Papi al servizio del popolo di Dio...area dedicata a Papa Francesco!


Papa Leone XIV

"È molto significativo che papa Leone abbia voluto presentarsi dicendo di essere «figlio di sant’Agostino», cioè come frate agostiniano, membro dell’Ordo Sancti Augustini, abbreviato O.S.A., sigla che se si legge senza badare ai punti diventa un imperativo che dà coraggio. Cosa significa essere agostiniano? Significa avere un modo di vivere il cristianesimo improntato alla spiritualità di sant’Agostino, così come essere francescani significa seguire la spiritualità di Francesco d’Assisi, benedettini quella di san Benedetto e così via per tutti i numerosi ordini religiosi maschili e femminili. Ma qual è la specifica spiritualità dell’ordine agostiniano? La risposta ci proviene dallo stesso motto del nuovo Papa scelto quando venne ordinato vescovo: «In illo uno unum», espressione di Agostino che alla lettera significa: «Una sola cosa in lui solo», laddove questo lui è Cristo e la sola cosa è la comunità dei fratelli. Il che indica che lo specifico della spiritualità agostiniana è l’essere pervasa da una forte tensione orizzontale per promuovere la vita comunitaria e l’amicizia, e al contempo da un’ancora maggiore tensione verticale perché questa unità avviene tendendo tutti insieme verso Cristo, «in lui solo». Il che è la perfetta sintesi del cristianesimo, che è fratellanza ma prima ancora figliolanza, che è caritas ma prima ancora imitatio Christi."

 

Vito Mancuso


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Leone e Agostino: papa e religioso

 

 

Felix Neumann 

 

Felix Neumann intervista il provinciale dell’ordine di sant’Agostino in Germania, p. Lukas Schmidkunz (il primo a sinistra nella foto), sulle radici spirituali, relazionali e pratiche dei trascorsi di papa Leone XIV nella famiglia religiosa (katholisch.de 12 maggio 2025).

 

Padre Lukas, quando Benedetto XVI fu eletto, lo slogan in Germania era «noi siamo il papa». Gli agostiniani sono ora anche «papi»?

Appena è stato annunciato, ho ricevuto i primi messaggi: «Ora sei papa!». Ma questa espressione non è usata dai nostri confratelli.

 

Vi aspettavate che uno di voi sarebbe diventato papa?

Avere un agostiniano in conclave, per la prima volta da molto tempo, lo rendeva ovviamente possibile, almeno in teoria. Abbiamo parlato, nel nostro interno, delle opportunità che poteva avere, di quanto fosse ben inserito e di quanto fosse rispettato. Le valutazioni sono state diverse. Noi in Germania lo ritenevamo piuttosto improbabile, mentre i nostri confratelli in Belgio erano più ottimisti. Ma alla fine è stata una sorpresa per tutti quando ci siamo seduti davanti alla televisione e il nome è stato annunciato.

 

Socievole e capace di umorismo

Lei ha conosciuto l’attuale papa durante il suo mandato come priore generale degli agostiniani. Che impressione le ha fatto come persona?

È un uomo molto gradevole e socievole. È bello sedersi insieme a lui la sera; ha un grande senso dell’umorismo. Ha partecipato ai nostri capitoli provinciali, che ha presieduto e accompagnato visitando poi i nostri fratelli nei monasteri e nei conventi. Non si è mai mostrato come qualcuno che esibiva il potere e che sentenziava su ciò che stava accadendo. È un uomo che ascolta, che osserva e si interessa alle persone che lo circondano. Quando vivevo nel monastero di Germershausen, nella diocesi di Hildesheim, gli feci visitare il centro educativo per famiglie di San Martino. Fu allora che notai quanto fosse attento e interessato al nostro lavoro e alla nostra vita insieme. Il suo comportamento è modesto. Non si limita a chiacchierare e quando parla lo fa in modo profondo e ponderato.

 

Parla anche tedesco?

Un poco, ma parla un inglese molto comprensibile. Questo non avviene per molti americani.

 

Come esercitava il suo ruolo di priore generale? Cos’era importante per lui?

Per lui era importante conoscere i fratelli. Non gli piaceva la parola Visitation (visita canonica). Come priore generale, doveva naturalmente visitare le province e i conventi, come stabilito nelle costituzioni. Ripeteva sempre che non veniva come visitatore apostolico con l’atteggiamento di ispettore, ma come uno che incontrava i fratelli. Domandava: «Come si vive qui la comunità? Come vivete insieme voi agostiniani a livello locale?». Per lui era molto importante che rispettassimo la regola delle nostre costituzioni secondo cui ogni convento è composto da almeno tre fratelli, o meglio ancora, quattro. Soprattutto nelle province più piccole, la tentazione di mandare qualcuno altrove da solo per avviare attività, o di lasciare qualcuno indietro quando qualche opera stava per finire, era ed è forte. Non voleva questa mentalità da combattente solitario.

 

Decidere assieme

Nel caso di papa Francesco, molte cose sono state spiegate in ragione dello stile di leadership gesuita. Esiste uno stile di leadership agostiniano?

Per noi è essenziale prendere decisioni come comunità. Possono esserci discussioni e divergenze di opinione. Non è tipico degli agostiniani che il superiore si alzi e imponga ciò che ritiene giusto. Abbiamo un alto ideale di comunità. A tutti i livelli abbiamo consigli che decidono, si consultano e cercano insieme una soluzione. Questo è lo stile di leadership agostiniano: partecipazione, coinvolgimento e possibilità per tutti di partecipare. Le decisioni sono prese non sul momento, ma a partire da un processo condiviso.

 

Quale spiritualità caratterizza gli agostiniani? Come vedono il mondo e come vivono la loro fede?

Siamo plasmati dall’insegnamento di Sant’Agostino e dalla regola monastica che ci ha dato. Il principio del vivere insieme e del camminare insieme è centrale in tutto questo. Ciò che ha influenzato di Agostino non sono tanto le grandi opere teologiche, quanto le sue lettere e i suoi sermoni. Ciò dimostra chiaramente che Agostino era consapevole delle persone del suo tempo, delle preoccupazioni e ansie condivise. Siamo nati nel Medioevo nel contesto del movimento degli ordini mendicanti. Ciò significa che vogliamo essere per la gente, ascoltarla e porre le persone al centro delle nostre azioni e delle nostre convinzioni. Non vogliamo forzare o imporre nulla, ma piuttosto comprendere le loro preoccupazioni e i loro bisogni, stare al loro fianco e vivere con loro.

 

Francesco resta, le riforme seguiranno

Questo potrebbe descrivere il lavoro di un papa.

«Come vescovo, Robert Prevost, ha vissuto in questo modo e si è avvicinato alle persone come pastore e missionario. Spero e credo che lo farà anche da papa.

 

A 69 anni, Leone è relativamente giovane per essere un papa e può aspettarsi un lungo pontificato. Cosa si attende?

 

Avrà bisogno di tempo per adattarsi al suo ruolo. Non è uno che farà grandi riforme in tempi rapidi. Né mi aspetto che annulli qualcosa di quanto è stato creato durante il pontificato di Francesco. Il suo atteggiamento è affidabile e coinvolgente, apre alla Chiesa e al mondo la possibilità di far coinvolgere le correnti che oggi divergono ovunque: conservatrici e progressiste. Nella Chiesa e nel mondo le cose possono coesistere senza che gli uni debbano condannare gli altri. Papa Leone ha esattamente i punti di forza necessari per questo cammino di riconciliazione e unità.


Le reliquie di Sant'Agostino e della madre Monica nella croce pettorale di Leone XIV

 

C'è un vero e proprio programma di santità episcopale celato nell'insegna indossata dal Papa il giorno in cui è stato eletto, l'8 maggio. I frammenti delle ossa che vi sono custoditi appartengono a testimoni di santità legati all’Ordine agostiniano che incarnano fedeltà, riforma, servizio e martirio

 

                                                            di Tiziana Campisi 

 

Al centro una reliquia di Sant'Agostino, il grande padre della Chiesa, che insegna a percorrere la via dell’interiorità per trovare Dio e a comprendere la sua Parola con fede e ragione per poi condividerla con gli altri. C'è un prezioso e profondo messaggio da cogliere nella croce pettorale indossata da Leone XIV l'8 maggio, giorno della sua elezione, quando si è presentato al mondo affacciandosi dalla Loggia Centrale della Basilica di San Pietro. Al suo interno si trovano oltre a un frammento delle ossa del vescovo di Ippona, padre spirituale dell’Ordine di San'Agostino, che con la sua Regola e i suoi scritti ha ispirato frati, monache, suore e laici ad abbracciare il Vangelo come costruttori di comunione e promotori del bene comune, altre quattro reliquie: di Santa Monica, sulla parte alta, di San Tommaso da Villanova, sul braccio sinistro, del beato Anselmo Polanco, sul braccio destro, e del venerabile Giuseppe Bartolomeo Menochio alla base.

 

La pergamena che attesta l'autenticità delle reliquie della croce pettorale indossata da Leone XIV

La pergamena che attesta l'autenticità delle reliquie della croce pettorale indossata da Leone XIV

Un dono della Curia generalizia agostiniana

Le ha scelte il postulatore generale dell'ordine agostiniano Josef Sciberras per il dono che la Curia generalizia ha voluto fare al confratello Robert Prevost il giorno in cui è stato creato cardinale, il 30 settembre 2023, ed evocano figure di santità legate alla famiglia agostiniana che incarnano fedeltà, riforma, servizio e martirio. Il religioso, che ai media vaticani non nasconde la gioia per l'elezione del nuovo Pontefice, racconta che l'allora cardinale Prevost "era emozionato" quando gli è stata consegnata la croce pettorale, durante la festa preparatagli nel refettorio del Collegio internazionale Santa Monica, consapevole che avrebbe avuto al petto le reliquie di Sant'Agostino e della madre Monica. "Il giorno prima del Conclave, martedì scorso, gli ho fatto pervenire un messaggio raccomandandogli di portare la croce che gli avevamo regalato, per avere la protezione dei santi Agostino e Monica - confida padre Sciberras -. Non sono certo che la portasse per il mio suggerimento, ma quando ho visto che l'ha indossata per il giuramento e che l'ha tenuta per affacciarsi dalla basilica vaticana, preferendola ad altre che poteva scegliere ero molto contento".

 

 

 

Quel frammento delle ossa del vescovo di Ippona nella croce pettorale di Leone XIV vuole ricordare anche l'ordine di Sant’Agostino, che, fondato dalla Sede Apostolica nel 1244, ha progressivamente assimilato il suo ideale di vita, producendo frutti di santità nei secoli attraverso la vita comune, una intensa attività apostolica, dello studio, e di una profonda spiritualità, spiega il postulatore dell'ordine agostiniano. La reliquia di Santa Monica, è segno, anche, del legame di Agostino con la madre, donna forte e tenace che con le sue lacrime e la sua instancabile preghiera ha ottenuto la conversione del figlio. Nelle Confessioni, il santo vescovo ne esalta le virtù come doni di Dio. Era particolarmente devoto Papa Francesco, che spesso ha visitato la tomba nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio a Roma, sia quando era cardinale che da Papa. Per l’ordine agostiniano, la figura di Monica è inscindibile dall’esperienza di conversione e consacrazione del figlio, fondamento della spiritualità agostiniana.

 

 

Tommaso da Villanova

San Tommaso da Villanova, arcivescovo di Valencia, vissuto fra il XV e il XVI secolo, è stato un riformatore della vita religiosa. È modello di pastore consumato per il suo gregge, "con l'odore delle sue pecore, usando l'espressione tanto cara a Papa Francesco", aggiunge padre Sciberras. Ha avuto grande attenzione per i poveri e ha promosso le missioni nel Nuovo Mondo. Grande teologo, nel 1550 ha fondato a Velencia, in Spagna, un seminario - ancora oggi attivo - prima che al Concilio di Trento si regolamentasse la formazione dei sacerdoti.

 

Anselmo Polanco

Il beato Anselmo Polanco, vescovo di Teruel, martire della persecuzione religiosa in Spagna (1936-1939), è il pastore che ha dato la vita fino alla fine per le anime affidategli. "Finchè resta anche solo una della mia diocesi, io resto", diceva. E fedele è rimasto al suo popolo e al Papa, fucilato per la sua testimonianza di fede e per la forza della sua parola evangelica.

 

Bartolomeo Menochio

Il venerabile Giuseppe Bartolomeo Menochio, vescovo di Porfirio e prefetto del Sacrario Apostolico, sacrista pontificio dal 1800, ha servito con coraggio la Chiesa durante la tempesta napoleonica, restando saldo nella fede e e anche lui fedele al Papa anche nei momenti più difficili. Figura di riferimento per la Chiesa di Roma è morto in fama di santità il 25 marzo 1823, nel 1991 Giovanni Paolo II ne ha riconosciuto l’eroicità delle virtù. Rappresenta il pastore curiale, è l'unico vescovo che non ha voluto giurare di fedeltà a Napoleone e si è speso totalmente per il popolo romano.

 

Una professione di fede, un orientamento pastorale

 

Le reliquie dei santi Agostino, Monica, Tommaso da Villanova, del beato Polanco e del venerabile Menochio erano conservate nella lipsanoteca della postulazione generale agostiniana, e padre Sciberras le ha affidate al reliquiarista Antonino Cottone per farle collocare nella croce pettorale poi donata al confratello ora Papa. Cottone ha realizzato una croce adornata a sua volta con una doppia croce in stoffa moiret, decorazione a Paperoles, ponendovi le reliquie. "Non è una semplice decorazione - specifica - ma una professione visibile di fede e un vero e proprio orientamento pastorale. Le reliquie che vi sono all'interno evocano figure di santità legate all’Ordine Agostinano che incarnano fedeltà, riforma, servizio e martirio: tutti elementi che illuminano e sorreggono il ministero del nuovo Pontefice"


La scelta. Il giglio e il cuore trafitto sul libro: cosa significa lo stemma di Leone XIV

 

 

Il giglio per la purezza, il cuore a ricordo della conversione di sant'Agostino

 

 

   

Papa Leone XIV ha scelto il suo stemma papale. In realtà si tratta della conferma - almeno nella iconografia dello scudo - dello stessa che il cardinale Robert Francis Prevost aveva scelto come stemma episcopale. A cambiare è solo la parte esterna, dove al posto del galero vescovile compare la mitra papale. Inoltre compaiono le chiavi del Regno.

 

Nello scudo papale lo spazio è diviso diagonalmente in due settori. In alto a sinistra sullo sfondo di colore azzurro è raffigurato un giglio bianco.

 

Questo simbolo è associato alla purezza e alla verginità e richiama la figura della Madonna. Nell’altra parte in basso allo scudo su sfondo chiaro è rappresentata una immagine che ricorda lo stemma degli agostiniani: un cuore trafitto da una freccia posto sopra un libro.

 

 

È il ricordo della conversione di sant’Agostino che ricorda come la Parola di Dio gli abbia trafitto il cuore portandolo alla conversione. Come il suo predecessore, anche Leone XIV ha deciso di mantenere il motto episcopale: “In Illo uno unum” (Nell’unico Cristo siamo uno) tratto dall’Esposizione sul Salmo 127 di sant’Agostino.

 

fonte:Avvenire


Leone XIV ai confratelli agostiniani: siate vicini, vivete in comunione fra voi

 

 

Visita a sorpresa del Papa alla curia generalizia dell'Ordine di Sant'Agostino. Il Pontefice è arrivato poco prima di mezzogiorno e ha celebrato la Messa nella cappella della comunità, poi ha pranzato con i confratelli come era solito fare quando era cardinale. Il priore generale padre Moral: è stata una visita in famiglia

 

 

Tiziana Campisi 

 

La Messa celebrata con i confratelli agostiniani, nel giorno in cui la Chiesa ricorda la Beata Vergine Maria di Fatima. Poi il pranzo assieme a loro come era consuetudine per lui, pressoché quotidianamente, quando era cardinale. Leone XIV si è recato poco prima del mezzogiorno di oggi, 13 maggio, nella Curia generalizia dell’Ordine di Sant’Agostino, per 12 anni sua dimora, dal 2001 al 2013, periodo in cui è stato priore generale. Pochi metri quelli percorsi dall'auto nera che ha portato il Papa dal Vaticano in Via Paolo VI, di fianco al colonnato del Bernini, per una visita privata alla sua famiglia religiosa, dove la convivialità è la prima delle “norme” osservate, perché prescritta dal vescovo di Ippona nella regola di vita per i suoi frati: “Il motivo essenziale per cui vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un sol cuore protesi verso Dio”.

 

 

 

La gioia degli agostiniani per la visita del Papa alla loro curia generalizia. I religiosi raccontano ai media vaticani le ore trascorse oggi, 13 maggio, con Papa Leone XIV che ha celebrato la Messa e ha pranzato con i confratelli.

 

Centinaia di persone si sono radunate davanti al cancello della curia degli agostiniani e nei dintorni affollando via Paolo VI, per attendere l’uscita del Pontefice, sfidando anche un inatteso temporale. Il Papa ha lasciato la comunità dei confratelli intorno alle 15, salutando quanti lo stavano aspettando. Ai media vaticani il priore generale, padre Alejandro Moral, ha raccontato che tutto si è svolto nella curia generalizia e che il Pontefice ha presieduto la liturgia eucaristica nella loro cappella, seguita dal momento del pranzo e da una chiacchierata confidenziale.

 

Intervista a padre Alejandro Moral

 

Che tipo di incontro è stato?

 

Lui veniva a mangiare qui di consueto e ha voluto ringraziare la comunità per questo. È venuto a celebrare l'Eucaristia e a mangiare con noi. È stata una visita familiare, di ringraziamento. Sono stati momenti trascorsi insieme molto, molto familiari, molto gradevoli. Perché lui conosce tutti e tutti noi conosciamo lui e per questo è molto bello.

 

Vi siete intrattenuti insieme?

 

Sì, ma c'erano anche altre persone che sono venute a salutarlo: gli operai che lavorano con noi, le cuoche.

 

È stato un momento conviviale?

 

Sì, conviviale. Era la sua prima visita da Papa, eravamo tutti molto contenti.

 

Cosa vi ha detto?

 

 

Che noi dobbiamo essere sempre vicini l'un l'altro, vivere, come chiede Sant'Agostino, la comunione.


Dopo i giorni del dolore e della gioia corriamo ad annunciare il Vangelo

 

Maurizio Patriciello

 

«Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze... ». Nessuno è escluso dal banchetto. Milioni di occhi di uomini, donne, bambini guardavano, giovedì sera, verso il balcone da dove ti saresti affacciato. Una strana, incomprensibile, allegra frenesia aleggiava nell’aria. Non ti conoscevamo e già ti amavamo. Non sapevamo ancora con quale nome avremmo dovuto chiamarti e già ti sentivamo nostro. Una domanda sembrava riecheggiare tra le persone in attesa: «Chi cercate?» Domanda facile alla quale ci siamo accorti di non saper rispondere adeguatamente. Perché vi accalcate? Perché avete invaso Roma? Perché in ogni angolo del mondo ve ne state incollati alla televisione, al computer, al telefonino?

 

Sei apparso. Un boato. Una vera esplosione di gioia. Tu, Leone, meglio di chiunque, sai di chi ha davvero bisogno la gente. È Gesù che cerca. È dell’acqua che zampilla dalla sorgente del suo costato che ha sete. Tu – mica ti offendi se un povero prete osa dirti queste cose? – tu, come tutti noi mortali, sei solo un pretesto, lo specchio da fissare per poterlo meglio vedere. «Dove abiti?» gli chiesero, due millenni orsono, Andrea e Giovanni. «Venite e vedete» rispose. Andarono, si fermarono da lui, chiacchierarono, forse mangiarono qualcosa insieme. Un’esperienza da augurare a tutti. Erano le quattro del pomeriggio, un’ora che rimarrà scolpita nei loro cuori. E, senza indugiare, divennero missionari, corsero da Pietro e gli raccontarono, inciampando sulle parole, di aver incontrato il Messia; poi lo condussero da lui. Un incontro memorabile che cambiò le loro vite.

 

Proprio come il tuo predecessore, eri emozionato, l’altra sera, fratello Papa. Ci hai donato la pace, ci hai incitato a non avere paura, a non stancarci di costruire i ponti per accorciare le distanze tra i popoli. Hai, poi, voluto ricordare a te stesso e a noi le parole del Battista: «Lui deve crescere io diminuire». La stessa convinzione di Madre Teresa di Calcutta: «Io sono solo una matita nelle mani di Dio», e di suor Lucia di Fatima: «Io sono solo una scopa». Dopo aver spazzato la casa, la scopa scompare, viene riposta nel ripostiglio, non in salotto. Tutti concordi e con le idee chiare, i santi. Siamo uomini, abbiamo bisogno di toccare, di vedere, di essere accarezzati, di essere guidati, per evitare di cadere nelle trappole camuffate lungo le strade della vita. Andiamo alla ricerca di esperti, di padri spirituali, di maestri e testimoni innamorati di Dio, disinteressati, liberi. Abbiamo bisogno di essere perdonati, compresi, incoraggiati, confermati nella fede. Abbiamo bisogno di te, papa Leone. E tu hai bisogno di noi per essere Chiesa, Corpo di Cristo, Popolo di Dio.

 

Ci hai chiesto di camminare insieme. “Ut unum sint” pregò Gesù. Che siano una sola cosa. Perché il mondo creda, occorre che i cristiani siano uniti, si vogliano bene, sappiano rinunciare all’orgoglio vanitoso e sciocco che li imprigiona, soprattutto quando si ammanta di falsa spiritualità. Umiltà è la virtù della quale, in ogni tempo, necessitano i credenti. Umiltà che si fa gratitudine, perché tutto ci è stato dato in dono. All’unità, un vero cristiano deve essere disposto a sacrificare tutto, anche le sue idee. Non sempre accade. Non sempre è accaduto. E chi ne ha pagato il prezzo è la Sposa di Cristo, il cui abito, tante volte, è stato macchiato di fango, scandalizzando i piccoli.

