Questo mese di febbraio è dedicato a una preziosa tematica: la Vita ( e si intreccerà ad alcuni aspetti anch'essi celebrati in questo mese come la vita consacrata e la malattia) spesso trascurata e calpestata in tante forme al mondo d'oggi. Ripercorriamo questo argomento attraverso persone che ogni giorno la celebrano donandosi, trasmettendoci un forte messaggio a ognuno di noi. Onoriamo la vita, noi tutti.
"Il termine importante è la vita. Quella che vogliamo recuperare oggi, che vogliamo ritrovare nella nostra storia, è la vita. Quella che vogliamo sognare insieme è la vita, chiederci quali sono gli spazi di vita oggi, che tipo di vita vogliamo portare avanti, uomini, donne, giovani, anziani. Tutti insieme sogniamo un progetto profondo di vita. E a partire da questa profondità, riscopriamo che la vita è profondamente religiosa, è una vita profondamente abitata dal mistero.
Per tessere un’altra vita dobbiamo incominciare di nuovo a fare tradizione, imparare un’altra volta a leggere e scrivere.. trasmissione profonda degli avvenimenti presenti. Scambiarci questa narrazione, quello che io vedo, ascolto, tocco
Contemplo nel presente.
In questo momento per essere fedeli Dio bisogna essere fedeli profondamente al presente, pensarlo e ripensarlo e narrarlo e dire queste meraviglie nascoste che si fanno, che malgrado tutto continuano a esistere dentro questa storia.
In questo senso noi vogliamo incominciare di nuovo a leggere e scrivere la storia. A partire da questa ritraduzione della storia possiamo cominciare a vivere la circolarità, questa capacità di sederci e incominciare a scambiare la vita."
Antonietta Potente
Il presidente Mattarella le ha conferito l’onorificenza al Merito della repubblica per la sua testimonianza: a 24 anni ha già smentito tutte le previsioni. A partire da quella prima della nascita
Tra le 31 onorificenze al merito conferite dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, una è stata assegnata a Marta Russo, 24 anni, per il suo impegno a favore della disabilità e per il suo lavoro volto a rendere le città più accessibili. Il 26 febbraio parteciperà alla cerimonia ufficiale: «Ho le lacrime agli occhi, sono davvero onorata», racconta Marta con emozione. Ma la gioia per questo importante riconoscimento si unisce a un altro evento speciale: «Qualche giorno fa – rivela con entusiasmo – sono stata invitata a partecipare il 28 e 29 aprile al Giubileo delle persone con disabilità da suor Veronica Donatello», responsabile del Servizio Cei per la pastorale del settore. Un invito ricevuto sia per la sua storia personale che per il suo ruolo di presidente dell’associazione “Diritti diretti”.
La vita di Marta Russo è ricca di attività: studentessa magistrale in Psicologia clinica, impegnata in iniziative di sensibilizzazione sulla disabilità nelle scuole, collaboratrice del Ministro per le Disabilità e – come è stata soprannominata – “influencer dell’accessibilità” per la sua attività sui social. Un vulcano di energie che ha scelto di mettere al servizio degli altri, sostenuta da una profonda sensibilità e una fede incrollabile, condivisa con la sua famiglia.
«La gravidanza di mia mamma è stata molto complicata: i medici dissero che io e la mia gemella saremmo state dei vegetali e che la nostra aspettativa di vita sarebbe stata di 2 anni. Purtroppo la mia sorellina non ce l’ha fatta, ma so che mi accompagna sempre e vive dentro di me». Marta è nata con lesioni cerebrali a entrambi gli emisferi ed è rimasta in terapia intensiva per tre mesi. «Crediamo fortemente che io sia anche il frutto di un miracolo: le suore di Santa Marinella insistettero affinché i miei genitori mi adagiassero sulla tomba di Maria Crocifissa Curcio, fondatrice della congregazione delle Carmelitane Missionarie di Santa Teresa del Bambin Gesù. Io sono uno dei motivi della sua beatificazione, che è avvenuta nel 2005». Nonostante le difficoltà iniziali, caratterizzate da deficit mnemonici e problemi motori, grazie anche al costante supporto della nonna, Russo ha raggiunto traguardi inimmaginabili: «Oggi riesco a camminare per brevi tratti senza sedia a rotelle, con il sostegno di qualcuno, e ho una memoria di ferro. È un enorme passo avanti, frutto di un lavoro immenso». Guardando indietro, neppure lei riesce a credere ai progressi compiuti.
Tra le esperienze più intense, l’incontro con papa Francesco: «Un’emozione grandissima, indescrivibile. Ogni traguardo per me ha un valore immenso, lo devo a Dio, alla mia famiglia e a tutte le persone che hanno pregato per me». Un sentimento di gratitudine che si traduce in un forte spirito di servizio: «Ho sentito l’esigenza di mettermi al servizio delle persone con disabilità. Aiutare gli altri mi è sempre venuto naturale». Da questa vocazione è nato il suo impegno per colmare la mancanza di informazioni sull’accessibilità dei luoghi: «Lo faccio personalmente, verificando se le strutture sono realmente accessibili. Molte si definiscono tali, ma in realtà non lo sono». Nel 2017 ha creato il suo canale YouTube “I Pensieri di Marta”, con l’obiettivo di raggiungere più persone possibili: «Porto avanti una rivoluzione culturale: bisogna cambiare mentalità, capire che la disabilità non è qualcosa di estraneo ma una condizione che può riguardare chiunque, in qualsiasi momento della vita. Serve maggiore inclusione, anche nel mondo del lavoro».
Poi il pensiero ritorno al 26 febbraio e al titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana: «Mi sento ripagata di tutti gli sforzi che nessuno conosce, delle difficoltà che la mia famiglia ha vissuto». Con la sua storia vuole lanciare anche un altro messaggio: «Sono stata una diagnosi senza speranza, eppure oggi sono qui. Vorrei dire a quei genitori che si sentono sopraffatti dalla paura di non arrendersi. Credere, pregare, e non perdere la speranza può fare la differenza».
«Il Paradiso è un luogo che mi attira. Chiudo gli occhi, penso al Cielo, e mi riempio di gioia e di speranza cristiana». Era la vigilia dell’Assunta 2024 quando don Alvaro Granados diffondeva l’ultimo video di una sua meditazione sul Vangelo. Immagini e parole, quelle che affidava a Youtube, che nel tempo erano diventate un riferimento per tanti malati. E che ora mancheranno: perché don Alvaro, sacerdote spagnolo di 61 anni, malato di Sla da sei, è morto a Roma venerdi 24 gennaio, lasciando una profonda commozione tra chi l’aveva conosciuto.
La progressione della patologia, che già l’aveva costretto sulla sedia a rotelle, gli rendeva molto faticoso parlare: ma a lasciare il segno erano proprio quelle parole sofferte, pesate una per una, piene della sua profonda vita interiore e della sapienza teologica che l’aveva reso una delle figure di riferimento alla Pontificia Università della Santa Croce, l'ateneo dove aveva insegnato Teologia pastorale e Sacramentaria e che gli ha dedicato un intenso omaggio video.
Sacerdote dell’Opus Dei, risiedeva nella parrocchia romana dedicata al fondatore san Josemaría Escrivá, nel quartiere Ardeatino. La malattia aveva affinato la sua anima contemplativa: «La Sla è pesante, dura – aveva confidato a Giuseppe Muolo nell’intervista per Avvenire –, ma mi ha permesso di maturare e soprattutto di capire quali sono le cose che veramente contano nella vita. Oltre al valore della fede cristiana, in questi anni di infermità ho scoperto e riscoperto il grande valore delle relazioni umane, ciò per cui vale veramente la pena lottare in questo mondo. Chi ha molte relazioni con le persone è ricco, chi non ne ha è povero».
