un ultimo fulgore percuote la mente e porta il desiderio di conoscenza verso la sua meta, ma in quell’istante cessa ogni fantasia, deflagra ogni potenza fantastica. Il poeta è già nel cuore di quel movimento che ha l’amore come principio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono : frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Leopardi, A Silvia: il verbo da cui questo verso dipende, da cui pende come una collana, sta nel verso precedente: splendea. “Quando beltà splendea /negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”. Ridenti e fuggitivi: due modi dell’apparire, contrastanti, accostati per la prima volta nella poesia italiana. Il riso degli occhi: nella galleria della figurazioni femminili, il lampeggiamento del riso negli occhi appartiene anzitutto alla Beatrice di Dante. Il "viso ridente", il "dolce riso" , gli "occhi rilucenti", "li occhi suoi ridenti". Un riflesso che unisce quella luce degli occhi ai cieli, il riso degli occhi al "riso dell'universo". Fisiologia dell'amore e teologia dell'amore si congiungono in questo mostrarsi della luce come sorriso. Ma questa radice teologica dell'amore è estranea al verso leopardiano.
Qui il riso degli occhi è circoscritto nel tempo fuggitivo dell'esistenza umana. Silvia ora è solo parvenza. Il riso degli occhi suoi lampeggia nel tempo di una mortalità crudele. È una luce che appare come già stata. Transitorietà della bellezza: John Keats questa bellezza che declina l’ha descritta anch’egli come tremito di luce negli occhi, e insieme nel paesaggio. Negli occhi della Silvia leopardiana il declino è detto dal contrasto tra lo sfolgorio del sorriso e il gelo della finitudine, tra l'onda di vita che c’è in quel sorriso e il corpo d'ombra degli ultimi versi:"... e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano". Un corpo luminoso e un corpo d'ombra. Un corpo d’ombra come l'Euridice di un bellissimo poemetto di Rilke, Orfeo, Euridice, Ermes. Negli occhi ridenti di Silvia c'è il riflesso del riso della natura, della primavera.
Questa corrispondenza tra il riso della natura e il riso degli occhi attraversa la poesia: ancora la Beatrice della Vita Nuova, Petrarca nel Canzoniere, il Tasso delle Rime, e Leopardi stesso nelle Ricordanze: "Nerina mia, per te non torna / primavera giammai, non torna amore". Ma la relazione – di velature e di contrasti – tra "ridenti" e "fuggitivi" sbalza il verso leopardiano sopra gli altri versi. È proprio questo reciproco illuminarsi e ombreggiarsi di "ridenti" e "fuggitivi" che dà al verso leopardiano il suo singolare, unico timbro. Certo, c’era già un petrarchesco "fugitivo raggio", ma si tratta di un annuncio molto parziale, perché privo di quella polisemia che sfavilla nell'aggettivo leopardiano. L’energia di quel "fuggitivi" è proprio nel legame con "ridenti". Legame assente negli esemplari di Dante, Petrarca, Tasso. Leopardi, componendo, ha variato più volte ridenti, ma non ha mai toccato fuggitivi.
Da "ridenti" a "fuggitivi" c'è uno slargarsi e, insieme, un incresparsi del senso: il mostrarsi luminoso dell'immagine è accompagnato, e sfumato, dal tremito di un'ombra, perché c’è nel fuggitivi il ritrarsi pudico degli occhi, c’è una verecondia che combatte con il desiderio, e c’è anche una malinconia dello sguardo, presagio del declino, della caducità. La luce degli occhi "ridenti e fuggitivi" si raccoglie tutta in un lampo. Sarà l’"éclair", il lampo, degli occhi della passante di Baudelaire, nel rumore di una strada parigina: in quel lampo degli occhi ci sarà l'esperienza di un amore non vissuto ma più forte di un amore vissuto.
Come non richiamare l'immagine di Silvia dinanzi al mostrarsi della passante come "fugitive beauté", come bellezza fuggitiva? La passante di Baudelaire apre la sequenza delle fuggitive: in Proust, nella poesia di Sbarbaro, di Campana, di Machado. Eppure, osservati da questi margini, gli occhi "ridenti e fuggitivi" di Silvia mostrano che è davvero irripetibile e inconfondibile il cerchio d'ombra che dà risalto al loro fulgore. Ma sia la luce sia l'ombra provengono da tutti gli altri versi del testo poetico. E dunque, a questo punto, un'altra lettura può avere inizio, seguendo ordinatamente il tempo, e il ritmo del testo poetico: "Silvia, rimembri ancora...".
La parola chiave del lettore:
Siete occhi che guardano e che sognano!
Continuate a sognare, a inquietarvi, a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità universale.
Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio!
Papa Francesco