 

Extra omnes. Tacciano i profeti di sventura. Chi ha smarrito la speranza non ha diritto alla parola, il pessimismo è mortalmente contagioso. Risuona, in questi giorni, l’invito di Gesù: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, io vi darò ristoro». La missione alla quale sei stato chiamato, caro padre Leone, farebbe tremare i polsi finanche ai santi e agli scaltri. Lo Spirito Santo ti ha scelto. I fratelli cardinali sono stati solo strumenti – consapevoli, inconsapevoli? – per poterti donare alla Chiesa e al mondo. “Seguimi” ti ha detto, ancora una volta, il Maestro. E tu, come sempre, non hai opposto resistenza. Uniche condizioni per ascendere degnamente alla Cattedra di Pietro: amarlo senza misura, senza calcoli, senza recriminare, senza mai cedere alla rassegnazione, ma lasciandoti guidare dallo Spirito Santo che rovescia i potenti dai troni, innalza gli umili, trasforma il deserto in giardino e i peccatori in santi. «Fate quello che vi dirà», ci disse Maria. «Fate quello che vi dirà» ci ripeti tu. L’umanità ha bisogno di Cristo e della Chiesa che custodisce e annuncia la Parola, consacra il Pane di vita eterna e allarga le braccia ai più poveri tra i poveri.

 

 

Georges Bernanos: «La Chiesa dispone della gioia, di tutta la parte di gioia riservata a questo triste mondo. Quello che avete fatto contro di essa, l’avete fatto contro la gioia». Nessuno osi derubare i nostri fratelli e sorelle in umanità di questo immenso dono che è la Chiesa. Nostro dovere è renderla più bella, più luminosa, più accogliente, più attraente, più caritatevole, più santa. Una sposa sempre giovane, perennemente innamorata del suo sposo, a servizio degli uomini. Chiniamo il capo, allora, apriamo il cuore, chiediamo perdono, convertiamoci. Dopo i giorni del dolore per la morte di Francesco e della gioia per il dono di Leone, mettiamoci in cammino. La messe è sempre più grande, tempo per la noia e per le chiacchiere non ne abbiamo. Con la nostra stessa vita corriamo ad annunciare il Vangelo della Vita. È il regalo più bello che possiamo fare a noi stessi, a Dio, al Papa, all’umanità.


Leone XIV ai giovani: la Chiesa ha tanto bisogno di vocazioni, non abbiate paura!

 

 

 

Nel primo Regina Coeli come vescovo di Roma, che cade nella Domenica del Buon Pastore, il Papa invita a pregare soprattutto per chi è chiamato alla vita sacerdotale e religiosa e che si possa guardare a "modelli credibili di dedizione generosa a Dio e ai fratelli". Rilancia l'esortazione del suo predecessore Francesco nel messaggio per la Giornata odierna: accogliere e accompagnare le nuove generazioni. Poi il grazie alle bande musicali che celebrano il loro Giubileo

                                                           

                                                                       di Antonella Palermo 

 

È festa. Piazza San Pietro è piena di entusiasmo: pellegrini, turisti, il popolo di Roma di ogni età si riversano laddove il mondo tre giorni fa ha udito l'annuncio del nuovo Papa che oggi ripete quell'affaccio dalla loggia centrale della Basilica e pronuncia, con gioia, il suo primo Regina Coeli. L'affetto espresso dal Successore di Pietro è grande ed esplicito e si indirizza anche alle centinaia di persone riunite nella capitale per il Giubileo delle Bande musicali e degli Spettacoli popolari. È tutto un mosaico di colori con una musica itinerante che già nelle ore precedenti il mezzogiorno si è riversata su via della Conciliazione dopo la Messa celebrata in piazza Cavour. Una coreografia incredibilmente indovinata che ha contagiato di bellezza e letizia. L'impressione è quella di un tessuto geografico multiculturale in cui si intrecciano le piazze di migliaia di borghi, dove viva è la fede popolare e i legami di comunità resistono all'individualismo.

 

È Cristo che guida la Chiesa

È la Domenica del Buon Pastore, quella in cui la liturgia proclama sempre il Vangelo di Giovanni al capitolo 10, in cui Gesù, come ricorda Leone XIV all'inizio della catechesi, "si rivela come il Pastore vero, che conosce e ama le sue pecore e per loro dà la vita". Una coincidenza, quella di poter cominciare il servizio come vescovo di Roma proprio in questa ricorrenza, che il Pontefice accoglie come un dono. La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che si celebra oggi, è motivo di ulteriore giubilo e preghiera. Come ha fatto nell'omelia della Messa con i cardinali, all'indomani dell'elezione, lo sguardo a cui il Papa rimanda è a Cristo:

 

È Lui che guida la Chiesa con il suo Santo Spirito.

 

I giovani trovino accoglienza e modelli credibili

Leone XIV cita Papa San Gregorio Magno e una sua omelia in cui si evidenzia la corrispondenza del popolo di Dio 'all'amore di chi le ama'. La preghiera del Papa agostiniano, che mai si dissocia da quella del popolo di Dio, è per le vocazioni, "specialmente per quelle al sacerdozio e alla vita religiosa".

 

La Chiesa ne ha tanto bisogno! Ed è importante che i giovani e le giovani trovino, nelle nostre comunità, accoglienza, ascolto, incoraggiamento nel loro cammino vocazionale, e che possano contare su modelli credibili di dedizione generosa a Dio e ai fratelli.

 

La richiesta di pastori secondo il "cuore di Dio"

Leone XIV non può che rimandare al Messaggio di Papa Francesco incentrato sull'accoglienza e l'accompagnamento dei giovani. Ed è uno spirito di unità quello con cui si leva dal neoeletto Pontefice l'invocazione a Dio per questa giornata. Ne traspare non tanto un'attenzione ai numeri, quanto un desiderio che la vigna del Signore sia animata da autentici discepoli e discepole:

 

 

Chiediamo al Padre celeste di essere gli uni per gli altri, ciascuno in base al proprio stato, pastori “secondo il suo cuore”, capaci di aiutarci a vicenda a camminare nell’amore e nella verità. La Vergine Maria, la cui vita fu tutta una risposta alla chiamata del Signore, ci accompagni sempre nella sequela di Gesù.


La festa per "padre Roberto" a Chiclayo, la "città di papa Leone XIV"

 

Lucia Capuzzi, inviata a Chiclayo (Perù)

 

 

Lacrime di commozione, applausi, musica e fuochi artificiali artigianali per la grande maratona di festeggiamenti andata avanti tutto il fino settimana con centinaia di migliaia di persone

 

   

Per i peruviani era “la città dell’amicizia”. Così l’hanno chiamata i migranti delle Ande approdati in questo centro costiero in cerca di sopravvivenza negli anni Sessanta. E il soprannome è rimasto nel tempo, complice la non comune affabilità degli abitanti che ringraziano con aria commossa le centinaia di giornalisti sguinzagliati per le sue strade “per essere venuti fin qui”. Da giovedì scorso, però, Chiclayo è “la città del Papa”.

 

È scritto ovunque nei cartelli appesi ai balconi o disseminati lungo la via Balda, che conduce alla centrale Plaza de Armas. Lo dice il comandante dell’aereo al momento dell’atterraggio. E gli autisti dei bus in arrivo dal resto del Perù. Soprattutto non si stanca di gridarlo, tra risa e lacrime di commozione, applausi, musica e fuochi artificiali artigianali, la folla di centinaia di migliaia di persone radunata per la grande maratona di festeggiamenti andata avanti ininterrottamente per tutto il fine settimana. Indigeni arrivati dalle minuscole comunità rurali sparse sull’altipiano, lavoratori informali delle periferie, giovani e anziani, gruppi cattolici, parrocchie, associazioni.

 

 

 

“Forse questa notte riprenderemo a dormire”, dice Ricardo, 77 anni - mentre mostra con orgoglio una foto di “padre Roberto”, come ancora i suoi “concittadini” chiamano papa Leone XIV. “Non per mancanza di rispetto, al contrario. Per affetto. Non mi perdevo una sua Messa. Spiegava in modo che tutti potessimo capirlo, perfino io che ho fatto solo qualche classe delle elementari”.

 

“Il Papa è ciclayano, il Papa è ciclayano”, strilla all’unisono un gruppo di giovani, guidati da María de los Ángeles, 17 anni. Non è questione di nazionalità, presa nel 2015 per poter essere nominato vescovo, come prevede il concordato tra Lima e la Santa Sede. Neppure di carica: gli oltre otto anni trascorsi a guidare la diocesi. Il fatto è che il pastore Robert Prevost ha saputo mescolarsi a questa terra e alle sue genti, imprimendovi un segno indelebile. Lo stesso che il popolo di Chiclayo ha impresso in lui, come dimostrato dall’affettuoso saluto in spagnolo nel presentarsi ai fedeli dal balcone di San Pietro. “È un grand’uomo. Perché sa farsi piccolo”, raccontano Margot e Daniel che lo hanno conosciuto quando il loro figlio, Emerson Lizana, ora segretario del vescovado, era seminarista.

 

C’è un’espressione che tanti ripetono e la cui traduzione italiana rende solo in parte l’idea: “Si confondeva con i più poveri”. Il futuro Pontefice riusciva realmente a “farsi prossimo” agli altri, a partire da chi, come il Samaritano, aveva maggiori necessità. “Voi siete testimoni di quel che ha fatto durante la pandemia”, ha dichiarato nell’omelia della Messa di ringraziamento di sabato notte sul colonnato color vaniglia della cattedrale di Santa Maria, il successore, monsignor Edinson Fanfán.

 

 

 

L’attuale vescovo – che ha celebrato con la veste liturgica donatagli dal Santo Padre, come ha precisato – ha definito Chiclayo “una scuola di fede, di vicinanza, di umanità” per il Papa, il quale amava dire “i poveri ci evangelizzano poiché ci mostrano Cristo”. I gesti forti – la mobilitazione per la creazione di due impianti per l’ossigeno per i malati di Covid, il soccorso agli esondati di Illimo, l’accoglienza di centinaia di migliaia di migranti venezuelani in fuga dalla fame – si alternavano a una quotidianità condivisa con i residenti.

 

 

Dalla spesa al mercato alle ricette fatte insieme alla cuoca del vescovado al pranzo settimanale al ristorante Trébor, di fronte alla cattedrale, dove soleva occupare il tavolo numero 3 e ordinare capretto a pranzo e il fritto per colazione. “Chiclayo sarà sempre casa tua”, ha scritto María Del Pilar su uno striscione. “Lo aspettiamo”, aggiunge. L’invito ufficiale, ha promesso monsignor Fanfán, partirà presto.


Omelia prima messa da Pontefice Robert Francis Prevost -Papa Leone XIV

9 maggio 2025

 

 

«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette. Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre. In Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (cfr CONC. VAT. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità».

 

 

 

«Pietro, nella sua risposta, coglie tutte e due queste cose: il dono di Dio e il cammino da percorrere per lasciarsene trasformare, dimensioni inscindibili della salvezza, affidate alla Chiesa perché le annunci per il bene del genere umano. Affidate a noi, da Lui scelti prima che ci formassimo nel grembo materno (cfr Ger 1,5), rigenerati nell’acqua del Battesimo e, al di là dei nostri limiti e senza nostro merito, condotti qui e di qui inviati, perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura (cfr Mc 16,15).

 

 

 

In particolare poi Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore (cfr 1Cor 4,2) a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; così che Essa sia sempre più città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture o per la grandiosità delle sue costruzioni – come i monumenti in cui ci troviamo –, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9). Tuttavia, a monte della conversazione in cui Pietro fa la sua professione di fede, c’è anche un’altra domanda: «La gente – chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni. «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti. C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo. C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi. Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente – magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza – sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo. Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere. Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco. Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto».

 

 

 

 

«Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Gesù Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr CONC. VAT. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1). Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio la mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo. Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa».


Pietro ritorna, nel segno dell'umiltà: ecco la speranza che ci sorprende

 

Marco Girardo

 

 

 

Pietro è tornato, si chiama Leone XIV. Del 267esimo Vescovo di Roma ha colpito prima il silenzio disteso, una eco di desiderio e grazia, quasi la Chiesa intera trattenesse il fiato insieme a lui. Poi il gesto di saluto, a due mani, accompagnate dal sorriso delicato. Le prime parole, infine: «La pace sia con tutti voi». Ed è allora che Robert Francis Prevost, il nuovo Papa, è apparso davvero. Non come un annuncio, ma come presenza: un volto, una voce. E l’invocazione: «Sia una pace disarmata e disarmante, umile, che proviene da Dio, che ci ama tutti incondizionatamente». Tutti.

 

Che sorpresa. E quale straordinaria prova di comunione, dai cardinali in Conclave. Come la nascita di ogni vita cambia il senso del mondo – rendendolo sempre diverso – così il successore di Pietro porta una Chiesa nuova. Un Papa viene da un’elezione, certo, ma è più di un eletto.

 

È un’epoca che si apre, un respiro che si rinnova. I cardinali con il loro voto segreto hanno scelto un uomo, agostiniano nato a Chicago e missionario in Perù, e con lui hanno convocato anche il mondo e le sue attese disilluse, le tante domande senza risposte. Nella voce calda del nuovo Papa pare di avvertire questo carico immane, insieme alla consapevolezza di un totale servizio per risvegliare le coscienze – quanto ne abbiamo bisogno.

 

Certo, colpisce ancora una volta la rapidità della decisione: meno di ventiquattro ore. In questo tempo sempre più frammentato e irrisolto – in fondo, lo siamo tutti noi – la Chiesa ha sentito di non poter restare per troppo tempo senza padre. Ai funerali di Bergoglio, ha ricordato un cardinale, questo soprattutto chiedeva la gente: dateci un padre.

 

Ora, Santo Padre, ci è restituito il tempo del camminare insieme. E se questo tempo nuovo si apre, gravido di attese, è anche grazie al sentiero tracciato in assoluta continuità di sostanza dagli ultimi “costruttori di ponti”, ciascuno con il suo stile radicato nel Vangelo: San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. E Francesco, il Papa più vicino che per ultimo ha testimoniato la misericordia come manifestazione della verità, la fraternità come stile di governo, la prossimità come grammatica dell’annuncio. Ci ha anche ricordato, ancora una volta, che al centro della fede, prima di ogni agire, c’è l’incontro con il mistero del Dio fattosi uomo: il Vescovo di Roma è anzitutto colui che conferma nella fede i fratelli, e lo fa guidando la barca di Pietro.

 

Non sappiamo ancora tutto di papa Leone XIV, ma lo Spirito, ne abbiamo avuto conferma ieri, sa parlare anche attraverso la sorpresa. E la sorpresa, nella Chiesa, è spesso il modo in cui la speranza si fa carne: una speranza che sorprende.

 

In un tempo logorato dalla prevedibilità e in cui l’algoritmo anticipa la parola, il Papa non è una predizione: è una chiamata. A volte scomoda, sempre radicale. È l’inizio di qualcosa che ancora non capiamo, ma che – se sapremo ascoltare – ci aiuterà a vedere.

Ci sono le attese dei credenti che, attraverso i cardinali, hanno chiesto soprattutto unità e un pastore per cercarla. Ci sono le riforme e il Sinodo da completare, il Giubileo da celebrare. E ci sono le attese del mondo, che solo dieci giorni fa ha visto i cosiddetti “potenti” riuniti a Roma. Un mondo così diviso, lacerato e rigonfio di violenza. Un mondo impaurito che pare avere un gran bisogno di un Papa. «Senza paura», ha ripetuto due volte Prevost.

 

Ciascuno si aspetta qualcosa da una delle poche autorità morali rimaste in quest’epoca senza autorevolezza. Ma le domande dipendono dagli sguardi che le accompagnano. E non sempre sono sguardi limpidi, anzi, troppe volte interessati, “sguardi di sorvolo” che proiettano etichette, categorie o richieste improprie. Forse conviene assumere il vedere dritto dei semplici, più che quello di chi già sa o crede di sapere. E fidarsi.

 

 

Nel bel mezzo del Giubileo della speranza la Chiesa riprende a camminare accanto al suo Papa, questo conta. Noi ci siamo, papa Leone XIV, confidiamo di esserne degni. In te, come sempre, ci è dato Pietro. In te, come sempre, ci è chiesto di ricominciare, da quell’Ave Maria recitata insieme.


I temi che Papa Leone xiv dovrà affrontare

   

 

In Conclave era entrato con la nomea del meno statunitense tra i cardinali Usa. Una definizione quasi paradossale ma che fa capire bene come Robert Francis Prevost sia lontano dalle divisioni, alimentate dai media, tra conservatori e progressisti o, meglio, oggi tra avversari e sostenitori del presidente Donald Trump. Il nuovo Pontefice, infatti è comunemente conosciuto come uomo del dialogo, capace di ascolto e di mediazione. Una caratteristica che ben si addice al ruolo, prestigioso e delicato, di prefetto del Dicastero per i vescovi che papa Francesco gli ha affidato nel gennaio 2023. A guidarlo la consapevolezza che i compiti di vertice vadano vissuti nel segno del servizio, a Dio e agli altri. L’autorità che abbiamo, disse alla vigilia della sua creazione a cardinale, «è per servire, accompagnare i sacerdoti, per essere pastori e maestri. Spesso ci siamo preoccupati di insegnare la dottrina, il modo di vivere la nostra fede, ma rischiamo di dimenticarci che il nostro primo compito insegnare ciò che significa conoscere Gesù Cristo e testimoniare la nostra vicinanza con il Signore». Un compito che lungi dall’annacquarsi deve invece rafforzarsi a mano a mano che si sale nella gerarchia ecclesiastica. Emblematico, in questo senso, l’indirizzo di saluto che Prevost rivolse a papa Francesco a nome dei nuovi porporati durante il Concistoro del 30 settembre 2023. «Non possiamo nascondere la consapevolezza del peso di questo nuovo servizio – disse il neo cardinale Prevost nell’occasione -. Sappiamo che una carica porta con sé un carico, ciò che i latini sintetizzavano con l’espressione «Honos habet onus», ogni onore comporta un peso, per dirlo con sant’Agostino: «Magis onus est quam honor» (serm. 355). Chi lavora manualmente sa, che per portare un peso in sicurezza è meglio non alzarlo troppo da terra, da quell’humusche ci porta allorigine di ciò che è fondamentale per ogni discepolo di Cristo: lumiltà. Questo compito aggiunse Prevost - è allora una chiamata allumiltà; è Cristo che ci interpella attraverso la sua persona, Santo Padre, e cogliamo l’occasione per implorare con maggior impegno l’assistenza dello Spirito Santo di Dio, per servire se fosse necessario,usque ad effusionem sanguinis (fino alleffusione del sangue)». E a rendere ancora più evidente questo impegno a rinunciare a sé stesso per dare spazio al Vangelo c’è il costante richiamo agli anni trascorsi in Perù, nelle missioni agostiniane, svolgendo anche il compito di vescovo. «Io mi considero ancora missionario» ha ribadito più volte Prevost, sottolineando come sia artificiosa la divisione tra azione pastorale ad gentes e incarichi di governo. «La mia vocazione come quella di ogni cristiano è l’essere missionario, annunciare il Vangelo là dove uno si trova – ha spiegato il 4 maggio 2023 in un’intervista all’Osservatore Romano -. Certamente la mia vita è molto cambiata: ho la possibilità di servire il Santo Padre, di servire la Chiesa oggi, qui, dalla Curia romana. Una missione molto diversa da quella di prima ma anche una nuova opportunità di vivere una dimensione della mia vita che semplicemente è stata sempre rispondere “sì” quando ti chiedono un servizio. Con questo spirito ho concluso la mia missione in Perú, dopo otto anni e mezzo come vescovo e quasi vent’anni come missionario, per incominciarne una nuova a Roma». Alla luce di questo profilo si capisce molto bene la scelta, fatta da papa Francesco, di affidare a Prevost la presidenza della Pontificia Commissione per l’America Latina. Un incarico che per sua natura evidenzia anche l’aspetto più popolare delle fede, quello legato alla devozione semplice, che percorre le strade del mondo lasciando a parlare il cuore. Il neo Pontefice l’ha conosciuta da vicino e fatta propria nei vent’anni peruviani. Quel lungo tratto di vita papa Prevost l’ha vissuto su sollecitazione dell’Ordine agostiniano di cui fa parte, nel segno del vescovo di Ippona che ne ha ispirato la sequela di Cristo. È risultato evidente all’inaugurazione del Capitolo Generale del 2013 quando priore generale uscente, accolse la visita di papa Francesco. Nel suo saluto di benvenuto risuonò con forza la vocazione a un cammino condiviso di tutte le componenti della Chiesa. Per evidenziarlo Prevost si rifece a un sermone di sant’Agostino, il 306 B: « … se per dei compagni di viaggio è motivo di reciproca gioia fare insieme il cammino, quale gioia non avranno nella patria! Lungo questo cammino i testimoni (martyres) lottarono e avanzarono sempre nella lotta, nel procedere non si arrestarono mai. Infatti, quanti amano, vanno sempre avanti … e la via che noi percorriamo vuole dei viandanti». Ma questo stile di cammino, questa vocazione, presuppone la scelta di guardare avanti. «Essa detesta – scrive sant’Agostino - tre categorie di uomini: chi si ferma, chi torna indietro, chi devia. Con l’aiuto del Signore, il nostro andare sia protetto e difeso contro queste tre categorie negative. Ora, in realtà facendo insiemeil cammino, uno va più a rilento, un altro si affretta; tuttavia vanno avanti entrambi». Dove la sottolineatura centrale è al “fare insieme”, come non potrà che essere la comunità al seguito e con il nuovo Papa.


Il nuovo Papa. Noi, non credenti, bisognosi di un nuovo Noè per l'umanità

 

Ritanna Armeni

 

Nell’attesa impaziente anche di tanti che si dichiarano fieramente laici, la speranza che il nuovo Papa risponda alle domande del nostro tempo, che riguardano non la vita del singolo ma tutti

 

 

   

Perché l’attesa impaziente per l’elezione del nuovo pontefice ha coinvolto e attraversato anche i non credenti? Perché tanti, che si dichiarano fieramente laici, non sono riusciti a distogliere lo sguardo da quel comignolo scuro che col colore del fumo ha detto che è stato finalmente eletto il successore di Pietro?

 

C’è stato un interesse ansioso, palpabile, riflesso dai social e dai media per l’elezione del pontefice. Che ha superato le propensioni politiche e le convinzioni personali.

 

Ricordo bene l’elezione di Francesco. Feci una corsa per arrivare in tempo a piazza San Pietro. E con me tanti altri. Si percepiva curiosità e ci fu sorpresa per quell’uomo, che pochi conoscevano, chiamato dalla fine del mondo a guidare la Chiesa.

 

C’era attesa anche dodici anni fa, ma quanto diversa da quella di questi giorni. Allora si aspettava un nome. I più informati volevano sapere a quale corrente della curia appartenesse. Se era conservatore o progressista. Se avrebbe proseguito sulla strada di Benedetto XVI o avrebbe rappresentato una svolta. Ed erano per lo più i fedeli, gli appartenenti alla Chiesa, coloro che in piazza accolsero con un applauso liberatorio la elezione di Jorge Bergoglio.