Al dolore della comunità dei malati di Sla dà voce una toccante nota di AiSla: «La sua vita – si legge nel testo pubblicato sul sito dell’Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica – è stata un inno alla fede, alla forza e alla solidarietà, testimoniando come la grazia divina possa trasformare anche le prove più ardue in una straordinaria occasione di amore e servizio. Don Alvaro non è stato semplicemente un sacerdote o un socio di AiSla, ma uno di noi. È stato un fratello, un punto di riferimento, una guida spirituale che ci ha accompagnato con la preghiera e le sue omelie domenicali, capaci di illuminare il cammino di chiunque cercasse conforto. Attraverso le sue parole e il suo esempio, ci ha insegnato che, anche nelle difficoltà più grandi, la fede può donare la forza di trasformare la sofferenza in un atto di amore per gli altri».
AiSla parla di una missione pastorale «segnata da una compassione sincera e da una fede incrollabile. Nei momenti di maggiore dolore, don Alvaro trovava la forza per avvicinarsi a ciascuno di noi, ricordandoci le parole del Vangelo: “Il Signore è accanto a voi, cammina con voi e soffre con voi. Anche nei momenti di maggiore dolore, non siete soli: la vostra sofferenza ha un valore infinito agli occhi di Dio". Questo messaggio, che sgorgava dalla profondità della sua anima, resta un invito a non perdere mai la speranza». L’amicizia del sacerdote spagnolo ormai “romano” da tempo era diventata per i malati di Sla e per chi li assiste una presenza significativa: «Nonostante la malattia lo avesse privato della libertà del corpo, don Alvaro non ha mai smesso di donarsi agli altri. Attraverso la tecnologia e il suo instancabile impegno, ha continuato a celebrare l’Eucaristia e a condividere messaggi di fede e speranza, rendendo ogni sua riflessione un faro di luce per chiunque fosse in difficoltà. La sua testimonianza è stata la dimostrazione concreta di come la vita, anche nelle sue forme più fragili, possa essere vissuta pienamente al servizio del prossimo».
Grazie, don Alvaro, per averci mostrato come vivere con coraggio, fede e amore. La tua luce continuerà a brillare, guidandoci nel cammino della vita».
Restate in silenzio e tenetevi forte alla poltrona (con un fazzoletto a portata di mano) quando Simone Cristicchi planerà al Festival di Sanremo per colpirvi al cuore con Quando sarai piccola, un brano che va oltre la gara. Un raggio di luce sul palco dell’Ariston che arriva dritto dalla nebulosa detta “L’occhio di Dio” che campeggia sulla copertina del suo intensissimo album Dalle tenebre alla luce che verrà rieditato integrato il 14 febbraio per Dueffel Music. Il cantautore romano proporrà i versi delicatissimi di una canzone, scritta con la compagna Amara, che racconta la fragilità di una madre malata, la sua Luciana, tornata bambina dopo essere stata colpita nel 2012 da una grave emorragia cerebrale, e l’amore restituito dei figli che si trasformano in genitori. Lui era in autostrada di ritorno da un concerto, i medici non avevano lasciato speranze: la signora era morta clinicamente, fin quando cinque giorni dopo si è risvegliata senza che i medici sapessero dare una spiegazione. «Non era la stessa Luciana di prima - dice il cantautore che incontriamo a Milano -. L'anima è intrappolata in una corazza che non le permette di fare granché o di esprimersi correttamente». Luciana è una «nonna speciale» per i suoi nipotini che «è sempre in prima fila con la carrozzina quando salgo sul palco a Roma e sorride comunque illuminando il mondo».
Simone Cristicchi come mai ha scelto di raccontare un tema così delicato e personale al Festival?
«È vita vera, vissuta ogni giorno, ed è per questo che io mi sentirò nudo su quel palco. Ho già ricevuto migliaia di mail e messaggi di persone toccate da questo argomento. La canzone era ferma da 5 anni e fortunatamente Carlo Conti ha compreso il suo valore: è un brano terapeutico, che forse potrà aiutare a sensibilizzare su questo tema universale, pur essendo poco trattato».
Mette in luce il dolore, ma anche la speranza, tema cui papa Francesco ha dedicato questo Giubileo.
«Io credo che noi non possiamo fare altro che sperare, in questo mondo che ci pone di fronte a delle problematiche così violente e totalizzanti. La speranza non è da stupidi, ma è intelligenza. Il mio spettacolo su Dante Paradiso – Dalle tenebre alla luce presenta questa consapevolezza dantesca di poter trasformare quasi in maniera alchemica, col tempo e con pazienza, il piombo in oro, il dolore, la violenza, la parte in ombra del mondo esteriore e interiore in qualcosa di bello. Questa è la nostra speranza».
Si parla spesso di “buona morte”, ma non si parla mai di “buona vita”. Bisognerebbe parlare di più di chi resiste nonostante le difficoltà?
«Sì, nel racconto di questo evento che è contenuto nel mio libro Happy next – La ricerca della felicità ho concluso con il sorriso di Luciana. Nel momento in cui lei avrebbe il sacrosanto diritto di maledire la vita per quello che le è accaduto, lei sorride. E quel sorriso è il più grande insegnamento che io ho da parte sua. E’ una resistenza e un affidamento al destino, al caso, a quello che ha voluto avvenisse questo, ma al tempo stesso è quella forza interiore che le permette di gioire anche del poco che lei riesce a fare e a vivere. E’ un ritorno anche all’essenza. E’ stato difficile per lei e per tutti noi fratelli accettare la disabilità. Poi ognuno la prende a modo suo. Lei ha dimostrato una forza gigantesca. La nostra grande mamma ci insegna davvero che bisogna vivere la nostra vita come fosse l’ultimo giorno e darle il valore giusto che merita».
Come raccontare tutto ciò in una canzone?
«Ci è voluto tanto tempo per cesellare questi versi, non è stato facile scriverli per me. Inizialmente con Amara ci eravamo concentrati sulla tenerezza, sul prendersi cura di una madre anziana che torna bambina e ho sentito l'importanza di inserire quel senso di impotenza di fronte a questa trasformazione della vita e quindi la rabbia. Con questa canzone ho cercato di non essere retorico, ci vuole un attimo a scadere nel patetico».
Lei ha spesso dedicato brani alle persone fragili. Come mai?
«La mia e' una attitudine verso i fragili attitudine che avevo sin da bambino. Se non avessi avuto lo sfogo dell'arte e della creatività come il disegno e la musica, sarei stato un uomo violento e chiuso in me stesso. Nasco come disegnatore, attraverso la creatività ho trasformato il dolore per la perdita di mio padre quando avevo dieci anni, in luce. Ho passato quasi due anni della mia vita chiuso nella mia camera a disegnare, rifiutavo ogni forma di aiuto. Se non avessi trovato una valvola di sfogo sarei ancora in quella camera. Ecco perché mi sono sentito vicino agli esclusi, ai malati di mente, agli anziani. Con gli anziani ho lavorato moltissimo soprattutto per le mie ricerche storiche. Ho fatto una trilogia legata per esempio alla Seconda guerra mondiale (fra cui Magazzino 18), ho raccolto tante storie fra i 90enni. La canzone di Sanremo nasce anche per l'attenzione al mondo degli anziani».
Il suo lavoro è anche proiettato verso la spiritualità più profonda, questa è la vera trasgressione oggi?
«Come scrisse nella sua grotta san Benedetto da Norcia “Solo nella notte oscura brillano le stelle”. Io sono fiducioso che si possa ritrovare quella scintilla divina che è in noi e così tornare ad essere stelle che illuminano il cielo. E’ importantissimo trovare uno spazio all’interno delle nostre giornate in cui dedicarsi a se stessi e al silenzio. Nel silenzio noi possiamo contattare quella scintilla che è la nostra anima e di cui si parla sempre meno, invece è fondamentale. La nostra anima si nutre di arte bellezza e meraviglia, se noi poniamo attenzione a tutto ciò che di meraviglioso ci circonda possiamo evolverci come esseri umani. Nel momento in cui ci viene raccontato un mondo orribile, dove esistono solo le guerre, solo i disastri naturali o le pandemie raccontiamo una falsa visione della realtà. Torniamo ad innamorarci della realtà».