 

Oggi non si attendeva solo un nome, si attendeva una risposta. E una voce.

 

Anche i non credenti sperano che il nuovo papa Leone XIV possa rispondere alle domande del nostro tempo che riguardano non solo la vita dei singoli o l’individuale benessere ma l’intera umanità e la sua sopravvivenza. È la prima volta che sentiamo che la convivenza nel pianeta è in pericolo. In questi anni nella vita di tutti sono entrati problemi e interrogativi universali, radicali, che attendono risposta e che coinvolge l’esistenza del genere umano e il suo futuro. C’è una minaccia nuova che ci riguarda tutti, che può sommergerci e mettere fine alla storia.

 

Oggi il pericolo di distruzione del pianeta, le ingiustizie, la violenza hanno pervaso la vita quotidiana, ne fanno parte come il respiro, ci intossicano. Ciascuno di noi ­– credente o non credente – le sente, ne è toccato. Non solo si è oscurata l’immagine ottimista di un mondo che comunque crea un futuro migliore ma si è fatta strada la paura di un pianeta che non sia capace di sopravvivere. Tutti – credenti e non credenti – abbiamo cercato risposte. I potenti della terra non sono stati capaci di darcene. Dall’Est all’Ovest hanno saputo e sanno proporre solo inimicizia e guerra. Così la distruzione o l’autodistruzione del mondo è entrata nel nostro immaginario e ha occupato un’idea del futuro che un tempo, anche i pessimisti, consideravano migliorabile.

 

Questi anni hanno davvero distrutto molte speranze e aspettative e hanno messo in crisi la fiducia nella buona volontà. Lo aveva bene compreso Francesco quando ha detto «abbiamo bisogno della speranza» e aveva precisato: «Ne ha bisogno la società in cui viviamo, spesso immersa nel solo presente e incapace di guardare al futuro; ne ha bisogno la nostra epoca, che a volte si trascina stancamente nel grigiore dell’individualismo e del “tirare a campare”».

 

Oggi più che mai abbiamo bisogno di risposte e di speranza. Perché all’apatia che Francesco lamentava si è aggiunto lo sprezzo dell’umanità, la supremazia della guerra, l’adeguamento alla violenza. Anche lui, così resistente, a volte ci sembrava potesse essere sopraffatto. Da dove verrà questa risposta? Noi, non credenti, non lo sappiamo, la cerchiamo ma non la troviamo. E allora continuiamo a cercarla anche in luoghi che conosciamo poco, su strade che non sono quelle che solitamente percorriamo e che qualche volta ci paiono persino oscure o troppo lontane. Non possiamo arrenderci.

 

Forse non tutti ne hanno consapevolezza ma nel nome che è arrivato dalla cappella Sistina molti cercheranno qualcosa di più di un leader religioso, del nuovo capo della cristianità. Cercheranno un Noè . Qualcuno che ci salvi dal diluvio. Perché sanno – questa è la nuova terribile consapevolezza che pervade la nostra epoca – che tutto può essere distrutto, tutto può andare perduto. E allora cerchiamo ­– ­­insieme – qualcuno che accenni a risposte diverse da quelle ascoltate finora. Una figura che si distingua da quella di tanti potenti. Che ­– come tanti millenni fa Noè – ci salvi da un diluvio che travolge e distrugge. Speriamo in qualcuno che costruisca un’arca di pensieri, di parole di nuova fiducia, nella quale rifugiarci e continuare a coltivare la nostra umanità. Noè la fece di legno e ci portò dentro sua moglie i suoi figli e tutti gli esseri viventi che popolavano la terra. Anche i più cattivi e fastidiosi.

 

L’arca di cui abbiamo bisogno oggi è un rifugio per il sentimento di umanità, un luogo che custodisca la fiducia, l’amore, le relazioni. Che ci salvi dalla distruzione che questa volta non viene dal cielo ma da noi stessi. Il diluvio ci sembra vicino, ogni giorno vediamo nuvole nere, sentiamo tuoni lontani ma minacciosi. E ci chiediamo: arriverà Noè con la sua arca?


 

 

La scelta del Papa. Leone, un nome che richiama il fondatore della Dottrina sociale

 

Enrico Lenzi e Francesco Ognibene

 

L'ultimo ad aver portato quel nome è stato papa Pecci, nel 1878, che promulgò la Rerum Novarum, in cui affrontò i diritti e i doveri del mondo del lavoro e di quello del capitale

 

 

   

Se il nome del cardinale eletto nuovo Papa ha sorpreso, altrettanto lo ha fatto il nome che il nuovo Pontefice ha scelto: Leone. Non accadeva da 122 anni, cioè da quando morì Leone XIII, al secolo Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci. Era salito al soglio pontificio il 20 febbraio 1878 e dunque ha regnato 25 anni, 4 mesi e 29 giorni. Si tratta del terzo pontificato per durata.

 

Ma la scelta di questo nome da parte del nuovo Papa si può trovare nelle prime parole che Leone XIV ha pronunciato dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro prima della benedizione Urbi et Orbi, quando ha parlato non soltanto di una pace «disarmata e disarmante», ma anche «dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere, come questa piazza, con le braccia aperte a tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, la nostra presenza, il dialogo, l’amore».

 

Insomma una Chiesa attenta agli aspetti spirituali, ma che non dimentica quelli umani. Una attenzione sociale che Leone XIV ha maturato anche nei suoi molti anni da missionario nel Perù, in zone povere e depresse.

 

Ecco allora che al momento della scelta del nome, il cardinale Francis Robert Prevost deve aver pensato al Papa della Rerum Novarum, l’enciclica che rappresenta il documento fondativo della Dottrina sociale della Chiesa. Vi affronta i diritti e i doveri del mondo del lavoro e di quello del capitale, inaugurando di fatto una riflessione nella Chiesa sui temi del lavoro per trovare una via differente da quella socialista e da quella liberista. Un documento che anche alcuni suoi successori vollero ricordare, come Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.

 

«L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale». È l’incipit della Rerum novarum, l’enciclica firmata nel 1891 da Leone XIII, il Papa di Carpineto Ronano che con quel celebre testo diede avvio al confronto della Chiesa con la società e le sue molte e contraddittorie “cose nuove” dando nome alle piaghe e agli “scartati” che da allora a oggi proprio nella Chiesa hanno trovato la loro spesso unica avvocata. Proprio a motivo di quella scelta di aprire la Chiesa alla modernità Leone trovò un grande estimatore in Giovanni Battista Montini, nato nel 1897, cioè durante il suo pontificato.

 

«Ne aveva addirittura il mito – spiega Fulvio De Giorgi, storico del cristianesimo –, tanto che ci si attendeva che, potendo essere eletto dopo Roncalli come in effetti accadde, avrebbe scelto il nome del Papa “sociale”». Poteva dunque essere Montini nel 1963 ad assumere il nome scelto ora da Prevost («che a prima vista un po’ gli somiglia»).

 

Ma tra Paolo VI e il Papa nativo di Chicago lo storico già scorge un nesso: «Anche Montini – spiega De Giorgi – arrivò dopo un pontificato “carismatico” come quello di Giovanni XXIII, e fu chiamato a portare a compimento e a dare una struttura ai processi che Roncalli aveva avviato con il Concilio».

 

Alla storia Leone XIII – al secolo Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci – è passato per la sua grande enciclica sociale, che fu il segno di una svolta irrevocabile: «La Chiesa si lasciava alle spalle il periodo del Sillabo aprendosi con risolutezza alla civiltà moderna sotto l’impulso di un Papa consapevole che il mondo si stava trasformando. La Chiesa di Leone è una Chiesa estroversa, non più ripiegata sul potere temporale perduto, che assume un suo posto libero e autorevole nelle relazioni internazionali e si prende a cuore gli sviluppi della rivoluzione industriale e il suo impatto sui popoli. Con la Rerum novarum si erge a difesa di tutti gli sfruttati e chiama gli Stati alle loro responsabilità chiedendo leggi giuste e incoraggiando gli studi economici e sociali, dei quali Giuseppe Toniolo sarà il capofila».

 

Nasce la Dottrina sociale come «interesse irrevocabile della Chiesa verso la società, i suoi fenomeni, i suoi cambiamenti e le sue patologie». Di questa profetica sensibilità sociale di papa Pecci fa parte anche «lo slancio impresso al movimento cattolico, al laicato e alla sua vita di fede». Leone è anche il Pontefice di «due altre storiche encicliche: sullo Spirito Santo, la Divinum illud munus (1897), e due anni dopo la Annum Sacrum sul Sacro Cuore», una scelta che lo lega alla devozione che si andava diffondendo – fondativa dell’impegno di tanti cattolici a partire dal «porre Cristo al cuore del mondo», inclusi quanti diedero vita in Italia all’Università Cattolica – e, oggi, all’ultima enciclica di Francesco, la Dilexit nos.

 

 

De Giorgi ricorda un altro documento, quello che fa di Pecci il Papa che «sistematizzò il pensiero filosofico della Chiesa con la Aeterni Patris sul pensiero tomista». Non solo: «Ha aperto gli archivi vaticani e dato impulso agli studi biblici». Non c’è bisogno di ricordare che nel 1890 ricevette l’ex soldato americano Buffalo Bill, a Roma col suo spettacolo itinerante, per avere tra le mani una eredità che 122 dopo torna a risuonare in piazza San Pietro.


Papa Leone XIV

Robert Francis Prevost

 

 

La Pace sia con tutti voi!

 

Fratelli e sorelle carissimi,

 

questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon Pastore, che ha dato la vita per il gregge di Dio.

 

Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, a tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra: la pace sia con voi!

 

Questa è la pace di Cristo risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente. Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di Papa Francesco, che benediva Roma. Il Papa che benediva Roma dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua. Consentitemi di dar seguito a quella stessa benedizione: Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti e il male non prevarrà. Siamo tutti nelle mani di Dio.

Pertanto, senza paura, uniti mano nella mano con Dio e tra di noi, andiamo avanti. Siamo discepoli di Cristo, Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. L’umanità necessita di lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal Suo amore. Aiutateci anche voi, poi gli uni gli altri, a costruire i ponti con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo, sempre in pace.

 

Grazie a Papa Francesco!

 

Voglio ringraziare anche tutti i confratelli cardinali che hanno scelto me per essere successore di Pietro e camminare insieme a voi, come Chiesa unita, cercando sempre la pace, la giustizia, cercando sempre di lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo, per essere missionari.

Sono un figlio di Sant’Agostino – sono agostiniano – che ha detto: “Con voi sono Cristiano e per voi Vescovo”, e in questo senso possiamo tutti camminare insieme verso quella patria la quale Dio ci ha  preparato.

Alla Chiesa di Roma un saluto speciale. Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti e il dialogo, sempre aperta a ricevere, come questa piazza, con le braccia aperte a tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, della nostra presenza, del dialogo, dell’amore insieme.

 

A todos aquellos, in modo particular a mi querida diócesis de Chiclayo en el Perú, donde un pueblo fiel, acompañado a su obispo, ha compartido su fe y ha dado tanto, tanto para seguir siendo iglesia fiel de Jesucristo.

A tutti voi, fratelli e sorelle, di Roma, d’Italia, di tutto il mondo,

 

vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace, cerca sempre la carità, cerca sempre di essere vicina, specialmente a coloro che soffrono. Oggi è il giorno della supplica alla Madonna di Pompei. Nostra Madre Maria vuole sempre camminare con noi, stare vicino, aiutarci con la sua intercessione, il suo amore. Allora vorrei pregare insieme a voi: preghiamo insieme per questa nuova missione, però per tutta la Chiesa, per la pace nel mondo, e chiediamo questa grazia speciale a Maria, nostra Madre. Ave Maria...

 

8 maggio 2025


Papa Francesco il seminatore di Speranza

"La speranza cristiana non è negazione del dolore, è celebrazione dell’amore di Cristo Risorto che è sempre con noi"

 

Papa Francesco

 


Di seguito il link della Santa Sede per trovare documenti, discorsi, encicliche e altri scritti di Papa Francesco

https://www.vatican.va/content/francesco/it.html


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Alcune Esortazioni apostoliche

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Le Encicliche di Papa Francesco

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Il papa in un mondo smarrito

 

Pierluigi Mele

 

 

Il lutto, per la morte improvvisa di papa Francesco, ha attraversato le popolazioni di tutti i continenti. Un fenomeno globale come pochi nella storia contemporanea: solo la morte di papa Wojtila regge il paragone. Ed è una ulteriore dimostrazione di quanto la figura del pontefice romano sia, per la sua missione, una figura universale.

 

Ogni papa esplicita la sua missione secondo i tempi e il carisma particolare della sua personalità.

 

In papa Francesco si univano, in una originale sintesi, il carisma di due santi geniali della storia della cristianità: quello di Francesco d’Assisi e di Ignacio de Loyola. Del povero di Assisi ha attualizzato l’attenzione ai dimenticati della storia, e di Ignacio ha attualizzato il carisma del discernimento nella Chiesa e nella società. Per la “maggior gloria di Dio” il discepolo di Ignacio analizza il tempo in cui vive e cerca di sviluppare percorsi di umanizzazione nella storia: la gloria di Dio è l’uomo vivente, come afferma Sant’Ireneo di Lione padre della Chiesa del II secolo. Ora, come ha affermato il vaticanista Marco Politi, Francesco ha afferrato «le paure e le fragilità di centinaia di milioni di uomini e donne di qualsiasi fede e orientamento».

 

In un mondo smarrito e impaurito, in papa Francesco c’era un invito forte all’umanità a una profonda “conversione”, a un cambiamento radicale di mentalità. I profeti sono dentro la corrente “calda” della storia umana. Sono anticipatori di futuro, di pienezza dell’umanità.

 

In questo senso, come ci insegna il filosofo tedesco Ernst Bloch, la speranza è nettamente superiore alla paura: è “sogno in avanti”, è “sogno a occhi aperti”. Nel senso, cioè, dell’anticipazione di ciò che non è ancora dato. Ma nulla va dato per scontato, la «speranza è costitutivamente esposta all’incertezza e alla delusione»[1]. La speranza per Bloch è «[…] fattore energetico, mobilitante, entusiasmo fattivo, nell’attesa fervente dell’adempimento»[2]. Insomma, in questo dinamismo della storia umana, la “corrente calda” della profezia ci invita a una incessante lotta di liberazione.

 

Papa Francesco era inserito in questa “corrente calda”. Il suo magistero aveva una visione alternativa alla “cosmologia” della dominazione: la sua era una “cosmologia” della fraternità della Madre Terra, la nostra Casa Comune. La “cosmologia” della Fraternità Universale era il sogno di Francesco di Roma sulla scia di Francesco d’Assisi e del suo amico teologo francescano Leonardo Boff. È l’alternativa al neoliberismo, al pensiero unico, che ha pervaso l’intero pianeta.

 

Infatti, il neoliberalismo e il capitalismo, che si reggono sulla competizione e sullo sfruttamento delle risorse della natura, hanno determinato un contrattacco della terra. La specie umana ha fatto una guerra alla natura e la terra ha reagito. Questa è la dinamica secondo Leonardo Boff, uno dei” padri” ispiratori della enciclica Laudato si’.

 

Meno acqua, più calore, diminuzione della biodiversità sono il risultato del sistema dello sfruttamento: così le riserve della terra sono finite. E se non ci sforziamo di diminuire il nostro consumo, la terra continuerà a reagire. Insomma, la sua ecologia integrale, quella del Magistero di Papa Francesco, può ancora ispirare un percorso nuovo per la politica e l’economia planetaria del prossimo futuro. Appunto la politica è la grande arte per la costruzione della “Casa Comune”. Ma, crto, la politica va ripensata nella logica della “Fraternità Umana”.

 

Nella Enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco ci sono lunghe riflessioni sull’economia e sulla politica.  Mette in risalto che: «La politica non deve sottomettersi all’economia e non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia» (n. 177). Fa una franca critica al mercato: «Il mercato da solo non risolve tutto come vogliono farci credere nel dogma della fede neoliberista; si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette per qualsiasi sfida che si presenta; il neoliberismo si auto-riproduce come l’unico cammino per risolvere i problemi sociali» (n. 168). E ancora: «La globalizzazione ci ha resi più vicini ma non più fratelli” (n. 12). Essa “crea solo soci ma non fratelli» (n.101).

 

Così si esplicita la nuova politica o, se volete, la politica autentica: «Il nuovo paradigma della fraternità e dell’amore sociale si dispiega nell’amore nella sua realizzazione pubblica, nella cura dei più fragili, nella cultura dell’incontro e del dialogo, nella politica come tenerezza e gentilezza»[3]. Dal Papa viene un chiaro invito a compiere la rivoluzione della tenerezza.

 

L’analisi splendida che Papa Francesco svolge nella Fratelli tutti della figura del buon Samaritano è davvero una grande sfida alla politica contemporanea. Scrive al riguardo Leonardo Boff: Mediante la parabola del buon Samaritano, Francesco compie un’analisi rigorosa dei vari personaggi che entrano in scena e li applica all’economia politica, culminando nella domanda: «Con chi ti identifichi, con i feriti per strada, con il sacerdote, il levita o con il forestiero, il samaritano, disprezzato dagli ebrei’? Questa domanda è cruda, diretta e decisiva. A chi di loro assomigli?» (n. 64). Il buon Samaritano si fa modello di amore sociale e politico (n.66)»[4].

 

Ecco la misura per valutare la bontà della politica, in questo tempo di “cambio di paradigma”, si applica anche qui: «Con chi ti identifichi?». La politica deve ascoltare il grido di dolore degli ultimi, e sappiamo quanto la cattiva politica e la cattiva economia (quella del turbo-capitalismo) hanno devastato i più fragili impoverendo anche la classe media. Così nuove povertà ci sono affacciate nella nostra società. Creando smarrimento e rabbia.

 

Ecco un esempio luminoso di politica impregnata di fraternità evangelica, capace di diventare amore politico. Non è utopia questa. Nella storia del cattolicesimo politico italiano c’è chi ha percorso questa strada. Mi riferisco a Giorgio La Pira, indimenticabile “Sindaco Santo” di Firenze. Ai tempi della Guerra Fredda è stato un uomo del dialogo, costruttore di ponti tra le religioni, attentissimo alle questioni sociali.

 

Scriveva, durante una crisi economica che aveva colpito la sua città: «Non posso essere indifferente […] che i miei fratelli siano costretti a vivere in un regime economico che contraddice la loro natura di uomini. O se i miei fratelli sono costretti a vivere in un regime giuridico e politico che viola i loro fondamentali diritti umani […]. Posso restare inerte di fronte alle disuguaglianze? […] Se facessi così, non negherei quella paternità divina e quella fraternità umana che confesso con le labbra? […] Devo intervenire perché la fraternità, alla quale io credo, sia trascritta nelle istituzioni sociali, diventi fraternità di fatto»[5]. «Bisogna unire le città per unire le nazioni, per unire il mondo»[6].

 

Un altro esempio richiamato dal Papa è quello di Charles de Foucauld, “piccolo fratello di Gesù”: nel deserto del Nord Africa, insieme alla popolazione musulmana, egli voleva essere «definitivamente il fratello universale» (n. 287). Charles de Foucauld è stato, non va dimenticato, l’ispiratore del grande studioso francese dell’Islam, Luis Massignon. Nella sua esperienza umana e spirituale, Massignon è stato il precursore del dialogo tra Islam e Cristianesimo; senza di lui il dialogo abramitico con l’Islam non sarebbe mai cominciato. Anche lui è un fratello universale.

 

Ho richiamato questa corrente calda del cattolicesimo contemporaneo, a cui appartiene Papa Francesco. Una corrente che ha suscitato nel Novecento il Concilio vaticano II, che ha segnato una svolta per la Chiesa cattolica. Si potrebbe, allora, dire che tutto il magistero di Francesco è un’autentica declinazione del verbo del Concilio.

 

 

Papa Francesco è stato l’uomo dell’ascolto dei poveri e degli ultimi e per questo è diventato fratello di tutti, fratello universale. «Che Dio ispiri questo sogno in ognuno di noi. Amen» (Fratelli tutti n. 288).


"Papa Francesco non è un nome,

ma un progetto della Chiesa e del mondo"

 

Leonardo Boff

 

Ogni punto di vista è la visione da un punto, ho affermato una volta. Il mio punto di vista su Papa Francesco è quello di un latinoamericano. Lo stesso Papa Francesco si è presentato come «colui che viene dalla fine del mondo», cioè dall’Argentina, dall’estremo Sud del mondo. Questo fatto non è privo di rilevanza, poiché ci offre una lettura diversa da quella di altri, da altri punti di vista.

 

La scelta del nome Francisco, senza precedenti, non è casuale. Francesco d’Assisi rappresenta un altro progetto di Chiesa la cui centralità risiedeva nel Gesù storico, povero, amico dei disprezzati e umiliati, come i lebbrosi con i quali andò a vivere. Questa è la prospettiva adottata da Bergoglio quando è stato eletto Papa. Vuole una Chiesa povera per i poveri. Di conseguenza, si spoglia dei paramenti onorari, tradizione degli imperatori romani, ben rappresentata dalla mozzetta, quella mantellina bianca ornata di gioielli, simbolo del potere assoluto degli imperatori e incorporata nei paramenti papali. Lui la rifiuta e la dà alla segretaria come souvenir. Indossa un semplice mantello bianco con la croce di ferro che sempre usava. Visse nella più grande semplicità (il Papa non indossa Prada) e, senza cerimonie, infranse i riti per poter essere vicino ai fedeli. Ciò sicuramente ha scandalizzato molti esponenti della vecchia cristianità europea, abituati alla pompa e alla gloria dei paramenti papali e dei prelati della Chiesa in generale. Vale la pena ricordare che tali tradizioni risalgono agli imperatori romani, ma non hanno nulla a che fare con i poveri artigiani e contadini mediterranei di Nazareth.

 

Sorprendentemente, egli si presenta in primo luogo come vescovo locale di Roma. Poi come Papa per animare la Chiesa universale e, come lui stesso ha sottolineato, non con il diritto canonico, ma con l’amore.

 

Ha scelto il nome Francesco perché san Francesco d’Assisi è «l’esempio per eccellenza della cura e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità» (Laudato Sì, n. 10) e che chiamava tutti gli esseri con il dolce nome di fratello e sorella.

 

Non ha voluto vivere in un palazzo pontificio, ma in una foresteria, Santa Marta. Mangiava in fila come tutti gli altri e, con umorismo, commentava: così è più difficile che mi avvelenino.

 

La centralità della sua missione era posta sulla preferenza e la cura dei poveri, in particolare dei migranti. Disse onestamente: “Voi europei siete stati lì per primi, avete occupato le loro terre e ricchezze e siete stati ben accolti. Ora loro sono qui e non siete disposti a riceverli”. Con tristezza constata la globalizzazione dell’indifferenza.

 

Per la prima volta nella storia del papato, Papa Francesco ha ricevuto varie volte  i movimenti sociali mondiali. Vedeva in loro la speranza di un futuro per la Terra, perché la trattano con cura, coltivano l’agro-ecologia e vivono una democrazia popolare e partecipativa. Spesso ripeteva loro i diritti che gli sono negati, le famose tre T: Terra, Teto e Trabalho. Devono iniziare da dove si trovano: dalla regione, perché è lì che si può costruire una comunità sostenibile. Con ciò ha legittimato un intero movimento mondiale, il bio-regionalismo, come via per superare lo sfruttamento e l’accumulazione da parte di pochi e garantire una maggiore partecipazione e giustizia sociale per molti.

 

Fu in questo contesto che ha scritto due straordinarie encicliche: “Laudato Sì: sulla cura della casa comune”, su un’ecologia integrale che coinvolge l’ambiente, la politica, l’economia, la cultura, la vita quotidiana e la spiritualità ecologica. Nell’altra, la “Fratelli tutti”, di fronte al degrado diffuso degli ecosistemi, lanciò il severo monito: «Siamo sulla stessa barca: o ci salviamo tutti o nessuno si salverà» (n. 34). Con questi testi, il Papa si pone in prima linea nel dibattito ecologico mondiale che va oltre la semplice ecologia verde e altre forme di produzione, senza mai mettere in discussione il sistema capitalista che, per sua logica, crea accumulazione da un lato al costo dello sfruttamento della grande maggioranza dall’altro.

 

Papa Francesco proviene dalla teologia della liberazione della corrente argentina, che sottolinea l’oppressione del popolo e l’esclusione della cultura popolare. Fu discepolo del teologo della liberazione Juan Carlos Scannone, che arrivò a citare in una nota a piè di pagina della Laudato Sì. Già come studente e ispirato da questa teologia, fece una promessa a se stesso: ogni settimana visitare, da solo, le favelas (“vilas miseria“). Entrava nelle case, si informava sui problemi dei poveri e infondeva speranza in tutti. Per anni portò avanti una polemica con il governo che, come politiche dello Stato, faceva assistenzialismo e paternalismo.

 

Reclamava dicendo: in questo modo i poveri non saranno mai liberati dalla dipendenza. Ciò di cui abbiamo bisogno è la giustizia sociale, radice della vera liberazione dei poveri. In solidarietà con i poveri, viveva in un piccolo appartamento, cucinava il proprio cibo, andava a prendere il suo giornale. Si rifiutava di vivere nel palazzo e di usare l’auto speciale.

 

Questa ispirazione liberatrice illuminò il modello di Chiesa che egli si proponeva di costruire. Non una Chiesa chiusa come un castello, immaginandola circondata da nemici da tutti i lati, proveniente dalla modernità con le sue conquiste e le sue libertà. A questa Chiesa chiusa egli contrappose una Chiesa in cammino verso i bisogni esistenziali, una Chiesa come ospedale da campo che accoglie tutti i feriti, senza chiedere loro quale sia il loro orientamento sessuale, la loro religione o ideologia: basta che siano esseri umani bisognosi.

 

Papa Francesco non si presenta come un dottore della fede, ma come un pastore che accompagna i fedeli. Chiede ai pastori di avere l’odore delle pecore, tale è la loro vicinanza e il loro impegno verso i fedeli, esercitando una pastorale di tenerezza e di amore.

 

Forse nessun papa nella storia della Chiesa ha dimostrato tanto coraggio quanto lui nel criticare il sistema attuale che uccide e produce due feroci ingiustizie: l’ingiustizia ecologica, che devasta gli ecosistemi, e l’ingiustizia sociale, che sfrutta l’umanità fino a versarne il sangue. Mai nella storia si è assistito a una tale accumulazione di ricchezza in poche mani. Otto persone possiedono individualmente più ricchezza di 4,7 miliardi di persone. È un crimine che grida al cielo, offende il Creatore e sacrifica i suoi figli e le sue figlie.

 

Come un pastore più che come medico, il suo messaggio è fondato soprattutto sulla figura storica di Gesù, amico dei poveri, dei malati, degli emarginati e degli oppressi. Fu assassinato sulla croce attraverso un duplice processo, uno religioso (offese alla religione del tempo per la sua pretesa di sentirsi Figlio di Dio) e l’altro politico, da parte delle forze di occupazione romane.

 

Non dava molta importanza alle dottrine, ai dogmi e ai riti che aveva sempre rispettato, poiché riconosceva che con tali cose non si raggiunge il cuore umano. Per questo si ha bisogno di amore, di tenerezza e misericordia. Una volta pronunciò una delle frasi più importanti del suo magistero: “Cristo è venuto per insegnarci a vivere: l’amore incondizionato, la solidarietà, la compassione e il perdono, valori che costituiscono il progetto del Padre che è il nucleo dell’annuncio di Gesù: il Regno di Dio. Lui preferiva un ateo sensibile alla giustizia sociale rispetto a un credente che frequenta la chiesa ma non ha alcun riguardo per il prossimo che soffre.

 

Un tema ricorrente nelle sue prediche è quello della misericordia. Per Papa Francesco la misericordia è essenziale. La condanna è solo per questo mondo. Dio non può perdere nessun figlio o figlia che ha creato nell’amore. La misericordia vince la giustizia e nessuno può porre limiti alla misericordia divina. Metteva in guardia i predicatori da ciò che era stato fatto per secoli: predicare la paura e instillare il terrore dell’inferno. Tutti, indipendentemente da quanto siano stati malvagi, sono sotto l’arcobaleno della grazia e della misericordia divina.

 

Logicamente, non tutto vale la pena in questo mondo. Ma coloro che hanno vissuto sacrificando altre vite, preoccupandosi poco di Dio o addirittura negandolo, attraverseranno la clinica di guarigione della grazia, dove riconosceranno le loro azioni malvagie e apprenderanno cosa sono l’amore, il perdono e la misericordia. Solo allora la clinica di Dio, che non è l’anticamera dell’inferno, ma l’anticamera del paradiso, si aprirà affinché anche loro possano partecipare alle promesse divine.

 

Con il suo appello all’azione a favore dei poveri, con la sua coraggiosa critica all’attuale sistema che produce morte e minaccia le basi ecologiche che sostengono la vita, con il suo amore appassionato e la sua cura per la natura e la Casa Comune, con i suoi instancabili sforzi per mediare le guerre in favore della pace, è emerso come un grande profeta che ha annunciato e denunciato, ma sempre suscitando la speranza che possiamo costruire un mondo diverso e migliore. Grazie a ciò, egli si dimostrò un leader religioso e politico rispettato e ammirato da tutti.

 

Indimenticabile è l’immagine di un papa che cammina da solo, sotto una leggera pioggia, in piazza San Pietro, verso la cappella della preghiera affinché Dio risparmiasse l’umanità dal coronavirus e avesse pietà dei più vulnerabili.

 

Papa Francesco ha onorato l’umanità e resterà nella memoria come una persona santa, gentile, premurosa ed estremamente umana. È grazie a figure come queste che Dio ha ancora pietà della nostra malvagità e follia e ci ha tenuti in vita su questo piccolo e meraviglioso pianeta.

 

 

Leonardo Boff ha scritto Francesco d’Assisi, Francesco di Roma. Una nuova primavera nella chiesa, Editrice Missionaria Italiana, 2014; La tenerezza di Dio-Abbà e di Gesù, Castelvecchi, 2024


D’Ambrosio: il pontificato delle sorprese

 

Alberto Bobbio

 

Alberto Bobbio intervista Rocco D’Ambrosio per L’Eco di Bergamo sul significato del pontificato di Francesco. Rocco D’Ambrosio, sacerdote della diocesi di Bari, è docente di filosofia politica alla Pontificia Università Gregoriana. Riprendiamo dal sito della associazione Cercasi un fine.

 

Dodici anni di sorprese e ora? Il professor Rocco D’Ambrosio, sacerdote della diocesi di Bari e docente di filosofia politica alla Pontificia Università Gregoriana, ragiona sul Pontificato di Jorge Mario Bergoglio e osserva: «C’è anche un po’ di smarrimento negli occhi e nel cuore di ricorda in queste ore Papa Francesco. Adesso dopo il funerale, in questa domenica, siamo un po’ come i discepoli chiusi nel Cenacolo e abbiamo timore. Bergoglio è stato con i suoi pregi e i suoi difetti un punto di riferimento per tanti dentro e fuori la comunità cattolica».

 

E dunque cosa bisogna fare?

Non dimenticare uno degli insegnamenti di Papa Francesco. Certo, a noi manca e mancherà la sua presenza fisica, come di tutte le persone che abbiamo amato e non ci sono più. Ma le persone che incontriamo nella nostra vita, dal Papa e chi ci ha fianco ogni giorno, sono doni del Signore. Francesco guardava il volto delle persone, ne toccava la carne, fino a soffrire con loro. Il servizio verso gli altri, sottolineava, non è mai ideologico, non serve le idee, ma le persone.

 

Come lo esprimeva?

Con i gesti dal primo, cioè il rifiuto della mantellina rossa quando si è affacciato per la prima volta alla Loggia delle Benedizioni dodici anni fa, fino all’ultimo la domenica di Pasqua quando è andato in Piazza per salutare le persone nonostante le sue condizioni di salute. La sorpresa è stata la cifra del suo Pontificato.

 

Cosa ha cambiato dal punto di vista dottrinale?

Contrariamente a quanto raccontano i suoi detrattori non ha detto nulla di nuovo. Ha dato piena attuazione al Concilio Vaticano II senza citarlo troppo, attuazione implicita. La sua posizione, che per molti è un’ossessione, contro i fabbricanti di armi è quella della Gaudium et Spes.

 

È stato anche un Pontificato politico?

Sì. Nelle encicliche anche in termini molto espliciti c’è sempre una parte in cui lui si riferisce alla comunità politica, altra frase del Concilio, e all’autorità politica. Dal suo punto di vista interno è stato il Pontificato più lontano dall’idea di un Papa re, per dirla con una battuta storica: gesti, simboli, luoghi e anche il funerale, come quello di un semplice cristiano.

 

La politica è quella che ha dato poco seguito ai suoi inviti a cambiare?

Vedremo. Al funerale c’erano tutti. Ho avuto l’impressione che nessuno volesse mancare in questo clima mondiale, in un contrappunto tra presenzialismo e fede. Non mettono in pratica, perché quello che chiedeva Papa Francesco non è molto facile, anche se in fondo è solo quello che dice il Vangelo. Anche al suo funerale ha continuato a parlare con molta franchezza, libertà e non servendo nessun padrone se non Dio. Lo ha ricordato il card. Giovanni Battista Re nell’omelia, scegliendo tra i punti centrali della missione di Bergoglio quelli che più danno fastidio a molti dei leader presenti.

 

Sul potere dentro la Chiesa cosa ha cambiato Francesco?

L’intuizione di procedere attraverso la sinodalità è stata eccezionale. Il Sinodo in termini laici è la revisione dei processi di governance, intuizione geniale, ma non affatto nuova. Già il Concilio Vaticano II aveva sollecitato a cambiare l’immagine della Chiesa piramidale. Se c’è stato un limite, secondo me, è che il Papa a volte in termini di governo non è stato abbastanza chiaro sulle norme e i regolamenti, creando un po’ di confusione. E gli oppositori ne hanno approfittato.

 

E ora? Chiudere i processi o continuare a consolidarli?

I processi quando iniziano a radicarsi è difficile estirparli dalle radici.

 

Un esempio?

La Messa in latino. I precedenti Pontefici hanno mostrato più tolleranza con vari decreti. Bergoglio ha detto una parola chiara: basta. Con Bergoglio sono finiti gli anni di tolleranza delle istanze pre-conciliari sulla liturgia.

 

Su cosa non si potrà tornare indietro?

Sul dialogo ecumenico e interreligioso e anche sul dialogo con il mondo. Bergoglio ha aperto ogni finestra possibile e sarà impossibile chiuderle.

 

Il pluralismo è stato uno dei punti qualificanti del Pontificato?

Sì. Se si ritiene che la Chiesa cattolica non sia l’unica religione e il suo stile l’unico ammesso, il Pontificato di Bergoglio ha assunto il pluralismo come archetipo. Francesco si è tenuto lontano dal metodo dello scontro tra modernismo e anti-modernismo della Chiesa dell’Ottocento. È andato a vedere le carte di ciò che è moderno, secondo il metodo conciliare della Gaudium et spes: l’autonomia delle realtà temporali può essere secondo Dio o contro Dio. Tornare indietro rispetto al Concilio non si può. Ma dobbiamo distinguere contenuti dalla prassi. Le scelte pratiche di un Papa sono anche il frutto della sua sensibilità, della sua cultura, della sua storia personale.

 

 

Insomma ogni Papa è diverso, ma dovrà restare la continuità con il Concilio. Oggi vedo, dopo appena una settimana dalla morte, il tentativo di normalizzare Bergoglio, un’operazione ambigua dentro e fuori la Chiesa. Certamente il Papa, come tutti i Papi, ha fatto errori, perché governare la Chiesa è difficilissimo. Ma qualcuno sta usando quegli errori per denigrare la persona. Francesco invece ha detto cose profetiche e non solo durante la pandemia, che resteranno nella storia della Chiesa e non sarà un piccolo errore di governo ad offuscare la sua grandezza. Chi lo critica non ama la Chiesa, perché ha portato la critica sui giornali. Invece il Vangelo chiede, se vedi che tuo fratello sta sbagliando, di rimproverarlo nel segreto. Chi non lo ha fatto ora dovrebbe tacere e se lo ho fatto dovrebbe tacere comunque se ama veramente la Chiesa.


In ricordo di lui

 

 Heiner Wilmer

 

 

 

Ci sono parole che riassumono una vita. Ci sono vite che, pur complesse e sfaccettate, riescono a farsi riassumere in una parola – quando questo accade, tocchiamo il mistero profondo di una persona: la sua lotta, la sua speranza, la sua eredità. Per papa Francesco, questa parola è misericordia.

 

Ben prima di essere il fulcro del suo ministero, misericordia è stata per Jorge Maria Bergoglio un’esperienza: l’essere toccati dal palpito del cuore di Dio e il lasciarsi toccare dalla sua dedizione senza misura.

 

Fedele all’esperienza di un Dio che è misericordia

Bergoglio si è sentito guardato con misericordia da Dio ed è così che egli, da gesuita, vescovo e papa, ha guardato al mondo – amato senza limiti dal Dio che si fa corpo, carne, storia nel vissuto di Gesù. Quando si è toccati dalla misericordia di Dio, questa ti entra nelle ossa, fa corpo unico con la tua esistenza. Così è stato di papa Francesco, che è rimasto fedele a questa esperienza di Dio anche quando si è ritrovato a doversi vestire di bianco. La solennità del ministero assunto per la Chiesa e per il mondo non ha scalfito in nulla la tenerezza con cui quel Dio gli chiedeva di guardare e toccare la gente.

 

Il primo viaggio di papa Francesco lo ha portato a Lampedusa – perché lì lo spingeva il suo essere ministro di un Dio misericordioso. È andato in questo luogo, dove la sofferenza dei rifugiati scava ferite visibili nel cuore dell’Europa. Qui Francesco ha messo a nudo la globalizzazione dell’indifferenza, di una logica mondana che produce scarti dell’umano. Qui Francesco ha lanciato il suo monito, volto a destare i cuori assopiti di tutti noi: «Abbiamo disimparato a piangere».

 

Francesco non ha disimparato a piangere: ha pianto per la guerra in Ucraina; per i bambini di Gaza; per tutti quei frammenti di terza guerra mondiale che si va componendo dai suoi tanti pezzetti. Ha pianto per l’indifferenza dell’umanità. Ma non ha mai smesso di sperare.

 

Uno di noi

Chiunque l’abbia incontrato ha percepito che era un uomo del popolo, un fratello – non un sovrano. Un vescovo di Roma, non un sommo pontefice. Un papa in sedia a rotelle con un poncho nella basilica di San Pietro, una settimana prima di morire. Un papa che ha ringraziato per essere stato portato fra la gente, fra la sua gente, per benedirla insieme al mondo, il giorno prima di morire.

 

Un papa solo sotto la pioggia in piazza San Pietro, a pregare e benedire le persone della terra mentre il mondo era fermo per la pandemia. In quella sera, in quel vuoto misterioso, papa Francesco non ha predicato il Vangelo: lo ha incarnato. Da solo. Nella tempesta. Su una barca che rischiava di affondare. E ha detto: «Su questa barca ci siamo tutti».

 

Questo era il suo stile. Semplice, accessibile, ilare. Uno stile che costruiva ponti, non muri. Così che i tanti fossati che scaviamo tra di noi potessero trasformarsi da luoghi di separazione a cammini di incontro.

 

Il programma di papa Francesco era chiaro, basato su tre pilastri: misericordia; fratellanza; pace.

 

Come Gesù

Papa Francesco vedeva la Chiesa come un «ospedale da campo», un luogo di guarigione, un porto a cui tutti potessero approdare anche solo per un attimo. Perché la misericordia non sta chiusa nei palazzi, non si lascia rinchiudere nelle belle parole di libri e documenti, ma va in cerca dell’umano ferito e delle ferite dell’umano. La misericordia è la fede che si lascia guidare dallo Spirito, che non sai di dove viene né dove va – ma ne senti la voce che ti ingiunge di seguirlo.

 

Desiderava una Chiesa così, docile allo Spirito, errabonda lungo i sentieri delle vite delle persone e lungo i dirupi della storia umana. Per questo ha sottolineato ripetutamente che i sacramenti sono destinati alla cura, alla consolazione, alla riconciliazione – là dove sull’umano ferito spira leggera la brezza dello Spirito.

 

In nome del Dio che non conosce misura nell’amore, ha spalancato le porte della Chiesa anche a coloro che erano lontani. In nome del Dio che genera alla vita, ha aperto una nuova prospettiva per il creato, per l’ambiente e per la consapevolezza che la questione sociale e quella ecologica sono strettamente intrecciate fra di loro. Il grido dei poveri fa tutt’uno con quello della Madre Terra.

 

Come Gesù anche noi dovremmo lasciarci toccare dalle preoccupazioni e dai bisogni delle persone. Come Gesù anche noi dovremmo diventare guaritori che fasciano le ferite degli altri.

 

Come Gesù anche noi dovremmo essere prossimi agli altri, parlare con loro cuore a cuore, essere presenti gli uni per gli altri. Come Gesù anche noi dovremmo essere segno tangibile della vicinanza, tenerezza e coraggio di Dio.

 

Tutti fratelli e sorelle

Francesco ha parlato della «grande famiglia umana»; e ha impegnato le religioni, cattolicesimo e islam, a essere le cellule della sua edificazione globale. Come vescovo di Roma, ha esortato gli stati europei a prestare maggiore attenzione e impegno verso coloro che cercano protezione abbandonando i loro luoghi natii.

 

Ha letto la parabola del Buon Samaritano non solo in chiave individuale, ma anche collettiva. Non è solo il singolo che deve prendersi cura del prossimo che giace, percosso, sui margini della strada; anche i popoli forti devono prendersi cura di quelli feriti, sfruttati e oppressi.

 

A Venezia ha detto: «Il potere non è nelle mani dei grandi di questo mondo, ma nel popolo». È andato in prigione. Ha lavato i piedi ai detenuti. Ha fatto costruire docce per i senza tetto in piazza San Pietro.

 

Francesco non voleva una Chiesa come istituzione del potere, ma come comunità di dedizione che si prende cura di tutti e tutte – che ha a cuore ogni persona. Una Chiesa che non ha paura di scendere in strada, di sporcarsi col fango della vita umana, che non ha paura di uscire ammaccata dagli incontri con la vita reale della gente.

 

Voleva una Chiesa in uscita, ascoltatrice della voce dello Spirito e noncurante della destinazione a cui essa la conduce – e non una Chiesa che ruota solo intorno al proprio ombelico, ammaliata dall’immagine speculare di sé.

 

Shalom

Papa Francesco non ha mai inteso la pace come un semplice ideale, ma come un compito che viene dal profondo, dall’opera dello Spirito Santo. Come nel vangelo di oggi, dove ai discepoli barricati in una stanza per paura, Gesù dice «la pace sia con voi». Ha ripetuto più volte che «lo Spirito è il vero protagonista della Chiesa, noi siamo solo strumenti nelle sue mani».

 

Per questo ha pregato instancabilmente affinché lo Spirito ci insegni a percorrere vie di dialogo, perché la pace non nasce dai trattati ma dal cuore, dal mettersi l’uno di fronte all’altro ascoltandosi a vicenda, dal silenzio della preghiera.

 

 

Quando cadono le bombe, quando i popoli si lacerano, quando regna la violenza, secondo Francesco un pastore non può rimanere in silenzio. Lo Spirito di Dio ci spinge a ribellarci contro la guerra e l’odio, ci spinge a resistere ad oltranza alla violenza, ci spinge a impegnarci per la vita nel e del mondo.

 

Francesco credeva nella forza dolce ma potente dello Spirito, portatrice di uno scompiglio capace di abbattere tutti i muri: quelli tra i popoli; quelli tra le confessioni; ma anche quelli presenti nei nostri cuori.

 

Per lui la preghiera per la pace non era una fuga dal mondo, ma una rivoluzione silenziosa, perché lo Spirito vuole la vita non la morte.

 

E così vedeva per la Chiesa il compito di essere luogo di pace – non attraverso il potere, ma mediante la misericordia, attraverso l’opera dello Spirito che riconosce in ogni persona l’immagine di Dio.

 

In principio la gioia

Ed ora che la sua vita tra noi è terminata, sentiamo il dovere di gettare lo sguardo a quel principio misterioso che ha attraversato tutto il suo vissuto: la gioia. La gioia che viene dal Vangelo e la gioia per il Vangelo.

 

Si è detto molto su papa Francesco in questi giorni, ma quasi tutti hanno dimenticato questa dimensione fondamentale della sua fede e del suo ministero di vescovo di Roma. Eppure lui ci è tornato sopra molte volte, dopo avercela fatta assaporare con la sua prima esortazione apostolica Evangelii gaudium.

 

La gioia non è un sentimento estemporaneo, ma una disposizione fondamentale del cuore che ha incontrato il corpo della dedizione di Dio, che è stato toccato da esso. Quando questo accade, la gioia che salva te la porti in giro appiccicata al tuo corpo ovunque tu vada, come accade per il lebbroso guarito nel vangelo di Marco.