Tematiche che si ritrovano anche negli spettacoli che continuerà a portare in tournée anche quest’anno dedicati a Battiato e san Francesco.
«Per la serata delle cover ho scelto non a caso La Cura di Franco Battiato, in duetto con Amara. Sono quattro anni che portiamo in giro lo spettacolo Torneremo ancora - Concerto mistico per Battiato, un omaggio alla sua produzione più spirituale. E’ una liturgia che facciamo con il pubblico quasi una celebrazione sacra della musica di Battiato e della sua universalità, una sorta di “ritiro spirituale da cui si esce cambiati” come dice il mio amico monaco e sacerdote Guidalberto Bormolini, accompagnatore nell’ultima fase della vita di Battiato. Franciscus invece vuole individuare il messaggio di san Francesco e capire quale è il nesso con il mondo di oggi: è ancora molto attuale, e lui è un grande maestro».
Lei si ritroverà a Sanremo al fianco di trapper e rapper che usano parole “pesanti”. Lei cosa pensa?
«Nell’album c’è una canzone Cerco una parola il cui testo molto spesso viene ripreso dalle omelie dei sacerdoti cattolici e questo mi dà un grande orgoglio. Riprendo l’incipit del Vangelo di Giovanni “In principio era il logos”. La parola è potente nel momento in cui è preceduta da un pensiero potente. Inoltre il mondo è creato dalle nostre parole, la nostra realtà si fonda sulla profondità o meno delle parole che usiamo. Io mi reputo un artigiano della parola. Io voglio morire da poeta prima di cantante o attore. Perché il poeta maneggia questa sostanza così sottile che è la parola, il suono, la frequenza che davvero è in grado di influenzare la realtà.».
Un esempio di eccezionale dedizione alla causa della vita nascente, per la quale ha profuso ogni energia umana, intellettuale e spirituale, battendosi non solo per fermare la legge 194 tramite il referendum abrogativo del 1981 ma anche per far germogliare la pianta dapprima esile e oggi ricca di rami e frutti del Movimento per la Vita da lui fondato, come nell’immagine del granello di senapa, capace di esprimere centinaia di Centri aiuto alla Vita, il Progetto Gemma, case di accoglienza, con decine di migliaia d bambini aiutati a venire al mondo semplicemente mettendosi in ascolto e al fianco delle loro madri tentate per povertà, smarrimento, solitudine o disperazione di imboccare la drammatica scelta dell’aborto. Dentro le iniziative nate dalla sua intuizione si spende la generosità di un vasto e multiforme popolo di volontari, dai professionisti alle persone semplici, dagli intellettuali alle casalinghe, ai pensionati, ai tanti giovani che nella famiglia del Movimento per la Vita hanno trovato una via di dedizione al prossimo
Nei messaggi che giungono alla rete degli Amici di Carlo Casini, grazie ad Anna e Alberto Friso che la coordinano instancabilmente, l’affetto e la devozione di tanti che gli hanno voluto bene in vita e ora ne contemplano quella che non esitano a definire santità.
«Ho conosciuto Carlo Casini quando ero ragazzo e ho sempre ammirato la sua grande generosità, la coerenza, la tenacia, la forza, la mitezza con cui ha difeso la vita umana nei luoghi dove è più difficile e arduo. Non si è fatto mai piegare, né distrarre. Sempre cordiale con tutti. Adesso che sono consigliere comunale, Carlo Casini è per me più che mai un punto di riferimento. Nella mia stanza ho una fotografia che lo ritrae insieme al Papa e a me, in occasione di un’udienza in cui il Santo Padre riceveva il Movimento per la Vita. Guardo Carlo e penso che ce la possa fare anche io. Il suo esempio mi accompagna e mi dà forza. Gli sono veramente grato e spero anche io come tanti altri che venga dato avvio alla causa per la sua beatificazione». (Arturo B.)
«Non è sempre facile lavorare per la causa della vita, anzi, ci sono momenti faticosi. Tuttavia, con noi ci sono i nostri Santi che ci aiutano, ci proteggono e ci sostengono. Speriamo presto avere la gioia di vedere Carlo Casini riconosciuto ufficialmente santo!». (Sandra L.)
«Conosco Carlo Casini da quando eravamo ragazzi e lo considero un santo. Ha dedicato la sua vita a Dio e agli altri, al prossimo. Per sé ha fatto proprio poco. Ha fatto molto per la famiglia, certo, ma per sé stesso non ha avuto nessun riguardo. Infaticabile, straordinario. Sempre sereno anche nella stanchezza, anche quando dormiva poco per lavorare per la vita. Non si è mai risparmiato. Ha messo tutte le sue energie e le sue forze a servizio del prossimo. Mi viene spontaneo considerarlo un eroe della vita, colui che ha dedicato la sua vita per la vita degli altri, specialmente per la vita dei bambini non ancora nati. La sua spiritualità era profonda, era come il tralcio nella vite di cui parla il Vangelo. Con sincerità, ripeto: un santo, il santo della vita, colui che unico forse in tutta la storia della Chiesa ha dedicato tutte le sue energie alla vita umana fin dall’inizio. Ha fatto della vita umana un oggetto di studio, di lavoro, impegno in tutti i campi. Ha dato tutto se stesso e si è speso fino all’ultimo pagando con grande sacrificio. Per amore della vita ha dato tutta la sua vita. Attraverso la preghiera mi affido a lui, alla sua presenza tra noi, non più fisica ma reale. Carlo sicuramente ci guida». (Angelo P.)
«Il pensiero di Casini è un pilastro, una guida. La sua spiritualità ricchissima. Un uomo pieno di carità e umanità. Carlo non ha solo difeso la vita; ha vissuto la vita nell’amore traboccante verso tutti compresi i più piccoli e vulnerabili ai quali ha dedicato se stesso». (Anna D.)
Il coraggio della fratellanza.. Canonici Regolari dell'Immacolata Concezione
Alla fine della seconda guerra mondiale il parroco Padre Antonio Novaro ha ricevuto dalle mani del Rabbino della Sinagoga di Roma, un diploma di gratitudine per aver sottratto alla persecuzione nazista una 30 di ebrei, durante l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi, offrendo loro la notte precedente alloggio in parrocchia dove rimasero un mese.
EBREI SALVATI A REGINA PACIS
Nel 1956 Padre Antonio Novaro, primo parroco di S. Maria Regina Pacis in Monteverde vecchio, ricevette dal Grande Rabbino di Roma un diploma di gratitudine per avere ospitato, di notte per un mese, una trentina di ebrei durante l’occupazione nazista.
Segue una breve intervista pubblicata nel libro "Salvàti dai conventi" di A. Falifigli (San Paolo, 2005)
"E' padre Antonio Novaro a raccontare l'esperienza di ospitalità vissuta nella chiesa di Monteverde.
Quanti ebrei potè salvare? E come?
"Ne salvai 40, ma ne avrei voluti salvare di più! Ma la disponibilità di spazio che avevo era limitata: la saletta del cinema, e quando il pericolo diventò più grande li dovetti far salire e rinchiudere nell'angusto spazio tra le tegole ed il soffitto sottostante, costretti a fare la vita di carcerati o peggio ancora dei topi!".
Chi l'aiutò al loro mantenimento?
"Dei padri più anziani e dei loro laici fidati, che non avrebbero mai fatto la spia per aver in cambio qualche lira, e di quelli, ahimè, ce n'erano molti! Alcuni si occupavano del rifornimento alimentare, altri di procurare abiti, altri ci offrivano del denaro".
Per quale motivo si mobilitò per salvare degli ebrei pur sapendo a quali rischi si esponeva?
"Perchè? Perchè Dio ci ha insegnato ad amare il prossimo e il prossimo comunque, non ci sono distinzioni da fare. Ho seguito solo l'insegnamento evangelico, convinto che il Santo Padre condivideva pienamente questo atto di carità verso questi sfortunati fratelli".
Avete subìto irruzioni da parte tedesca?
"No, per fortuna mai!".
Che rapporti si sono istaurati tra voi e loro?
"Direi buoni, di grande rispetto e riconoscenza; poi si sono un pò persi perchè li ho dovuti far trasferire sul tetto e quindi è venuto a mancare il confronto tra i nostri due mondi!".
(pp.137-138)
Giuseppe Guarisco.. le parole che salvano
La mia vita
Cenni biografici
Fin che uomo resti degno, giusto erede di gran Regno. E così che vita in terra
il mio spirito non serra
ma librato ai destini..
Un giorno lontano, 10 maggio 1914, venivo alla luce di questo mondo in una piccola e vecchia casa in contrada Bregadina, a Viadana di Calvisano. Prima di me c’erano già sei fratelli: tre maschi e tre femmine. Là i primi vagìti in una famiglia povera. Le membra strette con larghe fasce.
Raggiunti i due anni la mia famiglia si è trasferita nella cascina “Vaschina sera”. Una cascina senza comodità, con un po’ di terra. Qui ho iniziato le prime fatiche fisiche.
Dopo di me sono nati altri due fratelli: una famiglia di undici componenti. Il lavoro era campi e stalla.
A sei anni ho cominciato la prima elementare. Al mattino mi alzavo presto: prima aiutavo in stalla, alle ore sei andavo a servire la Messa e poi a scuola. La terza elementare l’ho ripetuta tre volte: capivo poco! Naturalmente c’eran solo tre anni di scuola.
Il lavoro della campagna era massacrante. La mietitura del grano si faceva a mano. A otto anni tagliavo il frumento con la falce. Avevo le gambe sanguinanti per i mozziconi degli steli tagliati che pungevano.
La terra veniva lavorata con l’aratro tirato dai buoi. D’estate, per evitare il tormento dei tafani sui bovini, si partiva alle quattro del mattino. La colazione veniva consumata nel campo, seduti per terra.
Vi era la stagione dei “bachi” (“caalér”). Ci si arrampicava sulle piante dei gelsi per procurare la foglia per i bachi da seta.
D’inverno andavamo sulle piante per tagliare la legna con l’accetta.
Il lavoro della campagna camminava di paripasso con gli impegni in parrocchia. Ancora da ragazzo il curato don Pietro Marini mi affidava tanti impegni: catechista, delegato della gioventù di Azione Cattolica e più tardi degli uomini.
A diciotto anni sempre don Pietro ha insistito perché accompagnassi le funzioni in chiesa con l’armonium. Senza andare a scuola di musica mi sono arrangiato da solo… ma che fatica! In principio con brani semplici, poi con canti a più voci. Tante volte sudavo… e sbagliavo! Ma bisognava andare avanti.
Veniva il momento della filodrammatica. A fatica abbiamo messo in moto una compagnia teatrale. C’ero sempre dentro: prima attore, poi suggeritore. A un certo punto, come hobby e passione, mi son messo a scrivere delle farse e delle commedie in dialetto.
Mi sono sempre piaciute anche le poesie. Mi sembrava di avere una vena poetica. Ma poi tante volte mi inceppavo! Venivano a proposito certe parole, ma non ne conoscevo il significato. Comunque ne ho scritte tante, specialmente per gli sposalizi e in altre circostanze. Quando ci riuscivo era per me una grande soddisfazione. Mi è sempre piaciuto l’umorismo! Mi faceva dimenticare il peggio.
Poi venne il momento di partire sotto le armi. A vent’anni partii per il militare. Prima a Cremona, poi a Milano nel terzo Reggimento Artiglieria Celere. Diciotto mesi di servizio. Fui congedato nel 1936.
A casa ripresi tutte le mie attività. Aiutavo nei campi, in stalla, in chiesa e su richiesta anche in Comune a Calvisano come Consigliere. Le convocazioni erano lunghe, con discussioni animate. Tornavo la sera tardi o di notte in bicicletta.
Nel 1937, in gennaio, mi è morta la mamma, Ferrari Giacomina. Il gran lutto ha gettato uno sconforto nella famiglia, specie per il papà Damasceno. Aveva settant’anni. Uomo già logorato dal lavoro dei campi, ha tirato avanti ancora tre anni, cupo e silenzioso.
Nel 1939, avevo accennato al papà che desideravo sposarmi: lui fece una smorfia! Era il primo anno che andavo a morose dalla signorina Ferrari Luigia (Gina). Il papà non era contrario al matrimonio, ma vi erano difficoltà economiche.
Poi nel 1940 fu colpito da un altro dispiacere: con lo scoppio della seconda guerra mondiale, io fui richiamato alle armi l’11 giugno 1940. Ho prestato servizio a Rocca D’Anfo, poi a Sonico in Val Camonica e infine a Sesana di Trieste. Il giorno 23 giugno mi giunse improvviso un telegramma per la morte del papà. Un altro grave lutto.
Nel 1942, comunque, mi feci dare la licenza di un mese per sposarmi. In tempo di guerra era un rischio sposarsi.
Il primo bacio alla mia sposa l’ho dato sul treno, in viaggio di nozze il 5 ottobre 1942.
Nel 1943 il 7 settembre, con l’armistizio, è stata la tragedia. Preso prigioniero dai Tedeschi, mi portarono in Polonia e poi in Germania, sempre fra i reticolati, col tormento della fame, dei pidocchi e del freddo.
Il distacco più amaro fu quello di lasciare la giovane sposa per un viaggio ignoto: qui si apre il mio Diario di prigionia. Un calvario durato 22 mesi.
Al ritorno dalla prigionia ho ripreso il mio lavoro nei campi con pochi “piò” di terra e qualche capo di bestiame: una vita molto stentata.
Tribolando ho formato la mia famiglia. I figli nati sono sei, viventi quattro. Non sono mancati problemi di malanni: parecchie volte c’era il dottore per casa. Io avevo poca salute, perché invalido di guerra. Formare e crescere una famiglia con poca salute e tanto lavoro era preoccupante. Confidavo nella Provvidenza e superavo i momenti difficili con coraggio e col mio carattere sempre di buon umore.
Mentre tribolavo, mantenevo la vena di scrivere farse, commedie e poesie. L’arte dell’umorismo è stata per me un valido aiuto nell’approssimarsi della vecchiaia.
A un certo punto non gliela facevo più a lavorare la terra per l’invalidità fisica. Ho trovato lavoro, come invalido, presso l’industria. Ho lavorato a Brescia, poi a Carpenedolo e infine a Calvisano. Sempre un lavoro serrato fino a 63 anni.
Pensionato con la minima ho continuato stentatamente la mia vita in famiglia e in parrocchia.
Nei miei 85 anni di vita, di cui 57 di matrimonio, voglio ringraziare innanzitutto il Signore che mi ha custodito nei momenti di prova e anche mia moglie Gina che mi ha sempre accompagnato con coraggio, serenità e con le sue instancabili preghiere.
Adesso sono in attesa del giorno finale per entrare in una nuova vita!
Gepi
Viadana 10 maggio 1999
IL LAGER
Un grande campo tutto cintato
con sentinelle e filo spinato
dentro si gira inebetito
il prigioniero, magro, sfinito.
Lo copre un panno pien di pidocchi:
scarno il viso, fondi gli occhi.
Ha un giaciglio senza la paglia,
un gamellino e poca brodaglia.