 

Papa Francesco desiderava una Chiesa la cui fede fosse imbevuta da cima a fondo da quel mistero dei misteri di cui parla Chesterton alla fine del suo libro Ortodossia: «Eppure c’è qualcosa che Gesù ha tenuto per sé. Lo dico con reverenza (…). C’era qualcosa che Egli nascondeva a tutti quando salì sulla montagna a pregare. C’era qualcosa che Egli celava costantemente attraverso improvvisi silenzi o frettolosi isolamenti. C’era una cosa che era troppo grande per Dio per mostrarla a noi mente Egli camminava sulla nostra terra – e io talvolta ho immaginato che fosse la sua gioia ilare».[1]

 

Una Chiesa per il terzo millennio

Questa gioia evangelica della fede è la forza che dà forma a una Chiesa sinodale – come comunità in cui tutti camminano insieme, non come istituzione di potere dove alcuni decidono dall’alto.

 

Per papa Francesco il Sinodo non era solo un evento a un incontro, ma uno stile. Lo stile di Gesù: ascoltare, discernere, cercare insieme la via. Essere sinodali significa prendersi sul serio gli uni gli altri, comprendere l’altro come inviato da Dio e scoprire insieme ciò che lo Spirito Santo vuole dirci oggi.

 

È la forma fondamentale della Chiesa, dice Francesco, perché solo così il popolo di Dio può crescere: nella verità, nella libertà, nella responsabilità – ma, soprattutto, nella gioia di essere cristiani.

 

Questo è confortante, perché significa che nessuno deve camminare da solo, che la Chiesa può essere un luogo in cui ogni voce conta e viene ascoltata, ogni ferita è vista e viene lenita. Ma ci chiama anche a seguire: cammina insieme a noi. Ascolta. Non chiedere prima: chi ha ragione? Ma, piuttosto: dove ci chiama lo spirito, insieme – mai senza l’altro?

 

***

 

Ora papa Francesco se ne è andato. Il lunedì di Pasqua alle 7.35. Nel momento luminoso della nostra fede nella risurrezione. Lui, il papa dei poveri, dei deboli, degli ultimi, proprio di quelli che nessuno vuole: loro erano a casa sua.

 

E il cerchio di una vita si chiude nel luogo che amava come nessun altro: Santa Maria Maggiore a Roma. Ci andava prima di ogni viaggio. Ci andava per trovare la pace. Per stare con Maria. Lì pregava. Lì piangeva. Lì trovava quel conforto che lo confermava nella gioia della fede. E ora riposa lì in pace.

 

 

[1] G.K. Chesterton: Orthodoxy. Christian Calssic Ethereal Library, Grand Rapids (MI), 112.


Parresia e intelligenza di Francesco

 

 

Fabrizio Mastrofini

 

 

 

Sul New York Times International Edition del 24 aprile, così scrive Austen Ivereigh (saggista e giornalista britannico, autore di una biografia di Papa Francesco, partecipante ai Sinodi sulla sinodalità): «La morte di Papa Francesco, avvenuta lunedì, introduce la Chiesa cattolica in un’epoca incerta per la quale egli ha cercato di prepararla. I cardinali saranno presto convocati a Roma per il conclave che eleggerà il suo successore e dovranno ora valutare se la visione di Francesco, una Chiesa misericordiosa in cui tutti sono benvenuti, sia ancora quella giusta o se sia necessario un approccio completamente diverso, forse più incentrato sulle esigenze della fede cristiana».

 

Ma il punto interessante, verso la fine, riguarda la sinodalità. Ecco come la vede Ivereight: «Qualunque altra cosa emerga nelle priorità dei cardinali per un nuovo leader, è probabile che sia l’appello di Francesco alla “sinodalità” a risuonare maggiormente nelle loro discussioni. “Sinodalità” è il termine dato all’antica consuetudine della Chiesa di riunirsi, discutere, discernere e decidere.

 

Francesco ha adattato l’antica pratica di sinodi e concili in un modo radicalmente inclusivo che invita tutti i fedeli a essere coinvolti. I cardinali potrebbero concludere che, in questo momento, questo è il più grande segno di speranza che la Chiesa possa offrire al mondo. Questa “cultura dell’incontro”, come l’ha definita Francesco, può sembrare una cosa insignificante ai poteri forti. Ma parte da un’idea che chi è schiavo della volontà di potenza non riesce a comprendere: l’innata dignità di tutti, la necessità di ascoltare tutti, compresi coloro che sono ai margini, e l’importanza di attendere pazientemente il consenso.

 

Questi aspetti sono tutti cruciali per riparare un tessuto civico lacerato. I cardinali potrebbero guardare il mondo e decidere che, qualunque cosa possano desiderare dal prossimo papa, la questione urgente che l’umanità si trova ad affrontare è come ci trattiamo a vicenda».

 

***

 

Di segno diverso, sempre sullo stesso quotidiano, Philip Senon, commentatore di ‘cose’ religiose, il giorno dopo, 25 aprile. Titolo: «Cosa è accaduto esattamente alla rivoluzione di Papa Francesco?». La risposta è nelle prime righe: «non ha mai avuto luogo».

 

E aggiunge: «E poiché non ha riscritto radicalmente gli insegnamenti della Chiesa, le sue iniziative più controverse e importanti, tra cui la decisione del 2023 che consente ai sacerdoti di benedire le coppie dello stesso sesso e il documento del 2016 che apre le porte ai cattolici divorziati e risposati per ricevere la Santa Comunione, potrebbero essere revocate da un successore con poco più di un gesto della mano».

 

Il più «grave fallimento», nota il commentatore, accomunando in questo Francesco ai suoi due predecessori, riguarda la mancata estirpazione del problema degli abusi. Certo – notiamo ora qui noi – la questione è tutt’altro che risolta, ma è alquanto ingiusto pensare che una problematica così complessa si possa affrontare e risolvere una volta per sempre. Però certo, il problema esiste eccome!

 

In ogni caso, Senon sottolinea che «i cattolici riformisti delusi da Francesco potrebbero avere motivo di sperare in ciò che accadrà dopo il suo pontificato. Francesco ha trasformato il Vaticano in un’istituzione più tollerante e democratica, e sembra possibile che la rivoluzione di Francesco sia stata semplicemente rimandata a dopo la sua dipartita» – e dunque nelle mani di un successore che potrebbe sentirsi autorizzato a procedere speditamente sulla strada dell’accesso delle donne agli ordini e sul tema dei divorziati.

 

***

 

E nella giornata del funerale, il gesuita James Martin, sempre sul New York Times International Edition, svolge alcune considerazioni sul tema dell’accoglienza verso le persone LGBTQ. Tema marginale, forse, ma che scatena grandi dibattiti e polemiche, oltre che feroci opposizioni ad ogni apertura.

 

«Per Francesco, le ideologie di qualsiasi tipo erano sospette. Preferiva assistere le persone come individui, in un contesto pastorale, cosa che ha sempre sottolineato nei nostri incontri e nelle note che mi ha inviato».

 

Pertanto, nota ancora il gesuita, «essere aperto all’ascolto e all’apprendimento e il suo desiderio di rendere la Chiesa accogliente per tutti sono al centro dell’approccio pastorale del Papa alle persone LGBTQ. Quindi, oltre al nome di Francesco, può vantare un altro titolo: alleato».

 

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Infine, su tutt’altro tema, un ricordo personale di don Maurizio Chiodi, teologo, consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, docente, accademico della Pontificia Accademia per la Vita, spesso attaccato dai siti conservatori cattolici. Su L’Eco di Bergamo del 26 aprile, una intera pagina a firma sua riporta alcuni ricordi personali. Vale la pena di segnalare questo. Lo riporto per intero.

 

«15 maggio 2015. Ero a Roma per la discussione di un Dottorato alla Gregoriana, di cui ero corelatore, con padre Miguel Yáñez, un gesuita argentino, che conosceva il Provinciale Jorge Mario Bergoglio fin dagli anni 70, quando aveva iniziato il cammino formativo nella Compagnia di Gesù. In quei mesi io e altri teologi – l’attuale vescovo di Chioggia mons. Giampaolo Dianin, don Andrea Bozzolo, oggi rettore del Pontificio Ateneo Salesiano, mons. Pierangelo Sequeri, preside della Facoltà Teologica di Milano e poi del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II a Milano, e Miriam Tinti, fino a pochi anni prima avvocato rotale – avevamo lavorato a un libro, Famiglia e Chiesa, un legame indissolubile, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Famiglia, di cui allora mons. Vincenzo Paglia era il presidente.

 

Il libro stava per essere pubblicato per i tipi dell’editrice Vaticana ed era stato preparato come contributo teologico, nell’intervallo tra i due Sinodi (2014 e 2015) sulla famiglia. La pubblicazione, però, era stata bloccata, per intervento della Congregazione per la fede, allora presieduta dal Cardinale Gerhard Ludwig Müller.

 

La sera della discussione dottorale io ne avevo parlato, informalmente, con padre Yáñez. La mattina dopo, 16 maggio, durante una telefonata personale fatta da Papa Francesco al suo “antico novizio”, per chiedergli informazioni sulla salute della sorella disabile, tra le altre cose, padre Yáñez gli aveva raccontato, sconsolato e deluso, che la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva bloccato la pubblicazione del volume Famiglia e Chiesa, un legame indissolubile.

 

Il Papa in persona ordinò di dare subito il via libera alla pubblicazione, dicendo in quella telefonata quattro cose a padre Miguel, che me le riferì poi con grande gioia e stupore: primo, disse il Papa, “io ho bisogno del vostro lavoro di teologi”; secondo, “se il card. Baldisseri (allora Segretario Generale dei due Sinodi per la Famiglia) e mons. Paglia sono d’accordo, procedete con la pubblicazione”; terzo, “so bene che cosa pensa il card. Müller”; quarto, “qualunque problema potreste avere nel futuro, fatemelo sapere”». (…).

 

E conclude su questo don Chiodi: «È superfluo dire che quelle parole mi sono rimaste impresse in modo indelebile. Sono battute, si potrà dire – e peraltro non ne ho mai scritto prima d’ora – ma sono significative per comprendere il coraggio, la parresia, l’intelligenza, un certo modo di comprendere la riflessione teologica, e dunque alcune delle “novità” introdotte da Papa Francesco».

 

 

Conclusione alla quale anche io mi unisco.


Papa Francesco e le spezie di Mozart

 

Andrea Grillo

 

 

La regina della notte (scena de “Il flauto magico” di Mozart – di Simon Quaglio).

 

Se vogliamo onorare la memoria di un papa che abbiamo appena salutato per sempre, se vogliamo guardare negli occhi fino in fondo i milioni di fedeli che non sono disposti ad ascoltare una sintesi burocratica del suo pontificato, se abbiamo il coraggio di salire su quel pinnacolo del tempio, su cui Francesco si è lasciato tentare per 12 anni, allora dobbiamo alzare e ampliare lo sguardo.

 

Non capiremo Francesco finché lo metteremo nel breve spazio dei suoi 12 anni di pontificato. Una cronistoria, anche dettagliata, non basta. Neppure lo capiremo del tutto se lo avremo collocato nella intera parabola della sua vita, dal 1936 al 2025. È già molto, ma non è sufficiente. Per capirne il significato dobbiamo leggerlo in una evoluzione secolare, che ha segnato la Chiesa cattolica in modo davvero profondo.

 

Aveva detto un teologo sudamericano: “ma come è stato possibile che quel 13 marzo del 2013 noi abbiamo potuto riconoscere, in quell’uomo vestito di bianco, ma che faceva cose inaudite già nei primi minuti di pontificato, proprio un papa?”. Il teologo rispose subito: “perché il Concilio ce ne aveva dato il presentimento”. È inutile dire che per alcuni, nemmeno dopo 12 anni, il riconoscimento è stato difficile. Se il Concilio Vaticano II non ti ha parlato, Francesco resta per te un estraneo, forse uno sgorbio o addirittura un pericolo.

 

Come possiamo capirlo?

Ecco allora la questione più importante: come lo possiamo capire, se non lo mettiamo tra le varianti forse simpatiche della storia, ma troppo stravaganti e poco incisive?

 

Io credo che Francesco, sia pure in modo non univoco e con una coscienza solo parziale di ciò che avveniva in lui e attraverso di lui, ci abbia mostrato, all’improvviso, un modello non più moderno di papato. Francesco ha iniziato un “nuovo modello”, ha inaugurato un “cambio di paradigma”. Tanto più perché è venuto dopo Benedetto XVI, che ha rappresentato, per certi versi, il compimento del papato moderno, ossia tridentino e ottocentesco. Con Francesco si esce da quel paradigma di papato e di chiesa. Lo si fa in modo iniziale, non del tutto coerente, zoppicante, ma lo si fa.

 

Nella storia il modello moderno di Chiesa cattolica è nato con il Concilio di Trento. Per nascere, quel modello ha dovuto ripensare a fondo il modello medievale, trasformandolo in “sistema”. Il Concilio di Trento ci ha dato un “sistema” di riferimento assicurato tra mondo e vangelo, in modo davvero poderoso. Clericale, in quel modello, significava rilevante per il mondo e capace di dialogare con esso. Quel modello è entrato in crisi con il sorgere dello stato liberale. Così ha dovuto trasformarsi, lungo tutto il XIX secolo, fino a mettere a punto la versione ottocentesca del modello moderno, che vediamo nel modo più limpido nel Codice di Diritto canonico del 1917.

 

Qui però, in questa piegatura tardo-moderna, il paradigma ecclesiale inizia a ripiegarsi su di sé. Scopre (o è costretta a scoprire) una nuova autoreferenzialità, fino a costruirsi un “ordinamento giuridico parallelo” che la immunizza dal mondo.

 

La Chiesa autoreferenziale è una invenzione del XIX e XX secolo e si afferma, con sovranità e con decisione, fino agli anni ’50 del Novecento. In questo mondo, l’aggettivo clericale cambia significato: diventa “contro il mondo moderno”. L’antimodernismo che caratterizza questa Chiesa, spesso senza che ce ne fosse le coscienza, era la negazione più radicale dello spirito con cui il Concilio di Trento aveva inteso i suoi “decreti di riforma”. Si voleva essere tridentini, ma si affossava la grande idea del Concilio di Trento.

 

Una tradizione non più moderna

Il Concilio Vaticano II, come una inaspettata primavera, ha introdotto una profonda revisione del modello moderno, ma ha solo inaugurato uno spazio di riforma, che è stato occupato subito dalla liturgia, ma ad essa è seguito ben poco. Per questo, già dalla fine degli anni ’70, è iniziata una fase di resistenza al Concilio Vaticano II, in cui i papi “padri del Concilio” si sono comportati da un lato come genitori affannati per le sorti del figli, ma dall’altro come “padri padroni” che non davano fiducia al figlio.

 

Il punto massimo di questa resistenza paterna è accaduto plasticamente quando Benedetto XVI, dalla finestra del famoso “discorso della luna”, ma 50 anni dopo, ha parlato, ma solo all’inizio, di una “felicità del passato”, per poi arrivare a paragonare la recezione del Concilio a una esperienza del “peccato originale”: sembrava un punto di non ritorno.

 

Invece, l’arrivo di papa Francesco ha detto, contemporaneamente, molte cose: l’effetto di un papa americano (di cultura e di chiesa americana) sul governo romano; la esperienza della chiesa povera del sudamerica che interferisce con le felpate e ricche diplomazie europee; l’utilizzo, a proposito e talora a sproposito, di un linguaggio non formale e libero da parte del “sovrano” (da “la mafia spuzza” alle barzellette sulle suocere o alle citazioni di J. L. Borges); da parte di colui che le categorie giuridiche definiscono infallibile (a certe condizioni) e dotato (sempre) di giurisdizione universale e immediata, essendo titolare, nella sua persona, di tutto il potere legislativo, esecutivo e giudiziario (nello stato della Città del Vaticano e, mutatis mutandis nella Chiesa) la inattesa confessione con cui arriva a dire: “chi sono io per giudicare?”.

 

Esemplare è stato il modo con cui Francesco ha guardato, nei primi anni di pontificato, all’interno del primo grande cammino sinodale, alla “gioia dell’amore”. Lo ha fatto uscendo dalle categorie moderne, dal modo tridentino e ottocentesco di giuridicizzare l’amore e di fare della competenza della Chiesa sulla “materia sessuale” la cosa più importante, e ha attinto invece al sapere premoderno dei medievali e al sapere postmoderno della società aperta. Cose antiche e cose nuove, ma in un paradigma inedito.

 

La carne tenera non è autoreferenziale

Eppure tutto era iniziato già nel discorso del Cardinale Bergoglio prima della elezione, dalla esigenza di liberare la chiesa dalla autoreferenzialità, di pensare una “chiesa in uscita”, ossia capace di superare la caratteristica più accentuata dalla Chiesa cattolica dopo il 1870, dopo la perdita del potere temporale. Qui sta, a mio avviso, il segno dei tempi, il “cambio di paradigma”: riaprire la Chiesa alla referenzialità ad altro, liberandola dalla autoreferenzialità, significa uscire dai linguaggi tridentini, di per sé non autoreferenziali, ma che così sono diventati per come sono stati interpretati negli ultimi due secoli, per rispondere al trauma della modernità liberale.

 

Non è un caso che Francesco, nei suoi documenti più importanti, come Evangelii Gaudium, Laudato sì, Fratelli tutti, Desiderio desideravi, utilizzi la teologia medievale, i santi, la letteratura, la storia, l’arte, per uscire dalle categorie che rendono “rigida” la tradizione. L’immagine della “carne tenera” del famoso discorso di Firenze, del 2015, è forse una delle cifre sintetiche più potenti del nuovo paradigma, che Francesco introduce nel papato e nella Chiesa: «La dottrina cristiana non è un sistema chiuso, incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo»

 

Quel modello nuovo, ma tradizionale, perché nutrito da una tradizione non moderna, che il Concilio Vaticano II aveva introdotto come una cascata di acqua pura, e che le pompe ecclesiali avevano cercato di prosciugare tra gli anni ’70 e il primo decennio del nuovo millennio, all’improvviso, con Francesco, si è trovato a parlare e ad agire nel punto più alto della gerarchia. Non a caso è stato tradotto in “piramide rovesciata”.

 

Questa immagine, unita a una testimonianza continua e a una serie di discorsi e di provvedimenti, non sono garanzia né di rovesciamento né tantomeno di rivoluzione. Ma come Francesco è stato riconosciuto grazie a un presentimento che il Concilio ci aveva affidato 50 anni prima di lui, nel segreto dei cuori, oggi è nato il presentimento che ciò che in Francesco abbiamo visto nascere, ora possa e debba crescere, darsi forme, contenuti e colori di novità.

 

Allora, con questo presentimento ben fisso nel cuore – e del quale dobbiamo ringraziare i dodici anni di papato di Francesco, anche quando non sono stati coerenti, anche quando hanno perso la presa, anche quando hanno fermato la immaginazione e attenuato la inquietudine – con questa speranza da lui riaccesa guardiamo alla Chiesa dopo di lui.

 

Quel presentimento di ciò che potrà accadere è stato riaperto e rialimentato dalla sua parola e dai suoi gesti indimenticabili, così pieni di grazia e così ricchi di fede, dentro una chiesa finalmente riconosciuta nella sua pluralità di 5 continenti, in cui la unità si può costruire solo nella differenza accolta e riconosciuta, ascoltata e benedetta.

 

Le “troppe spezie” di Mozart

Risulta che Jorge Mario Bergoglio amasse soprattutto la musica di Mozart. Anche a Mozart era capitato di essere giudicato superficialmente: “troppe spezie” fu uno dei giudizi drastici espressi da un critico suo contemporaneo.

 

I contemporanei non è raro che commettano strafalcioni, sui musicisti come sui papi. Anche di papa Francesco più di un superficiale avrà detto: troppe spezie. E forse ora si augura che in futuro, a Roma, si evitino questi “gravi eccessi”.

 

Ma come in Mozart abbiamo imparato ad ascoltare un grande classico, proprio grazie alle sue spezie, che noi oggi neppure notiamo, anche in Francesco, grazie al presentimento che abbiamo concepito di lui, sapremo leggere, persino nelle sue increspature, l’apparire iniziale e solenne di un modello nuovo di papato e di un paradigma inedito di dottrina e disciplina ecclesiale.

 

 

Se guardiamo lontano nel passato e vicino nel nostro futuro, riconosciamo la traccia inconfondibile del magistero di Francesco che porta frutto. Normalizzare Mozart è sempre possibile: ma tutti si annoieranno a morte.



Francesco: parole della gente comune

 

 Riccardo Cristiano

 

 

Francesco si è preso dei rischi, ma anche delle libertà: la libertà di un’espressione non calcolata, che poi qualche ufficio avrebbe corretto magari, ma intanto questo stile colloquiale passava, diventava normale. In un comunicazione sempre controllata non si prendono rischi ma tutto diviene più paludato.

 

Un pontificato non lungo quello di Jorge Mario Bergoglio, ma difficilmente la Chiesa cattolica potrà tornare ad essere quel che è stata prima di lui. In questa realtà nuova c’entra senz’altro il linguaggio di Francesco: un linguaggio rivoluzionario.

 

Mi attengo soltanto a questo non per dire che i nuovi dovranno parlare come lui, ma per dire che il suo linguaggio ha traghettato la Chiesa in un mondo a lei poco conosciuto, non quello dei teologi, dei dotti, degli esegeti, ma quello delle persone normali; ascoltare il Papa non è più un’impresa per dotti, ai “semplici” non sono più riservati soltanto i gesti. Anche le parole sono rivolte a loro.

 

Nell’epoca della comunicazione a mezzo social media, cioè in un tempo di rapporto diretto tra chi parla e chi ascolta, tra chi dice e chi recepisce, questo ha una valenza enorme.

 

Ignari di questo alcuni si sono attardati, ad esempio, a non comprendere i colloqui tra Francesco ed Eugenio Scalfari. Nei suoi resoconti, con aria divertita, qualcuno poteva obiettare che Scalfari commetteva “errori” dottrinali, attribuiva al Papa una parola invece che un’altra: ma quella frase non doveva arrivare ai sacrestani, a catechisti, ma a chi lontano dalla Chiesa a mezzo di una semplificazione forse erronea, o sgrammatica diciamo, poteva così capire la voce del Papa pur non essendo parte del suo mondo di fede, ma interessato alle sue considerazioni sul mondo, sulla vita (e sulla morte).