Si regge appena, cammina a stenti,
crudo è l’inverno e batte i denti.
Pensa alla mamma, alla sposa lontano.
Di nuovo ripensa, ma tutto è vano.
Cade per terra: lenta è la mossa.
Dalla sua pelle sporgon le ossa.
L’ultimo rantolo ecco vi rende!
Dal suo collo il piastrino vi pende.
Per il tedesco che l’ha bastonato
è solo un numero quel soldato.
Lesta si muove la sentinella:
due compagni, una barella.
Il prigioniero sopra vi giace
e lento va in eterna pace.
O prigioniero! O internato!
Nella tua casa non sei ritornato.
IL SOLDATO E LA TRINCEA
Addio, mia terra!
Ti lascio, o mamma!
E’ acceso quel dramma
che chiamasi guerra.
Non sono sol io,
ma altri fratelli
che, giovani e belli
e senza oblio
pur sono chiamati
con mani protese
al natio paese
e gli occhi bagnati.
Con scarpe bucate
al freddo e pioggia
e come una roggia
trincee fangate!
Lungo il verno
con ciel rischiarato
in ogni suo lato
da guizzi d’inferno!
Son bombe, granate,
son urli, boati,
tapini soldati
si scambian occhiate.
Si squarcia la terra!
E fango e sangue!
Orribile guerra!
Hai fatto orrore,
di noi un calvario,
ed è un sacrario
che lascia dolore!
O patria amata!
Sei bella, sei cara,
ma come un’ara
di sangue bagnata!
Giorgio Perlasca, dichiarato Giusto fra le Nazioni
Nazareno Giusti
È lo Schindler italiano, dal 1989 iscritto nel memorial dello Yad Vashem per i meriti che ebbe nel mettere in salvo dal nazismo centinaia di ebrei
La notizia venne data sbrigativamente su un pugno di quotidiani locali: un italiano, residente a Padova, era stato premiato in Israele per delle azioni compiute durante la seconda guerra mondiale. Qualche riga, niente di più. Ma bastarono quelle poche e generiche informazioni per accendere la curiosità del giornalista Enrico Deaglio che si mise subito alla ricerca di quell’uomo. Quando lo incontrò, nel 1989, si trovò di fronte un uomo alto (solo leggermente piegato dall’età), coi capelli corti e candidi. Un pensionato come tanti che la mattina andava a comperare il giornale e a giocare a carte con gli amici e al pomeriggio accompagnava il nipotino al parco. Ma quello non era un uomo qualsiasi, anzi. Infatti, quel signore di nome Giorgio Perlasca, nella Budapest invasa dai nazisti, era riuscito a salvare migliaia di ebrei fingendosi un console spagnolo. Una storia incredibile. Lui stesso, nel corso degli anni che erano passati, e ne erano passati tanti (più di quaranta!), aveva cominciato a dubitare delle sue azioni. Confessò a Deaglio: «Mi dicevo: ma è vero quello che mi ricordo? Mi mettevo a ragionare e tutto tornava. Non mi sbagliavo. Era veramente successo ».
Già, era veramente successo. E coloro a cui aveva salvato la vita non si erano mai dimenticati di lui. Solo che, finito il conflitto, ognuno aveva dovuto riprendere a vivere, faticosamente. Poi, la cortina di ferro non aveva permesso di ristabilire un contatto. Con la fine della guerra fredda, però, alcune signore ungheresi si erano messe alla ricerca del loro salvatore. Si presentarono a casa sua, un giorno del 1987: «Salve signor Perlasca, siamo quelle ragazzine che ha salvato tanti anni fa». E il passato tornò presente. In pochissimo tempo al Memoriale di Yad Vashem di Gerusalemme arrivarono centinaia di testimonianze e il 23 settembre 1989 Perlasca fu insignito del titolo di Giusto tra le Nazioni.
Seguirono numerosi riconoscimenti da Spagna, Ungheria e Stati Uniti. Soltanto dopo la Repubblica italiana gli conferì la Medaglia d’Oro al merito civile. Un risarcimento, anche se tardivo, perché come ha spiegato Giovanni Minoli (che dedicò a Perlasca una famosa puntata del suo “Mixer”): »Oggi è un eroe nazionale ma è anche un po’ martire, per via del silenzio in cui ha vissuto». Eppure, inizialmente, ci aveva provato a raccontare la sua storia: ma niente. Non interessava o forse sembrava poco credibile. Che la storia di Perlasca non fosse facile da far capire e metabolizzare lo capì bene anche il giornalista australiano Dalbert Hallenstein, che, all’inizio degli anni Novanta, passò una settimana assieme a Perlasca e oggi la ricorda e ci dice: «Ne venne fuori un racconto sorprendente. Tuttavia, gli editori anglofoni non lo vollero pubblicare, era difficile per loro capire questa figura. Perlasca era un uomo affascinante, era la persona giusta per “impersonare” un diplomatico: aveva grande charme e sense of humor. Ricordava con grande affetto i suoi amici ebrei conosciuti prima della guerra, uno, in particolare, era stato il capo della sua brigata in Spagna».
Dal 2003 nel nome di Perlasca opera un’attivissima Fondazione presieduta dal figlio Franco che ci spiega: «Mio padre era nato nel 1910 a Como ma aveva vissuto tutta la sua giovinezza a Maserà, vicino a Padova. Era andato volontario prima in Africa Orientale poi in Spagna. Nel 1938 tornò in Italia e trovò due cose: le Leggi Razziali e l’alleanza con la Germania. Lui, fascista nazionalista, cominciò a essere critico. Lo collocarono in congedo illimitato e poi arrivò la guerra, venne richiamato ma, invece di essere mandato in unità combattenti, lo inviarono nei paesi dell’Est a comprare bestiame per l’Esercito. Scelse come base Budapest in quanto l’Ungheria, fino a quel momento, aveva mantenuto una grande indipendenza nella politica interna». Ma con l’invasione tedesca del marzo 1944 tutto cambiò drasticamente. Il 26 aprile venne disposta la confisca delle case e delle abitazioni degli ebrei e il loro avvio ai campi di sterminio. La situazione precipitò in autunno: il governo venne affidato al capo del partito delle Croci Frecciate. Perlasca, dopo l’armistizio, decidendo di rimanere fedele al Regno d’Italia, è braccato dai nazisti. Si ricorda del foglio rilasciatogli dopo la guerra civile spagnola («Caro Camerata, in qualsiasi parte del mondo ti troverai, rivolgiti alla Spagna») e chiede asilo all’ambasciata. Gli viene rilasciato un passaporto e una cittadinanza fittizia: diventa “Jorge Perlasca”.
Inizia così la sua azione prima al fianco dell’ambasciatore Angel Sanz Briz, poi, quando il rappresentante del governo spagnolo se ne torna in patria, continua auto nominandosi suo sostituto. Nasconde migliaia di ebrei in “case protette” e rilascia loro documenti falsi e salvacondotti. Insomma, “un magnifico impostore”. E non a caso, quando venti anni fa il Mulino pubblicò il diario di Perlasca, il titolo fu L’Impostore. A firmare l’introduzione fu Giovanni Lugaresi che oggi ricorda come Perlasca abbia dato concretezza alle parole dello scrittore francese Léon Bloy: «A stare dalla parte dei perseguitati, non si sbaglia mai». Eppure, nel 2013, anche la sua figura (come sarebbe avvenuto pochi mesi dopo per Palatucci) venne presa di mira. Nel libro En nombre de Franco, l’autore Arcadi Espada per avvalorare la tesi dei salvataggi effettuati dal generalissimo e dai suoi uomini, sminuiva la figura di Perlasca adducendo scuse pretestuose. Ma a dimostrazione dell’azione eroica e disinteressata di Perlasca rimangono centinaia di testimonianze. Per esempio, lo scrittore Giorgio Pressburger ricorda: «Ho scoperto solo dopo quarant’anni che il mio salvacondotto e quelli dei miei genitori li aveva fatti lui e sempre lui aveva reso possibile il transito nel Consolato spagnolo a Budapest per poi essere trasferiti in un’altra “casa protetta”».
Perlasca moriva il 15 agosto di venticinque anni fa. Nonostante il periodo di ferie estive, ai suoi funerali parteciparono più di duemila persone. Il parroco, don Esterino Barbiero, aveva confessato che si era trovato impreparato da quel mare di volti. Ricordò un piccolo aneddoto: «Un giorno passavo sotto casa di Perlasca, lui mi salutò e mi disse: “però voi preti siete dei gran bugiardi”. Gli chiesi il motivo di tanta franchezza. “Perché -– mi rispose – quando uno muore, subito dite che era bravo. Faccia bene attenzione, perché se farà così anche con me, io verrò a tirarle le gambe”». Al racconto di questo aneddoto una sorriso percorse la navata della chiesa di Sant’Alberto Magno. Alla fine della giornata furono contanti i telegrammi arrivati da tutto il mondo, oltre duecento quelli dei “suoi” salvati, che furono messi accanto ai tanti riconoscimenti ricevuti in quegli ultimi anni. Quello a cui teneva di più, però, era una targa che gli avevano regalato gli alunni della scuola elementare del suo quartiere. C’era scritto: “Ad un uomo cui vorremmo assomigliare”.
Piero Terracina.. vivifichiamo la Memoria
Il ricordo del nipote
«Non perdete mai la dignità, qualunque cosa accada», chiedeva Piero Terracina ai ragazzi. Per molti giovani delle scuole italiane l’indimenticabile Testimone romano, scomparso l’8 dicembre del 2019, era “nonno Piero”. Oppure lo “zio Piero”, altro nomignolo affettuoso adottato in quell’ambito. Per suo nipote Ettore lo era anche biologicamente. Piero Terracina è stato lo zio al fianco del quale ha vissuto anni di «forti emozioni familiari», accompagnandolo poi nell’impegno di testimonianza quando anche Terracina ha deciso che fosse arrivato il momento di portare la sua storia nelle scuole e negli spazi pubblici. A 6 anni dalla morte «la vivificazione della sua Memoria resta un impegno centrale», sottolinea il nipote. «Lo facciamo non solo per portare avanti il ricordo della sua storia, ma anche la storia di tutti quelli che come lui sono tornati dai campi della morte segnati per sempre nel fisico e nell’anima e dei tantissimi che purtroppo non hanno avuto voce: forse dirlo è superfluo, ma è un qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare». Dello zio, il nipote conserva ricordi vividi: «Parto ovviamente dagli affetti intimi e familiari, come le partite di calcio guardate assieme alla domenica». Con il tempo, rotti gli indugi, c’è stato però anche un Piero sempre più pubblico ed esposto. «Si preparava sempre ogni intervento e mi chiedeva un parere al riguardo. Poi, però, andava sempre a braccio…», racconta divertito il nipote.
«Vivificazione della Memoria» è stato il cambio di denominazione della scuola Solidati-Tiburzi di Roma in scuola Piero Terracina, sancito nel 2023 con una toccante cerimonia alla quale sono tra gli altri intervenuti due compagni di testimonianza come Edith Bruck e Sami Modiano, con parole di affetto e riconoscenza per la strada tracciata tra i giovani da “zio Piero”.
Mantenere la Speranza.. Sami Modiano
Luca Liverani
Quando sono stato deportato, avevo appena 13 anni e mezzo. I miei occhi hanno visto cose orrende …
D. – Voi siete arrivati a Birkenau nell’agosto 1944 e siete stati liberati il 27 gennaio 1945: solo pochi mesi, ma da 2.500 che eravate siete tornati in pochissimi …
R. – Eravamo 2.500 persone: lo sa quanti sono tornati indietro, dei 2.500, in quei pochi mesi? Sono tornati indietro soltanto 31 uomini e 120 donne. Presi a Rodi il 18 luglio 1944, arrivati nella rampa della morte il 16 agosto 1944: il viaggio è durato quasi un mese, in condizioni igieniche disumane che non si potrà mai e poi mai immaginare! Dunque, già il viaggio era stato una tortura enorme. Neanche un animale viaggia come abbiamo viaggiato noi. Se i russi avessero tardato di poco con la liberazione, di quei 2.500 non ne sarebbe rimasto più nessuno. Poi, arrivati alla rampa della morte c’è stata la selezione da parte di un ufficiale tedesco: ha selezionato chi sarebbe dovuto andare a morire e chi – provvisoriamente – sarebbe dovuto rimanere in vita.
D. – Lo ha fatto con un semplice sguardo, un gesto di un dito …
R. - … un semplice sguardo, un gesto di un dito: ignoravamo assolutamente che cosa significassero quei gesti, in quel momento! Seguivamo questi gesti senza capire …
D. – Immediatamente lei fu separato dalle donne, e quindi da sua sorella …
R. – Sì, da mia sorella Lucia. E grazie a Dio, sono stato insieme a mio papà, mio papà Giacobbe. In quei primi giorni, io ho avuto la fortuna di avere vicino papà. Per quanto riguarda mia sorella – anche lei era stata scelta tra coloro che avrebbero dovuto lavorare provvisoriamente nei lavori forzati.
D. – Sami Modiano, il suo destino sarebbe stato quello della morte nella camera a gas, ma intervenne suo padre …
R. – Sì, grazie ad una spinta di mio papà, inizialmente selezionato tra coloro che dovevano morire, passai dalla parte dei lavoratori. Io avevo cugini, parenti che avevano 15, 16 anni, erano più grandi di me, che sono andati a finire direttamente, il giorno stesso, alle camere a gas e ai forni crematori.
D. – Lei non ebbe più notizie di sua sorella …
R. – No. Ho avuto un contatto con lei per qualche giorno, a distanza, da lontano. Ci vedevamo a distanza dal lager A nel quale eravamo noi uomini al lager B, nel quale erano le donne. Ma a distanza, con gesti, ma questo ci confortava.
D. – Cioè, avevate la speranza che sarebbe finita, prima o poi?
R. – Avevamo la speranza… Poi, ad un certo momento, quando stai in quell’inferno, ti rendi conto che da Birkenau non c’era nessun’altra via di uscita che la morte. E di fatto, molti si rendevano conto di questo e decidevano di farla finita: si buttavano contro i fili spinati nei quali passava l’alta tensione, e morivano fulminati …
D. – Suo padre non resse alla notizia della morte di sua sorella …
R. - … no, non ha retto, poverino. Mia sorella Lucia era la cocca di papà …
D. – Era più grande di lei?
R. – Aveva tre anni più di me. Era una ragazza bellissima. Sai, io ho perso mamma quando avevo 11 anni e lei si era presa l’impegno di farmi da mamma e da sorella. Quando l’ho persa, ho perso la persona più cara che avessi al mondo, purtroppo. E subito dopo, mio papà, anche lui si è abbandonato a se stesso, non ha voluto continuare e ha deciso di farla finita. E l’ha fatto in un altro modo: quello di andare a presentarsi in ambulatorio, dicendo che si sentiva male. E purtroppo, noi sapevamo molto bene che quando uno si presentava all’ambulatorio decideva di consegnarsi alle camere a gas o ai forni crematori. Mio padre aveva scelto questa strada, nonostante avesse tentato di consolarmi dicendo: “Non mi uccideranno, vedrai: mi cureranno”. Ma non era vero, e lui lo sapeva: lo sapeva bene, lo sapeva bene!