 

Dunque la prima novità è stata questo mettere la voce di un romano pontefice nella non perfetta interpretazione “teologica” di un “estraneo” a quel mondo, come tanti di noi.

 

In questo non c’è alcuna forma di imbroglio, ma una “commistione” di stili e linguaggi, per consentire una reciproca comprensione. Questo rimanendo “nel seminato” ufficiale, bollinato, non si sarebbe potuto ottenere.

 

Se vogliamo paragonare questo discorso “linguistico” con quello dei gesti, possiamo trovare il corrispettivo con l’apparizione del Papa al Festival di Sanremo. Luogo non certo santo, né aduso alle discussioni sulla patristica, ma momento di svago e di vita vissuta come la gente vuole viverla da milioni di persone, alle quali il Papa si è dunque rivolto, mettendosi sullo schermo di quelle che alcuni saccenti chiamano “canzonette” e anche “soubrette”.

 

Le risposte a braccio

Guardando più addentro al suo pontificato cogliamo inoltre come Francesco, che non era incline alle interviste prima di diventare pontefice, ha creato anche uno stile espressivo nuovo ed ulteriore, quello del Papa che “ risponde a braccio”.

 

Durante i voli Papali, ovviamente, i giornalisti erano invitati a presentare le loro domande per il Papa in anticipo e in forma scritta, poi alcune sarebbero stato scelte, magari con qualche “levigatura”. E il Papa aveva il tempo per pensare a cosa dire e non dire. Francesco ha voluto l’intervista senza rete: i giornalisti sul volo Papale hanno potuto chiedere quel che volevano al Papa.

 

In questo modo Francesco si è preso dei rischi, ma anche delle libertà: la libertà di un’espressione non calcolata, che poi qualche ufficio avrebbe corretto magari, ma intanto questo stile colloquiale passava, diventava normale. In un comunicazione sempre controllata non si prendono rischi, si ovatta il messaggio, lo si rende “compatibile”. Non ci sono rischi, ovviamente, ma tutto diviene più paludato, difficilmente si tratta di un modo di esprimersi che riesce a comunicare.

 

In alcuni casi questo stile, questo modo di esprimersi è stato decisivo, come quando, parlando in questo linguaggio “informale”, ha detto “chi sono io per giudicare?” . Una frase che è entrata nella storia di questo pontificato.

 

Ho notato che in tempi recenti, in tutte le interviste che ha dato – a differenze di quanto accade con i testi scritti, il Papa non si è mai riferito all’aborto “dal momento del concepimento”: ha sempre fatto riferimento al momento, soggiungendo che sopraggiunge assai presto, in cui tutti gli organi sono formati. Ha scelto questo come il momento in cui dire che c’è vita umana. Un segnale che non è stato colto?

 

Alle spalle di questo, se si volesse indagare, c’è tutta una lunga e importantissima scuola teologica, che include San Tommaso, non certo autori minori: se avessi ragione, non lo so, sarebbe un caso di messaggio che il nuovo stile non è riuscito a veicolare, anche per la scarsa volontà di dialogo dell’altro campo, convinto della sua verità.

 

Vettori insoliti, “esterni”, linguaggio informale: sono due grandi novità di questo pontificato che potrebbero o dovrebbero restare, comunque, nel pontificato che verrà. Si tratti di un “bergogliano” o no, tornare al vecchio sarebbe dannoso.

 

Ma la novità più profonda e significativa, a mio avviso, è un’altra e quella è un dono che quindi non può costituire un precedente, perché i doni chi non li ha non li può chiedere in prestito: parlo del linguaggio poetico.

 

Il linguaggio poetico

Il linguaggio poetico di Francesco lo conoscono tutti quelli che lo hanno sentito parlare e sanno che questa era la sua forza comunicativa, quella che svegliava, attraeva, rendeva vivi coloro che lo ascoltavano, scoprendosi così coinvolti anche se non credevano, per la forza vitale che il linguaggio poetico ha.

 

I neologismi che lui ha introdotto- è famoso il “balconear” per invitare a non fare così, a non limitarsi a osservare lo scorrere della vita dalla finestra, dal balcone di casa- ma anche il “disinstallarsi” riferito non alle app, ma all’azione che la Chiesa dovrebbe compiere per divenire “Chiesa in uscita”, sono espressioni immaginifiche che raggiungono e toccano gli uomini, le donne, i giovani, portando un messaggio importante che non ha bisogno di citazioni che allontanano, facendo sudare l’uditorio, che rimane lontano, diciamo difficilmente coinvolto se non tramite quei “mediatori culturali” che oggi sono ascoltati o seguiti con decrescente attenzione.

 

Anche le sue figure vere o presunte, come la vecchina che in parrocchia gli ha detto una frase che vuole dire ma semplicemente, tipo “Dio perdona sempre, altrimenti il mondo sarebbe finito da tanto tempo”, ha un senso poetico, perché ci chiede di immaginare la vecchina, la sua “cultura sapienziale”, non universitaria, alta, ma autentica, che ci parla con un’altra saggezza e che così ci dice di più.

 

Ma il linguaggio propriamente poetico è quello che apre orizzonti, risveglia. Faccio un esempio che mi ha sempre colpito: quando giunse per l’incontro interreligioso a Ur, in Iraq, realizzando il sogno da tanto tempo dei Papi di poter visitare i luoghi d’Abramo in Iraq, il Papa ha detto:

 

L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo.

 

Questo linguaggio che dall’oltre giunge all’altro è certamente poetico: possiamo usare le successive parole del Papa per capirlo in termini che riguardano i tre monoteismi, la loro fratellanza nella discendenza comune, ma anche per capire, come faccio io, che l’oltre è sempre tale, non può essere rinchiuso in una sola comprensione, riguarda e unisce le diversità senza omologarle, andando oltre ciascuna di loro.

 

Forse è per questo che nel testo torna più volte a parlare del cielo:

 

Gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato ogni secolo e latitudine. Ma tutto cominciò da qui, dal Signore che “lo fece uscire da Ur” (cfr Gen 15,7).

 

Il suo fu dunque un cammino in uscita, che comportò sacrifici: dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli.

 

Anche a noi succede qualcosa di simile: nel cammino, siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio e di vedere negli altri dei fratelli. Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri.

 

In queste breve e non certo innovativa, o originale, escursione nei linguaggi di Francesco troviamo che il linguaggio esce dal ciclostile della forma nota, sperimenta sistemi idonei all’oggi, accorcia le distanze, come sanno fare solo i veri comunicatori, ma soprattutto porta il Vangelo e la sua predicazione in un tempo che ha modificato profondamente i sistemi di comunicazione.

 

Anche questo conferma che Francesco, il grande umanista di un tempo spaesato tra i nuovi ismi, come il sovranismo e il populismo, è stato un potente antidoto a queste novità preoccupanti.

 

Queste parole, il cui esempio più noto in termini di prossimità è il suo presentarsi dicendo “buongiorno”, o “buonasera”, come fa qualsiasi amico, qualsiasi compagno di viaggio, esempio dunque di prossimità che elimina la distanza che si era creata tra il Papa e i fedeli, la gente comune, sono state accompagnate dai suoi gesti più noti e ad esse collegati: abolire gli ori, le limousine, visitare le carceri, o i centri dove si trovano i migranti forzati.

 

 

Parola e gesto hanno composto un ritratto nuovo della Chiesa e del Papa vissuto e presentato come essere umano: la riforma più riuscita. Chi volesse smontarla avrà difficoltà a farlo, soprattutto per il linguaggio, che comunque ha dato inizio ad un’epoca ecclesiale nuova.



L'omaggio senza fine a Francesco: «Vi raccontiamo perché siamo qui»

 

Luca Liverani

 

24 aprile 2025 

 

 

Dalla pace alla cura dei fragili, abbiamo raccolto alcune voci de più di 50mila fedeli che hanno voluto sostare in San Pietro davanti alla salma nelle prime 24 ore. «È stato il Papa dell'umiltà»

 

 

   

Non si è fermato nemmeno nella notte l'immenso afflusso di fedeli in fila per rendere omaggio a papa Francesco, la cui salma è esposta nella basilica di San Pietro. Stamattina la coda raggiunge i due chilometri di lunghezza e va da piazza Risorgimento a Porta Angelica. La coda, che comincia in piazza, fa diverse curve prima di arrivare in via di Porta Angelica dove le persone poi si incolonnano tra le transenne. Contrariamente a quanto previsto, ieri sera la basilica è rimasta aperta a oltranza dopo la mezzanotte: è stata chiusa alle 5.30 per poi essere riaperta alle 7, secondo il programma diffuso nei giorni scorsi. E secondo i media vaticani dalle 11 di ieri alle 11 di questa mattina, più di 50mila persone hanno reso omaggio ai Papa.

 

«Semplice. Diretto. Controcorrente. Coraggioso. Sorprendente. Spiritoso. Umano. Universale. Santo»: eccoli, gli aggettivi che ricorrono nelle parole di chi si è messo in fila per l'ultimo saluto a Francesco. E c’è veramente gente di tutti i tipi in questo brulichio di umanità che comincia a piazza Pia, si snoda lungo via della Conciliazione e si intruppa paziente nel serpentone che attraversa piazza San Pietro e arriva alla Basilica. Per vederlo, per salutarlo, per ringraziarlo, per pregarlo.

 

Ragazzi col Tau al collo, anziane col bastone, famiglie con figli piccoli e con figli grandi, stranieri dai look poco consoni alla situazione, coppie col passeggino. Cattolici praticanti e non, agnostici, atei. Una fiumana multicolore e multietnica che ha pochissime cose in comune, tranne una: questa enorme ammirazione per il Papa venuto “dalla fine del mondo” ma entrato subito in sintonia con un’umanità eterogenea. Con tutti e con ciascuno di loro.

 

Come Anna ed Elisabetta, due amiche di mezza età con due nomi biblici importanti. Hanno gli occhi pieni di luce dopo averlo salutato l’ultima volta. «Solo due ore», dicono quasi incredule. Vengono da Ladispoli, cittadina di mare in provincia di Roma. Cosa li ha colpiti di Francesco? «La semplicità, prima di tutto. Era uno di noi. Ma abbiamo capito la grandezza di quest’uomo leggendo la Evangelii Gaudium, con l’apertura ai laici, l’invito a farsi Chiesa in uscita. E la Fratelli tutti. Ancora di più con la Laudato si’, che ci ha fatto percepire il lamento flebile della Terra. Un dono che Dio ci ha affidato per custodirlo. Non per spremerlo».

 

Un Papa tanto diverso dai suoi predecessori, ma che a suo modo ha proseguito la loro opera. «Giovanni Paolo II ha spalancato le porte – dice Elisabetta – poi Benedetto XVI ci ha messo sui binari, con la sua delicatezza. E Francesco ci ha insegnato a camminare e a non fermarci. Col sorriso di papa Luciani». E ora? «Noi speriamo in un Francesco II. La gente ha paura che si ritorni indietro. Un nuovo Papa che non copi Bergoglio, ma che ne prosegua l’azione». Elisabetta e Anna ci provano a mettere in pratica il magistero di Francesco con il Circolo Laudato si’ Sacro Cuore di Ladispoli: «Abbiamo fatto uscire i preti dalle parrocchie», dicono sorridendo. Cioè? «Con la staffetta in bici di 140 chilometri “Alzati e pedala”, da Fiumicino a Civitavecchia. Ogni parroco ha raggiunto la parrocchia vicina consegnando all’altro la Laudato si’». Mariolina è romana di Roma, sulla sessantina, e non è voluta mancare. «Francesco mi è stato subito simpatico. Un papa moderno, che è riuscito ad avvicinare alla Chiesa tanta gente lontana, con la sua semplicità e col suo senso dell’umorismo».

 

Fabrizio ha 35 anni e al collo porta il lupetto della Roma. Romano? «Di Spinaceto», precisa, profondo sud romano. Cosa ti ha colpito di Francesco? «Pace, pace, pace. Lo ha ripetuto all’infinito. Era il Papa che ci voleva oggi che c’è troppa guerra, troppa». «Siamo di vicino Roma, non potevamo non venire», dicono Fabrizio e Cristina. Di dove? «Castelgandolfo. Certo, Francesco alla Villa Pontificia non è mai venuto e i negozianti non sono stati molto felici... Ma non importa, noi l’abbiamo amato tanto, quanto Giovanni Paolo II. Questo è stato un Papa che ha portato una ventata di novità. Un Papa controcorrente. Un Papa della gente».

 

Alessandra e Chiara sono amiche e colleghe, eleganti e curate più della media dei pellegrini. «Sono qui perché sono cattolica – racconta Alessandra – e venni a vedere anche papa Luciani con mia mamma, ero una ragazzina. Allora non c’era mica tutta questa gente. Con Giovanni Paolo II purtroppo non ho potuto, lavoravo. Stavolta ho voluto esserci, perché questo Papa mi ha colpito. Per il suo essere fuori dagli schemi, un latinoamericano, un po’ “populista”. Da quando si affacciò con quel sorprendente “buonasera” il giorno della sua elezione, per finire col mostrarsi senza falsi pudori in carrozzella. Per dirci “non vergognatevi della debolezza, sono anch’io come voi”. Ha comunicato tanto coi gesti». All’ingresso di sinistra del Colonnato Pasquale arriva con la moglie Barbara e i due figli grandi, Elena e Cosimo. Sono partiti da Benevento, torneranno subito in serata. Lo hanno fatto senza esitazioni, «per questo Papa dell’umiltà che ha voluto rompere gli schemi, rigettare certi simboli del potere papale. Ed è per questo che tanta gente gli si è avvicinata». Non solo: «Anche per l’attenzione per il Creato. È stato l’altro elemento che l’ha reso così importante».

 

 

Va di fretta e non si ferma a parlare col cronista l’uomo canuto e bassino. Dice solo due cose. La prima è da dove viene: «Dalla Sicilia». La seconda è il motivo per cui ha voluto salutare Francesco: «Perché è un santo». Basta e avanza. La signora anziana e distinta cammina faticosamente, una mano sul bastone, l’altra sottobraccio al figlio. «Quando si è mostrato in carrozzella – dice anche lei – mi ha colpito nel profondo. Non potevo non venire a dirgli grazie. Oggi quanto manca al mondo la sua benedizione e la sua presenza». Ed ecco un’altra famiglia che ha fatto ore di macchina prima che ore di fila. «Siamo calabresi, ma veniamo da Como», spiega Leonardo con moglie e figli. «Abbiamo cominciato all’una, siamo usciti quasi alle cinque». Ne è valsa la pena? «Assolutamente sì!», dice sgranando gli occhi, per far capire quanto è stata sciocca la domanda. Tutti diversi, tutti con lo stesso desiderio nel cuore.


L’ultima benedizione

 

 

Anita Prati

 

La preoccupazione per la conflittualità montante ad ogni angolo del pianeta ha accompagnato papa Francesco fino ai suoi ultimi respiri.

 

Rispondendo ad un messaggio di auguri di pronta guarigione inviatogli dal direttore del Corriere della Sera, lo scorso 18 marzo, dalla sua stanza d’ospedale al Policlinico Gemelli il Papa scriveva:

 

Caro Direttore, desidero ringraziarla per le parole di vicinanza con cui ha inteso farsi presente in questo momento di malattia nel quale, come ho avuto modo di dire, la guerra appare ancora più assurda.

 

L’assurdità della guerra si palesa ancor di più in tutta la sua drammatica insensatezza quando la si guarda da quel punto di osservazione privilegiato che è la malattia, luogo in cui si dispiega compiutamente tutta l’essenza dell’umana fragilità.

 

Dal suo letto d’ospedale papa Francesco ha levato un accorato appello, invitandoci a sentire tutta l’importanza delle parole. In un tempo in cui, in modo più o meno subdolo, torna a montare il clima di propaganda belligerante che avevamo conosciuto nei primi decenni del Novecento, il richiamo di papa Francesco risuona come una profezia: poiché le parole sono fatti che costruiscono i mondi che abitiamo, dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra.

 

***

 

È la proposta di un decisivo cambio di paradigma.

 

Proprio nei giorni in cui l’UE impegna i soldi dei suoi contribuenti per lanciare un video volto a promuovere un fantomatico kit di sopravvivenza utile a tenersi in vita per 72 ore in caso di minacce non meglio identificate, ma chiaramente identificabili con una bella guerra nucleare; proprio mentre i nostri governanti (e le nostre governanti) si arrabattano in tutti i modi possibili per giustificare l’investimento di fondi in piani di riarmo, a detrimento di istruzione e sanità; proprio mentre si cominciano a (re)introdurre anche nelle scuole progetti di rafforzamento della cooperazione civile-militare e sembra sempre più vicino il giorno in cui torneremo in piazza ad esercitarci nel passo d’oca; proprio mentre tutti i grandi (e le grandi) della terra si affannano a spiegarci la logica della guerra preventiva, sbeffeggiando il pacifismo come retaggio da hippy nostalgici e declinando come un insulto la parola «pacifista!», giacché l’idea-guida è che il Bene si può affermare solo sconfiggendo il Male a mano armata; proprio in giorni così, intrisi di irriducibile bellicosità, un uomo anziano, sulla soglia della morte, usa le sue ultime energie per richiamarci al dovere di sperare la pace.

 

Domenica 20 aprile, prima della benedizione Urbi et Orbi, impartita con un filo di voce dalla Loggia Centrale della Basilica di San Pietro, papa Francesco ha chiesto al maestro delle Celebrazioni Liturgiche Diego Ravelli di leggere il suo Messaggio Pasquale. Ci resteranno di lui queste ultime immagini, queste ultime parole: un uomo anziano e ammalato che osa, come pochi al mondo, continuare a credere che solo la pace ci salva dalla disumanità.

 

Se Cristo, nostra speranza, è risorto, sperare non è un’illusione, ma un dovere e una responsabilità:

 

Quanti sperano in Dio pongono le loro fragili mani nella sua mano grande e forte, si lasciano rialzare e si mettono in cammino: insieme con Gesù risorto diventano pellegrini di speranza, testimoni della vittoria dell’Amore, della potenza disarmata della Vita.

 

La potenza della Vita è disarmata e proprio per questo disarmante. Siamo circondati da volontà di morte, da conflitti e da violenze di ogni genere, ma la nostra esistenza non è fatta per la morte, è fatta per la Vita!

 

In questo giorno, vorrei che tornassimo a sperare e ad avere fiducia negli altri, anche in chi non ci è vicino o proviene da terre lontane con usi, modi di vivere, idee, costumi diversi da quelli a noi più familiari, poiché siamo tutti figli di Dio!

 

Vorrei che tornassimo a sperare che la pace è possibile!

 

***

 

Nel Messaggio di Francesco tornano, nominati uno ad uno, i luoghi della terra martoriati dalle guerre: il Medio Oriente, il Libano, la Siria; lo Yemen; l’Ucraina; il Caucaso Meridionale, l’Armenia e l’Azerbaigian; i Balcani occidentali; la Repubblica Democratica del Congo, il Sudan e il Sud Sudan, il Sahel, il Corno d’Africa, la Regione dei Grandi Laghi; il Myanmar.

 

Su tutti, e prima di tutti, la Terra santa insanguinata:

 

Dal Santo Sepolcro, Chiesa della Risurrezione, dove quest’anno la Pasqua è celebrata nello stesso giorno da cattolici e ortodossi, s’irradi la luce della pace su tutta la Terra Santa e sul mondo intero. Sono vicino alle sofferenze dei cristiani in Palestina e in Israele, così come a tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese. Preoccupa il crescente clima di antisemitismo che si va diffondendo in tutto il mondo. In pari tempo, il mio pensiero va alla popolazione e in modo particolare alla comunità cristiana di Gaza, dove il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria. Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!

 

Cessate il fuoco! Chi raccoglierà questo appello di papa Francesco? Chi avrà il coraggio e si assumerà la responsabilità di osare sperare la pace?

 

Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo.

 

I grandi e le grandi della terra, che in questi giorni affastellano tributi di cordoglio per la morte di papa Francesco, saranno capaci di raccoglierne l’eredità spirituale e fare in modo che, la sua, non rimanga una voce che grida solitaria nel deserto?

 

***

 

Il testamento di Francesco, redatto quasi tre anni fa, il 29 giugno 2022, si chiudeva con queste parole, che testimoniano tutta l’urgenza del suo sentire:

 

La sofferenza che si è fatta presente nell’ultima parte della mia vita l’ho offerta al Signore per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli.

 

 

Tornare a sperare che la pace è possibile: è questa il richiamo potente e la responsabilità che papa Francesco ci ha affidato con le sue ultime parole.


 

 

L’ultima omelia

 

 Anita Prati

 

 

 

L’ultima omelia di Papa Francesco è stata l’omelia scritta per il giorno di Pasqua. A motivo della sua voce affaticata il papa non l’ha potuta leggere, ma ne ha affidato la lettura al cardinal Comastri. È un’omelia densa e breve, che si apre significativamente con il nome di Maria di Magdala e si chiude con una citazione dalla teologa e poeta Adriana Zarri.

 

Maria, dopo aver visto la pietra scostata dal sepolcro, corre a dirlo a Pietro e Giovanni; e Pietro e Giovanni, a loro volta, subito si mettono a correre verso il luogo della sepoltura di Gesù. Quella corsa è, per papa Francesco, molto più di un semplice dato narrativo:

 

“La corsa della Maddalena, di Pietro e di Giovanni dice il desiderio, la spinta del cuore, l’atteggiamento interiore di chi si mette alla ricerca di Gesù. Egli, infatti, è risorto dalla morte e perciò non si trova più nel sepolcro. Bisogna cercarlo altrove.”

 

Francesco ci consegna questo invito pressante, perentorio, e questa responsabilità: bisogna cercarlo altrove, il Signore della Vita. Non nei sepolcri, nei musei del tempo che fu, nelle storie imbalsamate, ma nella vita, nei volti e nelle storie vive dei fratelli e delle sorelle che camminano con noi lungo le strade di questo mondo. Dobbiamo cercarlo altrove, e cercarlo sempre:

 

“Cercarlo sempre. Perché, se è risorto dalla morte, allora Egli è presente ovunque, dimora in mezzo a noi, si nasconde e si rivela anche oggi nelle sorelle e nei fratelli che incontriamo lungo il cammino, nelle situazioni più anonime e imprevedibili della nostra vita. Egli è vivo e rimane sempre con noi, piangendo le lacrime di chi soffre e moltiplicando la bellezza della vita nei piccoli gesti d’amore di ciascuno di noi.”

 

In questo cercare, in questo cercarlo sempre, è la radice della nostra fede pasquale: una fede che non si adagia nella staticità del “si è sempre fatto così” e non si accomoda nella tranquillità delle rassicurazioni religiose, ma osa il coraggio inquieto della ricerca.