D. – Incalzati dall’arrivo dei russi, i nazisti vi condussero nella “marcia della morte”, da Birkenau ad Auschwitz. Lei era allo stremo, condannato a finire i suoi giorni in quell’inferno. Ma avvenne l’inatteso, l’imprevisto …
R. – Non sarebbe dovuto rimanere in vita nessuno, nessuno a testimoniare ai russi di quello che avevamo visto e di quello che avevamo sopportato. Ma c’è stato il miracolo: mi accasciai a terra perché non ce la facevo più a tenermi in piedi – ero diventato uno scheletro, un morto vivente, ero più dall’altra parte che da questa, quando avvenne il miracolo. Io ce l’ho fatta. Non so spiegarmi come. Due persone, due prigionieri, hanno fatto una cosa che non ha una spiegazione: si sono inchinati. Io non mi aspettavo nessun aiuto – ma non per cattiveria e nemmeno per egoismo. In quei casi ognuno di noi, cercava di salvare la propria pelle; nessuno aveva la possibilità di aiutare il prossimo. Io non mi aspettavo nessun aiuto, eppure l’hanno fatto ugualmente. Mi hanno tirato su, mi hanno trascinato per quegli ultimi metri che mi mancavano per arrivare ad Auschwitz e poi si sono accorti che non avrebbero più potuto continuare a trascinarmi, e mi hanno abbandonato là, in un angolo, dove c’erano altri cadaveri. E là sono rimasto fino a quando sono entrati i russi. Non conoscevo quei due uomini, non li avevo mai visti. Non ho avuto neanche il tempo di ringraziarli, questi due prigionieri che io ho chiamato angeli custodi! I tedeschi credevano che io fossi un cadavere come tutti gli altri, là, per terra, perché avevo perso i sensi: hanno visto che nessuno si muoveva e hanno lasciato Birkenau proseguendo la “marcia della morte”.
D. – Lei, poi, si rifugiò in una casa dove trovò altri superstiti …
R. - … sì, mi sono rifugiato in uno dei fabbricati di Auschwitz per non rimanere tutta la notte, con una temperatura di 20-25 gradi sotto zero. Là sono stato preso in cura da una dottoressa russa.
D. – Quanto tempo – se il tempo può bastare – ci vuole per tornare ad essere un uomo?
R. – Io ho una piaga che non si chiuderà mai più. Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Continuo ancora a soffrire. Specialmente quando incontro i ragazzi e devo spiegare tutto questo: per me è un dolore enorme, ma lo faccio. Lo faccio perché ho capito che il Padre Eterno mi ha scelto per trasmettere a questi ragazzi, che fanno parte di questa nuova generazione la memoria di ciò che ho vissuto, perché non si ripeta. Perché ultimamente accadono cose che mi distruggono: esistono oggi persone che negano, e lei deve comprendere che questo per un sopravvissuto è un dolore enorme. Ma quello che mi fa rabbia è che se a negare sono persone “ignoranti”, passo oltre; ma quello che mi distrugge è quando a negare la storia sono persone di grandissima cultura: questo, veramente, mi porta indietro. Mi porta indietro … io avevo 14 anni quando sono uscito vivo da quell’inferno, ed avevo detto a me stesso, rimasto solo al mondo: “Spero di aver pagato abbastanza, affinché questo non succeda mia più!”. Mi sono sbagliato! Mi sono sbagliato, e questo mi rammarica. Vorrei chiedere a questi uomini il motivo per cui negano: io non capisco il motivo di questo negazionismo …
Diffondere la cultura della cura.. Liliana Segre
Daniela Padoani
Ciò che posso dire di Liliana Segre è la mia soggezione. Perché Liliana porta in sé Auschwitz, e la severità che questo comporta. Lei sa che Auschwitz è accaduto, che Auschwitz ha potuto accadere.
Era una bambina di tredici anni, orfana di madre fin dall’età di un anno, e tuttavia felice, amata, viziata da un padre che, pur continuando a lavorare alacremente, aveva riposto in lei ogni ragione di vita. Con loro, a Milano, in corso Magenta, vivevano anche i due nonni paterni. Conducevano una vita agiata, frequentavano l’Ippodromo di San Siro, la domenica pranzavano con gli amici al Savini in Galleria; Liliana era una Piccola italiana, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo. Poi, nel 1938, le leggi razziali: le progressive limitazioni nel lavoro, il repentino voltafaccia degli amici, la consapevolezza delle umiliazioni subite dai grandi e inutilmente nascoste ai bambini, l’incomprensibile espulsione dalla scuola. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre». Poi la guerra, i bombardamenti, la caccia all’ebreo. Un lungo periodo di vita nascosta, braccata tra la Brianza e la Valsassina, infine il tentativo di trovare la salvezza in Svizzera, e l’arresto al confine. «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un'eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte». Fu un sollievo, paradossalmente, sentire che ciò che li attendeva non era più nelle loro mani: il senso che la continua, angosciosa responsabilità del futuro fosse finita. Ora spettava ad altri decidere della loro vita. Era l’8 dicembre 1943. Dal comando di Selvetta di Viggiù, Liliana e Alberto Segre vennero trasferiti nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a San Vittore, a Milano, in quel Quinto raggio che il fascismo aveva destinato agli ebrei. Il 30 gennaio 1944, in una Milano indifferente, dove solo i carcerati si affacciarono alle finestre per un ultimo saluto commosso, i detenuti ebrei di San Vittore – più di seicento persone, tra cui quaranta bambini, inclusa Liliana – vennero caricati su una fila di camion coperti e condotti alla Stazione Centrale. «Il passaggio fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio, nel sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti, tra grida, latrati dei cani, fischi e violenze terrorizzanti. Nel vagone buio c’era solo un po’ di paglia per terra, e un secchio per i nostri bisogni» [1] .
Dopo una breve sosta nel campo di transito di Fossoli, il convoglio n. 6 – che viaggiava sotto la sigla RSHA del Reichssicherheitshauptamt, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich – si mise in moto per destinazione ignota. Arrivò ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Dei 605 prigionieri ebrei, circa cinquecento vennero mandati al gas e bruciati dopo poche ore. Al momento della selezione sulla rampa, mentre gli uomini venivano rapidamente divisi dalle donne, Liliana avrebbe sentito la mano del padre sciogliersi dalla sua; lo avrebbe visto allontanarsi, senza sapere che sarebbe stata l’ultima immagine che avrebbe conservato di lui. Selezionata per il lavoro schiavo, tatuata con il numero di matricola 75190, cominciava – nella ferita di una separazione impossibile, impensabile – la sua vita di tredicenne in un mondo di fango, di sopraffazione e morte. L’apprendistato della sopravvivenza fu per Liliana soprattutto estraniazione: non vedere, seguire il cammino dei propri zoccoli tra le baracche, senza mai acquisire l’orientamento. Una strategia radicale la guidava: ignorare con tutte le proprie forze quel mondo inaudito; scegliere una stella in cielo da ritrovare la notte, per avere un appiglio e un luogo al di fuori del filo spinato; non affezionarsi a nessuno, perché qualsiasi altra perdita sarebbe stata insopportabile. Eppure tutto sarebbe stato registrato, nella sua mente di bambina, come dal più sensibile dei sismografi, per essere sottoposto a scomposizione e interrogazione morale per il resto della vita. Quando, negli anni della prima maturità, avrebbe cercato di far sì che la sua esistenza riprendesse il corso della normalità, ormai moglie e madre di tre figli, i momenti in cui aveva scelto la vita sarebbero tornati a visitarla come domande poste da un tribunale interiore: aveva provato sollievo durante la selezione, quando non era stata scelta per il gas, mentre Janine, sua compagna di lavoro nella fabbrica di munizioni, veniva chiamata fuori dalla fila. Non si era nemmeno voltata a salutarla, felice di essere viva. Quella semplice, primaria felicità si cristallizzerà come un verdetto di colpa col quale fare i conti per il resto della vita: il rovello che sopravvivere abbia significato una caduta, una mancanza; che il male l’abbia macchiata. Così l’universo della sopraffazione, il mondo dove l’uomo ha eretto il male a misura e legge, diventa per Liliana il luogo del giudizio: anche su se stessa. Non che non le sia evidente la colpa dei carnefici e l’innocenza delle vittime: questa chiarezza in lei è addirittura un urlo. Ma sa che è necessario giudicare a ogni passo, se stessi e gli altri, benché essere uomini sia un continuo cadere. Si è molto scritto della filosofia dopo Auschwitz, della necessità del pensiero di incontrare l’enormità di ciò che è stato: Liliana è ai miei occhi il luogo filosofico di quell’incontro, un magma incandescente di pensiero eternamente arroventato dalla consapevolezza che “questo è stato”.