 

“Come Maria di Magdala, ogni giorno possiamo fare l’esperienza di perdere il Signore, ma ogni giorno noi possiamo correre per cercarlo ancora, sapendo con certezza che Egli si fa trovare e ci illumina con la luce della sua risurrezione.”

 

I passi svelti della Maddalena, di Pietro e di Giovanni, danno corpo alla speranza: non una semplice idea, una pia illusione, ma un movimento vitale che sostanzia di senso il nostro cammino.

 

“Non possiamo parcheggiare il cuore nelle illusioni di questo mondo o rinchiuderlo nella tristezza; dobbiamo correre, pieni di gioia. Corriamo incontro a Gesù, riscopriamo la grazia inestimabile di essere suoi amici. Lasciamo che la sua Parola di vita e di verità illumini il nostro cammino. “

 

L’omelia si chiude con una preghiera di Adriana Zarri: “Scrostaci, o Dio, la triste polvere dell’abitudine, della stanchezza e del disincanto; dacci la gioia di svegliarci, ogni mattino, con occhi stupiti per vedere gli inediti colori di quel mattino, unico e diverso da ogni altro.”

 

Gli occhi di papa Francesco, questa mattina, hanno accolto con stupore e gratitudine un mattino davvero nuovo.

 

Cercavo

 

Cercavo silenzi

di boschi e montagne,

di sguardi profondi,

di vento sul mare.

 

Cercavo passi

che riportano a casa,

che tracciano strade,

che camminano insieme.

 

Cercavo luce

a rischiarare la notte –

bagliori di fiamma,

tremolio di candele.

 

Cercavo acqua

che disseta la sete,

rinfresca la pelle,

inonda i pensieri.

 

Cercavo pane

per spezzare fatiche,

sostenere gli affanni,

carezzare il dolore.

 

Cercavo vino

per danzare la festa,

per cantare la vita,

liberare la gioia.

 

Cercavo parole

da riporre in silenzio

fra le pieghe del cuore –

parole da ascoltare,

parole da parlare,

parole da intrecciare

con legami d’amore.

 

Cercavo –

ho sempre cercato –

 

e Tu, ogni volta,

 

mi hai sempre trovato

 

Anita Prati



Francesco: un dono dello Spirito

 

 

 

Nel momento in cui riceviamo la drammatica, seppur attesa, notizia della morte di papa Francesco ci siamo rapidamente consultati in redazione. In attesa di un giudizio più ponderato e compiuto ci è parso importante fissare alcuni punti decisivi e alcune linee guida che hanno segnato il suo servizio petrino. Si tratta di guardare a Francesco con l’ottica di Francesco. A partire da quanto è possibile comprendere dai suoi scritti, dai suoi gesti, dalla sua vita e dai suoi indirizzi di governo si possono indicare gli orientamenti di maggior forza che ha inteso proporre e sostenere. Fra questi ve ne sono alcuni a nostro giudizio particolarmente riconoscibili.

 

Fedeltà al Vaticano II

Si può dire che tutti i pontificati post-conciliari lo hanno affermato, ma con tentativi di correzione e di contenimento. Francesco ha aperto porte e finestre, riprendendo la spinta innovativa dell’assemblea conciliare dei vescovi cattolici. In particolare, nei rapporti con la modernità ha archiviato ogni declinazione di neo-cristianità. La Chiesa, sacramento di salvezza, partecipa con tutti gli uomini e le donne al procedere storico, dando il proprio contributo di testimonianza, luce e senso evangelici senza pretendere di essere parte del potere politico o di condizionare le assemblee legislative.

 

Evangelizzazione prima della dottrina

Senza ignorare la centralità del deposito della fede, il compito odierno della Chiesa nella sensibilità di Francesco è quello di tornare all’annuncio del Vangelo ad ogni creatura, di uscire dai recinti consueti, di trasformare i propri linguaggi, di sporcarsi le mani con i vissuti di tutti. La scelta dei poveri perde ogni traccia ideologica per tornare al Vangelo sine glossa. Protagonista dell’impresa è l’intero popolo di Dio.

 

Sinodalità

La fatica degli ultimi anni di chiarire, fondare e praticare la sinodalità è indicativa di una Chiesa che, proseguendo il suo sforzo di comprensione sempre migliore della fondante manifestazione dell’Abbà di Gesù e della rivelazione trinitaria, si impegna a tradurle in una prassi concreta e condivisa nel tempo presente. Siamo ancora all’inizio. Il processo e l’investimento sono destinati a durare a lungo.

 

Religioni e confessioni cristiane

Davanti alla sfida della violenza con pretese religiose Francesco ha approfondito l’intuizione di Assisi (Giovanni Paolo II), aprendo dialoghi e confronti, in particolare con l’Islam e le fedi non monoteistiche. Contestualmente, ha riconosciuto di dover assumere una nuova centralità della Chiesa cattolica in ordine all’urgenza dell’unità cristiana, al dialogo con le altre confessioni. Ne va della credibilità del cristianesimo e della sua profezia in un mondo sempre più diviso e frammentato.

 

Il vento del Sud

Provenendo come ebbe a dire la sera della sua elezione dalla «fine del mondo», da un Paese periferico rispetto alla civiltà atlantica, Francesco ha incarnato e incoraggiato la crescita delle comunità cattoliche in continenti come l’Africa e l’Asia. Uno spostamento del baricentro ecclesiale che porta in sé cambiamenti profondi nell’autocoscienza della Chiesa, ben al di là della crescita del numero dei cardinali non occidentali.

 

Laici e donne

Se c’è una denuncia insistente nei suoi discorsi è quella contro il clericalismo, contro una indebita centralità dei vescovi e dei preti. Non per sminuire la rilevanza del ministero ordinato, ma per dare uno spazio effettivo al sensus fidei fidelium e agli innumerevoli carismi che lo Spirito suscita nelle comunità cattoliche. È stato talora accusato di approcciare la questione femminile in termini retorici, ma anche la semplice costatazione dei ruoli ecclesiali oggi riconosciuti alle donne, rispetto al passato recente, indica la sostanza dei passi compiuti.

 

Contro gli abusi

In fedeltà agli indirizzi avviati da Benedetto XVI, e sull’onda degli scandali svelati e cavalcati dai media di molti Paesi occidentali, Francesco ha definito la risposta canonica, teologica e spirituale davanti all’«intollerabile» della violenza sui piccoli e gli indifesi. Si potranno certo rilevare anche incertezze e rallentamenti, in particole per alcuni casi che lo hanno tangenzialmente coinvolto, ma è difficile negare la sua coerente volontà di affrontare il problema, anche quando esso ha coinvolto ecclesiastici di alto profilo e interi episcopati.

 

Libertà di ricerca

Solo chi non ha conosciuto il senso di liberazione del Concilio e le successive restrizioni al pensare teologico (dalla teologia della liberazione alla ricerca morale e all’ecclesiologia) può sorvolare sulla ricchezza di dibattiti e di ipotesi teologiche che hanno ripreso a correre in seno alla Chiesa con l’attuale pontificato. I loro limiti e fragilità non possono oggi essere attribuiti alle censure delle istanze vaticane, se non in piccola parte. Paradossalmente, le numerose – talora improponibili – critiche al suo magistero lo confermano.

 

Riforma della curia

Spostare l’asse di rotazione dalla dottrina all’annuncio del Vangelo, impedire concrezioni improprie di potere, sciogliere le cordate servili, internazionalizzare le presenze, ricambiare i responsabili, facilitare i rapporti con la conferenze episcopali e i vescovi: sono alcune delle importanti intenzioni che reggono la riforma. Le sue insufficienze e contraddizioni, che non mancano, non possono svalutare le preziose novità di indirizzo.

 

Ambiente, fratellanza, migrazioni

Sono i titoli di alcuni dei suoi testi fondamentali (encicliche, esortazioni, discorsi e gesti) sulle emergenze sociali e mondiali. Rappresentano lo sforzo del magistero pontificio davanti a sfide cruciali per la sopravvivenza dell’umanità. Consapevole della «dissonanza» rispetto alla cultura mediale corrente, Francesco non ha annacquato la genialità della dottrina sociale, affrontando la globalizzazione senza cedimenti al sistema tecnocratico. Essa rappresenta per lui un coerente sviluppo della riforma ecclesiale proposta con il suo grande documento programmatico, l’esortazione Evangelii gaudium.

 

Guerra ed egemonia

Francesco ha delegittimato la guerra andando oltre la dottrina della «guerra giusta» proprio nel momento in cui essa riappare «a pezzi» nel mondo e in Europa (Russia-Ucraina). C’è qualcosa di agonico e drammatico in questa volontà di resistere al fatto che la pur necessaria ridefinizione dell’egemonia mondiale debba avvenire con la violenza. Da qui si capisce il favore con cui Francesco guarda all’esperienza dell’Unione Europea, alla necessità di tenere aperti i contatti con Mosca e con Pechino e alle domande esigenti nei confronti della democrazia americana. Lo ha fatto perché ha percepito acutamente che c’è una vittima predestinata della distruzione del multilateralismo e della pace: la democrazia.

 

 

Fedeltà al Vangelo e acume storico legittimano l’indicazione di Francesco come dono dello Spirito.

 

Fonte: Settimananews


I gesti, le parole, gli abbracci: il Papa delle prime volte

 

Mimmo Muolo 

 

Che tipo di Papa sarebbe stato non ci volle molto a capirlo, quel tardo pomeriggio del 13 marzo 2013. Il tempo di vederlo comparire sul balcone centrale della facciata della Basilica di San Pietro, di osservare il semplice vestito bianco, con nient’altro sopra se non la croce pettorale, di ascoltare il suo «buonasera» e le prime parole a braccio, dopo l’annuncio del nome che Jorge Mario Bergoglio aveva scelto per il suo ministero petrino. Francesco. Una novità assoluta nella bimillenaria storia dei papi.

 

Il pontificato “delle prime volte”

 

Cominciava così un pontificato “delle prime volte”, estremamente popolare, anche se non scevro da critiche (quasi tutte da “destra” e anche questa è una prima volta, almeno nella storia recente), ma sicuramente rivoluzionario per molti aspetti. A cominciare dal fatto che per la prima volta, appunto, era stato chiamato a guidare la Chiesa cattolica un latino-americano, circostanza che egli stesso sottolineò con un’espressione poi divenuta famosa: «Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo (il nuovo vescovo di Roma, ndr) quasi alla fine del mondo».

Ma insieme a questa frase, molto di quello che sarebbe avvenuto dopo, nei 12 anni di permanenza sulla cattedra di Pietro, fu come preconizzato in quel primo discorso da Pontefice.

La teologia del popolo, ad esempio, sua constante stella polare. La fratellanza, che tanto spazio avrebbe avuto nei suoi documenti e soprattutto nell’enciclica Fratelli tutti. La sua richiesta della preghiera del popolo affinché il Signore apponesse il sigillo della sua benedizione sul nuovo pontificato, ancor prima che fosse – come di consueto – il nuovo Papa a benedire il popolo. E il primo pensiero dedicato a Benedetto XVI, da pochi giorni (a quella data) Papa emerito, per inaugurare un rapporto di considerazione e affetto che sarebbe durato fino alla morte del suo predecessore, il 31 dicembre 2022.

 

La capacità di sorprendere e la naturale simpatia

 

Papa Francesco dimostrò fin dall’esordio la sua capacità di sorprendere. E di stabilire una sintonia immediata con i propri interlocutori, anche quelli più lontani, le personalità che fino ad allora avevano guardato alla Chiesa di Roma con sospetto e diffidenza, o magari con indifferenza, se non proprio con aperta ostilità. Quali saranno i frutti che questa naturale simpatia ha prodotto lo giudicherà la storia, ma è un fatto che papa Bergoglio abbia aperto canali di dialogo fino a poco tempo fa impensabili. Si pensi solo agli incontri con Eugenio Scalfari, sia pure al netto degli errori teologico-dottrinali anche gravi, attribuiti dal famoso giornalista al Papa nei suoi report su quei colloqui.

Nei giorni che seguirono l’elezione, in particolare, emersero sempre nuovi aspetti della personalità del Papa argentino, che gli guadagnarono un immediato e quasi totale favore popolare. Come ad esempio la scelta, subito dopo l’affaccio dal balcone, di tornare a Casa Santa Marta in pulmino con gli altri cardinali invece di utilizzare l'automobile papale. Oppure il gesto di recarsi personalmente alla Casa del Clero dove aveva soggiornato nei giorni precedenti al Conclave, per pagare il conto. E poi la decisione di rimanere a Santa Marta, anziché andare a risiedere nel Palazzo apostolico, non come scelta di povertà, ma di contatto con le persone, perché questo lo faceva stare bene, come spiegò egli stesso.

 

Povertà, pace, creato e misericordia

 

Anche il nome fu un’indicazione di programma: Francesco è l’uomo della povertà, della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato. «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!», disse. Si aggiungerà poi la misericordia, a completare i quattro pilastri pastorali del suo magistero. Nel primo Angelus dopo la sua elezione, il 17 marzo, Bergoglio parlò della misericordia come di una parola che cambia il mondo» e lo «rende meno freddo e più giusto». E il 7 aprile, nella basilica di San Giovanni in Laterano, quando il nuovo Vescovo di Roma si insediò sulla sua cattedra, aggiunse: «Lasciamoci avvolgere dalla misericordia di Dio». Sono solo i primi accenni di tema che troverà il suo momento più alto nella celebrazione dell’Anno Santo straordinario della misericordia (2015-2016).

Nella Messa di inizio ufficiale del ministero petrino, il 19 marzo 2013, giorno di San Giuseppe, il Papa parlò anche di tenerezza, prendendo spunto proprio dal casto sposo di Maria, uno dei santi che gli erano più cari. «In lui – sottolineò - vediamo qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato». Quindi parlando del suo ruolo disse: «Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce». Il che significa «aprire le braccia per custodire tutto il popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato, in carcere. Solo chi serve con amore sa custodire».

Su questi binari programmatici ecco che il primo anno di pontificato diventa una specie di fuoco pirotecnico delle novità. Il 23 marzo, ad appena dieci giorni dall’elezione al soglio di Pietro, papa Francesco si reca a Castel Gandolfo per visitare il papa emerito Benedetto XVI. È la prima volta nella storia che due papi si incontrano. Il 13 aprile 2013 un comunicato della Segreteria di Stato annuncia la formazione di un gruppo di cardinali «per studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana». Nasce così il cosiddetto C8 (otto cardinali), che poi diverrà C9, con l’ingresso del segretario di Stato, Pietro Parolin. Questo gruppo, di cui viene nominato segretario l’allora vescovo di Albano, Marcello Semeraro (poi cardinale), sarà quello che insieme al Papa porterà alla riforma della Curia, ora codificata nella costituzione Praedicate Evangelium, pubblicata il 19 marzo 2022.

 

I viaggi

 

L’8 luglio 2013, poi, un po’ a sorpresa, Francesco dà inizio ai suoi viaggi, scegliendo una destinazione emblematica: Lampedusa. C'era stato da non molto l’ennesimo grave naufragio che aveva causato decine di morti tra i migranti. Si comprende così che, pur confermando la prassi dei viaggi papali, Bergoglio intende dare anche a questa attività un’impronta in linea con le proprie priorità pastorali. Periferie sempre al centro. Predilezione per i più poveri. Chiesa in uscita. In Europa, ad esempio, inizierà dall’Albania, non toccherà mai i grandi Paesi. Strasburgo e Marsiglia non furono visite alla Francia, ma al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa nel primo caso, ai vescovi del Mediterraneo riuniti a convegno nel secondo (solo la periferica Ajaccio lo è stato, suo ultimo viaggio, il più breve), mentre in altri continenti visiterà preferibilmente contesti e situazioni, più che Paesi, con un occhio particolare ai diseredati e al dialogo con le altre religioni, musulmani in primis. Alcuni dei viaggi entreranno direttamente nella storia del Pontificato. Quello in Iraq, ad esempio, in pieno periodo Covid e dopo la fine della devastazione dell’Isis, il viaggio in Terra Santa, le due tappe nella Penisola arabica (Abu Dhabi e Qatar), le prime in assoluto per un Pontefice in quella regione, la visita all’Onu, a suo modo anche il Giappone (dove il Papa avrebbe voluto andare come missionario da giovane) e il sorvolo della Cina durante il viaggio in Corea del Sud. Francesco invece non ha fatto mai ritorno in Argentina, pur avendo viaggiato diverse volte in America Latina.

Tra i viaggi bisogna anche ricordare le Gmg. Grandiosa quella di Rio de Janeiro nel 2013 (suo primo viaggio all’estero, a pochi mesi dall’elezione), cui sono seguite quelle di Cracovia 2016, Panama 2019 e Lisbona 2023.

 

Il Concistoro

 

Il primo Concistoro per la creazione di nuovi cardinali si tenne invece il 22 febbraio 2014. E anche in questo ambito si intuì fin da allora che Francesco aveva in mente una sua “geopolitica” delle porpore, che non coincideva con quella codificata nel tempo rispetto alle sedi episcopali cosiddette cardinalizie. La sua preferenza è spesso andata a realtà periferiche e a Chiese che non avevano mai avuto un cardinale.

 

La libertà

 

Ma la libertà del Pontefice si esplica anche in altri campi: telefona agli amici, si reca di persona a comprare gli occhiali in un’ottica di via del Corso a Roma, compie alcune visite a sorpresa - quella del febbraio 2021 a casa della scrittrice di origine ebraica, Edith Bruck, sopravvissuta ai lager nazisti e quella a casa di Emma Bonino il 5 novembre 2024 -, festeggia i suoi compleanni e onomastici condividendo un pezzo di pizza o di torta con i clochard che vivono dalle parti di San Pietro. Non può più uscire da solo o prendendo la metropolitana, come faceva quando era arcivescovo di Buenos Aires, ma talvolta si concede piccole “licenze”. Soprattutto con e per i poveri, gli ammalati, gli emarginati, verso i quali dimostra la sua speciale predilezione. Dispone ad esempio che l’elemosineria diventi una specie di braccio operativo della sua carità immediata. E incarica l’elemosiniere Konrad Krajewski (che sarà insignito della porpora cardinalizia) di provvedere ai loro bisogni: docce, dormitorio, perfino il barbiere ogni lunedì, cure e visite mediche dedicate (specie nella giornata mondiale dei poveri, organizzata dall’arcivescovo Rino Fisichella), ma anche spettacoli al circo e concerti nell’Aula Paolo VI. Una volta viene organizzata anche una visita guidata nella Cappella Sistina.

 

Le parole e i gesti nuovi

 

È un Pontificato di gesti, oltre che di discorsi e documenti, quasi un’enciclica scritta con il linguaggio del corpo, con gli incontri che non ti aspetti, con gli abbracci agli ammalati, anche i più gravi. Lo stesso stile hanno il suo magistero e la sua predicazione. Soprattutto nelle messe mattutine a Santa Marta (consuetudine interrotta alla fine del periodo del Covid), che diventano un vero e proprio laboratorio di omiletica, in cui il Pontefice dà prova anche della sua capacità di parlare un linguaggio per immagini (“Chiesa in uscita”, appunto, per dire della missionarietà; “pastori con l’odore delle pecore” per raccomandare ai sacerdoti la vicinanza al popolo di Dio; “cristiani della domenica”, per stigmatizzare la distanza tra fede e vita di certi praticanti, e diverse altre espressioni tipiche).

Un’ulteriore grande novità, introdotta fin dal primo anno di Pontificato, è quella di celebrare la messa in coena Domini del Giovedì Santo non più nella Basilica di san Pietro, ma nei luoghi della sofferenza umana: carceri soprattutto (e si comincia con quello minorile di Casal del Marmo a Roma), ma anche nosocomi e centri di riabilitazione.

 

I documenti

 

Sono tutte linee che si ritrovano in maniera sistematica nell’esortazione Evangelii gaudium, promulgata nel novembre del 2013, vero e proprio documento programmatico del pontificato e che dà forma compiuta a idee portanti come quella della Chiesa in uscita, intesa come totalità del Popolo di Dio che evangelizza, il discorso sull’economia che uccide e sulle iniquità dei meccanismo del mercato, l’indicazione che il tempo è superiore allo spazio, la realtà superiore all’idea, l’unità prevale sul conflitto, il tutto è superiore alla parte. E poi le indicazioni sull’omiletica, la pace e il dialogo sociale e le motivazioni spirituali per l'impegno missionario.

Francesco anche per quanto riguarda i documenti segue una linea originale. Relativamente pochi, ma molto caratterizzati. Prima della Evangelii Gaudium era stata pubblicata l’enciclica Lumen Fidei (29 giugno 2013), quasi pronta già sotto il pontificato di Benedetto XVI, che però non l’aveva conclusa. Il nuovo Pontefice la fa propria, la completa e la pubblica dichiarando esplicitamente che si tratta di un testo praticamente scritto a quattro mani con il suo predecessore (altra circostanza inedita nella storia dei Papi).

Documenti fondamentali saranno l’enciclica sociale Laudato si', la prima dedicata interamente alla salvaguardia del creato, con la proposta innovativa dell’ecologia integrale (non esistono tante crisi, ma una sola che le comprende tutte) e poi Fratelli tutti, che ne costituisce l’ideale continuazione, e naturalmente Amoris Laetitia, uno dei documenti più commentati (e controversi, soprattutto per la questione della comunione ai divorziati risposati), frutto dei due sinodi dedicati alla famiglia tra il 2014 e il 2015. L'ultima enciclica è Dilexit nos sul Sacro Cuore.

 

Il Giubileo della misericordia

 

Il crescendo dei primi anni di pontificato giunge fino alla proclamazione, anche questa una sorpresa, dell’Anno santo straordinario della misericordia. Il Giubileo si svolge con modalità innovative. Il Papa dispone che siano aperte porte sante in tutte le diocesi del mondo. Ed egli stesso ne anticipa di qualche giorno l’inizio, fissato per l’8 dicembre 2015 aprendo il 29 novembre la porta santa della Cattedrale di Notre-Dame di Bangui nella Repubblica Centrafricana, durante il suo primo viaggio in Africa.

 

I tre momenti storici

 

Non mancano anche nella seconda fase del Pontificato i momenti storici. Se ne potrebbero indicare tre su tutti. In ordine di data:

- l’incontro del 12 febbraio 2016 a Cuba con il patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, novità assoluta nella storia anche questa, che aveva fatto sperare in un definitivo disgelo con la parte numericamente più consistente dell’ortodossia, prima che l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin ricongelasse molto di questo rapporto.