Per questo – ancora più che per la sua instancabile e feconda opera di memoria – è pienamente una testimone: nel suo risentimento, nel suo risentire senza remissione l’offesa portata a se stessa, a quelli che chiama “i miei santi martiri” e a tutte le vittime della Shoah, ha fatto di sé un luogo memoriale. Ed è pienamente una sopravvissuta, una figura segnata dal portare in sé il senso della sopravvivenza: vivere comunque, senza fare del male a nessuno, ma non lasciarsi uccidere. Vivere nonostante il dolore, l’incomprensione, e l’immenso, insanabile stupore. Vivere come scelta etica, come sopravvivenza dell’umano. Accogliendo giorno dopo giorno la necessità di addomesticare il ricordo e i suoi soprassalti, senza poter mai davvero trovar requie dall’enormità dell’esperienza; senza riparo dalla sofferenza che questa colpa, come scriveva Levi, sia stata irrevocabilmente introdotta nell’universo degli uomini.
Capace di improvvise risate, di fulminanti battute di spirito, di giudizi taglienti, di un’attenzione pronta a percepire ogni cambio di registro comunicativo, Liliana è un sismografo del presente, eppure i suoi occhi sembrano contenere il buio, la notte. «Per capire Auschwitz ci vorrebbero molte vite» dice spesso, ma a guardare i suoi occhi fondi è come se le avesse percorse tutte: ha dovuto abbracciare e consolare la bambina che era e, una volta diventata madre e nonna – sconfiggendo orgogliosamente la perversa ideologia che avrebbe voluto cancellare dal mondo lei e la sua discendenza – accogliere in sé dapprima la figura del padre e poi quella dei nonni, in una progressiva maternità che cancella la distanza tra le generazioni. Come una necessità di farsi rifugio e difesa per tutte quelle figure della memoria, man mano che la rivisitazione dei ricordi prende altre stratificazioni di significati: lo scoramento del padre per non averla potuta proteggere diventa – ora che sa cosa significhi voler proteggere i propri figli – il suo stesso scoramento per non aver potuto salvare quella figura amata, morta a quarantaquattro anni, la stessa età del suo secondogenito; la fatica dei nonni nel salire il predellino del vagone bestiame – spinti e picchiati – risentita quasi nelle ossa man mano che le sue stesse movenze si fanno più caute; la solitudine di Janine, diventata nel tempo sorella e poi figlia, da riaccogliere e confortare ogni giorno in un abbraccio materno.
Ogni volta che racconta, Liliana deve scegliere parole che rendano per quanto possibile comunicabili le immagini di alcune tra le innumerevoli vittime alla cui sopraffazione ha dovuto assistere. Alcuni giorni prima che l’esercito sovietico entrasse ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, fu costretta dai soldati nazisti – insieme agli ottantamila internati ancora capaci di reggersi in piedi – a incamminarsi verso la Germania, in una marcia forzata che divenne nota come Marcia della morte, perché le strade innevate della Polonia erano disseminate dei cadaveri dei prigionieri che non avevano retto alla fame e al gelo, o che erano stati finiti dalle SS con un colpo di pistola. Venne liberata a Malchow, un sottocampo di Ravensbrück, il 30 aprile 1945. Quando tornò a Milano, della sua famiglia si erano salvati solo i nonni materni e uno zio. Delle 605 persone del suo trasporto, solo venti fecero ritorno [2]. Questa moltitudine di vittime cancellate dal mondo abita Liliana e costituisce la sua sola etica e religione. Non ha necessità di una fede, di catechismi, di edificazioni morali: tutto ciò che rassicura i nostri passi nel mondo – i concetti di umanità, diritto, cultura, cullati nei secoli – si è dissolto davanti ai suoi occhi, eppure deve continuare a credere che essere uomini abbia un senso.
Per questo Liliana è inamovibile dal mare di buio che ha negli occhi. Lì è la sua misura, ed è una misura che porta ovunque, presentandosi come un convitato di pietra, difficile da eludere, perché Auschwitz non è un passato, un capitolo dei libri di storia: è il numero tatuato sul suo avambraccio, orgogliosamente mostrato come una cifra identitaria, divenuta scelta e destino. «Noi sopravvissuti siamo soprattutto il nostro numero. Prima del mio nome viene il mio numero: 75190. Perché non è tatuato sulla pelle, è impresso dentro di noi, vergogna per chi lo ha fatto, onore per chi lo porta non avendo mai fatto niente per prevaricare; essendo vivo per caso, come lo sono io» [3].
Liliana sa che l’uomo è una costruzione fragile che va protetta e alimentata, e per questo affronta il dolore, la fatica della testimonianza, anno dopo anno, anche di fronte al sospetto della sua inutilità. Il suo narrare è diventato una fucina di metafore e di immagini. Ha continuato a esaminare, a scandagliare i concetti che esprime, a verificarne la solidità e l’efficacia, a mettere alla prova i ricordi anche nei più minuti dettagli, confrontandosi con quella che è diventata un’amica insostituibile, Goti Bauer, anch’essa deportata ad Auschwitz-Birkenau nel 1944, che la convinse a testimoniare e la sostenne nei suoi primi racconti in pubblico. Da allora, Liliana Segre è diventata una testimone importantissima, amata, richiesta in tutte le scuole. L’autorevolezza della sua figura pubblica è stata riconosciuta dall’attribuzione di molte e prestigiose onorificenze, lauree e medaglie, che tuttavia su di lei fanno un effetto incongruo: come incoronare un’aquila, o un ermellino bianco, per usare l’immagine con cui una volta descrisse se stessa, ragazza, al ritorno da Auschwitz: grassa, gonfia (pesata dai soldati inglesi era poco più di trenta chili; dopo quattro mesi in un campo profughi americano era aumentata di quaranta chili per un violento scompenso ormonale), incapace di dormire su un letto, abituata al gergo dei soldati, accettata a stento dai pochi parenti rimasti perché “sconveniente”, non più ragazza di buona famiglia ma figura anarchica, ingestibile, imbarazzante: un ermellino uscito dalle macerie dell’umano. Ed è proprio in questo sapere che il cielo è cenere, e nel suo continuare a portare in sé l’umano, nel suo farsene pienamente carico, che si dà il miracolo che l’esistenza di Liliana ci consegna.
Onorificenze e riconoscimenti
27 novembre 2008, laurea honoris causa in Giurisprudenza presso l’Università di Trieste
15 dicembre 2010, laurea honoris causa in Scienze pedagogiche presso l’Università di Verona
7 dicembre 2010, Ambrogino d’Oro della Città di Milano
Nel gennaio del 2018 è stata nominata Senatrice a vita
NOTE
1. Milano Centrale, binario 21. Destinazione Auschwitz, a cura di Andrea Jarach, Proedi Editore, Milano 2004. Proprio al Binario 21, il 26 gennaio 2010, per il Giorno della memoria, è stata posata la prima pietra di quello che sarà il Memoriale della Shoah di Milano.
2. Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria, Mursia 2002.
3. Testimonianza di Liliana Segre, Conservatorio G. Verdi di Milano, Giorno della memoria 2010.