- la preghiera sotto la pioggia del 27 marzo 2020 in una piazza san Pietro deserta, per chiedere la fine della pandemia (immagini anche queste rimaste nell’immaginario collettivo);

- la firma ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019 della Dichiarazione sulla fratellanza universale, insieme con il grande imam di Al-Azhar, quale base per costruire la pace e la convivenza tra i popoli.

 

I migranti, i poveri e l’Economy of Francesco

 

Il Papa ha approfondito negli anni molti dei temi enunciati già dall’inizio del Pontificato. L’attenzione agli ultimi e ai poveri, ad esempio, anche attraverso un altro modo fare economia. E nasce infatti “Economy of Francesco”, movimento di giovani economisti per cambiare le regole che troppo spesso non tengono conto della sostenibilità, lasciano indietro i più poveri e non rispettano l’ambiente. Il Pontefice si fa promotore anche di alcune iniziative simbolo, come il Sinodo per l’Amazzonia, con finalità non solo pastorale, ma anche legata alla salvaguardia del più grande polmone verde del mondo. Infine, emerge sempre più la questione della sinodalità, come modo di vivere la Chiesa e stabilire un nuovo contatto con il mondo (a questo tema sarà dedicato il doppio sinodo del 2023 e del 2024).

Il Papa alza sempre più spesso la sua voce in difesa dei migranti, chiedendo per loro accoglienza, protezione, promozione e integrazione. E compie ben due visite a Lesbo, l’isola greca dove c’è uno dei campi profughi più grandi d’Europa.

 

Gli appelli per la pace

 

Dall’invasione della guerra in Ucraina (24 febbraio 2022) e poi con le ostilità a Gaza (dopo l’inumano attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023), il Pontefice chiede con sempre più insistenza di fermare la violenza, paventando l’avvio di una terza guerra mondiale non più solo a pezzi. Sua la decisione senza precedenti di recarsi personalmente all’indomani dell’aggressione a Kiev nell’ambasciata russa presso la Santa Sede per cercare di parlare (inutilmente) con Putin. Sua anche l'idea di nominare suo inviato speciale per la pace il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, che, se non riesce a fermare le ostilità, quanto meno ottiene il rilascio di molti ostaggi, tra i quali soprattutto bambini ucraini portati in Russia.

 

L’impegno contro gli abusi nella Chiesa

 

Sono stati anche anni di lotta senza quartiere agli abusi sui minori all’interno della Chiesa. Francesco ha cercato di attuare una “politica” di tolleranza zero sul tremendo problema, introducendo norme severe per quei vescovi che dovessero coprire casi di loro conoscenza e istituendo una Commissione per la tutela dei minori, affidata alla presidenza del cardinale Seàn Patrick O’Malley. Francesco ha anche voluto una nuova sezione all’interno della Congregazione per la dottrina della Fede, quella disciplinare, chiamata a occuparsi dei delitti riservati alla Congregazione stessa, tra cui l’abuso di minori compiuto da chierici. In materia di abusi, però, non si possono omettere di ricordare alcune “sviste” come quella relativa all’episcopato cileno, prima difeso dal Pontefice, che poi, di fronte a prove inoppugnabili, ha dovuto prendere gli opportuni provvedimenti.

 

I rapporti con la Chiesa italiana

 

Sul fronte italiano il pontificato di Jorge Mario Bergoglio si è caratterizzato per un rapporto con l’episcopato italiano che potremmo definire di obbedienza dialettica da parte dei vescovi. Il Papa argentino ha chiesto una semplificazione delle strutture ecclesiastiche, sia per quanto riguarda le diocesi (portando avanti, specie negli ultimi tempi, un programma di accorpamento in persona episcopi, di quelle più piccole con altre territorialmente vicine), sia promuovendo un processo sinodale che tra il 2022 e il 2025 si è articolato in varie fasi.

 

Il Papa e i giornalisti

 

Innovativo è stato anche il suo rapporto con il mondo della comunicazione. Nell’itinerario di ritorno a Roma, durante i suoi viaggi, il Papa ha sempre tenuto conferenze stampa con i giornalisti al seguito, sui temi più vari. Decine le interviste concesse a testate di tutto il mondo. Così pure i libri, spesso scritti a quattro mani con i giornalisti, fino alle due recenti autobiografie.

 

Pure da questo punto di vista è stato un Papa delle prime volte. Un Papa che ha confermato fino all’ultimo giorno (emblematiche resteranno le foto dell'apertura della Porta Santa prima a San Pietro poi al carcere di Rebibbia, altra primizia assoluta, per il Giubileo in corso) la prima impressione suscitata nei fedeli quel 13 marzo 2013. Quando fu facile comprendere che tipo di Pontefice Jorge Mario Bergoglio sarebbe stato.



I sogni di papa Francesco

 

Antonio Dall'Osto

 

Nei documenti e discorsi di papa Francesco ricorre di continuo il verbo “sognare” o il termine “sogno”. E ciò fin dall’inizio, da quando ha detto di «sognare una Chiesa povera per i poveri» fino all’invito rivolto ai giovani alla Giornata mondiale di Lisbona nei giorni scorsi di «sognare alla grande».

 

Bisogna continuare a sognare

Attualmente, a dieci anni del suo pontificato, egli continua a sognare con lo sguardo rivolto a Dio, ma nello stesso tempo tenendo i piedi ben per terra. La rivista spagnola Vida Nueva, in occasione del viaggio del papa in Portogallo, ha colto l’occasione per intervistarlo, mettendo al centro due interrogativi imperniati su questo invito che sta alla base del suo programma di pontefice: il primo: «Quali sono i sogni di Dio oggi» e «Quali sono i suoi sogni per la Chiesa in questo momento della storia».

 

Non senza un pizzico di umorismo, ha ribadito di voler continuare a sognare e si è riferito a san Giuseppe dicendo: «Sono convinto che soffrisse di insonnia: Non riusciva a prendere sonno perché temeva che ogni volta che si addormentava Dio cambiasse i suoi piani attraverso i suoi sogni».

 

Ma, a parte gli scherzi, parlando seriamente ha affermato che «una persona che smette di sognare nella vita è una persona sosa, arrugada, insipida, avvizzita. (…) C’è sempre qualcosa da sognare, così io la penso. A volte sono programmi, altre volte proiezioni… Che ne so. Però bisogna sognare. Una persona, quando sogna, spalanca le porte e le finestre. Uno che non sogna, non ha futuro; ha un futuro ripetitivo, banale».

 

Sogno una Chiesa “in uscita”

Ma cosa sogna padre Jorge Begoglio oggi? Continua a sognare una «Chiesa povera e per i poveri»? La risposta è molto chiara:

 

«L’espressione che ho usato tempo fa è una Chiesa “in uscita”: vale a dire che non sai cosa ti aspetta, però non sta chiusa dentro di sé. Non sognare ti porta alla meschinità all’incapacità di essere generoso… Sogno una Chiesa “in uscita”, una Chiesa di periferia». «In effetti – ha precisato –, per fare un esempio, il prossimo concistoro è un sogno in questo senso. Se guardiamo al numero di cardinali di curia che c’erano dieci anni fa e che ci sono adesso, o alla riduzione del numero dei cardinalati legati alle storiche sedi episcopali, si parla di quella periferia che ora è al centro. C’è il nuovo cardinale di Juba (Sud Sudan), che non sarebbe mai stato preso in considerazione, o la nomina dell’arcivescovo di Penang (Malesia), che molti non sanno nemmeno dove sia».

 

«Questa è la Chiesa che sogno e che, tra l’altro, è quella degli Atti degli Apostoli: Parti, Medi, Elamiti… Quella mattina di Pentecoste, in cui tutti parlavano la loro lingua, ma tutti si capivano. Adesso deve succedere: ognuno dice la sua, ma tutti ci capiamo, anche se uno accentua di più questa cosa, l’altro quell’altra. Penso che sia la Chiesa che dobbiamo cercare, e non scandalizzarci, perché abbiamo tanto confuso l’essenziale con l’accidentale! Quando ti accartocci, ti rendi ridicolo…».

 

C’è una parte del mondo in guerra

Difficile però sognare in un mondo come quello di oggi, segnato da una terza guerra mondiale a pezzi…

 

«Sì, è complicato, certamente. La dimensione tragica di oggi è grave. Dalla fine della seconda guerra mondiale, ci sono stati conflitti in varie parti. Adesso stiamo affrontando la guerra in Ucraina, che ci fa paura perché è vicina. Ma chi pensa allo Yemen, chi pensa alla Siria, chi pensa a tutti quei luoghi in Africa, per esempio, nel Kivu, nella parte settentrionale della Repubblica Democratica del Congo dove non sono potuto andare? Siamo sempre in guerra, ma siccome è lontana…Allo stesso modo, ci sembra naturale, ad esempio, che i Rohingya vaghino per il mondo perché nessuno vuole accoglierli. Solo ciò che è vicino ci spaventa. A volte vedo la cupola di San Pietro e mi dico: “Se uno di questi pazzi lancia una bomba qui, è tutto finito”. Tuttavia, anche in queste circostanze, ci sono motivi di speranza».

 

Si sta realizzando il sogno che lei ha espresso dieci anni fa di una Chiesa “ospedale da campo”?

 

«Ci sono posti dove ciò avviene, dipende. A volte, la Chiesa diventa precipitosa nel voler essere un “ospedale da campo” e sbaglia perché accelera. Cadiamo così in una deriva in cui diamo una soluzione giusta come orientamento, ma non si prendono delle soluzioni partendo dalla contemplazione del Vangelo. Non si può riformare una Chiesa al di fuori dell’ispirazione evangelica. Le soluzioni sono molto efficaci, ma fuorvianti. È una trappola molto insidiosa: le soluzioni cercate non vengono dal Vangelo. Sono frutto del buon senso, della possibilità umana di ciò che si deve fare, ma non hanno espressione evangelica. Si prendono velocemente. Hanno ragione a voler risolvere un problema, perché la gente se ne va. Penso che sia quello che sta accadendo nel cosiddetto Cammino sinodale tedesco».

 

Scommetto sul cammino sinodale

Alla vigilia della prossima assemblea del Sinodo a Roma, il prossimo mese di ottobre, è stata occasione per tornare su uno dei temi che maggiormente gli stanno a cuore, la sinodalità.

 

«Continuo a scommettere sul processo sinodale avviato da san Paolo VI. Quando si è concluso il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, le cose erano mature per varare un documento. L’ha elaborato un’équipe di teologi di prim’ordine e io l’ho sostenuto, perché ci permetteva il percorso per arrivarci. Negli ultimi dieci anni alcune cose però sono state perfezionate, non molte. Ad esempio, prima non era nemmeno venuto in mente di interrogare i laici. Se fosse un Sinodo solo per vescovi, allora che votino i vescovi, punto! e tutti fuori, stiano ad osservare! Durante il Sinodo per l’Amazzonia, per la “pausa” durante i lavori, c’era, accanto all’aula, un ufficio riservato al papa. Mi stavo recando lì. Il primo giorno cominciarono a venire le donne, per parlare del voto. È stato il punto di partenza di un dialogo sincero. Allora ho chiesto il parere ai teologi, che hanno fatto un rapido sondaggio e hanno detto: “Sì, le donne possono votare”. Ma il Sinodo era già iniziato. Se sono membri, possono votare. E mi sono detto: “Fare questo adesso può suscitare scandalo, lo lascio per il prossimo…”, che è adesso. Il sogno è maturato fino a prendere forma».

 

Un’altra domanda ha riguardato la sua responsabilità di essere alla guida una nave di 1.300 milioni di cattolici, con continui problemi seri sulla sua scrivania. Molti si aspettano oggi grandi cambiamenti… È tanta responsabilità sulle sue spalle, non perde il sonno?

 

«Il sonno non l’ho mai perso. È una grazia: arrivo alla sera così stanco che dormo. Grazie a Dio, non sono caduto nella tentazione dell’onnipotenza, di credere di poter risolvere tutto. Certo, da buon gesuita, mi sveglio prestissimo per sfruttare maggiormente il tempo…».

 

Lei – ha insistito l’intervistatore – ha molto coraggio nel proporre questi cambiamenti. Non le è mai venuto in mente di lasciar perdere qualche sogno troppo rischioso?

 

«Certo, e la prima reazione è un no. Ma poi chiedo consiglio, e vedo se si può fare o no. Bisogna misurare fino a che punto si può andare oltre il limite e fin dove no. Si prova una certa impotenza, ma penso che sia un bene, perché impedisce di credersi un dio o un essere onnipotente. Sono i limiti che la storia e la vita impongono. Ad esempio, non ho ancora osato mettere fine alla cultura di corte in curia».

 

Amo stare con la gente

Di fronte a proposte che una parte della Chiesa non è preparata ad accogliere ha sottolineato che bisogna insistere sulla formazione e soprattutto sul saper uscir fuori.

 

«In Argentina, sentivo un po’ di allergia quando vedevo pastori che si guardavano l’ombelico, con lo sguardo ripiegato su sé stessi. Penso a un vescovo, un grande teologo, ma come pastore era una nullità. Lanciava sempre messaggi di tipo: «Attento, bisogna dire la messa così… fare questo o quest’altro. I poveri sacerdoti erano soggetti al governo di quell’uomo. Ci sono pastori che non sono pastori».

 

Molto interessante, al termine dell’intervista, quanto Francesco afferma circa lo stile di vita che ha scelto per il suo pontificato, ovvero quello di rimanere il più possibile vicino alla gente comune, senza preferenze o privilegi.

 

 

«Dopo essere stato eletto ci fu un grande banchetto. Ero già preparato. Ricordo cosa è successo. Dopo aver parlato alla gente, dopo aver pregato per il papa precedente, sono uscito e c’era un ascensore pronto, tutto e per solo per me. Ma ho detto “Vado con gli altri”. E, quando sono uscito, c’era pronta una limousine. E ho detto ancora: “Vado in autobus assieme agli altri”. Fu allora che mi resi conto che era avvenuto un cambiamento delle cose mi aspettavano. Dopo il banchetto, ho chiamato il nunzio in Argentina e gli ho detto: “Dica che nessuno venga”, perché immaginavo che i vescovi volessero venire, e ho suggerito che i soldi per il biglietto fossero dati ai poveri. Poi ho chiamato Benedetto XVI per salutarlo. All’inizio non ha risposto, perché stava guardando la televisione, ma, quando sono riuscito a parlargli, ho notato che era contento. La mattina dopo non riuscivo a mettermi il colletto della talare, non so perché. Sono uscito e c’era il vescovo emerito di Palermo, e gli ho detto: “Aiutami”. “Sì, certo!”, mi ha risposto. Così pure quel giorno sono sceso a mangiare in sala da pranzo assieme a tutti gli altri. E lì iniziò la vita comune che continuo a condurre oggi. Non ho cambiato il mio stile di vita e questo mi ha aiutato. È stata un’intuizione del momento. Con questa naturalezza vivo le cose e le racconto».


Note su papa Francesco

 

Flavio Lazzarin

 

 

La profezia di Francesco non si rivela solamente in ciò che quotidianamente ci dice, ma emerge soprattutto nel fatto che il papa non smette di parlare. Evidentemente è cosciente di vivere in un’esposizione costante, che riserva ai suoi pronunciamenti l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, divisa tra assensi incondizionati, feroci dissensi o mute, maggioritarie, paludi indifferenti o opportuniste.

 

Decide di comportarsi secondo l’ispirazione della sua biografia, con le sue grandezze e i suoi limiti, e appare così agli occhi di molti come un originale e indisciplinato latino-americano.

 

Credo, però, che questa apparente disattenzione agli esiti delle sue frequenti esternazioni, al contrario, attacchi intenzionalmente e deliberatamente la fissità dogmatica e dottrinale delle teologie malate, che poco o niente riescono a dire agli uomini e alle donne di oggi, in questo tempo di crisi.

 

È frutto della Provvidenza dello Spirito la lotta di papa Francesco, che pare intendere i segni dei tempi e la crisi di un edificio millenario che ormai fa acqua da tutte le parti. E sceglie di affrontare la crisi della civilizzazione occidentale – e del cristianesimo con cui l’Occidente è tessuto – con la radicalità resa necessaria dalle tensioni teologiche e politiche che segnano questa stagione della storia.

 

Egli si comporta come se non fosse papa, come se non fosse un Capo di Stato, come se non esistesse la Curia. Con il suo comportamento si rifiuta di ripetere il copione secolare del pezzo fondamentale dell’ingranaggio istituzionale, sempre più distante dal Vangelo di Gesù.

 

Le cose, però non sono così semplici e la dialettica carisma-istituzione continua e continuerà ad accompagnare il cammino dei credenti.

 

È ovvio che i meccanismi ecclesiastici condizionano Francesco insieme ai nemici tradizionalisti che lo perseguitano. La contraddizione è inevitabilmente presente nella sua vita: non vive come un sovrano, ma, in contromano rispetto al cammino sinodale, è condotto a comportarsi come un sovrano monarchico, assoluto, solitario, indiscutibile. Il più delle volte vince la libertà carismatica, ma il peso dell’istituzione si fa sentire sempre, perché – che ci piaccia o no – è un aspetto ontologico costitutivo nella vita della Chiesa.

 

Avevamo, però, certamente bisogno, dopo la stagione di Giovanni XXIII e del Concilio, superata dalle successive restaurazioni, di una primavera carismatica. Ma, appunto, come per Francesco di Assisi, che ispira Giorgio Bergoglio, questa primavera del carisma, prima o poi si spegne, regolata dai canoni del diritto canonico e dalle reinterpretazioni moderate, ma sempre traditrici, degli stessi discepoli del carismatico, che, come il Santo di Assisi, vede tramontare e morire la profezia prima della sua stessa morte.

 

 

Può sfiorire la profezia, ma per chi legge la storia a partire dalla Croce, resta comunque la chiamata a comporre minoranze abramitiche, che, guidate dall’Agape, nonostante la loro piccolezza e irrilevanza, affrontano e vincono martirialmente gli inferni della storia.


BIOGRAFIA

 

DEL SANTO PADRE

 

 

FRANCESCO

 

 

 

Il primo Papa giunto dalle Americhe è il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, 76 anni, arcivescovo di Buenos Aires dal 1998. È una figura di spicco dell’intero continente e un pastore semplice e molto amato nella sua diocesi, che ha girato in lungo e in largo, anche in metropolitana e con gli autobus.

 

«La mia gente è povera e io sono uno di loro», ha detto una volta per spiegare la scelta di abitare in un appartamento e di prepararsi la cena da solo. Ai suoi preti ha sempre raccomandato misericordia, coraggio e porte aperte. La cosa peggiore che possa accadere nella Chiesa, ha spiegato in alcune circostanze, «è quella che de Lubac chiama mondanità spirituale», che significa «mettere al centro se stessi». E quando cita la giustizia sociale, invita a riprendere in mano il catechismo, i dieci comandamenti e le beatitudini. Nonostante il carattere schivo è divenuto un punto di riferimento per le sue prese di posizione durante la crisi economica che ha sconvolto il Paese nel 2001.

 

Nella capitale argentina nasce il 17 dicembre 1936, figlio di emigranti piemontesi: suo padre Mario fa il ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupa della casa e dell’educazione dei cinque figli.

 

Diplomatosi come tecnico chimico, sceglie poi la strada del sacerdozio entrando nel seminario diocesano. L’11 marzo 1958 passa al noviziato della Compagnia di Gesù. Completa gli studi umanistici in Cile e nel 1963, tornato in Argentina, si laurea in filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel. Fra il 1964 e il 1965 è professore di letteratura e psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fé e nel 1966 insegna le stesse materie nel collegio del Salvatore a Buenos Aires. Dal 1967 al 1970 studia teologia laureandosi sempre al collegio San Giuseppe.

 

Il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote dall’arcivescovo Ramón José Castellano. Prosegue quindi la preparazione tra il 1970 e il 1971 in Spagna, e il 22 aprile 1973 emette la professione perpetua nei gesuiti. Di nuovo in Argentina, è maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel, professore presso la facoltà di teologia, consultore della provincia della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio.

 

Il 31 luglio 1973 viene nominato provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Sei anni dopo riprende il lavoro nel campo universitario e, tra il 1980 e il 1986, è di nuovo rettore del collegio di San Giuseppe, oltre che parroco ancora a San Miguel. Nel marzo 1986 va in Germania per ultimare la tesi dottorale; quindi i superiori lo inviano nel collegio del Salvatore a Buenos Aires e poi nella chiesa della Compagnia nella città di Cordoba, come direttore spirituale e confessore.

 

È il cardinale Quarracino a volerlo come suo stretto collaboratore a Buenos Aires. Così il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno riceve nella cattedrale l’ordinazione episcopale proprio dal cardinale. Come motto sceglie Miserando atque eligendo e nello stemma inserisce il cristogramma ihs, simbolo della Compagnia di Gesù. È subito nominato vicario episcopale della zona Flores e il 21 dicembre 1993 diviene vicario generale. Nessuna sorpresa dunque quando, il 3 giugno 1997, è promosso arcivescovo coadiutore di Buenos Aires. Passati neppure nove mesi, alla morte del cardinale Quarracino gli succede, il 28 febbraio 1998, come arcivescovo, primate di Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere dell’Università Cattolica.

 

Nel Concistoro del 21 febbraio 2001, Giovanni Paolo II lo crea cardinale, del titolo di san Roberto Bellarmino. Nell’ottobre 2001 è nominato relatore generale aggiunto alla decima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dedicata al ministero episcopale. Intanto in America latina la sua figura diventa sempre più popolare. Nel 2002 declina la nomina a presidente della Conferenza episcopale argentina, ma tre anni dopo viene eletto e poi riconfermato per un altro triennio nel 2008. Intanto, nell’aprile 2005, partecipa al conclave in cui è eletto Benedetto XVI.

 

Come arcivescovo di Buenos Aires — tre milioni di abitanti — pensa a un progetto missionario incentrato sulla comunione e sull’evangelizzazione. Quattro gli obiettivi principali: comunità aperte e fraterne; protagonismo di un laicato consapevole; evangelizzazione rivolta a ogni abitante della città; assistenza ai poveri e ai malati. Invita preti e laici a lavorare insieme. Nel settembre 2009 lancia a livello nazionale la campagna di solidarietà per il bicentenario dell’indipendenza del Paese: duecento opere di carità da realizzare entro il 2016. E, in chiave continentale, nutre forti speranze sull’onda del messaggio della Conferenza di Aparecida nel 2007, fino a definirlo «l’Evangelii nuntiandi dell’America Latina».

 

 

Viene eletto Sommo Pontefice il 13 marzo 2013.